di Ennio Fiocco
Bruno Munari e il museo immaginario di Panarea.
Bruno Munari (1907 + 1998) nasce a Milano. Dopo un soggiorno in Veneto vi fa ritorno nel 1926 come grafico nello studio dello zio, navigando ininterrottamente tra arte e design, attraversando correnti e anticipando tendenze. Nel 1940 nasce il figlio Alberto ed inizia così a scrivere libri per bambini. Nei decenni successivi l'artista si cimenta anche nella progettazione di giochi per sviluppare la creatività e di un vero e proprio metodo pedagogico.
Un’attività che riprende e amplifica il contributo di Maria Montessori. A partire dagli anni sessanta diventa uno dei protagonisti del dibattito che si sta creando attorno alla progettazione industriale e riceve parecchi premi. Alcuni sui progetti sono diventati dei veri e propri oggetti di culto, come l'Abitacolo e la lampada Falkland.
Munari afferma che “Non ci deve essere un’arte staccata dalla vita: cose belle da guardare e cose brutte da usare”. Negli anni Ottanta si dedica anche alla scultura e alle installazioni in acciaio. Espone nei musei, organizza progetti editoriali, scrive, interviene in dibattiti e lezioni fino alla metà degli anni Novanta. Muore a Milano il 29 settembre 1998. Visita più volte il Giappone, alla scoperta di una cultura che sente affine al suo modo di intendere l’arte e la progettazione. Ha un rapporto speciale con i bambini “che saranno gli adulti di domani”.
Può essere sicuramente considerato un artista vulcanico e ha unito nelle sue creazioni artistiche molte tecniche diverse. L’opera che realizza è immensa e non è possibile riassumere in poche pagine la grandezza e l’innovazione che ci ha apportato. Ad esempio, “Le macchine inutili” nascono negli anni 30 del 1900 e sono collegate all’infanzia; queste creazioni possono essere messe in relazione con “quei pezzi di carta che liberavo nell’aria, da bambino”. Sono costruite con materiali di diverso tipo (fili di seta, cartoncino, vetro…) e rappresentano un rinnovamento artistico. L'artista, in sintesi, voleva “liberare” la pittura astratta e inserirla nella dimensione di spazio e di tempo.
Il collegamento con l’infanzia è chiaro e le creazioni ricordano i giochi che Munari bambino faceva (un’altalena, alcuni disegni con il cartoncino, ecc). Queste macchine non producono beni di consumo materiale, ma, come afferma lo stesso artista, sono “beni di consumo spirituale” e cioè immagini che educano al gusto e al senso estetico, come i giochi dei bambini. Afferma che “Siccome è quasi impossibile modificare il pensiero di un adulto, noi dovremo occuparci dei bambini”. Munari ha prodotto molte opere originali e innovative e la sua influenza è presente ancora oggi in molti campi dell'arte, del design e nell'industria italiana. E' un personaggio talmente eclettico che è difficile ricostruirne un profilo. Il figlio Alberto (1940 + 2021) professore universitario all'Università di Ginevra, in una sua intervista cita le parole del padre circa la definizione di opera d’arte ed esattamente “L’opera d’arte è tale quando non lascia trasparire la fatica del gesto che l’ha fatta”.
Bruno Munari negli anni cinquanta creò proprio a Panarea “Il museo immaginario delle isole Eolie” con un gioco di trasposizioni in cui entra tutto, paesaggio, disegno, parola, sasso, pensiero, muri e carta. Ma tutto il mondo per lui è un “museo immaginario”. Il Museo Immaginario delle Isole Eolie, realizzato, e distrutto dopo pochi giorni, dal figlio Bruno. L'inaugurazione avvenne “alle ore cinque di un giorno dello scorso agosto, con offerta di vino e mandorle, e col concorso di tutto il pubblico elegante dell'isola. Tutti gli oggetti esposti furono rinvenuti nelle isole Panarea, Basiluzzo, Vulcano, Lipari e Stromboli.
L'esposizione venne organizzata in due sale di una tipica casa eoliana con ingresso direttamente dal prato”. Una mia ricerca su uno scritto di Alberto Munari che ho estratto dal catalogo del 2008 della mostra “Ingannare il tempo. Bruno Munari archeologo”- con il titolo “Con mio Padre a Panarea”, ricorda il poliedrico artista e riassume in sintesi il suo pensiero. La propongo ai lettori in quanto interessante.“Andavamo quasi ogni giorno fino a Capo Milazzese, lungo il sentiero assolato che passava davanti alla trattoria Cincotta, per visitare i resti del villaggio preistorico, e cercare tra le pietre qualche piccolo frammento che ci potesse raccontare la vita di chi aveva vissuto 3.500 anni addietro in quelle capanne a pianta perfettamente circolare.
