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di Lina Paola Costa

Questa volta per parlare di storia locale e tradizioni parto da otto foto, scattate nel settembre 2013.
Sono immagini sempre attuali, perché “i cannizzi” dove stendere l’uva malvasia a seccare, si usano ancora anno dopo anno, nei terreni di Quattropani che affacciano dinanzi a Filicudi e Alicudi, a due passi dalla scuola del borgo rurale.
Siamo ad un’altitudine intermedia rispetto ai quattro pianori dai quali ha origine il nome della contrada.
Si usano ancora “i cannizzi” per far asciugare la polpa zuccherina degli acini di Passulina, per poi farne un ambrato nettare degli dei, che accompagna le conversazioni al tramonto di fine estate o la fetta di panettone a dicembre.
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Pochi sanno che certe tradizioni sono antiche forse oltre un secolo, che il vino che qui si produceva per uso familiare era già buono cinquant’anni fa, che questo luogo e il caseggiato che lo sovrasta appartengono ad una famiglia di Lipari dal 1845.
Un luogo dove si andava a villeggiare negli anni Sessanta, nel senso goldoniano del termine: ozio, passeggiate, ‘nchianati ‘o Timpuni, chiacchiere, aria buona, pane e uva a merenda, scambi di visite tra famiglie che a Quattropani e a Pianoconte spendevano l’intero mese di settembre e un po’ di ottobre… (come accadeva anche a Lami e a Pirrera, distanti e lontane tuttavia pur trovandosi nella stessa isola).
Tutti lì i membri di una famiglia, con nonni e bambini insieme, tanto la scuola iniziava il primo ottobre.
I vitigni originari erano stati impiantati dagli antenati, chissà da quanti decenni, indietro ancora nel tempo. Terreni tutti a Passulina, già nel XIX secolo.
Ne derivò un hobby per l’intera vita, e a fine Novecento la successiva generazione ha voluto continuare e implementare questa tradizione, con terra e vanga, e poi nuovi torchi e nuovi filari e di nuovo i tronchi di uva malvasia.
Ancora oggi, alla fine di ogni estate, da tempo immemore, una persona di famiglia cucina il pranzo per tutti colori che vendemmiano, come una volta: prima di tutto un sugo profumato, dalla lenta cottura, per far sedere insieme a tavola fuori, nel baglio ottocentesco, chi ha contribuito a raccogliere i grappoli con cura e vuota le gerle nel palmeto modernizzato.
La malvasia in quest’area di Quattropani parla sempre dialetto, è buona, crea amicizia, legami di lavoro con il territorio.
Parla di rito corale della vendemmia, della spremitura e dell’imbottigliamento, parla di isola con mezzi semplici e senza toni faraonici. Fatica, passione e impegno sì, sono evidenti. Ma la malvasia c’è, come l’ospitalità di chi abita questa casa antica.
La degustazione sul posto e il passaparola l’hanno resa preziosa, riportandola a noi di secolo in secolo. Prosit! 
 
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Mi fa piacere condividere la locandina sottostante che proviene da Milano: un esempio di cosa significa scrivere di Storia (D'Annunzio, l'impresa di Fiume, i centenari in progress e i pomeriggi culturali al Corriere della Sera) e parlarne per ricordare, per trasmettere la storia degli eventi con autorevole conoscenza e credibilità.
 
Piergaetano Marchetti, presidente della Fondazione Corriere della Sera; Sergio Romano, storico e giornalista; Pier Luigi Vercesi, giornalista, direttore di "Sette", autore di: "Fiume. L'avventura che cambiò l'Italia" in uscita ... La Neri Pozza infine è una casa editrice di grande prestigio.
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---Gentile direttore,
sottopongo all' attenzione dei lettori questo articolo di Ferruccio De Bortoli, già direttore del Corriere della Sera, perché attinente anche alla nostra realtà locale. I commentatori più corrivi remano sempre contro, ma comprendere che un bene - qual è il territorio - che produce fortuna tramite il turismo, va tutelato proprio dal turismo irriguardoso e "vandalo" è la condizione fondamentale per prevenire danni irreparabili e conservare a lungo il potenziale economico e culturale specifico di un luogo a vocazione turistica.
 
