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Nel quadro delle manifestazioni legate al “Maggio dei libri della Provincia di Messina “Lelio Finocchiaro presenterà una delle sue ultime pubblicazioni, dal titolo “Ashkenazi “.

L’incontro avverrà Lunedì 16 Maggio alle ore 16,30, presso la sala degli specchi del palazzo della Provincia ( Palazzo dei Leoni).

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Lipari, arriva all'Edicola "Belletti" l'audiolibro dello storico Lelio Finocchiaro "The New Beginning Il nuovo inizio"

LE VESTALI

Tutti conosciamo la leggenda di Prometeo che rubò il fuoco agli Dei e che per punizione fu incatenato in una montagna ai confini del mondo dove un' aquila gli mangiava il fegato che ,per altro, continuamente ricresceva.

Si capisce dunque l'importanza data al fuoco, che per gli antichi si identificava con la vita, e che non doveva mai spegnersi.

Secondo la mitologia, Saturno e Opi ebbero diversi figli, tra cui Cerere, Giunone, Plutone, Nettuno e Giove che a loro volta poterono godere di una numerosa figliolanza, mentre Vesta, al contrario, aveva in disgusto il doversi accasare e preferì rimanere vergine.

Nulla di strano quindi, se dovendo ispirarsi ad una idea di purezza e di verginità gli antichi si ispirassero a lei e sempre a lei costruissero templi e dedicassero riti.

Il culto della dea era presente nella mitologia greca, dove pare che avesse il nome di Estia, , divinità del focolare domestico successivamente introdotta da Enea nella città di Alba longa, da cui Numa Pompilio, secondo re di Roma, la trasferì nell'Urbe (Rea Silvia, madre di Romolo e Remo, era una vestale albana) .

La Dea Vesta simboleggiava colei che custodiva il fuoco sacro, inteso come valore salvifico della terra.

Lo stesso tempio della Dea, detto Tempio del Focolare, aveva forma rotonda come la Terra (“se non fosse rotondo vi sarebbero parti più vicine ad alcune piuttosto che ad altre”).

Le Vestali ,inoltre,che abitavano il cosiddetto “Atrium Vestae”,probabilmente il più antico palazzo in assoluto di tutta Roma ancora visibile nel Foro romano ,custodivano anche i Penati ed il Palladio, che consisteva in una statuetta che si diceva fosse stata portata da Enea nella sua fuga da Troia e che raffigurava la dea Atena.

Nel tempio era custodito il fuoco che non doveva mai spegnersi, pena la disgrazia per tutta la città, ed occorreva che qualcuno lo sorvegliasse continuamente.

Questo ruolo fu affidato ad alcune giovani fanciulle (in origine tre poi aumentate a sei) che dovevano assumersi enormi responsabilità anche se accompagnate da particolari onori.

Le Vestali erano scelte ancora bambine e dovevano ricoprire l'alto ruolo per ben trenta anni, solo alla fine dei quali erano libere di sposarsi.

Nel frattempo però, dovevano badare a che il fuoco non si spegnesse mai e officiare alcuni riti come quello di preparare la “mola salsa”, specie di focaccia utilizzata una volta l'anno in occasione del rinnovamento del fuoco ogni primo marzo. Il termine “immolare” sembra derivare dall'uso della mola salsa sugli animali che venivano sacrificati in tale occasione.

Molti erano gli onori di cui godevano le Vestali, come quello di essere mantenute dallo Stato, potere stilare testamento contrariamente alle altre donne romane, erano liberate dalla patria potestà, ed erano dispensate dal giuramento in caso di testimonianza. Avevano la facoltà di fare condonare la pena di morte a quei condannati che avessero incontrato nel loro cammino. Persino i consoli si facevano da parte al loro passaggio.

A fronte di questi privilegi, però, c'erano due motivi per cui potevano incorrere nella pena della morte. Oltre a non fare estinguere il sacro fuoco, infatti, dovevano impegnarsi, tassativamente, a restare vergini per tutto il tempo in cui svolgevano la loro funzione.

Da dire che essendo considerate quasi dee, nessuno poteva permettersi di infliggere loro il supplizio mortale, per cui, in caso si dovesse procedere all'eventuale punizione, la vestale veniva sepolta viva.

Anche eventuali amanti venivano messi a morte, ma questa volta tramite l'uso della frusta.

Il 9 giugno venivano celebrate le Vestalia, le feste di Vesta, e le strade si riempivano di asini, animale caro alla Dea , adorni di collane di pane. Si portavano doni al tempio e si pregava che il pane fosse sempre abbondante per tutti i cittadini.

Inevitabilmente, con l'avvento del cristianesimo, i riti pagani andarono via via scomparendo, e si deve a Teodosio il decreto che nel 391 d. C. ne proibì ogni ulteriore pratica.

E così il fuoco sacro venne definitivamente spento.

Si tramanda ancora il nome dell'ultima vestale che, nel 384 d.C. Aveva nome Celia Concordia.

 

LA DIABOLICA MANDRAGORA

E' stato nel Medioevo che la magia ha conosciuto il suo punto di accettazione più alto . Non che adesso sia scomparsa del tutto , e spesso se ne fa uso per cercare come un tempo, facili soluzioni apparentemente non risolvibili per altra vie, o magari per lanciare maledizioni.

