di Gaetano Sardella
In quel tempo, Gesù 39disse ai suoi discepoli una parabola: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? 40Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.
41Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? 42Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.
43Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. 44Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. 45L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».
NOTIZIARIOEOLIE.IT
9 NOVEMBRE 2019
Domenica scorsa Gesù aveva proiettato nel cielo di Galilea un sogno e un terremoto: beati voi poveri, guai a voi ricchi.
Oggi sgrana un rosario di verbi esplosivi. Amate è il primo; e poi fate bene, benedite, pregate.
E noi pensiamo: ci sta. Ma quello che mi scarnifica, i quattro chiodi della crocifissione, è l’elenco dei destinatari. Chi dobbiamo amare? Amate i vostri nemici, gli infamanti, gli sparlatori, coloro che vi pugnalano alle spalle.
Gli inamabili.
Poi Gesù mi guarda negli occhi e si rivolge proprio a me: tu porgi l’altra guancia, tu dai anche la camicia, tu non chiedere indietro. E ti costringe ad andare in cerca di quelli che vorresti invece perdere.
Questo vangelo rischia di essere un supplizio, un martirio. Ci chiede cose impossibili, addirittura: Siate come Dio!
Nessuno riuscirà a vivere così a colpi di volontà, neppure i più bravi tra noi. Ma i verbi impossibili di Gesù descrivono l’agire di Dio.
Infatti: siate anche voi misericordiosi come il Padre.
E poi: come volete che gli uomini facciano a voi, fatelo voi a loro. Una capriola che pare illogica: ritorna al cuore, misurati con ciò che desideri, accosta le labbra alla sorgente del cuore.
Sappi che il cuore è buono. Che il tuo desiderio è buono. Abbiamo tutti un disperato bisogno di essere abbracciati e di essere perdonati.
Tutti desideriamo qualcuno che ci benedica, una casa dove sentirci a casa, e poter contare sul mantello di un amico. Questo darò agli altri.
Ciò che desideri per te, dallo all’altro. Altrimenti vi sbranerete per un pugno di euro, per una donna, per il petrolio, per un bonus, per un posto al parcheggio.
L’unica strada per il sogno di cieli nuovi e terra nuova è Abele che diventa custode di Caino, la vittima che si prende cura del violento. Abele e Caino forzano insieme le porte del Regno.
“Il perdono strappa dai circoli viziosi,
spezza le coazioni a ripetere su altri ciò che hai subito,
spezza la catena della colpa e della vendetta,
spezza le simmetrie dell’odio” (Hanna Arendt). Sì, io però sono un angelo imperfetto.
E allora il Vangelo propone una strategia. Un primo passo è sempre possibile, a tutti: il vangelo è pieno di inizi, trabocca della teologia dei germogli e del seme che spunta.
Basta il coraggio di un primo passo. Come Dio. Come il cuore. Sappi che sei buono!
Questi grandi verbi di fuoco (amate, date, perdonate) cominciano sottovoce, in penombra, raso terra, nel sussurro di una voce che ha i colori dell’alba.
“Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo” (Gandhi). Cambia qualcosa di te, ma sulla misura alta del vivere.
Un vangelo potente e inarrivabile.
Da oltre cinquant’anni lotto con questo vangelo, che mi sfugge sempre.
Le parole che cerco di allineare sono come uccellini che sbattono contro le pareti della gabbia, a dire poco più del nulla che capiamo di queste parole immense.
“Sono venuto a portare il lieto annuncio ai poveri”, aveva detto nella sinagoga. Ed eccolo qui, il miracolo: beati voi poveri.
Il luogo della felicità è Dio, ma il luogo di Dio sono le infinite croci degli uomini.
E aggiunge alla fine un’antitesi abbagliante: non sono i poveri il problema del mondo, ma i ricchi: guai a voi ricchi!
Sillabe sospese tra sogno e miracolo, osate, prima ancora che da Gesù, da sua madre nel canto del Magnificat: “ha saziato gli affamati di vita, ha rimandato i ricchi a mani vuote”. (Lc 1,53).
Questi oracoli profetici, anzi più-che-profetici, quel “beati” che contiene pienezza, felicità, completezza, grazia, incollato a persone affamate e in lacrime, a poveracci, a disgraziati, ai bastonati dalla vita, ci obbliga a un capovolgimento di prospettiva, a guardare la storia con gli occhi dei poveri e dei piccoli, non con quelli dei ricchi e dei potenti, altrimenti non cambierà mai niente.
E ci saremmo aspettati: “beati voi poveri perché ci sarà un capovolgimento, un’alternanza, diventerete voi i signori”.
No. Il progetto di Dio è più profondo. C’è di mezzo il Regno dei cieli, che non è il paradiso o l’al di là, ma una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani.
Il mondo non appartiene a chi se ne impossessa o lo compra, ma a chi lo rende migliore. E non sarà reso migliore da coloro che hanno accumulato più denaro.
