di Ennio Fiocco
I Liparoti ritrovati.
L'articolo cui mi accingo a trattare si riferisce ad un evento nell'isola di Ustica nel lontano 1762. Ustica si trova a circa 67 km a nord-ovest di Palermo e a 95 km a nord-ovest di Alicudi ed è nota, fra l'altro, all'opinione pubblica, per la strage relativa all'incidente aereo del 27 giugno 1980 dove perirono gli 81 occupanti dell'aeromobile. L'isola ha un proprio Santo che è San Bartolomeo, la cui festa patronale si celebra il 24 agosto. La scelta del santo patrono è stata imposta dai Liparoti che si stanziarono sull'isola del 1761. Vi è anche la Festa di San Bartolicchio che viene celebrata il 19 settembre in onore di una piccola statua di San Bartolomeo presente in contrada Oliastrello.
Tra il XVI e il XIX secolo imperava nel Mediterraneo il commercio degli schiavi bianchi che fiorì, soprattutto in Algeria e Tunisia, ed in misura minore Marocco e Tripolitania (Libia). E ciò sotto il dominio turco-ottomano, ma di fatto questi paesi era autonomi. Il mercato degli schiavi nordafricano commerciava schiavi europei. L'isola di Lipari con la deportazione dei suoi abitanti nel 1544 ad opera di Kheir-ed-Din Hayereddin (di padre greco e di madre Andalusa) è stato e resta ancora qualcosa di stravolgente nella memoria di tutti.
Questi - uomini, donne e bambini - venivano catturati dai corsari barbareschi sulle navi e sulle città costiere di città italiane, spagnole, portoghesi, francesi, inglesi, dei Paesi Bassi, fino ad arrivare in Islanda; a causa dell’entità di queste azioni un gran numero di città costiere, specie in Italia, la più colpita, data l’estensione delle sue coste, vennero abbandonate. Le statistiche doganali del XVI-XIX secolo suggeriscono che un ulteriore apporto di schiavi importati da Istanbul e dal Mar Nero può far ascendere il totale a oltre due milioni per tutto il periodo e fortissimo fu il coinvolgimento dell’Italia.
Per più di tre secoli le popolazioni costiere della Penisola dovettero convivere con la costante minaccia di improvvise e cruente incursioni dal mare. Predoni che rubavano, uccidevano senza pietà, si portavano via giovani e bambini. Il pericolo, comunque, non era limitato a coloro che vivevano sul litorale. Bastava, infatti, che un individuo avesse la necessità di viaggiare per mare perché potesse divenire, a sua volta, vittima di un arrembaggio barbaresco. Occorre considerare che all’epoca quasi non esistevano strade e che i lunghi percorsi si effettuavano sempre per mare. Ad esempio, per recarsi da Torino, o Genova in Toscana, a Roma o Napoli non esisteva praticamente che la via marittima.
A pagarne le conseguenze furono decine di migliaia di persone che, catturate, vennero poi trasferite nel Maghreb o in qualche altra località del Levante, dove furono trattate non come prigionieri di guerra da liberarsi alla fine di ogni conflitto, ma con crudeltà, come schiavi a vita, in quanto provenienti dal mondo degli “infedeli”. In un quadro di totale contrapposizione religiosa, il cristiano caduto in mano dei musulmani non avrebbe mai potuto tornare libero ed ancor meno rientrare in patria. Ovviamente si poteva tentare di fuggire, ma a rischio di crudeli e atroci punizioni, ma pochi provarono ad evadere ed ancor meno furono quelli che ci riuscirono. Oppure ci si poteva convertire al credo islamico del pirata, rinnegando la propria fede. Naturalmente ciò succedeva in alcuni casi.
Si poteva, infine, sperare di por fine alla propria schiavitù mediante uno scambio di prigionieri, cosa che solo raramente avveniva. La via più seguita per il recupero della libertà ed il ritorno in patria fu quella del riscatto. Infatti, i barbareschi erano disposti a rilasciare lo schiavo cristiano dietro il pagamento di una consistente somma di denaro. Ciò rispondeva ad una precisa logica economica.
