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di Michele Giacomantonio

Caro Direttore,
Ieri sera si è svolta, come da programma, la commemorazione del Prof. Giuseppe Iacolino ad un anno della sua dipartita. Purtroppo, per impegni precedenti non ho potuto assistere a tutti gli interventi e chiedere di intervenire a mia volta, ma ho dovuto allontanarmi alla fine di quello della prof.ssa Patrizia Zangla.
Se fossi intervenuto mi sarei dichiarato d’accordo con la prof.ssa Maria Carnevale nel sottolineare che il Professore era credente ma non clericale, anzi lo contraddistingueva una sincera laicità che era venuta esplicitandosi soprattutto negli ultimi anni. Ricordo le riflessioni, alla fine della novena dell’Immacolata, dove – uscendo dalla celebrazione - discutevamo di quella che nelle devozioni ci appariva come una distorsione del culto della Madonna rappresentata, nella religiosità popolare, come una Dea più che una creatura piena di grazie e di virtù. Era un terreno sul quale condividevamo molte cose come il rapporto che i Vangeli ci trasmettono di Gesù con sua Madre a cominciare dalle nozze di Cana.
Ma il momento di maggiore discussione fra noi sorse discutendo del libro sulla chiesa di Pianoconte, uno degli ultimi se non addirittura l’ultimo, da lui scritto e pubblicato. Negli ultimi anni la mia collaborazione col Professore si era molto approfondita e per gli ultimi scritti aveva chiesto a me di illustrarli, di presentarli ed anche di rivederli. Così era stato col libretto sulla Chiesa dell’Annunziata con la parentesi del tempio ebraico, così era stato con “A Lipari, scavando sotto le tracce della storia” e così era stato anche col libro sulla Chiesa di Pianoconte. Ma proprio durante la lettura del manoscritto a me sorse un problema. La chiesa di Pianoconte era stata voluta dal vescovo D’Acugna in adempimento del Concilio Tridentino che raccomandava di portare la pastorale più a contatto della gente umile dei borghi e delle campagne. E proprio parlando del D’Acugna, Iacolino fa una disgressione sul finire del terzo paragrafo a proposito delle reliquie.
“A motivo, forse, del suo lungo soggiorno a Napoli, il D’Acugna, - scrive Iacolino nella prima stesura del suo testo - si lasciò suggestionare dell’attrattiva delle reliquie capaci di accrescere la fede del popolo. La di lui convinzione lo portò al punto di inventare da sé la reliquia di San Bartolomeo che poi portò in dono ai fedeli di Lipari al momento del suo ingresso in Diocesi.
E così cadde anche lui nella tentazione di dover dichiarare il falso spiegando ai fedeli quali furono le contingenze che lo favorirono nel rinvenimento, a Napoli, del sacro pollice, che, da Lipari, era stato trafugato da un turco nei lontani giorni della “ruina” del 1544. Da allora erano trascorsi ben quarantuno anni.
Un peccato di falsa testimonianza il suo? Nient’ affatto i casi di necessità di dover ricorrere al sistema di congegnare reliquie le più strane (lettere della Madonna, ad esempio, o ampolle di vetro contenenti grumi del suo latte verginale) erano talmente diffusi nelle comunità cristiane del Cinque e Seicento da non essere considerati veri e propri peccati, bensì ingenui ed innocenti inganni escogitati, tutto sommato, a fin di bene. I moralisti questi inganni li definivano, nel loro enigmatico latino, “piae fraudes”.
Quella del Professore era una ipotesi con molte probabilità di essere vera, ma era e rimaneva una ipotesi mentre il libro usciva in un momento in cui la diocesi aveva deciso, per accrescere la venerazione nei confronti del Santo Patrono, di organizzare un pellegrinaggio nelle isole al seguito della teca in argento a forma di braccio dove è conservata la reliquia del dito di S. Bartolomeo.
Per questo suggerii al Professore prudenza anche perché ci trovavamo di fronte ad una ipotesi. Il Professore mi ricordò che qualche anno fa la Congregazione della fede si era pronunciata di fronte alle reliquie di dubbia origine: esse rimanevano oggetto di culto se questo era radicato nel tempo. Conoscevo anch’io quella disposizione e gliene diedi atto, ma – aggiunsi - chi glielo spiegava al popolo eoliano che potevano continuare a baciare la reliquia nelle ricorrenze di S. Bartolo se si radicava in loro il dubbio che non il dito del santo baciavano ma quello di un uomo qualunque? Fu una discussione serena alla cui conclusione il Professore mi chiese di fargli una proposta di revisione del passaggio che lesse ed accettò tranquillamente. Così nel testo pubblicato si legge: “Si deve al D’Acugna infatti il “recupero” di una reliquia di San Bartolomeo: il Sacro Pollice, che, da Lipari, era stato trafugato da un turco nei lontani giorni della “ruina” del 1544. E’ una vicenda un po’ rocambolesca dove la reliquia da Costantinopoli, ad opera di uno spagnolo affrancato dalla schiavitù, che la compera per cinquecento monete d’oro, arriva a Napoli e qui, in maniera fortuita, giunge in mano al prelato, da poco consacrato Vescovo di Lipari, il quale era di passaggio per andare a prendere possesso della sua Diocesi”.
Mi sembra che questo aneddoto più di mille discorsi illustri la laicità del Professore, credente, rispettoso della verità storica ma anche della coscienza religiosa popolare.