Beati voi… Il vangelo più alternativo che si possa pensare, il manifesto più stravolgente e contromano. Eppure, al tempo stesso, senti che è amico della vita, vangelo amico.
Perché le beatitudini non sono un comandamento, un ordine da eseguire, ma il cuore dell’annuncio di Gesù: la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, Dio regala gioia a chi costruisce pace.
In esse è l’inizio della guarigione del cuore, perché il cuore guarito sia l’inizio della guarigione del mondo.
Guai a voi, ricchi, sazi, gaudenti, famosi. I quattro “guai” ci inquietano un po’, ma non sono delle maledizioni: Dio non maledice le sue creature, mai, la sua è la voce della tristezza del padre in pena per i figli che si stanno perdendo.
“Guai” non suona come una minaccia, ma come il gemito dei lamenti funebri, il singhiozzo del pianto su chi appare come morto.
“Guai”: e vi sento dentro il lamento di Gesù, che piange i ricchi e i sazi come coloro che si sono sbagliati su ciò che è vita e ciò che non lo è; e sono diventati gli idolatri del vuoto, gli amanti del nulla.
E gli idoli sono crudeli, spietati: divorano i loro stessi adoratori.
Tirate le barche a terra lasciarono tutto e lo seguirono.
Senza neppure chiedersi dove Gesù li avrebbe condotti. Lo seguono in piena incoscienza.
Perché il motivo di tutto è solo lui, quel Rabbi dalle parole folgoranti. Allontanati da me, aveva detto Pietro; e alla fine si allontanano ma insieme, verso un altro mare, lasciando sulla riva le barche riempite fino all’orlo dal miracolo. Sono i “futuri di cuore”.
Tutto è cominciato con una notte buttata, le reti vuote, la fatica inutile. E Gesù in piedi vede. Vede “due barche”, dice il Vangelo, ma io credo che veda tutta la delusione e la tristezza del mondo sui volti dei pescatori, che in disparte lavano le reti vuote.
Il maestro parla con linguaggio universale e immagini semplicissime, non dal pinnacolo del tempio ma dalla barca di un pescatore di Cafarnao. Non da luoghi sacri, ma da un angolo umanissimo e laico, in mezzo alle attività umane, non padrone, ma ospite dello spazio umano, delle periferie, delle attese, delle delusioni.
Gesù di fronte a uomini in crisi, per un pescatore non pescare è la crisi d’identità, usa tutta la sua sapienza e delicatezza: prega Simone di staccarsi un po’ dalla riva.
Sale sulla barca di Simone e lo prega: notiamo la finezza del verbo scelto da Luca. Così il maestro sale sulla barca della mia vita e mi prega di ripartire con quel poco che ho, con quel poco che so fare, per affidarmi un nuovo mare.
Prendi il largo e getta le tue reti.
Sulla tua parola le getterò. Simone si fida e si avvia il miracolo. Una quantità enorme di pesci, una quantità di giorni pieni di pane e di luce per lui e per tutti coloro che sulla sua parola getteranno le reti.
Un prodigio. Un segno. Simone ha paura: Allontanati da me, perché sono un peccatore. Gesù sull’acqua del lago ha una reazione bellissima. Lui, il grande pescatore di uomini, alle parole di Simone non risponde “non sei peggio degli altri”, non giudica, non condanna, ma neppure assolve.
A lui non interessa giudicare neppure in vista di una assoluzione, a lui interessa il frutto, la pesca abbondante, la fecondità della vita e non la purezza fondamentalista. Mette oro nelle ferite.
Gesù pronuncia una parola solenne e inattesa:
Non temere, d’ora in avanti tu sarai… e il futuro conta più del presente, più del passato.
D’ora in avanti cercherai uomini, raccoglierai vite per la vita.
E il bene possibile domani vale più del male di ieri e di oggi.
Io non sono che un perdonato, uno che non ha preso niente, ma che ora sulla tua parola getterà le reti ancora. Sono il primo dei paurosi, l’ultimo dei coraggiosi, ma d’ora in avanti qualcosa sarò, Signore, se la tua grazia farà del mio nulla qualcosa che serva a qualcuno.
Maria e Giuseppe portarono il Bambino al tempio, per presentarlo al Signore. Una giovane coppia col suo primo bambino porta la povera offerta dei poveri, due tortore, ma anche il più prezioso dono del mondo: un bambino.
Sulla soglia, due anziani in attesa, Simeone e Anna: “Che attendevano”, dice Luca, cioè che avevano speranza. Perché le cose più importanti del mondo non vanno cercate, vanno attese (S. Weil). Quando il discepolo è pronto, il maestro arriva.
Non sono le gerarchie religiose ad accogliere il bambino, ma due laici innamorati di Dio, occhi velati dalla vecchiaia ma ancora accesi dal desiderio, il passato che tiene fra le braccia il futuro del mondo.