---Oggi alle 12.40, tornata dal lavoro, ho preso secchio acqua e pompa del giardino per lavare e spingere via un consistente quantitativo di deiezioni canine che spesso trovo davanti al cancello. Per igiene domestica e soprattutto perché da lì a meno di un'ora sarebbero passati tanti studenti che escono dalla Scuola Primaria alla V ora e percorrono il marciapiedi. 
Al fetente, lordo e fituso, incivile padrone del cane -  che sempre vie ne lasciato defecare davanti agli ingressi dei nostri domicili - lancio l'augurio che si trovi le proprie camere piene della stessa cacca con cui imbratta il suolo pubblico in via Stradale, perfino dentro l'area di accesso al Palazzetto dello sport, dove di continuo si cammina con gli studenti. 

Sono sicura che qualche familiare che legge i blog ce l'hai.

---Chi si ricorda di Don Lorenzo Milani?

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di Lorenzo Tomasin

Rileggo, a cinquant’anni dalla pubblicazione, la Lettera a una professoressa firmata dai ragazzi di Barbiana che si raccolsero attorno a don Lorenzo Milani: il priore moriva il 26 giugno di quello stesso 1967, poco più che quarantenne, e veniva sùbito laicamente santificato da chi voleva farne, senza consultarlo, un ispiratore delle imminenti rivolte, elevato grazie anche a quella Lettera agli altari novecenteschi della contestazione. Ogni rivoluzione del resto ha il suo cappellano, di solito cattolico: quella francese ebbe l’abbé Grégoire, prete e persecutore.

Don Milani e i suoi contadini – ossia poveri, come li si chiamava nel linguaggio della scuola rurale di Barbiana, con termine che copriva indistintamente l’indigenza materiale e quella intellettuale, confondendo l’una con l’altra – presentavano in quel libriccino il programma di una scuola che si voleva inclusiva, democratica, rivolta non tanto a selezionare quanto ad accompagnare verso un livello minimo d’eguaglianza garantita, rimuovendo le differenze derivanti da censo e condizione sociale. Nobili ideali, senza dubbio, destinati a influenzare nei decenni successivi la scuola italiana, in cui molte delle raccomandazioni di don Milani e dei suoi ragazzi trovarono realizzazione talora puntuale, ben al di là – forse – delle loro stesse aspettative. Dalla sostituzione delle vecchie e inutili materie letterarie (a partire dall’inutilissima storia antica e dalla perfida poesia dei classici) con l’educazione civica e con la storia d’oggi; dalla cacciata della grammatica intesa come strumento d’oppressione all’abolizione di ogni forma di giudizio che distingua tra più bravi e meno bravi; dalla soppressione de iure o de facto della bocciatura – di ogni bocciatura – all’adeguamento del sistema educativo al passo dei più lenti. Sono tutti principî notissimi, e variamente giudicati e giudicabili, anche perché condizionati dal modo in cui volta a volta li si è applicati (di solito male; spesso peggio). Sarebbe fin troppo facile, e ingenerosamente sadico, osservare che la scuola prefigurata dalla Lettera a una professoressa è giust’appunto quella che oggi tutti deprecano, avendola scoperta se possibile peggiore di quella che l’aveva preceduta, perché capace di creare, nel suo sgangherato egalitarismo, disparità e ingiustizie ancor più gravi di quelle imputate all’odiosa vecchia scuola. Intanto, al santino di don Milani, che considerava la professoressa privilegiata e persino strapagata, occhieggiano oggi i rappresentanti del corpo docente peggio pagato e peggio considerato dell’Occidente.

