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di Daniele Billitteri

Via del Giornale L’Ora Le stagioni del quotidiano più amato dai palermitani

Domani mattina verso le dieci un pezzettino di strada davanti a piazzetta Francesco Napoli verrà intitolata al giornale L’Ora che si trovava nella palazzina che oggi è un ufficio dell’Agenzia delle entrate. “Via del giornale L’Ora” mi prende al cuore perché ho cominciato lì e ci sono rimasto 10 anni. Ma c’è di più perché, nella stessa occasione, verrà scoperta una targa in memoria del centesimo anniversario della nascita di Vittorio Nisticò, storico direttore del giornale fin da metà degli anni Cinquanta e alle 18, 30 al teatro Santa Cecilia sarà la volta di un “reading” di articoli dello stesso Nisticò.
Sentirmi chiamare col mio cognome da Vittorio Nisticò fu per me una conquista quasi commovente. Meglio del superamento degli esami di giornalista professionista. Per lui infatti io fui a lungo “il motociclista”. E non solo perché possedevo una meravigliosa BMW R60/5 ma perché, anche quando usavo la 500 PA348634, indossavo spesso una guaina da motociclista.
Non è che lo incrociassi spesso. Io al giornale non ci dovevo andare. Era quella la regola. Quando un cronista tornava dal giro erano cazziate a leva pelo perché mentre io cazzeggiavo in redazione in città succedeva di tutto. Era questo il clima.
Per me, dunque, Nisticò era più una leggenda che una realtà materiale. Se uno come me, due di coppe con la briscola a spade, passava davanti alla sua porta nel corridoio che portava allo stanzone della cronaca, si abbassava la voce. E io in quella stanza entrai per la prima di una delle poche volte, solo un pomeriggio mentre c’era la signora delle pulizie.
Fu per questo motivo che mi convinsi che Vittorio Nisticò, l’unico che in 50 anni di mestiere abbia mai chiamato “direttore”, era dopo tutto un palermitano timido che è quasi un ossimoro, evitato dal fatto che non era affatto palermitano ma calabrese romanizzato.
La mia personale costruzione della leggenda metteva Nisticò all’origine della rinascita civile di una città. Per quanto ne sapessi allora, lui veniva dal Partito (lo stesso mio). Lo vedevo, nella mia immaginazione, sempre a chiacchierare con Pajetta, con Ingrao, con Longo. Perfino salutato dal Migliore. Era il Partito dei duri, quello che aveva liberato l’Italia, poi chiuso un occhio sull’Ungheria ma lo aveva riaperto con la Cecoslovacchia. Era il partito che aveva i giornali: Paese Sera, L’Ora. C’era l’editore-compagno Amerigo Terenzi che a piazzetta Francesco Napoli arrivava in carrozza. E passavano quelli che a Palermo ebbero grande ruolo a cominciare da Mommo Li Causi, poi Bufalini, Macaluso, personaggi che per me erano da autografo sulla tessera del partito.
Ecco, Nisticò apparteneva, per me, a questa categoria. Piccolo giornale, grandi senatori: Marcello Cimino, Giuliana Saladino, Mario Farinella, Aldo Costa, Salvo Licata. Non era gente qualsiasi. Erano cervelli che emettevano un fumo denso e profumato. Un po’ cronisti, un po’ oracoli, implacabili e curiosi, vigili e sornioni. Non c’era fermento positivo di questa città una cui molecola non passasse dal palazzetto de L’Ora: dal cabaret colto dei Travaglini, al teatro di Michele Perriera o di Franco Scaldati, dalla voce di Rosa Balistreri, al lamento incazzato di Ignazio Buttitta. E attorno a tutto questo c’era il meglio, da Sciascia a Bufalino a Consolo.
Nessuno pensi che tutto ciò non fosse comunque attraversato da tensioni, questioni, sciarre. Palermo è dopotutto la capitale del paese dove se ti chiedono “Come ti senti?” La risposta invariabilmente è “U megghiu ri tutti”. Ma Nisticò aveva la capacità di governare tutto questo perché con la città aveva un rapporto ora timido, ora curioso, ora severo, ora divertito. Come un barman professionista era riuscito a distinguere tutti i sapori. E a sentire tutti gli odori che questo singolare transatlantico riusciva a emanare, dalle sentine al ponte di prima classe.
C’era anche un certo candore per come, a senso mio, lo vedevo camminare, mai affrettato, un po’ ingobbito, gli occhiali spessi su una smorfia perenne da colitico.