Perché Gesù non appartiene all’istituzione, non è dei preti ma dell’umanità. È Dio che si incarna nelle creature e tracima dovunque, nella vita che finisce e in quella che fiorisce. È nostro, di tutti gli uomini e di tutte le donne. Appartiene agli assetati, ai sognatori, come Simeone; a quelli che sanno vedere oltre, come Anna; a quelli capaci di incantarsi davanti a un neonato. Dio lo incontri attraverso la tua umanità.
Lo Spirito aveva rivelato a Simeone che “non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia”. Sono parole che la Bibbia conserva perché le stampiamo nel cuore: anch’io, come Simeone, non morirò senza aver visto il Signore. Il viaggio non finirà nel nulla, ma in un abbraccio.
Io non morirò senza aver visto l’offensiva di Dio, l’offensiva della luce, che è già in atto dovunque; l’offensiva del bene che, anche se invisibile, lievita e fermenta nelle vene del mondo.
“Simeone aspettava la consolazione di Israele”. Lui sapeva aspettare, come fa chi ha speranza. Se attendi, gli occhi si fanno attenti, penetranti, vigili. E vedono: “ho visto la luce, da te preparata per tutti”!
Ma quale luce emana da questo piccolo figlio della terra, un neonato che sa solo piangere e succhiare il latte? Il sapiente d’Israele ha colto l’essenziale: la luce di Dio è Gesù, è carne illuminata, storia fecondata, innesto del cielo nella terra.
La salvezza non è un’opera particolare, un fatto preciso, ma è Dio che è venuto, si è perso nel mondo, è naufragato negli amori, si è impigliato nei sorrisi e nelle croci dello sterminato accampamento umano, si è nutrito anche lui dei nostri nutrimenti umani. E non se ne andrà più.
“Egli è qui per la risurrezione”: per lui nessuno è perduto, nessuno finito per sempre, è possibile ricominciare da capo e ripartire ad ogni alba. È qui come una mano che ti prende per mano e ti tira su, sussurrando: “talità kum”, bambina alzati! Sorgi, rivivi, risplendi, riprendi la danza della vita.
“Tornarono quindi alla loro casa. E il Bambino cresceva e la grazia di Dio era su di lui”. Tornarono alla santità, alla profezia e al magistero della famiglia, che vengono prima di quello del tempio; alla casa dove arde in appartata fiamma la vita; alla famiglia che è santa perché l’amore vi celebra la sua festa, e ne fa la più viva fessura sull’infinito.
OCCHI SU GESÙ
Gesù ha cercato con cura quel brano nel rotolo: conosce bene le Scritture, ci sono mille passi che parlano di Dio, ma lui sceglie questo, dove l’umanità è definita con quattro aggettivi: povera, prigioniera, cieca, oppressa.
Adamo è diventato così, ed è per questo che Dio diventa Adamo. Allora chiude il libro, apre la vita, vi si immerge: il suo programma è portare gioia, libertà, occhi guariti, liberazione. Un messia che non impone pesi, ma li toglie; che non porta precetti, ma orizzonti.
Luca ci racconta un’icona da stampare nel cuore.
Lo fa quasi alla moviola per farci comprendere l’estrema importanza di questo momento.
Nella sinagoga gremita Gesù si alza, prende, cerca con cura, legge.
Poi arrotola il volume, lo riconsegna, si siede.
Tutti gli occhi sono fissi su di lui, e nel grande silenzio risuonano le prime parole ufficiali di Gesù: “oggi la parola di Isaia si realizza”.
Ed è così forte questa affermazione: il vangelo non è una chiacchiera, la Parola non è teoria, cambia le cose, orienta le scelte, è spada a due tagli.
Gesù nella proclamazione ha censurato il profeta Isaia, non legge il versetto successivo che parla di predicare la vendetta del Signore. No, Dio non sprecherà l’eternità in vendette, nemmeno un minuto.
Tutti gli occhi erano fissi su di lui.
Lo conoscono bene quel giovane, sparito per un po’ e appena ritornato al villaggio, dov’era cresciuto a pane e lavoro, sinagoga e Torah.
Gesù davanti a loro presenta il suo sogno di un mondo nuovo, senza prigionieri né poveri, senza occhi malati, senza vittime.
Adamo è povero più che peccatore; è fragile prima che colpevole; è che abbiamo le ali tarpate, ci vediamo male e ci sbagliamo facilmente, per questo inciampiamo.
Del vangelo mi sorprende sempre quel parlare di poveri più che di peccatori; di sofferenze più che di colpe. “Il vangelo non è una morale, ma una sconvolgente liberazione” (G. Vannucci).
La sinagoga di Nazaret si riempiva di umanità ferita e fragile, di poveri e di ultimi , diventati i principi del Regno. E Dio che si mette alla loro destra, alla loro ombra.