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Nel mio intervento a commento della manifestazione “In ricordo del professore Giuseppe Iacolino” promossa il 9 novembre scorso dal Rotary club e dal Comune di Lipari scrivevo che forse, fra i tanti aspetti messi in luce, era stato un po’ trascurato il grande contributo di Iacolino per fare chiarezza su alcuni nodi importanti della nostra storia locale: un contributo, aggiungevo. che può essere paragonato solo a quello di un altro grande protagonista della nostra cultura, Luigi Bernabò Brea. E fra i contributi citavo la ricerca sulle origini del Cristianesimo a Lipari ed in particolare sulla storicità della figura del primo Vescovo di Lipari Sant’Agatone , ritenuto leggendario dai più e perfino da Bernabò Brea.

Citavo ma non approfondivo perché preferii , allora, soffermarmi su un altro suo importante contributo del professore: quello sullo strutturarsi della municipalità eoliana partendo da un atto notariale del 22 maggio 1246.

Ora vorrei cercare di sviluppare il contributo sulle origini del Cristianesimo nelle nostre isole.

Sant’Agatone figura storica o leggendaria?

Luigi Bernabò Brea nel suo libro “Le isole Eolie dal tardo antico ai Normanni”, pubblicato nel 1989 aveva scritto "E' del tutto inconsistente, dal punto di vista storico, un primo vescovo, Sant’Agatone, che risalirebbe al III secolo, al tempo cioè della persecuzione di Valeriano. La sua figura, è probabilmente immaginaria. Il nome sarebbe stato preso da quello del vescovo, assai più tardo, ricordato da S.Gregorio Magno, l’unico dei primi vescovi di Lipari il cui nome fosse ricordato da fonti letterarie. Sant’Agatone compare infatti solo in fonti tarde e criticamente inattendibili e cioè nel complesso di leggende, composte fra il VII e il IX secolo che fioriscono intorno ai santi martiri di Lentini Alfio, Cirino e Filadelfio. Il primo vescovo – aggiunge il grande archeologo – di cui si abbia notizia certa è Augusto che partecipa a due concilii tenuti a Roma al tempo del Papa Simmaco: il primo dell’Ottobre 501 (…); il secondo del Novembre 502(…)” (pag.14-15).