Ma non era certo un tipo remissivo. Era un capo autorevole senza se e senza ma. Così, come si conviene al racconto di luoghi dove si è cresciuti, ci si nutre di narrazioni leggendarie che possono riempire tutti i capitoli di un libro di storia, dal settore delle cose leggere a quello dei momenti drammatici.
Nisticò era un cervello: non era facile fare un giornale “atletico” quando l’editore era il Partito. Un giorno Mario Farinella, uno dei più blasonati editorialisti de “L’Ora”, passeggiava sotto i portici di piazzale Ungheria insieme con un collega e commentava la foto di un importante dirigente del partito. “Beddamatri – disse – ch’è lario. Pare Beria”. Si riferiva a Laurentji Beria, il sanguinario ministro degli interni dell’ultimo Stalin. Beh forse non aveva tutti i torti perché qualcuno sentì e riferì e Mario Farinella dovette difendersi davanti alla Commissione Federale di Controllo e se la cavò con un rimprovero.
La psicanalisi del motto arguto imperava nel palazzo. Il babbio era come l’azoto nell’atmosfera: se fosse solo ossigeno saremmo tutti ubriachi. Nisticò aveva un autista. Nel senso che difficilmente guidava la sua Citroen DS azzurra con l’incubo del posteggio a piazzale Ungheria. Così al mattino presto telefonava a un anziano fattorino che andava a prenderlo. L’incaricato era forse troppo ossequioso il che a Palermo è sempre sconsigliabile nella normale dinamica relazionale dei posti di lavoro. Così un altro fattorino, straordinario babbione e abile nell’imitazione della voce di Nisticò, cominciò a telefonare al mattino e ogni volta che l’autista rispondeva col dovuto rispetto, partiva una raffica di “suca” che faceva tremare il palazzo. Un mattino telefonò il vero Nisticò ma proprio quel giorno l’autista decise che era giunto il momento del riscatto. Così, quando senti “So’ Nisticò, vieni va,”, partì un “Ma vafanculo!” con tutti i sentimenti. Circa otto minuti dopo arrivò Nisticò in taxi e in pigiama e licenziò i due fattorini. Dovette mettersi in mezzo il potentissimo sindacato dei poligrafici CGIL per evitare che il babbione e la sua vittima perdessero il lavoro. Ma la storia, come si può capire, rimase negli annali delle cose che si raccontano anche se si tratta solo di uno sberleffo, una gag. Ben altra cosa rispetto alle bombe della mafia, alle intimidazioni della politica, all’ostilità di certe istituzioni “chiuse” dalla Questura ai Carabinieri, dalla magistratura agli alti burocrati della pubblica amministrazione.
Nisticò attraversava tutto ciò col suo passo soave. Non riusciva ad essere preterintenzionale. Non commentava mai senza riflettere e, a differenza della sua “scuola” ideologica, sapeva ascoltare. Perché chi ascolta capisce e chi capisce sa spiegare. Irredenta regola di giornalismo.
Non era certo tetragono. Sapeva sorridere.
Il giornale “chiudeva” verso le due del pomeriggio. Spesso si andava a pranzo alla Trattoria del Grattacielo che era gestita da due di tre fratelli piuttosto bene in carne. Per questo noi la chiamavamo, con tono irriverente, “Dai pacchioni”. Il desco di Nisticò era col gotha del giornale. Noi sucanchiostro ci mettevamo magari in un tavolo a parte o finiva con un piatto di pasta espresso alla salumeria Fidenzio insieme al mitico posteggiatore Tanicchio poi autista dal presidente dell’Ars Salvatore Lauricella.
Il terzo fratello dei pacchioni era un cantante lirico professionista. Baritono. Quando Nisticò andava a mangiare lì era buona regola di cortesia quella di informarsi della carriera del fratello cantante. Una volta, alla domanda di Nisticò, la risposta rimase negli annali della palermitanità: “Mio fratello? Va fortissimo direttore. Pensi che era baritono e avanzò tenore”. Nisticò non batté ciglio e si complimentò ma lo scambio di battute filtrò all’esterno e fini nella Storia.
Sono orgoglioso di avere imparato alla sua scuola. Anche se per anni sono stato solo “il motociclista”. Ma un giorno, quando ormai ero un “anziano” del mestiere, mi ritrovai citato in positivo in un libro che lui aveva scritto su L’Ora. Lo incontrai alla Feltrinelli. Mi disse: “A Billitte’, sei bravo sai?”. Ero baritono: avanzai tenore.

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