Anche se a quell’epoca ero un ragazzino, avevo già avuto la possibilità di ammirare reperti e manufatti antichi in diversi musei; mai però avevo avuto prima di allora l'occasione di esplorare un sito archeologico vero e proprio, e per di più così facilmente accessibile, senza recinzioni, senza cartelli, senza guardiani: eravamo quasi sempre soli , mio padre Bruno ed io, su quel piccolo promontorio ancora temperato dalla brezza del mattino. Soli proprio come due veri esploratori, che avessero appena scoperto per primi le vestigia misteriose di un lontano passato.
Ogni pietruzza, ogni coccio, ogni scheggia di ossidiana poteva essere un prezioso reperto - oppure un sasso qualsiasi. Cercavamo allora di individuare se qualcosa, un graffio, una linea di frattura, un intaglio, un’appendice di forma strana, poteva suggerire che il frammento che stavamo osservando avesse potuto appartenere a qualcosa di più grande, e tentavamo allora di immaginare l’aspetto che avrebbe avuto l'oggetto completo. Eravamo così divertiti da questo giocare all’archeologo dilettante, che ben presto la preoccupazione di sapere se veramente si fosse trattato di un reperto prezioso oppure di un frammento casuale divenne secondaria, a fronte del piacere di immaginare oggetti e forme strane a cui avrebbe potuto comunque appartenere. Così, come spesso succede quando si impara un nuovo modo di pensare e di vedere, anche gli oggetti più comuni cominciarono improvvisamente ad acquisire nuovi significati e a suscitare rinnovate curiosità.
E ciò non soltanto sul sito del villaggio preistorico, ma ovunque: ecco allora che il coperchio tondo in ferro della cisterna d’acqua piovana della nostra casa in località Ditella, poteva essere visto come un potenziale reperto… magari un frammento della parte centrale dello scudo da combattimento di un antico guerriero? E quel pezzo di legno cotto dal sole - di epoca presumibilmente più recente, visto che era di legno - trovato sotto il mandorlo del giardino, avrebbe potuto essere un frammento del la gamba di legno di un misterioso pirata caraibico smarritosi nel Mediterraneo? Eccoci allora alla ricerca di un grande foglio di carta bianca, meglio ancora se un po’ ingiallita, su cui incollare quel pezzo di legno, e poi anche tutto il pirata con tanto di benda sul l'occhio sinistro (l’occhio di un pirata non può che essere sinistro!).
E quel l'insieme di macchie di salnitro che avevano fiorito sulla parete nord della camera da letto, così ben disposte l’una accanto all’altra ma a diverse distanze, poteva diventare la mappa di un possibile arcipelago eoliano scomparso da diversi milioni di anni? Bastò allora incollare a fianco di ogni macchia un piccolo cartellino con un nome inventato, per trasformare d’incanto quell'insieme di macchie in un’antica mappa geografica. Quasi ogni oggetto di quella semplice casa bianca e azzurra, quasi ogni pietra o radice secca del giardino di mandorlo, si prestò a questo appassionante gioco, tant’è che ben presto le tre stanze e la terrazza assomigliarono sempre di più ad un museo archeologico che ad una casa di vacanza.
Una volta compiuta, quasi inconsapevolmente, quest’imprevista mutazione, venne allora naturale l’idea di invitare all’inaugurazione del Museo Immaginario delle Isole Eolie il gruppo di amici che ci avevano accompagnato alla scoperta di quell'isola stupenda che allora, nel 1955, era ancora un angolo incontaminato di paradiso mediterraneo. Qualche fiasco di malvasia e un po’ di mandorle del giardino bastarono per quel vernissage che verso il tramonto divenne assai affollato, di amici cari come Fulvio Bianconi, Piero Di Blasi, e altri ancora, così come di vicini stupiti e di estranei incuriositi, tutti però affascinati da quel gioco di para-archeologia che sicuramente contribuì a modificare il nostro modo di pensare i rapporti tra passato e presente, e il nostro proprio rapporto con il concetto stesso di museo”.
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