A Gesù non importa se il povero o il cieco sono giusti o peccatori, se il lebbroso meriti o no la guarigione, se l’adultera avesse o meno buone giustificazioni per il suo gesto.
C’è buio e dolore, sofferenza e bisogno, e tanto basta per far piaga nel cuore di Dio.
“Forse Dio è stanco di solenni e austeri devoti, di eroi dell’etica, di eremiti pii e pensosi, forse vuole dei giullari alla san Francesco, felici di vivere” (M. Delbrêl). Gesù vuole prigionieri usciti dalle segrete, che danzano nel sole.
IL GIOCO DELL’ACQUA INNAMORATA
C’è festa grande, a Cana: il cortile è pieno di gente in quella notte di fiaccole accese, di canti e di balli.
Ci sono Gesù e sua madre e con loro la variopinta compagnia dei giovani seguaci saliti dai villaggi del lago.
L’intero Israele risuona del grido di morenti, schiavi, lebbrosi, e Gesù non interviene, va ad una festa, quasi giocando con dell’acqua e con del vino. Anziché asciugare lacrime, colma le coppe.
Deve esserci qualcosa di molto importante se questa è la prima pennellata del quadro della salvezza. Il Vangelo chiama questo il “principe dei segni”: se capiamo Cana, capiamo gran parte del Vangelo.
Giovanni non parla di miracolo. Forse ha paura che la gente corra dietro ai maghi, e Gesù non lo è: i suoi sono segni, frecce che indicano una direzione, un senso ulteriore. Quel giorno Gesù scende nel pozzo profondo, là dove la vita inizia a battere il tempo seguendo il ritmo dell’amore.
A un certo punto della festa finisce il vino, simbolo biblico dell’amore. L’amore è sempre così poco, così a rischio, così raro.
Quante volte ci viene a mancare quel “non so che” di gioia, di passione, di sapore per far navigare questa fragile barca che è il nostro cuore. Mancano forse piccoli perdoni, piccole tensioni da chiarire, piccoli gesti di cura. Manca il buon vino.
Anche la relazione amorosa tra l’umanità e Dio si trascina stancamente, senza più gioia.
Cosa fare? Lo suggerisce Maria: Qualunque cosa vi dica, fatela! Sono le sue ultime parole, poi non parlerà più: Fate il suo Vangelo, tutto, e si riempiranno le anfore.
Di un vino migliore, come assicura il maestro di tavola: Tutti servono il vino buono all’inizio. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora.
A noi pare che questa sia la logica delle cose: l’entropia, la diminuzione, il decadimento progressivo, lo spegnersi del calore.
Il vangelo di Cana ci regala una visione controcorrente.
Non importa quali sono stati gli amori che hanno nutrito la tua esistenza, fecondi o sterili, stabili o lacerati, gloriosi o miseri, o forse entrambe queste cose al tempo stesso.
Quali che siano stati, un giorno Gesù se ne farà carico, anzi se ne è già fatto carico, se solo hai deposto le loro anfore di pietra davanti a Lui.
E li trasformerà in una realtà infinitamente migliore.
Con grande sorpresa mia che vedevo le cose finire e l’amore spegnersi; con grande sorpresa di tutti i commensali: Pensavamo di avere gustato il vino migliore all’inizio, pensavamo di averlo già finito, quello bevuto ieri pensavamo fosse il vino migliore.
E invece no, ancora una volta, per un’ultima volta Gesù ripeterà il miracolo di Cana, trasfigurando ogni nostro amore.
Avrà conservato il vino migliore per dopo, e per i secoli dei secoli. E questa è la speranza grande che accende ogni volta il segno di Cana, il principe dei segni!
E IL CIELO FIORI’
Il popolo era in attesa, sognava il messia liberatore, e si ritrova un uomo ai margini del deserto, prosciugato dal sole e dai digiuni, solo voce nel vento.
Anche noi siamo in attesa, ma il nostro è un tempo in cui i sogni ci sono stati rubati. Giovanni invece li aveva riaccesi, e la gente sciamava da Gerusalemme al Giordano. Anche oggi non sono i profeti che mancano, ciò che manca è l’ascolto.
Sei tu il Messia? E Giovanni scende dall’altare delle attese della gente, per dire: no, non sono io. “Viene dopo di me colui che è più forte di me”. Di quale forza? Lui è il più forte perché usa parole di vita, perché ha un fuoco che parla al cuore e così lo seduce, come profetizzava Osea.
Il vangelo di oggi ci incalza: Io sono solo acqua, ma deve arrivare molto di più, un fuoco nel quale saremo immersi. Giovanni che sogna aie bruciate, vento che spazza la pula, incontra un Dio che non conosceva: Gesù, che non è solo buono. È esclusivamente buono, che in fila con gli altri scende al fiume.
Luca non racconta il battesimo, ma più precisamente ciò che accade dopo. “Gesù stava in preghiera, e il cielo si aprì!” Conseguenza meravigliosa, effetto della preghiera: tu preghi e Dio apre il cielo.
