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di Luis Mazza

Non è mai bello intervenire in una discussione da bar, o da social network (sovente è la stessa cosa), in cui la morte di una persona crei una dicotomia e una formazione di schieramenti opposti: con o contro il presunto colpevole, e con o contro la vittima, nel caso di un incidente stradale mortale. Stabilire quanto sia colpevole il conducente dell'auto, o quanto bene o male stesse guidando la vittima a bordo dello scooter spetta a chi fa le indagini. Idem, quantificare eventuali livelli di alcool o droga nel sangue. Non è bello, e non serve a nessuno, intervenire in questa fase. E non è mai conveniente commentare “a caldo” un evento, specie quando tragico come in questo caso, per non fare la fine dei topi tuttologi di Alain Badiou, che devono per forza dire la propria ed esprimere un'opinione su di un fatto:

«Topo è chi, tutto all’interno della temporalità dell’opinione, non può sopportare d’attendere (…) Topo è chi ha bisogno di precipitarsi nella temporalità che gli viene offerta, senza essere affatto in grado di stabilire una durata propria.»

Costruire una opinione su un argomento, specie se poi la si vuole divulgare, è un'operazione che richiede un certo tempo di sedimentazione, prove e confronti, e spesso ripensamenti e virate improvvise del pensiero. Capire  l'importanza di questo aspetto ci aiuterebbe anche a distinguere, in Italia, il buon giornalismo da quello scadente, che commenta tutto e subito dopo due minuti, come se ogni evento, (sia esso un terremoto, un attentato o uno stupro) fosse una partita di calcio, con goal, fuorigioco, rigori rubati e moviole per stabilire la verità e dare del venduto, o del cornuto, all'arbitro. Ma questa è un'altra storia.

Torniamo a Lipari, in via Falcone e Borsellino, dove un ragazzo ha perso la vita in sella al suo scooter, nella notte di San Bartolo, investito da un'auto che lo ha centrato in pieno. Dove, esattamente due anni prima, un altro ragazzo aveva perso la vita: erano la stessa notte di San Bartolo e lo stesso tratto di strada. Possiamo parlare di coincidenze, destino tragico e fatalità, nessuno ce lo impedisce. Non possiamo però mandare lettere aperte, sgrammaticate e forcaiole ai giornali per mettere alla gogna nessuno. O meglio, i giornali potrebbero gentilmente cestinarle. Ma anche questa è un'altra storia.

Si può parlare di “strade killer” e di “macchine impazzite”  quanto vogliamo, ma sappiamo bene che la strada non è armata di pistole per uccidere e le macchine non hanno una coscienza che a volte funziona, e altre no. A Lipari purtroppo, prima di questi ragazzi, è stata uccisa la cultura della mobilità.

Dovremmo provare a osservare attentamente come si vive, e a volte si muore, andando da un punto A a un punto B dell'isola.

I marciapiedi non esistono o sono diventati un parcheggio tacitamente accettato: vedi il marciapiedi di Canneto, dove peraltro nei progetti e nei sogni di molti, la spiaggia sarà sacrificata per far spazio a nuovo cemento, così da ampliare la strada carrabile. Lipari è vintage, del resto. È come l'Italia del dopoguerra, del boom economico e della motorizzazione di massa, quando per far vendere più utilitarie alla Fiat si costruivano o si allargavano strade ovunque, si abbattevano edifici storici e si sopprimevano le strade ferrate dei tram. La parola d'ordine era “fare spazio” ai nuovi veicoli, per arrivare ovunque e subito. Il risultato è che, tanto per fare un esempio, il Colosseo è diventato una enorme rotatoria annerita e piena di lesioni.

A Lipari, per strada, si corre come se ci si trovasse su una bretella autostradale: dove andate sempre così di fretta e nervosi? A volte mi chiedo se questa velocità non sia una forma di frustrazione di chi spende il suo salario per pagare a rate un'auto che guiderà tutta la vita senza mai mettere la quarta e la quinta, girando in tondo, intorno allo stesso scoglio, come un criceto in gabbia, perché il caso ha voluto che nascesse qui, e non a Imola.

Provate a fermarvi a ridosso di un attraversamento pedonale, noterete che succedono due cose interessanti: la prima è che i pedoni (soprattutto gli autoctoni) vi ringraziano e vi sorridono, come se attraversare senza morire sia una grazia che voi automobilisti gli state concedendo; la seconda è che scooter e auto dietro di voi vi sorpassano immediatamente, evitandovi per un pelo, senza nemmeno toccare il freno, perché gli state facendo perdere tempo fermandovi così, in mezzo alla strada, rallentando la loro folle corsa verso non si sa bene dove.

E poi osservate Marina Corta. Una piazzetta\salotto trasformata in un parcheggio vista mare, una piazzola per taxi col motore sempre acceso e finestrini alzati per mantenere un buon microclima nell'abitacolo, a scaricare gas su granite e gelati, che fa molto esotico!

A volte, soprattutto in inverno e primavera, quando aspetto il mio turno dal barbiere o bevo un caffè seduto in uno dei bar di Marina Corta, mi capita vedere questa scena quasi cinematografica: la polizia municipale entra nella piazza e i bambini, che stanno giocando a calcio con delle porte improvvisate fatte di zaini e giubbotti, corrono via per i vicoli, nascondono il pallone e poi tornano, accaldati rossi e sudati, facendo finta di niente in attesa che la macchina dei vigili vada via. Sono consapevoli di aver commesso una specie di reato: giocare col pallone in piazza. Sanno che spesso i commercianti chiamano le forze dell'ordine per farli andare via, o magari per fargli sequestrare il pallone. Il problema sono i bambini, non le lamiere su gomma e i loro gas di scarico! Avete mai provato a fare una foto di Marina Corta senza immortalare anche macchine, scooter, camioncini della frutta ed enormi taxi bianchi? Tentate, e buona fortuna: non ci riuscirete!