In effetti i predoni maghrebini considerarono i cristiani caduti nelle loro mani non tanto una forza di lavoro da sfruttare, quanto un possibile strumento di rapido arricchimento monetario. Non si mancò certo di imporre agli schiavi, soprattutto se giovani e prestanti, lavori che comportavano un notevole logorio fisico, ed alle fanciulle la via del bordello o, in caso di particolare avvenenza, degli harem.
Così molti cristiani furono impiegati come vogatori sulle navi; non pochi furono destinati alle miniere, alle cave o all’attività edilizia; altri ancora furono adibiti alle fatiche dei campi. Ma il loro utilizzo concreto venne normalmente considerato temporaneo, giacché nell’ottica barbaresca gli schiavi dovevano in primo luogo essere trattati come una merce dalla quale trarre il massimo profitto possibile, favorendone il rientro in patria attraverso il versamento di un cospicuo riscatto.
Se i ricchi potevano riscattarsi da soli, pagando di tasca propria alla controparte cifre spesso spropositate, problematica era la situazione dei più, che ricchi non erano, ai quali non rimaneva che sperare in un qualche intervento della carità pubblica. In tale ottica furono fondate la numerose compagnie dette “del riscatto” in quanto finalizzate alla raccolta di denaro da impiegarsi per la liberazione a pagamento di coloro che il linguaggio del tempo indicava come “prigioni del Turco infedele”.
Tali associazioni costituirono la principale risposta solidaristica che l’occidente cristiano seppe approntare a fronte della deportazione coatta in terra islamica di svariate migliaia di persone predate per mare o catturate sulla terraferma dal nemico barbaresco. Alcuni sodalizi ebbero la capacità di organizzare dei grandi riscatti collettivi, inviando a Tripoli, Algeri e Tunisi proprie specifiche missioni. La speranza di vita di questi disgraziati costituì l’energia motrice di quella mostruosa macchina. Il perché del flagello può rintracciarsi, nella pregnante esigenza del mondo musulmano di mano d’opera servile. Si calcola che soltanto il 15-20% degli schiavi bianchi fu riscattato. Durante il regno di Ferdinando IV, è stato emesso il 14 marzo 1761 un apposito bando per il popolamento di Ustica che, di fatto, era abbandonata.
Un gruppo di abitanti delle isole Eolie, nell’ottobre del 1761 “con quattro paranzelle contenente ognuna 15 persone, munite di un solo cannoncino per ogni paranza e di fucile per ogni uomo” sbarcò sull’isola di Ustica e ne prese possesso. Nella primavera successiva del 1762, però, i corsari di Tunisi tentarono più volte di cacciare gli intrusi, ma furono respinti. Una relazione pubblicata in quegli anni riferisce che i Liparoti accolsero “a cannonate due galeotte il 5 agosto 1762, a focilate una Fregata Tripolina che scaricò molte cannonate contro l’Isola con mitraglia e palle” e così ancora nei giorni successivi. Il 22 agosto successivo la battaglia durata per un’intera giornata vide i corsari ancora una volta soccombenti malgrado avessero impegnato ben cinque Galeotte.
Malgrado le insistenti richieste, gli aiuti da Palermo tardarono ad arrivare e la vendetta dei barbareschi si consumò incontrastata la notte dell'8 settembre 1762, quando assalirono nel sonno i coloni e ne trassero in schiavitù una settantina che portarono in Tunisia. Alcuni, però si sottrassero nascondendosi negli anfratti naturali di cui l'isola era dotata.