La risposta alla preghiera non sono le grazie che noi chiediamo, ma lo sfondamento del cielo chiuso, una feritoia liquida d’azzurro. E fiorisce un azzurro che ristora, un azzurro che non mente: contempli la tua vita dalle stelle, la interpreti dall’alto.
E comprendi che il battesimo accade sempre, su di te scende continuamente lo Spirito del Signore, e tu diventi il nido della colomba di Dio, un nido di parole e di fuoco.
Infatti dal cielo scende un volo di parole: Tu sei il Figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento.
FIGLIO, forse la più bella e la più forte tra le parole umane, che illumina un legame per sempre, la radice, la cura, la gioia, la tenerezza generativa, l’amore che non cede e non si volta indietro.
‘Amato’ è la seconda parola. Prima che tu risponda, che tu dica sì o no, il tuo nome per Dio è “amato”. Senza clausole e senza condizioni. Che io sia amato non dipende da me, per fortuna, dipende da Lui, dal suo amore asimmetrico e incondizionato.
‘Mio compiacimento’ è la terza parola. Qui possiamo sbirciare dentro il cuore di Dio: c’è in lui un brivido di piacere. Un Dio che dice è bello che tu ci sia! Tu rendi il mondo più bello, per il solo fatto di esistere. Figlio mio, ti guardo e sono felice. Sono felice di essere tuo padre.
E allora smettiamola di sentirci sempre sotto esame. Non siamo sotto osservazione, ma sotto abbraccio. Non siamo sotto indagine, ma sotto un volo di parole bellissime, sotto un abbraccio infinito.
Epifania del Signore
Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov'è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All'udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. [...]
Epifania, festa dei cercatori di Dio, dei lontani, che si sono messi in cammino dietro a un loro profeta interiore, a parole come quelle di Isaia. «Alza il capo e guarda». Due verbi bellissimi: alza, solleva gli occhi, guarda in alto e attorno, apri le finestre di casa al grande respiro del mondo. E guarda, cerca un pertugio, un angolo di cielo, una stella polare, e da lassù interpreta la vita, a partire da obiettivi alti. Il Vangelo racconta la ricerca di Dio come un viaggio, al ritmo della carovana, al passo di una piccola comunità: camminano insieme, attenti alle stelle e attenti l'uno all'altro.
Fissando il cielo e insieme gli occhi di chi cammina a fianco, rallentando il passo sulla misura dell'altro, di chi fa più fatica. Poi il momento più sorprendente: il cammino dei Magi è pieno di errori: perdono la stella, trovano la grande città anziché il piccolo villaggio; chiedono del bambino a un assassino di bambini; cercano una reggia e troveranno una povera casa. Ma hanno l'infinita pazienza di ricominciare. Il nostro dramma non è cadere, ma arrenderci alle cadute. Ed ecco: videro il bambino in braccio alla madre, si prostrarono e offrirono doni. Il dono più prezioso che i Magi portano non è l'oro, è il loro stesso viaggio. Il dono impagabile sono i mesi trascorsi in ricerca, andare e ancora andare dietro ad un desiderio più forte di deserti e fatiche.
Dio desidera che abbiamo desiderio di Lui. Dio ha sete della nostra sete: il nostro regalo più grande. Entrati, videro il Bambino e sua madre e lo adorarono. Adorano un bambino. Lezione misteriosa: non l'uomo della croce né il risorto glorioso, non un uomo saggio dalle parole di luce né un giovane nel pieno del vigore, semplicemente un bambino. Non solo a Natale Dio è come noi, non solo è il Dio-con-noi, ma è un Dio piccolo fra noi. E di lui non puoi avere paura, e da un bambino che ami non ce la fai ad allontanarti. Informatevi con cura del Bambino e poi fatemelo sapere perché venga anch'io ad adorarlo! Erode è l'uccisore di sogni ancora in fasce, è dentro di noi, è quel cinismo, quel disprezzo che distruggono sogni e speranze.
Vorrei riscattare queste parole dalla loro profezia di morte e ripeterle all'amico, al teologo, all'artista, al poeta, allo scienziato, all'uomo della strada, a chiunque: Hai trovato il Bambino? Ti prego, cerca ancora, accuratamente, nella storia, nei libri, nel cuore delle cose, nel Vangelo e nelle persone; cerca ancora con cura, fissando gli abissi del cielo e gli abissi del cuore, e poi raccontamelo come si racconta una storia d'amore, perché venga anch'io ad adorarlo, con i miei sogni salvati da tutti gli Erodi della storia e del cuore.
«In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.
Entrando da lei, disse: “Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te”. [...]»