Iacolino parte, nel suo ragionamento, dall’Annuario Pontificio che alla voce Diocesi di Lipari aggiunge tra parentesi una data: V secolo ed argomenta che visto che un vescovo di Lipari (Augusto) risulta aver partecipato alle sessioni del sinodo romano 501 e 502, cioè all’alba del VI secolo, ciò deve avere indotto, giustamente, i redattori dell’Annuario ad affermare che la Chiesa di Lipari doveva già esistere nel secolo precedente. Ma a suffragare questa ipotesi, aggiunge Iacolino, non c’è solo la logica deduttiva dei redattori dell’Annuario ma chiare testimonianze epigrafiche cristiane in lingua greca, rinvenute a Lipari , tre delle quali ci riportano diritto al V secolo e molto più a ritroso nel tempo. E cita l’epigrafe di Proba della seconda metà del V secolo che parla della Santa e Cattolica Chiesa dei Liparéi; quella di un anonimo del 470 e soprattutto quella di Asella che è del 394 ma che ci rivela che a Lipari sul finire del IV secolo si erano consolidati moduli culturali e di costume così squisitamente cristiani maturati sicuramente in un secolo ed oltre portandoci a quella metà del III secolo quando, secondo la tradizione, la Chiesa di Lipari era retta dal vescovo Sant’Agatone.

Il quadro di Sant’Agatone nella Cattedrale di Lipari. L’arrivo del corpo di San Bartolomeo.

Una considerazione forse ardita ma sostenuta anche da un importante archeologo e storico della Chiesa, mons. Louis Duchesne che nel 1912 scriveva, proprio a proposito della Chiesa di Lipari, al prof. Carlo Alberto Gafuri che “ è poco verosimile che, nei tempi tristi e torbidi del V secolo, si siano fondati vescovadi in quelle regioni d’Italia” per cui era da ritenere, come quasi dimostrato, che ogni vescovato constatato prima della guerra gotica, cioè prima del 535, deve risalire almeno al IV secolo più o meno inoltrato. Anzi, aggiunge, il Duchesne che si potrebbe giungere sino alla metà del III secolo “ se fosse prudente fidarsi della leggenda bizantina di Leontini” (C.A. Garufi, Le Isole Eolie a proposito del ‘Constitutum’ dell’Abate Ambrogio, in “Archivio storico per la Sicilia Orientale”, anno IX,1912, pag.159).

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9 NOVEMBRE 2018

Lipari, la proposta del Notiziario accolta: ricordato il professor Giuseppe Iacolino. Il video dedicato allo "Storico Eoliano" curato dalla dottoressa Lina Paola Costa e dal webmaster Massimo Pagliaro

2 AGOSTO 2019

LE INTERVISTE DE "IL NOTIZIARIO". Lipari&Centro Studi, ricordato lo "storico professore" Giuseppe Iacolino.

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La Legenda di Lentini

Ed allo studio di questa Legenda si dedica il prof. Iacolino che, nel libro citato, vi riserverà ben 24 pagine. Ma che cos’è questa Legenda bizantina di Lentini? E’ uno scritto del monaco siculo-greco Basilio che nel 964, ben settecento anni dopo l’accadimento dei fatti e cioè il supplizio dei martiri Alfio, Cirino e Filadelfio avvenuto fra il 251 ed il 259 al tempo dell’imperatore Valeriano, attingendo a racconti popolari, per lo più tramandati oralmente, li assembla arricchendoli di particolari fantasiosi e fantastici. Certo il pio monaco non aveva alcuna intenzione di dare un contributo rigoroso alla storia ma solo di contribuire alla edificazione ed alla pietà del popolo, e così lo scritto è risultato zeppo di personaggi improbabili, di interventi soprannaturali e misteriosi, di un eccesso di guarigioni miracolose, di apparizioni di Santi fino all’inverosimile senza trascurare gli errori cronologici.