Quando le preghiere o la scienza (a quei tempi ancora ai primi passi) non riuscivano a fornire i risultati sperati, veniva pressocchè naturale rivolgersi all'occulto e a quella pletora di imbonitori e pseudo-maghi che prosperavano facilmente su ignoranza e superstizione.

Si può dire che per lunghi spazi di tempo la magia, (che per altro è da tenere separata dai processi alchemici che, pur affidandosi a prospettive magiche, come la ricerca della pietra filosofale, crearono la base di vere e proprie materie scientifiche) , in realtà è stata un vero e proprio lucroso affare.

Stregoni e fattucchiere promettevano, naturalmente dietro compenso, di risolvere problemi d'amore, di guarire dalle malattie, di propiziare avvenimenti e fortune favorevoli.

Un vero business, insomma. Di cui disponevano volentieri anche principi e imperatori.

Ogni cosa in quei giorni per il resto affascinanti, trovava di conseguenza una collocazione magica, associando ogni elemento ,sia minerale, o pianta o animale, ad un simbolo e ad una proprietà particolare , che ne rendeva l'uso indispensabile da parte di chi avesse saputo adoperarli nel modo opportuno.

Bastava un colore , un odore, una forma , perchè venissero attribuiti specifici poteri , e i romanzi dell'epoca sono pieni di intrugli a base delle sostanze più disparate.

Fino al 1542, quando fu emanata una legge contro la stregoneria, la magia era in fondo tollerata anche dalla Chiesa che non la approvava ma non la combatteva.

Era giudicata immorale e si praticava di nascosto, un po' come si fece in seguito con la droga.

Molto curiosa, fra le piante, è la storia della Mandragora (o Mandragola).

In particolare la radice della pianta (molto simile a quella degli spinaci) divisa in due lobi a simulare una figura antropomorfa maschile o femminile, spesso di un bimbo, ha ispirato collegamenti con l'occulto e con il demonio stesso contribuendo a configurare facili immagini di stregonerie varie ed è sempre stata la componente inevitabile di filtri e pozioni.

Si pensi che si accompagnava ad una leggenda che affermava che fosse generata dall'urina e dallo sperma degli impiccati in punto di morte. Inoltre non se ne consigliava la raccolta perchè al momento della stessa la pianta avrebbe emesso un urlo di dolore mortale per chiunque fosse stato vicino.

Machiavelli nella sua commedia “La Mandragola” nel 1518, racconta come si dovesse ricorrere ad un trucco per raccogliere la pianta. Occorreva legarla alla coda di un cane ed allontanarsi. Il povero animale, tirandosi dietro il pericoloso vegetale, sarebbe divenuto la sua unica vittima consentendo al mago di intervenire a cose fatte per impadronirsi dell'agognata pianta.

Da dire che vi sono teorie moderne che sostengono come le piante, in determinate condizioni, emettano dei suoni percepibili dall'orecchio sensibile di alcuni insetti o di altre piante.

In ogni caso alla mandragora , studiata persino da Ippocrate ,vennero attribuite proprietà allucinogene, afrodisiache e medicinali e veniva usata anche per combattere la sterilità, (perfino la Bibbia la raccomandava in caso di difficoltà nello restare incinta).

I principali componenti, in effetti, sono alcaloidi come l'atropina, la scopolamina e la josciamina,

tutte sostanze altamente tossiche se non dosate opportunamente.

La mandragora era considerata come un qualcosa che si poneva tra il regno animale e quello vegetale, come analogamente era noto “ l'agnello vegetale della Tartaria”, e del resto un unguento a base di mandragora si diceva che potesse favorire la trasformazione in animali e addirittura in licantropi. Per la loro particolare forma le radici di mandragora venivano spesso usate nella stregoneria al posto delle bambole di cera.

I dottori dell'importante scuola medica di Montpellier sostenevano che per ottenere un ottimo anestetico bisognasse preparare un liquido a base di oppio, mandragora e giusquiamo in dosi uguali, e che bastasse applicarlo sulla fronte del paziente per poterlo operare tranquillamente

L'uso della mandragora non è ,del resto,rimasto confinato al Medioevo , ed anche al giorno d'oggi riceve nuovi attestati di magia ( o stregoneria), come ad esempio nei riti di moderne sette religiose tipo la neo-pagana Wicca.

 

Gli acquedotti romani

Le nostre librerie sono piene di volumi che narrano le gloriose imprese degli antichi romani, ed anche i musei traboccano di statue che rappresentano i loro più celebrati eroi.

Spesso, però, si trascura di ricordare opere grandiose che hanno sfidato il passare dei secoli e che sono ancora lì a mostrare la sapienza dell'ingegneria e del genio romano.

E in molti casi si tratta di realizzazioni tutt'ora funzionanti, manifestazioni ciclopiche che per la loro utilità e per il valore civile del loro impiego, non hanno nulla da invidiare ad altre costruzioni imponenti come, a detta di molti, le stesse piramidi egiziane, sicuramente belle ma di nessuna pubblica utilità, essendo funzionali solo all'ambizione e alla vanità del solo faraone.

L'antica Roma poteva disporre di una quantità di acqua assolutamente enorme.