L’angelo Gabriele vola via dal tempio, dall’anziano sacerdote senza parola, verso una giovane laica, dalla Città Santa a un villaggio senza storia, da un maschio a una donna, dall’unico tempio a una casa come tante, dove «arde in appartata fiamma la vita» (L. Borges) che diventa finestra di cielo. Così inizia il Vangelo: Dio esce dai recinti del sacro e si immerge nella normalità della vita; non fra incensi e candelabri, ma pentole e telai.
L’angelo migratore parla in modo chiaro e nuovo.
Gioia è la prima parola, Xaire, rallegrati, gioisci, sii felice Maria, apriti alla gioia come una porta al sole.
Non le ordina: inginocchiati, obbedisci, prega, vai al tempio. Gabriele brucia le distanze tra Dio e l’umano: tra i due poli scocca la prima scintilla, quella di ogni “in principio”, quella della felicità. Che sarà anche il primo tema del Maestro nella sua prima lezione sul monte (Mt 5). Dio è legittimato a proporsi all’uomo perché sa parlare il linguaggio della gioia. Nella seconda parola, il perché della gioia: sei piena di grazia, riempita, intrisa di Dio. La grazia di Dio è la vita stessa di Dio, il suo amore. Dio è innamorato di te, Maria, il tuo nome è “amata per sempre”, senza rimpianti, teneramente amata. Dio ha detto sì a Maria prima ancora che Maria dicesse sì a Dio, prima di ogni sua risposta. E questo è anche il nostro nome: come lei, tutti amati per sempre, di amore asimmetrico, unilaterale, incondizionato. Per come siamo, per quello che siamo. Il Signore è con te.
Quando nella Bibbia Dio dice a qualcuno “Io sono con te” gli sta offrendo un futuro bello e arduo (R. Virgili), un compito alto e difficile: tuo figlio sarà figlio di Dio. Maria è sbalordita: come è possibile? Questo angelo dice eresie. Dio è uno, non ha figli. Ma nel Vangelo gli angeli vengono proprio per dire questo: che l’impossibile è diventato possibile. Non aver paura Maria, se l’infinito si nasconde in un pugno di carne, in una perla di sangue nel tuo grembo. Non aver paura delle nuove, sconosciute vie di Dio che diventa bambino, vagito, fame di latte, occhi spalancati, mano piccola che si protende. Non temere questo Dio bambino, che vivrà perché tu lo amerai.
Lo nutrirai di latte, di carezze, di sogni. E lo farai felice. Ragazza pratica, concreta, Maria vuole sapere: come è possibile, non conosco uomo? Sarai umile tenda mossa solo dal vento dello Spirito. E Maria con gioia, con slancio, si butta sulle vie di Dio: eccomi, io ci sono, ci metto la mia fede, il mio corpo, il mio futuro, la mia femminilità, tutto. Oggi quell’annunciazione continua: anche intorno alla tua casa volteggiano angeli, e un Dio sempre in cerca di madri.
In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». (...)
Nel deserto della Giudea e sulle rive attorno al lago di Galilea, per Giovanni e per Gesù le parole generative sono le stesse : “convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2). Tre annunci in uno: a) esiste un regno, cieli nuovi e terra nuova, un mondo nuovo che preme per venire alla luce.. b) Un regno incamminato. I due profeti non dicono cos’è il Regno, ma dove è. Lo fanno con una parola calda di speranza “vicino”. Dio è vicino, è qui.
Seconda buona notizia: il Pellegrino eterno ha camminato molto, il suo esodo approda qui, alla radice del vivere, non ai margini della vita, si fa intimo come un pane nella bocca, una parola detta sul cuore portata dal respiro: infatti “vi battezzerà nello Spirito Santo”, vi immergerà dentro il soffio e il mare di Dio, sarete avvolti, intrisi, impregnati della vita stessa di Dio, in ogni vostra fibra. c) Convertitevi, ossia mettetela in cammino la vostra vita, non per una imposizione da fuori ma per una seduzione.
La vita non cambia per decreto-legge, ma per una bellezza almeno intravista: sulla strada che io percorro, il cielo è più vicino e più azzurro, la terra più dolce di frutti, ci sono più sorrisi e occhi con luce. Convertitevi: giratevi verso la luce, perché la luce è già qui. Infatti viene uno che è più grande di me. I due profeti usano lo stesso verbo e sempre al tempo presente: «Dio viene». Non: verrà, un giorno; oppure sta per venire, sarà qui tra poco. E ci sarebbe bastato. Semplice, diretto, sicuro: viene. Come un seme che diventa albero, come la linea mattinale della luce, che sembra minoritaria ma è vincente, piccola breccia, piccolo buco bianco che ingoia il nero della notte. Giorno per giorno, continuamente, Dio viene. Anche se non lo vedi, viene; anche se non ti accorgi di lui, è in cammino su tutte le strade.