Ma che cos’era, poi, la vecchia scuola? Rileggendo la Lettera oggi, ciò che più colpisce non è tanto quel che impressionava forse i primi lettori: quel che allora pareva innovativo e progressivo sembra oggi logoro e semplicemente travolto, o meglio bocciato, dal corso precipitoso – ma forse non del tutto imprevedibile, né inevitabile – degli eventi. No, non è questo il punto. Ciò che impressiona oggi è il risentimento che anima quelle pagine, e che allora poteva essere inteso come riflesso dell’entusiasmo ribelle. Ma ormai appare solo come la manifestazione di una pervicace abitudine italiana a fare di odio e invidia la base di ogni ragionamento. Quella lanciata contro l’anonima professoressa (anonima sì, ma ben delineata sociologicamente e ritratta nella sua placida e detestata vita familiare, nel suo andare in vacanza al mare, nel suo frequentare i ritrovi degli intellettuali e persino le federazioni comuniste, in alternativa alla chiesa del paese) è una vera e propria lapidazione. La colpa dell’insegnante, agli occhi dei ragazzi di Barbiana, è di essere la ligia e ben retribuita esecutrice di un complotto scientemente ordito dal Sistema. Un complotto che, come si ripete tante volte nella lettera, mira a ingannare i poveri e i contadini. Se ingannare è ormai parola fin troppo ricercata (grazie all’intervenuto bando della lingua letteraria), se i contadini non esistono più e poveri o impoveriti sono tutti, l’accusa di ingannare i poveri si traduce semplicemente, nel linguaggio oggi più usuale in Italia, in quella di fregare la gente. In quel verbo, che i ragazzi di Barbiana non usano perché nel 1967 non si era ancora liberato dai ricordi squadristi che vi aleggiavano, ma che è davvero difficile sostituire con qualsiasi sinonimo: in quel verbo, e nell’etica che vi è sottesa, sta quanto di profondamente italiano – e purtroppo attuale – c’è nella Lettera a una professoressa. È l’idea che ci sia uno Stato, una scuola, una società, in una parola, un Sistema di cui si parla in terza persona, il cui preciso fine è quello di fregare, appunto, un noi in cui s’includono tutti coloro che, almeno pro tempore, lottano per il disvelamento del grande inganno (e perciò sono esenti da qualsiasi colpa). Nel frattempo, in attesa di passare da fregati a freganti, giacché tertium non datur, prendono per il ciuffo e linciano la professoressa – e, nella Lettera, i laureati in genere : memorabile il passo in cui si lamenta il fatto che «le segreterie dei partiti a tutti i livelli sono saldamente in mano ai laureati». A rileggerlo oggi c’è da ridere fino alle lacrime.

La buona fede della professoressa è un’aggravante, comunque difficile da accettare. Meglio credere che l’azzimata docente sia ben informata del complotto, e lo avalli in coscienza, d’accordo col dottore e col giudice di cui è sposa fedele (così la Lettera). Crederlo renderà più gustosa la sassaiola. La colpa, in fondo, è sempre della professoressa, ultimo ingranaggio del «carro armato» costruito dai ricchi (alias fascisti, aliasdottori, aliasPierino, nel linguaggio della Lettera) per schiacciare i poveri, alias contadini, alias Gianni, eroe degli ultimi di Barbiana, pronti a diventare i primi con rapidità ben poco evangelica. Già, perché nell’arco di pochi anni ricchi e poveri saranno indistinguibili, e finiranno per scambiarsi le parti in un balletto che avrebbe fatto girar la testa al curato del Mugello. Potenti diverranno gl’incensatori dell’altarino di don Milani, mentre gli odiati laureati, lungi dall’accaparrarsi laticlavi e ministeri (distribuiti con altri imperscrutabili criteri), faranno la coda per un posto da lavapiatti. Ma è così che i primi saranno ultimi? Ah che rebus! A restare al suo posto sarà solo la professoressa, composta donna d’ordine che ieri bocciava troppo e oggi nemmeno può, anche volendo: ieri come oggi, sotto la gragnuola d’insulti di chi la vuole responsabile di tutti gli analfabetismi, capro espiatorio di ogni delitto. Mi fa una tenerezza. Sarà anche per questo che, in barba ai lapidatori seriali, ai curati ribelli e ai loro chierichetti, ai cercatori di complotti e ai pubblici predicatori, non so che farci: quasi per istinto, io sto con la professoressa.(ilsole24ore.com)