E’ possibile, si chiede Iacolino, recuperare in questa prolissa trama romanzesca un qualche elemento di veridicità storica che possa servire alla nostra ricerca? Una preziosa indicazione, che Iacolino fa propria, viene dallo storico benedettino Domenico Gaspare Lancia di Brolo secondo il quale il monaco Basilio avrebbe raccolto le tradizioni locali e le avrebbe stese “allargandole e infiorandole con discorsi e dettagli che, sebbene esagerati, pure non ne alteravano il fondo e, nella sostanza, non dovevano essere privi di fondamento”. Quindi, conclude lo storico benedettino, “ ritengo questi atti, con tutti i loro difetti, essere tanto più preziosi per la nostra storia quanto che ogni altra memoria di quell’epoca è perita” (Storia della Chiesa in Sicilia nei dieci primi secoli del Cristianesimo, Palermo 1880, p.120).

Bernabò Brea, di fronte all’ampio risalto che la Legenda dà a Sant’Agatone, aveva avanzato l’ipotesi – da lui stesso, per primo, giudicata molto fragile – che l’Agatone delle Legenda sia lo stesso Agatone che nel VI secolo papa Gregorio Magno esonerava dalla carica di vescovo di Lipari riducendolo allo stato monacale. Probabilmente, aggiunge Bernabò, questi aveva trovato accoglienza in un convento di Lentini ed era entrato nella narrazione popolare dalla quale lo recupera Basilio facendolo protagonista del suo racconto (op,cit, pag.14 nella nota n.5).

Iacolino invece non ha dubbi che l’Agatone di cui si parla sia proprio il Santo vescovo del III secolo, che - come dice la Legenda di Lentini - per paura della persecuzione dei romani abbandona Lipari e si rifugia in una grotta alle pendici dell’Etna dove incontra Alessandro, braccio destro del tiranno, caduto in disgrazia e anche lui fuggitivo. Agatone lo incoraggia, lo sostiene , lo guida nel cammino della conversione e lo battezza imponendogli il nuovo nome di Neofito. Più tardi gli conferisce il presbiterato e lo propone vescovo di Lentini. Quindi decide di tornare a Lipari con “i primi cittadini delle isole e altri del clero” che erano venuti a trovarlo a Lentini “per divina rivelazione” per annunciargli “che la persecuzione contro i Cristiani è cessata e che essi ormai vivono tranquilli”.

Secondo Iacolino, al di là delle digressioni del narratore, il monaco Basilio avrebbe rispettato la verità di fondo che i racconti popolari contenevano. E la verità è che esiste un vescovo che è fuggito per paura di fronte ad una persecuzione di cui esistono riscontri storici, come riscontri storici esistono della successiva pacificazione ai tempi dell’imperatore Gallieno che ai cristiani restituì beni patrimoniali e libertà di culto. Se uno degli scopi di Basilio era quello di rievocare la genesi della Chiesa  Leontinese perché, con la sua fervida fantasia, si chiede Iacolino, non fece risalire quella Chiesa a quella di Siracusa che, rispetto alla periferica Chiesa di Lipari, vantava più nobili memorie e più solide tradizioni? E perché affidare il battesimo di questa chiesa ad un vescovo fuggiasco per paura della persecuzione? Evidentemente – osserva sempre Iacolino – il ruolo che nella primitiva comunità di Lentini esercitò il vescovo di Lipari doveva avere radici così profondamente storiche da non potere sottacersi o subire alterazioni di sorta.

Oltre Iacolino? Il Cristianesimo a Lipari prima del III secolo?

Fin qui Iacolino: la Chiesa di Lipari esisteva già nel III secolo e suo vescovo era il Sant’Agatone che presiede all’arrivo delle spoglie di San Bartolomeo come affermano Giuseppe l’Innografo e San Teodoro Studita.

E prima ancora? Esistono credenze popolari che fanno supporre una datazione più antica dell’arrivo del Cristianesimo a Lipari?