È bello questo mondo immaginato colmo di orme di Dio. Isaia, il sognatore, annuncia che Dio non sta non solo nell’intimo, in un’esperienza soggettiva, ma si è insediato al centro della vita, come un re sul trono, al centro delle relazioni e delle connessioni tra i viventi, rete che raccoglie insieme, in armonia, il lupo e l’agnello, il leone e il bue, il bambino e il serpente, uomo e donna, arabo ed ebreo, musulmano e cristiano, bianco e nero, russo e ucraino, per il fiorire della vita in tutte le sue forme.
Dio viene. Io credo nella buona notizia di Isaia, Giovanni, Gesù. Lo credo non per un facile ottimismo. Il cristiano non è ottimista, ha speranza. L’ottimista tra due ipotesi sceglie quella più positiva o probabile. Io scelgo il Regno per un atto di fede: perché Dio si è impegnato con noi, in questa storia, ha le mani impigliate nel folto di questa vita, con un intreccio così scandaloso con la nostra carne da arrivare fino al legno di una mangiatoia e di una croce.
Due profeti, due voci narranti un Dio camminatore dei secoli, viaggiatore dell'anima, orma sulla sabbia, piede che si ferma alla tua porta (cf. Ap 3,20), fremito nel grembo di Maria (Lc 1,41), passione nella voce di Giovanni, miele nella voce di Isaia: «viene il tuo Dio». Due testimoni, che usano lo stesso verbo, al presente, semplice, diretto, sicuro: “viene”. Non probabilmente, non simbolicamente, non apparentemente, ma “veramente” Dio viene. Non parlano di un domani: “ecco, sta per venire, verrà tra poco”, e ci sarebbe bastato. Ma giorno per giorno, instancabilmente, continuamente Dio viene. L'Infinito prende corpo perché la nostra vita prenda corpo.
Come seme che diventa albero, come la linea mattinale della luce, che sembra minoritaria ma è vincente, piccola breccia che ingoia la notte. Anche se non lo vedi, anche se non ti accorgi, Dio viene, e ogni strada del mondo è Galilea. È bello immaginare il creato come un reticolo, un calpestio di orme di Dio.
Alzate il capo, guardate in alto e lontano, perché la vostra liberazione è vicina. Uomini e donne in piedi, eretti, occhi alti e liberi: così vede i discepoli il profeta Isaia, come veggenti dalla vita verticale e dallo sguardo profondo. Viene dopo di me uno più forte di me. Gesù è “il forte” perché ha il coraggio di non prendere niente e di dare tutto. Di innalzare speranze così forti che neppure la morte di croce ha potuto far appassire, anzi ha rafforzato.
È “il più forte” perché è l'unico che parla al cuore. E chiama tutti a essere “più forti”, a fare come Isaia e Giovanni: a essere voce che grida e poi sussurra al cuore che Dio viene. Ci chiama tutti a gridare, a dire con passione, quella che è la nostra passione per Cristo e per l'uomo, inscindibilmente. Il vivere appassionato è ciò che rende forte la vita. E poi ci invita a semplicemente sussurrare il vangelo al cuore della terra, testimoni della luce, rabdomanti del buono sepolto. Inizio di una notizia buona.
Il nostro è il Dio degli inizi, il Dio creativo che avvia processi, intraprende percorsi, innamorato di orizzonti e non di recinti, che ci porta a pienezza e poi a sconfinamento; un Liberatore, esperto di nascite, che viene, è qui, si è radicato, si arrampica in noi come un germoglio, «un fiore di luce nel nostro deserto» (Turoldo).
«Inizio del vangelo di Gesù», che è Gesù, la buona notizia è lui, i suoi occhi che guariscono quando accarezzano, e la sua voce che atterra i demoni tanto è forte, e che incanta i bambini tanto è dolce; il guaritore del disamore del mondo, il seduttore dietro cui ho perso il cuore, che fa ripartire la vita ogni volta si è ferma, fino a che inciampi in una stella.
Prima Domenica di Avvento Anno B
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino. (...)
Se tu squarciassi i cieli e discendessi! (Isaia 63,19). Il profeta apre l’avvento come un maestro dell’attesa: i cieli sono un grembo che sta per partorire vita più grande. Noi siamo argilla nelle tue mani. Tu sei colui che ci dà forma (Isaia 64,7). Siamo argilla che il Vasaio non butta via mai, e se questo vaso riesce male, o qualche volta si rompe, ci prende di nuovo in mano, ci mette ancora su quel suo tornio, che ruota sempre come una mistica danza di creazione.
Illogica e magnifica fiducia in noi, che siamo i vasi rotti di Dio. Fiducia che ho tante volte tradito, ogni volta rinata. Il profeta è testimone ancora una volta che è sempre possibile rinascere, è sempre possibile il passaggio da «terra ferita» a «terra guarita». La voce di Isaia grida il desiderio del cosmo: tutto nell’universo attende, attendono anche le pietre, anche il grano attende un Dio che ha sempre da nascere.
