di Ennio Fiocco
Alla ricerca dei sapori perduti del mosto
Con i lirici del VII e VI secolo a.C. il vino, e con esso l’amore, diventa protagonista delle opere poetiche. È l’epoca del symposion, termine che in greco significa “stare insieme”, riunirsi per il piacere di parlare di filosofia, politica, arte e scienza. E non mancavano occasioni di svago, con intermezzi di musiche, danze e canti e rime, in un contesto raffinatissimo. Secondo il mito, Dioniso insegnò al giovane Oreste, il figlio di Agamennone e Clitennestra, l’arte di fare il vino e la capacità di coltivare la vite. Le bevute di vino erano poi l’elemento centrale del simposio, un’usanza che aveva nella società greca un ruolo molto importante. Successivamente vi furono i primi insediamenti nelle con la Magna Grecia e i vari apporti del sapere.
Ricostruire l'universo materiale e simbolico della millenaria cultura della vite e del vino in Sicilia significa attraversare uno degli aspetti maggiormente significativi della Sicilia e del Mediterraneo. La storia della vite, pianta di civiltà, può vantare insieme al grano sedimentazioni e stratificazioni storiche di lunga durata e continuano ancora oggi a riconfermare quale straordinaria testimonianza di scambi e culture avvicendatesi nel corso dei secoli. La viticoltura rappresenta un patrimonio alimentare e culturale pervenutoci in innumerevoli espressioni letterarie, storico-monumentali e della vita tradizionale dell'Isola, nonostante le profonde mutazioni strutturali, storico-ambientali e produttive che si sono succedute. Vi è da dire che la storia del vino in Sicilia non è stata solo ed esclusivamente “la storia dei ceti dominanti”. Le pratiche, i saperi, i simboli del vino appartengono anche ad una storia “sotterranea”. In particolare, la cultura popolare isolana ha espresso un atteggiamento ambivalente nei confronti della vite e della vendemmia: essa infatti viene rappresentata quale momento critico del ciclo lavorativo agrario opposto a quello del grano, ma anche momento dove si suggellavano patti e si rinsaldavano alleanze e dove si ricorreva a pratiche magico-religioso fortemente ritualizzate. Il vino, in quanto sottoposto a un processo di fermentazione, subisce una sorte analoga ad altri numi della vegetazione legati al complesso mitico rituale di passaggio dalla vita alla morte. Mi riferisco al primo mosto trasformato dalla fermentazione che si rigenera dotato di un potere che trasporta chi lo sorseggia.
Sussiste, appunto, un forte intreccio tra rito e vendemmia in una serie di contesti in Sicilia. Ciò, come al esempio, in un passato non molto distante da noi, relativo alle pratiche di vendemmia accompagnate da strumenti musicali. Mi riferisco tra i più diffusi tra cui la brogna (tromba di conchiglia), u tamurreddu (tamburello), il flauto di canna e la ciaramedda (zampogna). Ad esempio a San Filippo Superiore, fino agli anni Sessanta, il trasporto dell'uva dalla vite ai palmenti era guidato da un corteo di cufinara (vendemmiatori) con a capo un ciaramiddraru (suonatore di zampogna) il quale scandiva il faticoso percorso con canti e balli tradizionali. Tutto ciò esaltava il legame tra vendemmia e culto dei Santi in molteplici celebrazioni. Accadeva che, oltre al consumo rituale di vino per le feste dell'Immacolata, San Giuseppe ed altre festività tradizionali, nella festa di San Vito a Condrò, il fercolo, ornato da lussureggianti grappoli di nera uva, viene fatto danzare dai fedeli vorticosamente per le strade del piccolo paese. Non manca ancora di rammentare che uva e vino sono presenti nelle feste di San Calogero nell'agrigentino, a Favara e Castel Termini o a Campo Franco nel nisseno, dove la statua del Santo viene portata in processione e festeggiata dai fedeli con bevute considerevoli. Originariamente la vite, una pianta molto antica, ha trovato il suo habitat ideale nel bacino del Mediterraneo e nei territori più fertili del vicino Oriente.
I primi vigneti furono quasi sicuramente impiantati in Magna Grecia e in Etruria e solo successivamente più nel Lazio. In Grecia, fin dall’epoca omerica, la “libazione” (versamento di una bevanda per gli dei) fu cerimonia corrente in onore dei morti. Si offriva vino sulle tombe e con vino veniva spenta, dopo aver bruciato l’intera notte, la pira mortuaria. In alcuni casi, aggiunto a miele, acqua e olio, si destinava il succo dell’uva a rinvigorire il defunto nella sua abitazione sotterranea. Le grandi celebrazioni pubbliche della vendemmia e del vino, in Grecia e a Roma, rappresentavano un rito desacralizzante del prodotto. Va detto che il vino nell’antica Grecia aveva una gradazione alcolica altissima. Ciò era dovuto al fatto che la vendemmia si svolgeva molto tardi: mescolarlo con l’acqua era dunque indispensabile; solitamente si univano tre o quattro parti d’acqua e una di vino. La tecnica della fermentazione nei tini era poco sviluppata, e per conservare la bevanda i Greci la mescolavano anche a varie sostanze e aromi, come il timo, la menta, la cannella e il miele. Il vino destinato a un rapido consumo era contenuto in otri di pelle e in piccole giare; quello destinato a un consumo non immediato era invece conservato in grandi giare e in anfore di terracotta, spalmate di pece all’interno per impermeabilizzarle.
