di Ennio Fiocco
La pittrice di Alidudi.
Isabella Galligari Pandolfini (Pescia 1924 + Firenze 2004) rappresenta una donna del sud, soprattutto per il suo temperamento. Ha operato nella sua Alicudi per tantissimi anni e viene ricordata per le sue opere “gli arcudari” (1982), che rappresentano sicuramente il ritratto di un’isola con i volti dei suoi abitanti.
In sostanza si tratta di immagini e sequenze espressive di donne, bambini, uomini ed infermi con una loro umanità, dove vi è una forte trasposizione ed una dedizione per questa piccolissima isola delle Eolie che è posta ai margini, oserei dire, della vivibilità, per l'asprezza del suo territorio.
Una profonda passione di Isabella per quel luogo dove regna una sua traccia e una parte della sua anima. Di lei disse Costanza Pandolfini: “Isola era la casa, la casa era l’isola, Sicilia per di più, Palermo per di più. Non si adattò all’isola, né l’isola a lei: erano fatte l’una per l’altra. L’isola e lei erano fertili.”
L'artista compie i suoi studi d’arte a Firenze ed esordisce sulla scena artistica
nel 1945, vincendo il primo premio della collettiva dell’Accademia di Belle arti. Ha tenuto molte mostre personali in Italia e partecipato alle più importanti rassegne d’arte. In particolare, una mostra la ricordò a Maratea nel 2014 dal titolo “Gli Arcudari” promossa dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici della Basilicata allo scopo di incentivare la conoscenza e la divulgazione del patrimonio culturale e dell'arte delle aree mediterranee, a partire da quelle dichiarate patrimonio UNESCO, che venne allestita negli ambienti del settecentesco Palazzo De Lieto in collaborazione con il locale Centro Operativo Misto.
Il grande filosofo Socrate ci parla nei suoi scritti della immortalità dell'anima con il “Glauco marino” e cioè della questione del valore della virtù per l'anima - valore che Socrate non tenta di dimostrare nella prospettiva del breve arco della vita mortale, bensì in quella di «tutto il tempo». Un'entità immortale, come è per Socrate l'anima, si deve infatti misurare sull'orizzonte dell'eternità.
L'anima è resa cattiva dall'ingiustizia, dalla dissolutezza, dalla viltà e dall'ignoranza. Ma questi mali non la corrompono né la consumano. D'altra parte, la morte è un male specifico del corpo, che non può trasmettersi all'anima. L'anima, dunque, non perisce per nessun male, né proprio, né estraneo, e può dunque essere pensata come una sostanza semplice immortale, il cui carattere di fondo è l'amore per la conoscenza o filosofia.
La tradizione mitica narrava di un pescatore di nome Galuco, che mangiò il fiore di una pianta miracolosa che conferiva l'immortalità, saltò in mare e divenne un dio marino. Sovente, nelle raffigurazioni, Glauco è raffigurato con le braccia azzurre, la coda di pesce ed una barba verde.
È famosa, poi, anche la leggenda che vede Glauco collegato a Scilla, come ci racconta Ovidio nelle Metamorfosi. Dopo essere divenuto una divinità marina, per metà pesce e per metà umana, Scilla, spaventata da quell’aspetto ibrido, fuggì. Glauco, innamoratosi della ninfa di origini italiane, chiese alla maga Circe di fabbricargli una pozione in grado di far innamorare Scilla.
La maga, però, gelosa dell’amore di Glauco per Scilla, preparò una pozione diversa da quella richiesta, per vendicarsi. La gettò nelle acque in cui Scilla era solita fare il bagno e, quando la ninfa si immerse, nacquero dal suo corpo orribili mastini latranti dal muso di Cerbero. A questo vista, Glauco si disperò, e Scilla naturalmente iniziò a covare un profondo odio per Circe, che viene indirettamente descritto nell’Odissea. Questa leggenda mi ricorda la pittrice di Alicudi per quello che ci continua a trasmettere e come Glauco la immagino mentre gioca nei mari eoliani.
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