 “E’ credenza – scrive il Can. Carlo Rodriquez nel 1841 nel suo saggio Breve cenno storico sulla Chiesa Liparese, (Palermo, estratto dal Giornale letterario, n. 225 e 226, 1841, pag. 5 e 6) – che la fede cristiana si fosse stabilita in Lipari sin dal tempo degli Apostoli; e Paolo (l’Apostolo) venuto in Reggio, si reputa per mera tradizione passato da Messina , e per la vicinanza di quella provincia a quest’isola qui esservi condotto, predicare il Vangelo ed innalzare alla cima del sacerdozio per la prima volta Liparese Chiesastico. Ma niun documento esiste per rafforzare opinione siffatta; per il che à uopo di altri tempi più a noi vicini intertenerci, poiché le Siciliane Storie non furono a noi tramandate, anzi distrutte nella saracenica invasione…”.

Prima del Rodiquez , però, nel 1783, della possibilità che la Chiesa di Lipari fosse stata fondata da San Paolo ne aveva parlato Giuseppe La Rosa nel primo volume della sua “Pyrologia Topostorigrafica delle Isole di Lipari”( a cura di Alfredo Adornato, Lipari, 1997).

Come il Can. Rodriquez, l’avv. La Rosa segue il discorso tradizionale del naufragio a Malta e, ripreso dopo tre mesi il viaggio, della sosta a Reggio a cui aggiunge Messina e ipotizza la tappa a Lipari, lungo il tragitto, grazie al Comandante della nave che avrebbe accolti i desideri di Paolo. Una ipotesi forse più credibile di quella tradizionale riportata dal Rodriquez secondo il quale l’evangelizzazione di Lipari e Messina sarebbe avvenuta durante la sosta a Reggio cioè il tutto – Reggio, Messina e Lipari - in una mezza giornata che è il tempo che, secondo l’evangelista Luca, la nave avrebbe sostato a Reggio prima di salpare per Roma (“Poi navigando lungo la costa giungemmo a Reggio. Il giorno seguente si levò il vento del sud e così in due giorni potemmo arrivare a Pozzuoli 28,13). Più credibile, ma comunque sempre improbabile l’ipotesi di La Rosa. Quale tempo avrebbe potuto concedere un Comandante ad un passeggero che era oltretutto in cattività? Qualche ora? E sarebbe stata sufficiente per evangelizzare la gente di Lipari e trovare un Vescovo?

Di fronte a questi nodi non stupisce che Iacolino non abbia preso in seria considerazione l’idea che S.Paolo fosse mai passato da Lipari e l’abbia evangelizzata. Secondo il professore questa di rivendicare una evangelizzazione diretta degli apostoli sarebbe trattato un vezzo diffusosi in età rinascimentale fra molte Chiese per darsi una sorta di blasone apostolico.

Pure avendo condiviso negli anni passati la posizione del prof. Iacolino tanto da averla sostenuta nel mio “Navigando nella storia delle Eolie” che è del 2010, in questi ultimi anni mi sono venuto convincendo che l’ipotesi di un passaggio per Lipari di San Paolo è tutt’altro che peregrina, ma a differenza di Rodriquez e La Rosa – come ho scritto nel saggio “La nascita del cristianesimo nelle Eolie” pubblicato nel libretto “La religione nella Lipari antica”,( Marina di Patti, 2016) dove faccio un primo resoconto di questa ricerca - nella mia ipotesi questo non sarebbe avvenuto nell’ultimo tratto del viaggio: da Malta a Roma passando per Reggio ma sostituendo il naufragio a Malta con un naufragio a Lipari.

Una rilettura di Giuseppe La Rosa

Come nasce questa ipotesi del naufragio a Lipari? Innanzitutto da una rilettura di quanto scrive l’avv. La Rosa, che al di là del come e del quando sarebbe avvenuta la sosta di San Paolo alle Eolie, ha una sua originalità. Egli sottolinea con forza la tradizione esistente a Lipari ai suoi tempi ( e ormai oggi dimenticata) di essere stati evangelizzati da Paolo.