Esistevano i vini comuni, che costavano poco e che si trovavano in ogni osteria, e i vini di lusso, prodotti in quantità limitate, bevuti solo alle tavole dei ricchi patrizi. Culti e feste celebravano periodicamente questo splendido dono del dio Dionisio, il dio della baldoria e del vino. Secondo il mito, Dioniso insegnò al giovane Oreste, il figlio di Agamennone e Clitennestra, l’arte di fare il vino e la capacità di coltivare la vite. Le bevute di vino erano poi l’elemento centrale del simposio, un’usanza che aveva nella società greca un ruolo molto importante. Le scene che ritraggono tali riunioni sono spesso rappresentate, in origine, sui vasi attici a figure rosse V secolo a.C. Sugli stessi vasi si trova spesso illustrato anche il gioco del Kottabos, in cui i residui depositati in fondo alla coppa vengono abilmente lanciati contro un bersaglio. L'abitudine di bere vino, certamente fra i ricchi, era una caratteristica distintiva della vita greca, ma è chiaro che il vino era la bevanda preferita dalla maggioranza della popolazione di tutti i livelli sociali. Non tutto il vino era di buona qualità e forse gran parte dei poveri di città bevevano il corrispettivo della Piquette francese, ottenuto dall'aggiunta di acqua alle bucce e ai vinaccioli che restano dopo l'ultima pigiatura.
Nelle aree rurali però il vino era prodotto e consumato dalla maggior parte dei contadini e rientrava in un sistema agricolo che seguito, sotto i romani, avrebbe avuto il predominio in tutto il Mediterraneo. A Roma, ad esempio, i contadini si recavano ad un santuario con un’anfora per fare una libazione. Va evidenziato, sempre da ricerche, che agli operai e agli schiavi veniva data una miscela di succo d’uva e vino vecchio inacidito, con aggiunta di acqua salata e ciò in quanto la bevanda ottenuta era a basso grado alcolico, ma molto tonica per il contenuto salino e assai eccitante a causa dell’acido acetico. Nel periodo repubblicano le vigne si estesero e aumentò la produzione e il consumo. Tra i tanti vini importanti spiccano i siciliani adrumenjtanun, biblicum, catiniense, potitanum e tauromentianum. É infatti con la la dominazione romana (III sec. A.C. - VI sec. D.C.) la viticultura e i vini siciliani vennero tenuti in grande considerazione e i centri vinicoli più importanti furono Nasso, Contessa Etellina, la piana etnea e la stessa Lipari. Con la caduta dell'impero romano e il susseguirsi di popoli e dominazioni, le vicende della viticoltura siciliana conobbero fasi alterne. Lipari, quindi, produceva anche al tempo dei romani ottimi vini.
Ogni vigneto di proprietà veniva dotato di costruzione rurale comprendente l’abitazione per la famiglia del proprietario e, immancabilmente di palmento, per la trasformazione dell’uva prodotta. Con la vendemmia l’uva veniva raccolta da squadre di operai dette ciurme (composte da vinnignaturi e caricaturi). La ciurma era composta da uomini, donne e ragazzi. I vinnignaturi provvedevano alla raccolta dell’uva, mettendola in delle ceste (gerla, cannistri, coffe o cufini), costruite con canne intrecciate e verghe di castagno, che, allorché riempite venivano trasportati a spalla dai caricaturi sino al palmento. Qui salivano per delle scale e attraverso una finestra, scaricavano l’uva nella pista: larga e bassa vasca in pietra lavica, dove si trovavano alcuni operai (pistaturi) che la pestavano a piedi nudi o dopo aver calzato pesanti scarponi. I pistaturi, con piccoli passi ritmati e le mani dietro la schiena, effettuavano una sorta di girotondo, cantando delle canzoni popolari tipiche vendemmiali. Attraverso stretti canali in pietra (cannedda) il mosto defluiva in un’altra vasca sottostante, detta ricivituri, costruita con lastroni di pietra lavica, in cui durante la pigiatura, si rimettevano di volta in volta i grappoli già pressati (bucce e raspi) nella pista.
Nel ricivituri avveniva la prima fermentazione a contatto con le bucce ed i raspi che durava, a seconda del tipo di vino e della zona, da un minimo di 24 ore ad un massimo di 3-4 giorni. Con la svinatura, dal ricivitùri, sempre attraverso un circuito di canali in pietra (cannedda), il mosto in fermentazione veniva fatto defluire nella tina, altra vasca in pietra, oppure direttamente nelle botti che si trovavano in un altro locale adiacente e sottostante al palmento, più basso, rispetto al palmento, detto ispensa, cioè la cantina. Particolare era quindi la procedura fino ad arrivare alla produzione del buon vino. Chi scrive ha un ricordo da bambino di una raccolta, nei primissimi anni settanta, all'antica maniera e con i sistemi sopra evidenziati, di uva nella piana della frazione Torrevova del Comune di San Marco d'Alunzio frontistante le isole Eolie. Il profumo del mosto fresco, della pigiatura manuale degli uomini, delle donne raccoglitrici di tutte le età e la mostarda arricchita di pezzi di nocciole realizzata con l'impiego della cenere, permane indissolubile nella mente. Proprio due giorni fa, sempre chi scrive ha avuto il piacere di ricevere delle fotografie di un palmento ubicato a Lipari in contrada Pianoconte con l'antica pigiatura in corso e che intende condividere con i lettori. Sarà forse uno dei pochi in funzione rimasti sull'isola?
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