E poi: Pianoconte, Quattropani, le Pomici e via dicendo: provate a rispettare i limiti di velocità tra un tornante e l'altro, sarete bersagliati dal clacson (nel migliore dei casi) di chi vi sta dietro e poi sorpassati con destrezza perché, ancora, state facendo perdere tempo a chi ha fretta di non andare da nessuna parte.

La velocità crea uno spartiacque tra il bene e il male, tra il bello e il brutto; la velocità è antidemocratica e spesso uccide: vi inviterei a leggere un saggio di Ivan Illich, <<Energy And Equity>>, comparso su Le Monde nel 1973, ma quantomai attuale (lo trovate a questo link: http://www.altraofficina.it/ivanillich/libri/energia%20ed%20equit%C3%A0.htm).

Mi limito a riportare solo un breve passo:

<<Oltre una certa velocità i veicoli a motore creano distanze che soltanto loro possono ridurre. Creano distanze per tutti, poi le riducono soltanto per pochi. Una nuova strada aperta nel deserto brasiliano mette la città a portata di vista, ma non di mano, della maggioranza dei contadini poveri. La nuova superstrada ingrandisce Chicago, ma risucchia chi è ben carrozzato lontano dal centro, che degenera in ghetto.>>

La velocità uccide non solo nel caso di incidenti stradali o disastri aerei e ferroviari. La velocità uccide parchi e valli, prosciuga fiumi, fa abbattere foreste, perforare montagne e cementificare spiagge al solo scopo di far parcheggiare e transitare più auto, far correre treni più veloci, accorciare i tempi di percorrenza tra un'isola e una penisola, o fare atterrare e decollare aerei.

Per sua natura un'isola potrebbe quasi del tutto non essere interessata a questa degenerazione della terraferma, fatta di auto incolonnate, clacson impazziti fino a tarda notte, parcheggi rialzati e sotterranei per nascondere automobili che non si sa più dove mettere, semafori, strisce colorate sul pavé, targhe alterne e giornate ecologiche organizzate per riportare le polveri sottili sotto la soglia di allarme, eccetera eccetera. Invece sembra che il naturale destino delle nostre isole (esclusa, viva Eolo!, Alicudi) sia quella di diventare piccole metropoli in mezzo al mare piene di problemi urbani. E  se i problemi di città città proprio non ce li abbiamo, basta inventarceli.

Abbiamo ucciso, dicevo, la cultura della mobilità. E credo che dovremmo riconquistarla. Non sto sognando un nostalgico ritorno verso un passato felice, che felice non era, in cui ci si muove solo a piedi o in dorso d'asino e su biciclette con le ruote piene, percorrendo mulattiere e sentieri di campagna. Auspico semplicemente a un ritorno alla civiltà e alla lentezza propria di un'isola, al recupero della condivisione degli spazi che faccia capire che una strada è di tutti: pedoni automobilisti bambini ciclisti cani gatti e gechi e gabbiani (sì, loro sì, ma i ratti no!). Per fare ciò bastano poche cose e buone pratiche, magari imitandole e importandole, queste sì, dalle città virtuose della terraferma. Quali?

Zone 30 (area-wide traffic calming): porzioni di abitato in cui i veicoli possono circolare a un massimo di 30 km\h. Rallentando il traffico la probabilità di incidenti diminuisce fino ad annullarsi, il traffico è più fluido e gli impatti, anche tra utenti pesanti e utenti leggeri, non sono mortali. È fisica, ed è ingegneria stradale, non è estremismo di sinistra!

Pedonalizzazioni: creazione di aree che siano esclusivamente pedonali, in cui ci si muove solo a piedi o comunque a propulsione umana, con transito e sosta per carico e scarico merci di veicoli consentiti solo in fasce orarie specifiche (di notte magari, o al mattino presto).

E ancora: un trasporto pubblico efficiente, capillare e continuato; un serio piano di parcheggi; postazioni di bike e car sharing in punti strategici, per esempio in prossimità dei porti, dei parcheggi e degli accessi a zone a traffico limitato o interdetto.

E poi, la cultura della mobilità e il concetto della condivisione degli spazi pubblici devono essere insegnati a scuola, in parrocchia, in palestra, ovunque!

Quando parliamo di queste cose (per esempio nell'ultima tornata elettorale) veniamo accusati di essere “futuristi”, sicuramente senza ben conoscere il termine e il significato, o “comunisti” (va già meglio!). Le parole sono importanti, signori! Il futurismo sognava esattamente le città degenerate e impazzite di oggi, inseguiva il mito fascista della velocità, esaltava la guerra e le armi, e forse pure i fuochi d'artificio (bisognerebbe approfondire!).

Nessun futurismo, dunque. Il nostro sogno da inseguire dovrebbe essere la lentezza. In tutto: nelle nuove\vecchie forme di turismo responsabile ed ecologico, per strada, per mare e nelle relazioni umane. Abbiamo bisogno di lentezza diffusa per riconquistare la bellezza di queste isole, e ricominciare a viverle da isolani.

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