Da sempre l'acqua e' stata una necessità di qualunque città, e per questo il luogo dove edificarla era di solito posto lungo il mare, i fiumi, i laghi. Ma Roma era una città particolare, aveva bisogni particolari e rappresentava una civiltà particolare. Decise che ogni romano dovesse avere l'acqua direttamente nella propria casa. E non solo, che dovesse godere di bagni termali, fontane e piscine e giardini . E che potesse svolgere le sue “naumachie” (simulazione di battaglie navali in luoghi che venivano appositamente allagati). Roma non aveva abbastanza acqua? I romani decisero di portargliela.

Nel giro di circa 5 secoli vennero costruiti ben undici acquedotti che rifornirono del prezioso elemento la capitale del mondo. Ogni acquedotto veniva semplicemente chiamato “aqua”, e per distinguerli l'uno dall'altro si usava il nome di colui che aveva presieduto alla sua costruzione, così si ebbero L'Aqua Marcia, l'Aqua Giulia, l'Aqua Appia e così via.

Il primo acquedotto , sotterraneo, ad essere costruito fu quest'ultimo, nel 312 a.C. ,e percorreva 16 Km., mentre il più lungo, l'Anio Novus, misurava ben 87Km.

Si calcola che la portata degli undici acquedotti superava abbondantemente la quantità consumata giornalmente dai cittadini romani di oggi, e che un romano di allora, e si parla di quando la città ospitava fino ad un milione di cittadini, potesse, volendo, disporre di più di 1000 litri di acqua al dì.

Ma come funzionavano gli antichi acquedotti, non potendo disporre di motori elettrici né di comode pompe di sollevamento?

Semplice. Si sfruttava la forza di gravità. Si sceglievano fonti abbondanti e poste in località alte, e l'acqua per la forza di caduta veniva convogliata sino all'Urbe , con le opportune diramazioni.

Tutto il tracciato degli acquedotti era in leggera pendenza. L'acqua era controllata e doveva rispondere a precisi requisiti di purezza, colore e trasparenza, e passava attraverso vasche di decantazione per fare depositare particelle di fango o limo (piscine limariae). Veniva addirittura conservata per qualche tempo in contenitori bronzei per osservare eventuali fenomeni di corrosione.

In linea di massima gli acquedotti correvano sottoterra, forando colline e rocce, ma a volte , quando le condizioni del terreno lo imponevano, proseguivano in superficie, a livello del terreno o in grandi sopraelevazioni che giungevano quasi a toccare i 30 mt. E di cui sono attualmente visibili ancora le maestose arcate.

Le condutture sotterranee erano provviste di quelli che ora sono chiamati “pozzetti d'ispezione”, disposti a distanza regolare.

La cura della rete idrica era affidata al responsabile delle opere pubbliche (chiamato Censor). Augusto, in epoca imperiale, la affidò a tre senatori, il più importante dei quali prendeva il nome di “Curator aquarum”, che gestiva tutta una serie di tecnici e ingegneri, nonché quasi mille schiavi, addetti alla manutenzione quotidiana. Erano previste pesanti pene per chi, casualmente o intenzionalmente, arrecava danno alle condutture o ne inquinava il prezioso liquido.

Pensate che i tubi, di piombo, erano marchiati dal costruttore che ne garantiva la qualità (e per controllare eventuali frodi).

Fra l'altro era tutto gratis. Era lo stato a pagare sia per la costruzione degli acquedotti che per la loro manutenzione. I romani avevano “diritto” di accesso libero all'acqua.

Non vi sono in nessuna parte del mondo di allora (e forse nemmeno adesso) esempi di tale civile comportamento. Tra l'altro i romani portavano con sé le loro abitudini e di “acquedotti romani” se ne possono trovare in Spagna, in Francia, e pure in Africa.

Se qualcuno, poi, si dovesse mai chiedere come siano oggi alimentate la Fontana di Trevi o la Fontana dei quattro fiumi a Piazza Navona ebbene, sappia che sono tutt'ora rifornite da uno di quegli undici acquedotti che da secoli non ha smesso mai di lavorare un attimo: l'Acquedotto Vergine.

CARNEVALE

La festa del Carnevale è attesa ogni anno da tutti, adulti e bambini. Rappresenta un momento di gioia e di scherzo, un giorno in cui dimenticare ogni preoccupazione e dedicarsi al gioco e al travestimento.

E' una festa che si trova a pieno titolo all'interno delle tradizioni cristiane, e la sua data variabile è legata a quella della Pasqua, ma sarebbe un errore pensare che abbia avuto inizio con il Cristianesimo.

Il Carnevale tocca il suo apice nei giorni di Giovedì grasso e di Martedì grasso, che cade alla vigilia del Mercoledì delle Ceneri, quando ha inizio la Quaresima.

Lo stesso nome ,Carnevale, secondo l'interpretazione più accreditata, pare che venga dal latino e che voglia dire “Carnem levare”- eliminare la carne- con riferimento all'ultimo banchetto possibile prima del digiuno quaresimale.

I caratteri che contraddistinguono il Carnevale e che si sono tramandati nel tempo, risalgono in verità a festività molto antiche.

Già nell'antico Egitto era comune un antico rituale dedicato alla dea Iside e chiamato dai Romani “Navigium Isidis” (la nave di Iside) che altro non era che una festa in maschera che celebrava l'accoppiamento sacro della Dea con il suo sposo Osiride.

Iside era molto apprezzata nel mondo romano e le festività a lei dedicate seguivano cerimonie del culto egiziano, comprese quelle a carattere sessuale che inglobavano quelle della prostituzione sacra. La più famosa di queste, “ i Lupercali”, si celebrava a febbraio, quando giovani nudi rincorrevano donne svestite colpendole con fruste di pelle di capra (augurio di fertilità) .