Che San Paolo sia passato da Lipari e l’abbia evangelizzata “appresso i Liparoti – scrive il La Rosa - ve n’è antichissima tradizione passata da Padri a Figli, e dall’una all’altra generazione sino a questi tempi: e tanto appunto pare volesse significare Innocenzio Papa in una sua epistola scritta a Decenzio, rapportata dall’Abbate Rocco Pirro nella sua Sicilia Sacra, dove tratta della Chiesa di Lipari, per le parole di quel Pontefice ci s’insinua in qualche modo essere stata la Sicilia con l’Isole adiacenti convertita dall’Apostoli che vi crearono vescovi (Rocco Pirri, in Sicilia Sacra de Ecclesiae Liparensis, nota 8)”.

Che La Rosa dica che ai suoi tempi era viva questa tradizione non è un dettaglio da trascurare. Infatti egli scrive in un ‘epoca, il 1783, dove le tradizioni si conservavano più facilmente perché non c’era il bombardamento giornaliero e continuo dei mass-media che allargano la conoscenza nello spazio ma la riducono nel tempo. Inoltre una realtà isolata come erano le Eolie le storie che si raccontavano in casa e si ripetevano nelle strade e nelle piazze, non dovevano essere molte. Per di più non si era ancora diffusa nelle isole quella secolarizzazione che aveva aggredito la centralità del sacro a vantaggio del profano. La religione era ancora un dato centrale della cultura a cui ricondurre ogni evento come fa appunto anche un erudito come La Rosa parlando, ad esempio, dei terremoti.

Una seconda sollecitazione a perseverare in questa ricerca viene da una scoperta: solitamente oggi quasi tutte le versioni degli Atti degli Apostoli  palano di Malta come l’isola del naufragio ma, in realtà Luca negli Attii parla di Melita (Μελιτη ) l’ isola del miele. ”Una volta in salvo venimmo a sapere che l’isola si chiamava Melita”(At 28,1).

La contesa fra Malta e Meleda sull’isola del naufragio

E proprio questo termine diede luogo in passato ad una disputa perché  nel “De administrando imperio” l’imperatore e storico bizantino Costantino Porfirogenito, nell’anno 949, afferma con sicurezza: il naufragio della nave che trasportava San Paolo avvenne a Melita-Meleda, isola della Dalmazia a nord di Ragusa ( Costantino PorfirogenitoDe Administrando Imperio, ed. Gy. Moravcsik, trans. R.J.H. Jenkins, rev. ed., Washington, Dumbarton Oaks Center for Byzantine Studies, 1967. “Alteram (insulam) quae Melete sive Malozeatae, cuius in Acta apostolorum, S. Lucas meminit, Melitem eam appellans, ubi et vipera divi Pauli digitum mordens ab eo exussa igne conflagravit” , cap. 36, pag. 163). 

Di contro, nel 1600 cominciò a fiorire una ricca letteratura sul naufragio di San Paolo favorevole alla ben più importante (politicamente) isola di Malta divenuta nel 1530 la nuova sede dei Cavalieri Ospitalieri con l’aiuto e la benedizione di Papa Clemente VII e dell’imperatore Carlo V. I Cavalieri Ospitaleri vennero così soprannominati Cavalieri di Malta e continuarono la loro azione contro la guerra di corsa musulmana, combattendo con la loro flotta i corsari provenienti dal Nordafrica berbero. Malgrado avessero a disposizione solo poche navi, erano degli esperti navigatori e causarono non poche noie alle navi ottomane, attirandosi la gratitudine del Papa e degli stati cristiani. Forte di questo dato di fatto, Malta cercò di affermare la sua candidatura ad isola del naufragio di Paolo.

