Il 67% delle coste italiane è libero, solo un terzo è dato in concessione. Il dato con cui si conclude il lavoro del tavolo tecnico a Palazzo Chigi è per le associazioni balneari la conferma che la risorsa naturale disponibile non è scarsa, e quindi non si applica a questo settore la direttiva Bolkestein. Regole Ue che costringono a nuove gare, dal 2024 secondo le ultime decisioni del Consiglio di Stato, o dopo il 2024 secondo il rinvio previsto dal decreto Milleproroghe.
L'orizzonte non è del tutto chiaro neanche a chi lavora nel settore. Intanto, da quanto fanno filtrare fonti di centrodestra, quella percentuale è il punto di partenza per avviare l'interlocuzione con la Commissione Ue. Ma gli imprenditori di lidi e ristoranti in spiaggia, che da anni contestano la normativa europea, chiedono di prorogare i lavori del tavolo, per mappare anche le coste di laghi e fiumi, e di considerare anche le coste rocciose.
"È un dato che aiuterà a far comprendere alla Commissione europea che la risorsa disponibile
in Italia non è scarsa", sottolinea Fabrizio Licordari, presidente di Assobalneari Italia. Intanto quel dato è considerato "certo e incontrovertibile" da chi per Forza Italia segue da tempo il dossier. "Non vi è scarsità di risorse. Viene quindi meno uno dei presupposti dell'applicabilità della
direttiva Bolkestein, e quindi l'obbligo di mettere a gara le concessioni in essere", affermavano nei giorni scorsi gli azzurri Deborah Bergamini e Maurizio Gasparri.
L'Italia è già sotto procedura di infrazione da parte di Bruxelles, che chiede di assegnare con "selezione aperta, pubblica e basata su criteri non discriminatori, trasparenti e oggettivi" le concessioni balneari in quanto considerate beni pubblici e a disponibilità limitata. Non possono, quindi, essere rinnovate automaticamente. E devono essere limitate nel tempo. E a maggio la Commissione Ue ha ribadito come "i continui ritardi" nelle gare "rimangono una fonte di preoccupazione e comportano una significativa perdita di entrate".
Un rischio che le associazioni di settore ora contano di scampare. "Finalmente - nota Maurizio Rustignoli, presidente di Fiba -, l'importante lavoro svolto dal Mit ci permette, dopo ben
15 anni, di avere una mappatura ufficiale, assolutamente indispensabile per una corretta applicazione della direttiva Bolkestein". "Si possono assegnare in concorrenza numerose
concessioni balneari, insieme al relativo piano di tutela per gli attuali concessionari", dice il
presidente di Federbalneari Italia, Marco Maurelli. "Abbiamo auspicato - aggiunge Antonio Capacchione, presidente del Sib - che questi dati, senza alcun indugio, vengano riportati alla
Commissione europea per l'archiviazione della procedura di infrazione".
di Laura Siviero
Il 35% del totale delle spiagge balneabili d’Europa è in Italia. Un’industria turistica naturale, che allo Stato vale però pochi spiccioli e fa, invece, la fortuna del limitato numero di concessionari (sempre gli stessi) che se la spartiscono.
Oggi l’Europa chiede conto in termini di libera concorrenza di mercato, ma anche Legambiente lotta da tempo per garantire qualche spiaggia «green» in più. I numeri sulle concessioni balneari, sui chilometri di coste libere e occupate sono traballanti, tanto che il Governo ha richiesto un anno di proroga per avere il tempo di redigere una mappatura seria (si veda l’articolo a pagina 10).
Raccontiamo il settore con i numeri disponibili di Corte dei Conti, Nomisma, Legambiente e Altroconsumo. Secondo gli ultimi dati della Corte dei Conti, risulta che nel 2020 lo Stato ha incassato solo 92,5 milioni per 12.166 concessioni a uso turistico, a fronte di un giro d’affari (difficile da definire con precisione), che negli ultimi anni è stato quantificato in 15 miliardi l’anno dalla società di consulenza Nomisma. Il che significa una media di circa un milione di euro ciascuna di fatturato annuo.
Dunque a fronte di piccole imprese familiari (come vuole la narrazione spesso proposta) che hanno bisogno di essere tutelate, ve ne sono altre che, con il costo di un ombrellone per un mese, si ripagano l’intera tassa demaniale. Lo scandalo, infatti, non è tanto dei 15 miliardi di fatturato, perché si sa il prezzo lo fa il mercato, ma dell’imposta statale esigua, che si aggira tra i mille e i 10mila euro l’anno per attività.
Ben pochi sono quelli che pagano sopra i 5mila euro, secondo i dati del ministero delle Infrastrutture e tre concessionari su quattro arrivano a corrisponderne meno di 2.500. Un’indagine, questa, contestata da uno studio commissionato dal Sindacato italiano balneari in collaborazione con Confcommercio su dati Istat, secondo cui il giro di affari ammonta solo a un miliardo: «Le aziende a uso turistico-ricreativo – si legge – sono 15.414 e occupano solo lo 0,5% del totale dell’area demaniale, con oltre 53milioni di metri quadri. Mentre 887 aziende di pesca e acquacoltura occupano il 98% del totale della superficie demaniale 10,7miliardi di metri quadrati. Gli introiti ammontano in media a 159mila euro a stagione per stabilimento balneare».
Ma l’analisi della Corte dei Conti taglia corto e spiega in poche efficaci parole che «i canoni attualmente imposti non risultano, in genere, proporzionati ai fatturati conseguiti dai concessionari attraverso l’utilizzo dei beni demaniali dati in concessione, con la conseguenza che gli stessi beni non appaiono, allo stato attuale, adeguatamente valorizzati». Una situazione in stallo da decenni, che ha permesso, attraverso il rinnovo automatico, di mantenere lo «stabilimento di famiglia» e i canoni bassi.
Lo Stato continua a incassare poco, senza garantire il confronto competitivo per il mercato. In virtù di un patto tacito secondo il quale le imprese balneari avrebbero dovuto investire in servizi e innovazione. Molte si sono attrezzate, ma i costi per lettino raggiungono in certi casi quote smodate. Tra le top ten delle spiagge più care in Italia, secondo una ricerca di Altroconsumo, il più esclusivo è lo stabilimento «le Cinque vele» nella Marina di Pescoluse, in Puglia, dove un gazebo de lux costa 1.000 euro al giorno, segue la spiaggia dell’hotel Augustus a Forte dei Marmi con 450 euro. Se ci si accontenta del classico ombrellone e sdraio (speriamo cabina inclusa) si parte ad Alassio con 323 euro a persona a settimana, seguono Gallipoli, Alghero e Viareggio. La riviera romagnola resta la più economica: per un ombrellone e due lettini si pagano ancora 15-20 euro.
Le spiagge selvagge sono sempre più difficili da trovare, come segnala l’indagine di Legambiente. Mentre in Francia, solo il 20% delle coste può essere gestito da privati, in Italia, siamo al 42%. Ma in Campania, Liguria e Romagna, a più alta densità turistica, la percentuale sale al 70%. Su 30 chilometri di Versilia, 27 sono presidiati da stabilimenti. Nel Comune di Gatteo (Forlì-Cesena) tutte le spiagge sono in concessione; a Pietrasanta (LU), Camaiore (LU), Montignoso (MS), Laigueglia (SV) e Diano Marina (IM) siamo sopra il 90%. Non esiste una norma nazionale che stabilisca una percentuale massima di spiagge da dare in concessione. Un’anomalia tutta italiana e poco gradita all’Europa.(ilsettimanale.online)