Con l'avvento del Cristianesimo e dei suoi divieti, il Navigium Isidis venne sostituito, con un processo di sincretizzazione, con la Pasqua cattolica, festeggiando così non più la resurrezione di Osiride per mano di Iside, ma la resurrezione di Gesù, mentre il Carrus navalis (la processione delle maschere) prese il posto dello stesso Navigium.

Il concetto carnascialesco si rifà comunque anche a festività greche (le antesterie dionisiache) o romane (i Saturnalia).

Quello che si intendeva rappresentare in quei giorni era la fine di un anno e l'inizio di un altro, simboleggiato da un temporaneo ritorno al caos e alla confusione da cui si poteva rinascere rigenerandosi e dando inizio ad un nuovo ciclo vitale.

In quei giorni tutto veniva sovvertito, e gli ordini sociali e gli schemi costituiti lasciavano il posto alla scambio, allo scherzo, allo scherno e anche alla dissolutezza (semel in anno licet insanire).

Un simbolo di rinnovamento, dunque, durante il quale era lecito impersonare qualcosa di diverso, quando l'uomo poteva abbigliarsi da donna, lo schiavo atteggiarsi a padrone, e ci si poteva dimenticare delle regole comportandosi da folli. La fine del Carnevale, poi, che molte tradizioni rappresentavano come un vero e proprio “funerale” con un fantoccio che veniva decapitato in pubblico, rappresentava l'apice della festa dopo il quale si tornava alla vita normale, per la durata di tutto l' anno successivo.

La maschera diviene di conseguenza il fulcro attorno a cui ruota tutta la festività.

Ci si nasconde dietro di essa e ci si mostra come si vorrebbe essere, in una imitazione continua di cose e uomini, e perfino di Dei. Questo nel II sec. d.C. lo attestava compiutamente già Lucio Apuleio nelle sue “Metamorfosi” (conosciute anche col titolo di “L'Asino d'oro”).

Il Carnevale ebbe , nell'antichità , anche interpretazioni più profonde. A Babilonia (il cui regno durò dal XIX al IV se. a. C.) quello che adesso chiamiamo Carnevale rappresentava la lotta tra il caos e la resurrezione cosmica, impersonata dal dio Marduk in lotta contro il drago Tiamat ( l'ostacolo alla rinascita), che alla fine vedeva sempre il primo sconfiggere il secondo, e così ogni volta veniva attualizzata la rifondazione dell'universo originario (cosmogonia).

Le cerimonie carnascialesche, in uso anche, ma non solo, in svariati paesi indoeuropei, mesopotamici e altri ancora, erano in definitiva un rito di purificazione, che permetteva di esaltare il disordine in cui l'uomo piombava ciclicamente, e da cui poteva uscirne solo dimenticando e cancellando il tempo trascorso. E questo si poteva ottenere solo attraverso una sconfessione dell'ordine costituito, con una immersione totale nella confusione dei ruoli e delle forme (maschere). Una rappresentazione precisa del “Caos” (si giustificavano anche le orge, in quanto negazione di forme organizzate) dal quale procedere per un nuovo inizio.

I popoli mesopotamici giungevano a deporre e dileggiare perfino il Re.

Simbolicamente la sospensione di tutti i divieti e di tutte le norme raffigurava la dissoluzione del mondo che in un ciclo dinamico comportava la circolazione degli spiriti tra cielo, terra ed inferi.

Il periodo particolare, posto quasi all'inizio della primavera, può essere considerato come una porta aperta tra la terra che manifesta la propria energia ed il mondo delle anime a cui le maschere sembrano conferire un vero corpo.

Anche in Giappone le maschere incarnano le anime degli antenati che tornano a far visita ai vivi.

Un argomento così affascinante non poteva lasciare indifferenti poeti ed artisti.

Giusto per nominarne qualcuno, il pittore olandese Bruegel il Vecchio dipinse una famosa “Lotta tra Carnevale e Quaresima”, e non si può dimenticare “Il trionfo di Bacco e Arianna” di Lorenzo il Magnifico.

Oggi il Carnevale ha perduto i significati allegorici che aveva una volta, sostituiti con altri che al centro mettono cose più terrene, come la satira politica e l'imitazione di personaggi dello spettacolo.

Quello che conta, adesso, è la ricerca del puro divertimento, di qualche giorno di evasione dalla noia quotidiana, riuscendo per altro ad ottenere, in diversi casi, dei risultati scenografici di tutto rilievo, con l'impiego di notevoli risorse per l'organizzazione di processioni, sfilate di carri, manifestazioni popolari di musica e danze ,a cui non manca mai la presenza di un numeroso e variegato pubblico di adulti e bambini desiderosi di allegria e di folla chiassosa.

Alcune città hanno legato profondamente il loro nome al Carnevale, riuscendo ad attirare gente da tutte le parti del mondo. Così è, ad esempio, per il Carnevale di Rio de Janeiro.

Ma l'Italia non è seconda a nessuno, con famose attrazioni costituite dal Carnevale di Venezia, quello di Viareggio e quello di Acireale.