Un germe divino attende la sua risurrezione nel cuore umano (Giovanni Vannucci).Avvento è un tempo di incamminati: tutto si fa più vicino, Dio in esodo verso di noi, io che mi accodo a questa carovana di nomadi cercatori di stelle, la terra che si fa prossima e cerca pace. Pace in terra, canteranno gli angeli, affascinando la notte di Betlemme. E sappiamo, sempre più e sempre meglio, che significa far pace con madre terra, depredata, devastata, avvelenata, che però come una madre bella ci prende fra le sue braccia. L’ingresso del Vangelo di Marco in questa prima domenica d’avvento, racconta di una notte, e ne stende l’elenco faticoso delle tappe: “non sapete quando arriverà, se alla sera, a mezzanotte, al canto del gallo o al mattino”. Una sola cosa però è certa: arriverà. Ma intanto Isaia lotta, a nome nostro, contro il ritardo di Dio: «ritorna per amore dei tuoi servi!» Il padrone è partito e ha lasciato tutto in mano ai suoi servi, a ciascuno il suo compito. Una costante di molte parabole, in cui Gesù racconta il volto di un Dio che si fida, mette il mondo nelle nostre mani, affida le sue creature all’intelligenza fedele e alla combattiva tenerezza dell’uomo.
Un rischio grande preme su di noi. Un poeta lo esprime così: «io vivere vorrei/ addormentato/ entro il dolce rumore della vita» (Sandro Penna). La tentazione è di non vivere, ma solo di sopravvivere, in un ottundimento dei sensi, una sedazione dei desideri, per troppa sazietà. Il nostro mondo vive una triplice crisi, della fiducia, del futuro e del generare. Ma proprio qui e ora Avvento viene a ricordare che nascerà un figlio, che il futuro è assicurato, che il cielo non è chiuso sopra di noi, ma si apre. Dio prende corpo, affinché la nostra speranza prenda corpo; si fida di questa terra ferita perché diventi terra incinta di Dio.
RE DEGLI ABBRACCI
Uno di fronte all’altro: Pilato, potere di vita e di morte, e un detenuto, l’anello più debole della catena.
Un dialogo serrato e straordinario, tra i due.
Sei tu il re dei giudei? Possibile che quel galileo dallo sguardo limpido e diritto sia a capo di una rivolta, di una guerra, sia un pericolo per Roma?
Gesù risponde ribaltando i ruoli, ed è l’imputato che interroga il giudice: sei tu che me lo stai chiedendo, oppure sei istruito da qualcuno?
Pilato si risente: Sono forse io un giudeo come te? I tuoi ti hanno consegnato, sono loro che vogliono ucciderti.
Gesù ha una statura interiore che scuote. Parla e si alza sul pretorio un vento regale di libertà. Risponde aprendo un’altra dimensione del cuore: c’è un altro mondo, un altro senso delle cose, il mio regno non c’entra con il tuo.
Nel mio non ci sono regole di morte, né legioni, né spade, né predatori come nel tuo. Nel mio mondo la cosa più importante è servire e donare. L’amore è re. Unica forma di regalità.
Dove i poveri sono il grembo del futuro, i re di domani. Dove la storia appartiene ai buoni e la terra ai limpidi, ai liberi, ai piccoli, ai non violenti, agli affamati di giustizia.
Oggi, Cristo Re, non celebriamo la salita al trono del padrone del mondo. Gesù non è il re che cammina sulle ali dei venti o sradica i cedri del Libano. La sua regalità sta in un abbraccio che ti fa ritornare intero, dove puoi rinascere e ripartire. E il tuo cuore è a casa solo accanto al suo.
Non un re potente che controlla tutto, ma l’amante che tutto abbraccia. E nessuno cade così lontano da non poter essere raggiunto.
E mi nascono domande: quali sono le parole regali della mia vita? Quelle che danno ordini al mio futuro? Che mi fanno camminare? Che mi fanno capire cosa è vita e cosa no?
Io scelgo ancora lui, il Nazareno. Ho tanto cercato, ma di meglio non ho trovato. È il Dio vicino, è qui, “god domestic” (Giuliana di Norwich) di casa, di gesti, di pane; abbraccio che scioglie i nodi e unisce i pezzi, legame che non si spezza.
Pilato prende l’affermazione di Gesù: io sono re, e ne fa il titolo della condanna, l’iscrizione derisoria da inchiodare sulla croce: questo è il re dei giudei.
Voleva deriderlo, e invece è stato profeta, il profeta Pilato: il re è visibile là, sulla croce, mentre con le braccia aperte ci dona tutto di sé e non prende niente di nostro; non chiede la vita di nessuno, offre la sua.
Venga il tuo Regno, Signore, e sia più bello di tutti i sogni di chi visse e morì nella notte per affrettarlo.
Non può essere banale la vita di chi ogni giorno mormora:
venga il tuo Regno.
E allora: non temere, è già iniziato, e alla fine, vedrai, sarà Lui stesso a varcare l’abisso.