Nel successivo 1763 il Governo dell'epoca - destinando ingenti investimenti pubblici anche a livello ingegneristico di difesa -, acconsentì affinché giungessero ad Ustica 86 famiglie per complessive 399 persone, quasi tutti “liparoti” per il ripopolamento, concedendo a ciascun capofamiglia un pezzo di terra. Da ricerche che ho eseguito, ho rinvenuto una “lettera n. 22 dell'8 dicembre 1763”diretta al Prefetto delle Missioni di Tunisi, scritta da un padre cappuccino (F. Francesco da Lipari) e nella quale chiede il riscatto “di cotesto mio Nipote Giovanne Birtuccio Liparoto di Patria, di natione Sigiliano ammogliato con sette figli piccolini, preso in schiavitù l'anno (8 settembre 1762) era andato nell'isola di Lustica ….
per qual effetto si sono cooperati ancora tutti questi suoi puoveri parenti coll'accatto della limosina, raccogliendo la somma di onze dieci sililiani, e se anco bisognasse far qualche rigalo si ponno estendere solo a un poco di passola (e cioè l'offerta di un pugno di uva passa quale aggiunta al riscatto che è una testimonianza delle povertà delle famiglie contadine dell'epoca), della quale solamente è il negozio di questo Paese, non potendosi ad altro avanzare (Offrire)...”. Per i fatti tragici del settembre 1762 soltanto circa 34 eoliani furono liberati nove anni dopo nel 1771 a seguito di riscatto, tra cui lo stesse Bertuccio. Meritano di essere tutti ricordati, come anche quelli che non hanno fatto più ritorno.
ELENCO DEI CRISTIANI REDENTI NEL 1771
dal potere del Bey di Tunisi (Ali II Ibn Hussein)
DA LIPARI*
Uomini: 1. Bartolomeo Morsillo Padron di Barca ; 2. Felice Florio; 3. Francesco Florio; 4. Giuseppe Florio; 5. Giacomo Florio; 6. Felice Bartolo; 7. Giuseppe Bartolo; 8. Andrea Sarni e Licciardi; 9. Bartolomeo Martello; 10. Francesco Bartolo; 11. Francesco Natoli; 12. Salvatore Natoli; 13. Giovanni Natoli; 14. Giovanni Bertuccio; 15. Antonio Picone; 16. Angelo Carvago; 17. Domenico Morsillo; 18. Giuseppe Morsillo; 19. Cono Morsillo; 20. Domenico Morsillo suo figlio 21. Cristofaro Favarolo; 22. Giuseppe Ficarra; 23. Antonio Biatico; 24. Antonio Colosso figlio d'Angelo; 25. Antonio Colosso figlio di Giovanni; 26. Bartolomeo Cannella detto Barbuto 27. Giuseppe Liuzzo; 28. Tommaso Roggiero.
Donne: 1. Rosa Giordano moglie di Felice Florio; 2. Giovanna Florio sua figlia; 3. Caterina Molica vedova di N. Pirea 4. Giuseppa Giordano moglie di Felice Lauricella; 5. Maddalena Lauricella sua figlia nata in Tunisi; 6. Domenica Famularo moglie di Felice Bartolo; 7. Giuseppa Licciardi moglie di Pasquale Sarni; 8. Bartolomea Martello; 9. Suor Maria Concetta Bartolo Pinzochera.
* In totale furono liberati 59 schiavi (47 uomini e 12 donne) di cui 34 da Lipari. Questi, pur essendo sotto l'aspetto civile di Lipari, sono per la storia quelli catturati a Ustica nel 1762.
IL PUNTO E VIRGOLA
Le Isole Eolie hanno trovato nel dottor Ennio Fiocco, uomo di giustizia, un perfetto e raro storico. Ogni volta che trasmette i suoi pezzi al Notiziario delle Eolie, trasmette dei contenuti sconosciuti di quanto appartiene all’arcipelago e che mai erano stati scavati da nessuno. Nuove pagine sul territorio antico o vecchio, su personaggi di allora sia locali che forestieri. Tutti sposati a queste isole che profumano di umanità territoriale forte e unica. L’avvocato-giudice Fiocco è un ricercatore di razza che nelle sue passeggiate sul passato porta ed apporta una conoscenza storica frutto di ricerche rare e difficili. I lettori del Notiziario godono di questi lavori che appassionano sempre più e ringraziano con molta emozione.