MECENATISMO E NEPOTISMO RINASCIMENTALE

Alla fine del Medioevo, nel XV sec. , il tramonto del feudalesimo favorì il passaggio culturale

e artistico nel Rinascimento, che ebbe a durare sino al XVI sec. e che nella sua fase iniziale prese il nome di Umanesimo, caratterizzato dal ritorno allo studio dei classici greco-romani e dal fatto che poneva l'idea di uomo al centro dei propri interessi.

Non è che si intendesse negare l'appartenenza alla cristianità, ma si esprimeva la volontà di cambiare e riformare la Chiesa per liberarla dai mali terreni che la corrompevano. In primo luogo si cercava di scuoterla dalla invadente corruzione del clero e poi darle una visione della vita religiosa capace di disfarsi della ormai eccessiva bigotteria che la caratterizzava.

Ci provò Silvio Piccolomini, eletto papa con nome di Pio II nel 1458, che introdusse riforme che limitavano il potere conciliare riportandolo sotto l'autorità papale, e contrastando il potere dei signorotti locali, iniziando a delineare la figura che sarà ricordata come quella del “papa re”.

Contemporaneamente cercò di reprimere le voglie innovatrici facendo uso del tribunale dell'Inquisizione.

La Roma papale di quel tempo si appropriò del titolo di “città mecenate per eccellenza” dopo averlo conteso ad altre come la Firenze dei Medici , la Milano dei Visconti e la Mantova dei Gonzaga .

Siamo all'indomani del ritorno dei papi a Roma dopo l'esilio di Avignone, e lì furono chiamati ad operare artisti come Michelangelo, Botticelli, il Beato Angelico, Bramante, Bernini ,tanto per nominarne alcuni.

Determinante fu l'atteggiamento verso l'arte e il desiderio di abbellimento della città.

Mirabile, sotto questo aspetto, fu papa Sisto V, che promosse la costruzione di Chiese e ponti. Si deve a lui anche la costruzione della Cappelle Sistina.

Questa azione di mecenatismo sotto la cui ala trovarono rifugio i migliori pittori , architetti e pittori dell'epoca, portò alla cosiddetta monumentalizzazione di Roma, creando molte delle opere che ammiriamo tutt'ora e che la rendono una città unica al mondo.

Parallelamente a quest'azione di finanziamento, protezione e sviluppo delle arti, tendente anche a mostrare in maniera evidente la potenza e la forza del Papato, purtroppo i papi si portarono dietro una serie di mali antichi che anziché diminuire si ampliarono enormemente in un delirio di potenza e di interessi personali che nulla avevano a che spartire con la missione apostolica del pontefice.

I cittadini andavano manifestando sempre più il loro dissenso e la loro insofferenza verso alcuni aspetti della vita pontificia che avevano raggiunto livelli non più sostenibili. Lo scontento riguardava l'uso della simonia, vale a dire la vendita delle cariche ecclesiastiche, cosa che era riuscita a condizionare perfino l'elezione di alcuni papi, e l'alto livello di corruzione che dominava in Vaticano, mentre cresceva ogni giorno di più lo sdegno verso la pratica del concubinato che , più che una eccezione, era ormai divenuta una regola.

Si potrebbe fare una lista dei papi abituati ad intrattenere rapporti carnali con una o più donne, a partire da Sergio III e continuando con Innocenzo VIII, Sisto IV, Alessandro VI e Giulio II.

Ma il problema non era solo quello. Inevitabilmente da queste relazioni finiva per derivare una nutrita schiera di figli e nipoti che godevano sfacciatamente di una protezione papale che garantiva loro ricchezza e carriera ecclesiastica sino ai più alti gradi.

Sono noti molti esempi di questa pratica nepotistica, con alcuni episodi che lasciano sconcertati ancora oggi. Sisto IV nominò direttore della prestigiosa biblioteca vaticana un suo nipote che aveva pubblicato solo un testo di gastronomia. Sisto V riuscì a fare nominare cardinali ben sei nipoti, uno dei quali divenne papa (Giulio II). Alessandro VI (il famigerato papa Borgia), ebbe ben otto figli prima di essere eletto papa, e ne ebbe tre dopo (Cesare, Lucrezia e Giovanni, anche se alcuni sostengono ne avesse un quarto di nome Goffredo), riuscendo a legare la sua memoria alla passione per le donne, al denaro , al lusso sfrenato e al libertinaggio.

Di una tale situazione pagò le conseguenze chiunque si opponesse all'operato papale, e ne seppe qualcosa il frate Girolamo Savonarola che per avere addossato,durante le sue prediche, proprio a papa Alessandro VI la responsabilità per l'evidente involuzione spirituale della Chiesa, venne dapprima accusato di eresia, poi scomunicato e quindi processato e condannato al rogo , mentre le sue opere furono inserite nella lista di libri proibiti.

In definitiva il Papato durante il periodo Rinascimentale riuscì ad ottenere due risultati estremamente importanti ma del tutto contrapposti. Da un lato, infatti, irrobustì il suo potere temporale, alimentando e proteggendo tutti quegli aspetti artistici del tempo che hanno dato vita ad opere che sono ancora lì a testimoniare una grandezza indimenticabile .

Dall'altro, però , riuscì a oscurare del tutto quella grandezza spirituale che avrebbe dovuto essere la sua prima missione e la sua prima preoccupazione.

 

TORTURA

L'uomo è uno strano animale. E' capace di grandi bontà e di stupefacenti eroismi, e nel contempo essere protagonista di incredibili abissi di malvagità.