Si apre quindi una contesa fra Malta e Meleda. E se Meleda si affida allo storico e poeta raguseo Ignazio Giorgi (1675-1737), abbate dei Benedettini Neri di Méleda, consultore e teologo della Repubblica di Ragusa, che nel suo opuscolo dal titolo “D. Paulus apostolus in mari, quod nunc Venetus Sinus dicitur, naufragus et Melitale Dalmatensisi insulae post naufragium hospes”  descrive il viaggio avventuroso compiuto dall’Apostolo sull’Adriatico, ovvero nel Golfo di Venezia, avvalorando la propria tesi con citazioni attinte da oltre trecento scrittori antichi e suoi contemporanei, dall’altra il Cavaleriato sviluppa tutta la propria influenza che è fortissima soprattutto a Roma. Il lavoro del Giorgi, pubblicato a Venezia nel 1730,diede origine ad una  polemica dalmato-maltese che si è prolungata con varie fasi sino ad oggi anche se nella seconda metà del ‘700 papa Benedetto XIV cercò di chiuderla  a favore di Malta.
Proprio questa disputa mi ha richiamato alla mente che nel Mediterraneo oltre a Malta e Méleda c’è una terza isola che si collegava al miele nel suo nome antico: Lipari il cui nome greco era Meligunis (Μελιγουνίς ) che potrebbe voler dire “isola del miele” . 

Rileggere gli Atti degli Apostoli

A questo punto il terzo passo è stato quello di rileggere con attenzione cosa Luca dice a proposito del viaggio e del naufragio.

“Appena cominciò a soffiare un leggero scirocco, ritenendo di poter realizzare il progetto, levarono le ancore e si misero a costeggiare Creta da vicino. Ma non molto tempo dopo si scatenò dall'isola un vento di uragano, detto Euroaquilone. La nave fu travolta e non riusciva a resistere al vento: abbandonati in sua balìa, andavamo alla deriva. Mentre passavamo sotto un isolotto chiamato Cauda, a fatica mantenemmo il controllo della scialuppa”.(Atti 27,13-16 ).

Come giunse la quattordicesima notte da quando andavamo alla deriva nell'Adriatico, verso mezzanotte i marinai ebbero l'impressione che una qualche terra si avvicinava. Calato lo scandaglio, misurarono venti braccia; dopo un breve intervallo, scandagliando di nuovo, misurarono quindici braccia. Nel timore di finire contro gli scogli, gettarono da poppa quattro ancore, aspettando con ansia che spuntasse il giorno” (Atti,27,27-29).

“Quando si fece giorno, non riuscivano a riconoscere la terra; notarono però un'insenatura con una spiaggia e decisero, se possibile, di spingervi la nave .Levarono le ancore e le lasciarono andare in mare. Al tempo stesso allentarono le corde dei timoni, spiegarono la vela maestra e, spinti dal vento, si mossero verso la spiaggia. Ma incapparono in una secca e la nave si incagliò: mentre la prua, arenata, rimaneva immobile, la poppa si sfasciava sotto la violenza delle onde” (Atti 27, 39-41…).

Viaggio di San Paolo a Roma. Itinerario tradizionale con naufragio a Malta

[Il centurione diede] ordine che si gettassero per primi quelli che sapevano nuotare e raggiungessero terra;44poi gli altri, chi su tavole, chi su altri rottami della nave. E così tutti poterono mettersi in salvo a terra(Atti 27, 43,44).

Viaggio di San Paolo a Roma. Itinerario con naufragio a Lipari.

Per quanto riguarda il viaggio il vento di uragano che si scatenò doveva essere un vento che soffiava dal sud verso il nord perché dopo 14 giorni di deriva si trovarono nell’Adriatico che allora comprendeva anche lo Ionio. Un tragitto che taglia inesorabilmente fuori Malta. La nave entrò nel canale d’Otranto e prese a risalire l’attuale Adriatico dirigendosi verso le coste della Dalmazia?