Oggi viviamo un periodo della nostra storia che ci illudiamo ci metta al riparo dal male più di quanto non accadesse in passato. Leggere giornali e guardare la TV ci dà l'illusione di essere al corrente e di sapere quello che accade. Niente di più falso. Certe abitudini sono lente a scomparire, ed in quanto all'informazione, beh... dobbiamo rassegnarci ad essere in qualche modo manipolati.

Da secoli l'uomo predica il bene e in quanto al male,si ostina a trovare giustificazioni e pretesti per continuare a farlo.

Tutti sappiamo dell'uso che si continua a fare della tortura per perseguire i propri scopi, ma questo è uno di quegli argomenti da cui preferiamo distogliere lo sguardo, per sentirci in pace con la nostra coscienza, semplicemente facendo finta di niente.

La tortura esiste da sempre ed è stata praticata sia dai Governi come dalle Chiese, trovando sempre la stessa giustificazione : la sicurezza superiore dello Stato e l'intoccabilità religiosa.

Le torture più lunghe e crudeli sono sempre state riservate agli oppositori politici o religiosi, essendo primario interesse dei dominanti quello di difendere il proprio potere .

Ma il fatto è che al di là della necessità di ottenere preziose informazioni o impedire crimini di varia natura, nel tempo si è creata una vera e propria “scienza della tortura”, codificando sistemi sempre più vessatori, inventando macchine costruite al solo scopo di creare dolore, utilizzando abbiette umiliazioni per piegare i corpi e la mente delle malcapitate vittime.

La tortura fa la sua apparizione ben 2000 anni prima di Cristo , nell'antico Egitto. Si trattava per lo più di frustate o bastonate. Metodi infantili , diremmo oggi, alla luce di quanto è successo dopo.

I romani la applicavano solo agli schiavi o agli stranieri, mentre nel mondo greco veniva applicata per lo più come strumento punitivo. Nel diritto romano la confessione era necessaria per emettere una condanna, e quindi divenne uno strumento perfettamente legale. La crocifissione (“cruciare” significa tormentare) prolungava nel dolore una morte certa, e Costantino il grande usava spesso l'impalatura o il versare piombo fuso in gola.

E' curioso come proprio quelli che sono passati alla storia come “Barbari”, non facessero uso di torture. Adottavano infatti il sistema delle “ordalie”, e bastava ad esempio immergere un braccio nell'acqua bollente, e tenercelo, per dimostrare la propria innocenza.

Venne inventata una nuova professione riconosciuta : quella del carnefice o boia, resa necessaria dalla riscoperta del diritto romano alla fine del XII sec.

Svariati erano i metodi di tortura: come l'uso di tenaglie roventi, la ruota per “allungare” le vittime, il disarticolare gli arti, il costringere a ingurgitare decine di litri d'acqua, la famosa pera usata per dilatare le mandibole, e altre numerose piacevolezze del genere.

Perfino la Chiesa, normalmente restia ad adottare cambiamenti, non volle restare indietro in questa folle corsa, e con Innocenzo IV nel 1252 adottò ufficialmente l'uso della tortura nei processi, per ottenere in qualunque modo quella confessione (autodafè) ritenuta indispensabile per emettere la condanna. Addirittura fece scrivere un manuale per il perfetto inquisitore, “il Malleus Maleficarum” (il Martello delle streghe), dove si descrivono accuratamente i supplizi da infliggere. Il bello è che non volendo spargimenti di sangue, ci si limitava, per così dire, a cose come la rottura delle ossa una per una e allo schiacciamento delle dita.

Chi non confessava rischiava il rogo, che eliminava la possibilità della rinascita al momento del Giudizio Universale, ( come accadde a Giordano Bruno), mentre chi abiurava, come Galileo Galilei, poteva essere relegato alla dimora coatta a vita. C'è da dire che le stesse carceri, in quei tempi, non avevano alcuna funzione riabilitativa, ma solo punitiva (così ebbe a morire Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro, nel Castello di S. Leo). Nel Rinascimento, poi, era in voga la battitura delle piante dei piedi. I processi contro le streghe avevano un andamento singolare. Bastava l'accusa per l'esecuzione, e sia che le imputate confessassero o meno, la conclusione non cambiava. Interessante il fatto che le spese del boia erano a carico della famiglia dell'accusato mentre i beni venivano spartiti tra chiesa e potere secolare.

La cosa sconvolgente è che al di là del perseguire lo scopo preciso della confessione, nel tempo si è sviluppata una vera e propria ricerca del modo migliore per arrecare sofferenza, inventando continuamente tecniche nuove e sempre più raffinate, quasi che , in realtà , il fine ultimo fosse quello , più che altro, di arrecare compiacimento al sadismo del torturatore. Ingegnosi restano i metodi di tortura dei saraceni contro i cristiani nel 600, giungendo a fare a pezzi i prigionieri dopo averli legati a due navi diverse , o più semplicemente facendoli squartare da cavalli. Si arrivò a non distinguere più il confine tra l'esigenza di incutere timore ai cittadini perchè non incorressero negli stessi reati, e lo spettacolo delle esecuzioni offerto al popolo che, con curiosità morbosa, accorreva sempre numeroso. Così da macchine ingegnose come “la Vergine di Norimberga”, si arriva gradatamente ai giorni nostri a forme di tortura non ufficiali come quelle che prevedono l'uso dell'elettricità (ampiamente usata nei campi nazisti) fino alle tecniche tendenti a provocare il completo asservimento psichico e mentale, come pare che accada nei campi di Abu Grahib in Iraq e a Guantanamo. (Il concetto del Malleus è stato, in verità, ripreso più volte e nel 1963 gli Usa approntarono il manuale Kubark , sul principio delle 3D -dependence , debility, dread- cioè dipendenza, debilitazione, terrore).