Sembra strano che una nave di Alessandria che faceva abitualmente il tragitto per l’Italia (Atti, 27, 6) confondesse lo stretto di Messina col canale d’Otranto per quanto la visuale fosse compromessa e risalisse la costa greca e quella dalmata,. Più probabilmente come Malta anche Meleda diventa una meta improponibile.

Rispetto a Malta e Meleda, Lipari è l’unica che si trova sulla rotta per Roma.

Un riscontro straordinario

E pare quasi di vedere il bastimento che in una notte d’autunno, sospinto da un forte scirocco, si approssima alla rocca di Lipari che è circondata da una scogliera bassa – detta Sottoilpalo - dove la prua del naviglio avrebbe potuto incagliarsi mentre la poppa rimane esposta ai marosi. E pare sempre di vedere i naufraghi che si gettano a mare e cercano di raggiungere Marina Lunga che allora era solo una spiaggia, dove li accolgono gli abitanti che Luca definisce “barbari” probabilmente perché parlano un linguaggio che non comprende  anche se intorno al 60 d. C. la gente di Lipari avrebbe dovuto comprendere non solo il latino visto che si trovavano da più di trecento anni sotto la dominazione di Roma ma anche il greco che era la loro lingua originaria.
Ma siamo all’alba e la gente che incontrano non saranno stati certo membri della borghesia locale ma popolani, forse pescatori che parlano un qualche dialetto locale.

Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava  Melita (Μελιτη)”. Gli abitanti ci trattarono con rara umanità, ci accolsero tutti attorno ad un fuoco che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia e faceva freddo”.(Atti 28, 1-2).

 “Là vicino vi erano i possedimenti appartenenti al governatore dell’isola di nome Publio, questi ci accolse e ci ospitò con benevolenza per tre giorni” (Atti 28,7).

Comunque il governatore doveva essere romano come  rivela il nome Publio e Lipari era governata dai romani fin dal 251 a. C. e la casa di Pubblio avrebbe potuto essere dove oggi c’è Piazza Mazzini o addirittura il Municipio, quindi a poche centinaia di metri da Marina Lunga, rendendo realistica una comunicazione a distanza soprattutto di primo mattino.
Il padre di Publio, racconta Luca, giaceva a letto colpito da febbre e da dissenteria. Paolo lo guarì e guarì anche altri abitanti dell’isola che avevano malattie. Questo procurò a Paolo e i suoi amici molti onori ed, al momento della partenza i rifornimenti necessari.

Dopo tre mesi salpammo con una nave di Alessandria, recante l’insegna dei Dioscuri, che aveva svernato nell’isola. Approdammo a Siracusa dove rimanemmo tre giorni. Salpati da qui giungemmo a Reggio. Il giorno seguente si levò lo scirocco e così l’indomani arrivammo a Pozzuoli”(Atti 28, 11- 13).

Abbiamo voluto seguire, riprendendoli direttamente da Luca, quei passaggi del racconto che in qualche modo riguardano l’isola e ci sembra di poter dire che tutto sembra adattarsi a Lipari in maniera stupefacente. Il fatto che Paolo possa essere rimasto a Lipari tre mesi aspettando che passasse l’inverno per trovare una nave che lo porti a Roma, rende ancora più suggestiva questa ricostruzione facendo pensare quale grande iniziazione al cristianesimo potrebbe avere ricevuto la chiesa dei Liparei.
Un ultimo interrogativo? Perché una nave di Alessandria, che dopo tre mesi porta i naufraghi via dall’isola, fa scalo prima a Siracusa e poi a Reggio quando Reggio è a poche miglia da Lipari? Questa nave, che fu costretta a svernare a Lipari dalle condizioni meteomarine,  potrebbe avere avuto due tappe programmate: quella di Siracusa e quella di Pozzuoli o addirittura Ostia che era il porto di Roma. Siracusa è la vera tappa programmata prima di procedere per il continente ed infatti a Siracusa si ferma tre giorni, mentre Reggio sembra essere solo una tappa di passaggio, una sosta in attesa del vento favorevole..

                                              

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