Sono descritti anche altri tipi di torture, comunemente chiamate perversioni, e il termine sadismo deriva dall'uso che della tortura fece il marchese De Sade, che dalla stessa traeva piacere sessuale, ma esiste anche il caso inverso, chiamato masochismo, in cui il piacere deriverebbe dal subirla.

La tortura, del resto ,può anche fare parte di rituali religiosi, come era in uso tra gli aztechi, mentre durante l'Inquisizione costituiva una forma di punizione in qualche modo giustificata perchè ispirata e permessa da Dio.

In ogni caso l'elenco delle torture applicate nei secoli potrebbe tranquillamente riempire decine di volumi, e non bastare ancora. E questo nonostante nel 1764 un illuminato Cesare Beccaria avesse stigmatizzato la tortura come strumento inutilmente crudele perche', sosteneva, “se la colpa è certa , è pratica superflua, se invece non è certa, non si può correre il rischio di torturare un innocente”.

I NIBELUNGHI

Ogni paese conserva le proprie tradizioni anche attraverso opere che narrano le storie più antiche che costituiscono l'attestazione più vera della propria identità.

Per la stirpe germanica, il più famoso poema epico è senz'altro il “Nibelungenlied”, letteralmente il “canto del Nibelunghi”, denominazione che, in qualche modo, riecheggia la “Chanson de geste” francese.

L'opera, che con tutta probabilità è risalente al 1200 e il cui autore si pensa possa essere un austriaco di cui si è perduto il nome, racconta di vicende e personaggi antichi e anche di epoche e paesi diversi, rielaborati e fusi insieme. Vi si trova Attila il re degli Unni e Teodorico re degli Ostrogoti, ma anche Pilgrim, il vescovo della città di Passau vissuto intorno all'anno mille.

Il protagonista della vicenda è l'eroe Sigfrido, che risveglia dal sonno la splendida Crimilde giurandole eterno amore (come nella fiaba della bella addormentata) , e solo in un punto del corpo è vulnerabile, là dove, per colpa di una foglia di tiglio, il sangue di un drago ucciso (che rappresenta il male) non ha potuto bagnarlo ( similmente alla punta del tallone di Achille).Tra l'altro l'uccisione del drago gli permette di capire il linguaggio degli uccelli, inteso come simbolo di elevazione ( come del resto nella storia cristiana accade a San Francesco).

Tutta la storia dei Nibelunghi si svolge all'insegna di lotte e di amori, di vendette e di magie.

I nibelunghi rappresentano una sorta di creature demoniache che riescono a entrare in possesso di un grande e misterioso tesoro per merito di Sigfrido -re del Neiderland (l'odierna Olanda)- che lo strappa ai nani insieme ad un cappuccio magico che dona il potere dell'invisibilità.

La storia narra del grande amore tra l'eroe Sigfrido e Crimilde la sorella del re dei Burgundi.

C'è da notare che il nome Nibelunghi, nella mitologia germanica, lascia via via il posto a quello dei Burgundi, ed i due termini, alla fine, finiscono con il sovrapporsi quando Sigfrido diviene re degli stessi Burgundi.

Naturalmente oltre l'amore c'è la lealtà verso il proprio re, il tradimento di Hagen che , strappato con l'inganno a Crimilde il segreto di Sigfrido, riesce a ucciderlo durante una battuta di caccia ,e il desiderio di vendetta della sinistra Brunilde moglie del re che scopre di essere stata ingannata dallo stesso Sigfrido, nonché tutta una serie di duelli e inganni.

(Anche in un altro poema, facente parte della “Saga delle Valchirie”, Sigfrido risveglia la Valchiria Brunilde, addormentata da Odino, e le giura eterno amore . La stessa, poi, si uccide alla notizia della morte dell'eroe.)

In pratica la sequela di giuramenti e vendette del poema non fa che rispecchiare quella realmente verificatasi tra i Burgundi e gli Unni. La stessa Crimilde, per compiere la sua vendetta non esita a sposare Attila. Riuscirà alla fine ad uccidere l'odiato Hagen, ma anche lei verrà colpita a morte da Ildebrando.

Storicamente, gli Unni invasero effettivamente intorno al IV-V sec. il regno dei Burgundi che, insieme ad altre tribù germaniche settentrionali, avevano migrato verso ovest stabilendosi nella valle del Reno, nel periodo delle “Invasioni barbariche” . . All'inizio, però, sembra che i rapporti tra Unni e Burgundi fossero amichevoli, e prova ne è la presenza nelle tombe burgunde di crani femminili allungati , usanza Unna secondo la quale si usava fasciare strettamente il capo delle donne sin da bambine.

Nel poema epico a dominare la scena non sono i personaggi, ma il sangue. Nessuno degli eroi, positivi o negativi che siano, riesce a sopravvivere. Muoiono tutti e senza salvezza.

In realtà, nonostante si sia in periodo cristiano, per i nibelunghi non esiste vita oltre la morte, e l'unica cosa che può restare è solamente “il ricordo” delle cose fatte in vita.

Molte delle storie del “Canto dei Nibelunghi” sono state tratte dall'Edda Antica, raccolta di poemi scandinavi risalente al XIII sec.

Nonostante il giudizio negativo di Goethe, il poema divenne molto popolare e costituì un modello di riferimento come, in musica, per Wagner che compose la celebre tetralogia “ l'Anello dei Nibelunghi”, mentre resta famoso il lungo film di Fritz Lang del 1924.

I nazisti avevano un'alta considerazione dei Nibelunghi e della loro tradizione.

Istituirono addirittura una divisione che chiamarono Nibelungen, e la linea difensiva che doveva proteggere il fronte occidentale della Germania venne denominata “Linea Sigfrido”.

Il poema “I nibelunghi” , come detto, è una storia che esalta valori eroici , ma non dà speranze.

Le ultime parole degli ultimi due versi sono “Tot” e “Not”, che vogliono dire, rispettivamente,

“Morte “ e “Rovina. In queste due parole, per le antiche popolazioni tedesche, si considerava racchiuso il senso del destino degli uomini.

---Honi soit qui mal y pense !

Capita a volte che importanti e nobili consessi abbiano origini particolarmente curiose.

Pensate per un attimo di trovarvi nel 1349 nel castello di Windsor, a Londra. E immaginate anche di essere presenti ad una grande festa , comprensiva di tornei, giostre, musiche e balli.

Tutto il popolo, secondo il proprio stato e il proprio censo, assiste o partecipa.

Questo tipo di feste è particolarmente atteso e preparato con largo anticipo, annunciato per borghi e contrade.

Naturalmente il Re è l'organizzatore principale, ed un grande ballo presso il suo castello non può mancare. Tutti i nobili ed i potenti sono presenti esibendo gli abiti più preziosi e le donne più belle.

Bene, ad un certo punto del ballo succede che una contessa inglese, probabilmente Giovanna di Kent, perde una giarrettiera.

Edoardo III, che ha fama di uomo galante, si accorge dell'imbarazzante ,per l'epoca, incidente, e non solo raccoglie da terra la giarrettiera, ma anche si offre di aiutare la giovane dama a rimetterla al suo posto, tra le risatine e gli ammiccamenti dei presenti (e sicuramente anche vostri). Accortosi di questo, il Re, rivolgendosi agli astanti pronuncia una frase che è rimasta famosa ed è giunta ai nostri giorni “ Honi soit qui mal y pense” ( si vergogni chi pensa male).

Non sappiamo come andò a finire con la giovane contessa, ma è certo che il Re non si limitò a questo, perchè pochi giorni dopo fondò un Ordine Cavalleresco a cui diede nome “Nobilissimo Ordine della Giarrettiera” il cui motto, per altro , non potè che essere ”Honi soit qui mal y pense”.

L'Ordine, molto esclusivo perchè prevede solo un massimo di 24 membri , continua ad essere tutt'ora in vita e la Regina Elisabetta II è l'unica che può designarne i componenti (cavalieri e Dame).

Esiste, per dovere di cronaca, una versione diversa che attribuisce l'idea di un Ordine di tale nome nientemeno che a Riccardo Cuor di Leone il quale, durante l'assedio di Acri, impose a quei cavalieri in cui riponeva assoluta fiducia, e che erano solo ventisei, di indossare una striscia di cuoio intorno alla coscia. Alcuni dicono che fosse stato San Giorgio, apparsogli in sogno, a suggerirgli di fare così, per battere il nemico musulmano in battaglia (cosa che puntualmente avvenne).

In realtà non ci sono conferme storiche di alcun tipo che confermino tale leggenda, mentre sembra accertato che sia stato proprio Edoardo III a fondare l'Ordine della Giarrettiera.

Particolare interessante da rilevare è che il sovrano inglese , esprimendo la sua famosa frase, fece uso della lingua francese che, anche in Inghilterra, era considerata la lingua dei nobili.

Storicamente parlando la giarrettiera, prima di divenire seducente capo di abbigliamento femminile, era nato come indumento maschile (la indossava anche Carlo Magno).

Una leggenda narra che la contessa in realtà avesse dimenticato, dopo un incontro d'amore col Re, la sua pancera, e che avesse pregato il suo amante di parlarne come se si trattasse invece della giarrettiera (cosa ben più sexy) .

A sostegno di questa tesi c'è il fatto che l'inventore napoletano della pancera si dice abbia tradotto (a orecchio) dal francese la frase Honi soit qui mal y pense in “ nunn' o' ssai chi ha mal 'i panza?”

Il primo straniero ammesso all'Ordine fu il duca Federico da Montefeltro nel 1474, mentre il primo non cristiano fu il sultano Abdulmecid I, nel 1856.

Molti furono anche gli espulsi, come il Kaiser Guglielmo II di Germania e Francesco Giuseppe d'Austria, quando dichiararono guerra all'Inghilterra nel 1915. Per lo stesso motivo venne espulso l'imperatore Hiro Hito nel 1941 ( anche se riammesso nel 1975). Non venne riammesso , invece, Vittorio Emanuele III di Savoia,che aveva dichiarato guerra al Regno Unito durante la seconda guerra mondiale.

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