---Tullio De Mauro "era" la lingua Italiana dell'Italia moderna e unificata. L'intervento

Con lui perdiamo una mente lucida, un divulgatore di sapienza e di conoscenza, un intellettuale attivo e fecondo legato alla società civile, alla scuola e al mondo reale, mai fuori misura, né snobisticamente arroccato in una nicchia autoreferenziale. E' il ciclo della vita per questi uomini nati negli anni Trenta del Novecento, che hanno osservato e "rifatto" l'Italia, avendo il privilegio di studiare già nel dopoguerra. Saremo più poveri e ad uno ad uno capiremo di aver perso i nostri padri... rimaniamo in balia dei tecnicismi di Marazzini e del dominio autoreferenziale di Serianni... Tullio De Mauro "era" la lingua Italiana dell'Italia moderna e unificata.

Segnalo gli articoli de La Stampa e soprattutto de Il Sole 24 ore del 5 gennaio 2017, che riportano la notizia della scomparsa di Tullio De Mauro.

 
La cultura non è ciò che sappiamo, ma ciò che siamo. È la sintassi delle relazioni umane e sociali. ...
 
L'INTERVENTO
 
di Michele Sequenzia

 

Caro Direttore, mi associo al cordoglio nazionale per la perdita di Tullio De Mauro. In tema di saper leggere e scrivere siamo messi maluccio. Chi aiuta a comprendere? L' " educazione linguistica " che cosa è?   Sempre di più le popolazioni giovani rischiano di essere emarginate dalla conoscenza. Chi non conosce, non legge, resta un asino. Italia 2017... Rimane molto da fare,con i bassi tassi di " cultura generale", a causa di discutibili stili di vita che allontanano dalla pratica e dall’interesse per la lettura. Dove è finita " l'educazione permanente"? Oggi, non si scrive più. E non si pensa. E non si ascolta. Non si ragiona. Sempre meno lettori. Una gioventù che non conosce le lingue, la storia. Logorata da falsi miti " tecnologici". Lontani dalla cultura. La mancanza di titoli accademici ...una tagliola che castra milioni di giovani. Monta la marea di ignoranti patentati con " qualifica". Massa di poveri, senza lavoro. Vera miseria. E non sanno esprimersi. Non leggono. Si creano i vouchers di " lavoro", ignobili falsificazioni di governo, che testimoniano l'infamia di una dominante ideologia che divide i cittadini. Li schiavizza. Una orrenda discriminazione certifica che il sottoscritto non ha alcun titolo per scrivere, non sa nemmeno " capire " cosa legge, non ha alcun merito per essere accettato dalla società. Se non ho titoli scolastici non ottengo alcun lavoro. E non conosco i miei diritti.

Se non si possiede alcun "pedigree scolastico", l’istituzione scolastica di Stato blocca, fa da sbarramento. Limita la crescita dell'individuo. Chi non conosce, non studia e non si informa , cessa di esistere. Gli Stati si riempiono di disadattati. Siamo immersi in un mare di ignoranza. Senza cultura. E senza futuro. Chi riflette sulle tragedie di tanti poveri alienati, in fuga, sradicati, di masse di emigranti senza futuro ?

Chi sa comprendere l'enorme potenzialità della molteplicità linguistica del mondo ? La lingua è la base di tutto. E' il vero patrimonio di un popolo. La lingua, eredità di generazioni, ha un valore di miliardi di euro. Una ricchezza inestimabile. Di centinaia di miliardi di euro. La Lingua è Scienza. Il nostro futuro. Una miniera d'oro e di diamanti. E più sono le lingue , i vari dialetti di antiche popolazioni...sparse ovunque....più piu sei ricco, tutti siamo più ricchi. Chi scrive vive in eterno. Se leggo mi cibo di conoscenza. Vivo meglio. Mi sento meglio. Infinite biblioteche forniscono ottimo cibo per la mente.   Migliaia di autori scoprono i mondi del conoscere e della filosofia.   Di nuovi infiniti. Riporto brevemente per evitare false interpretazioni ... "Il est absolument impossible de chiffrer la valeur culturelle que représente la multiplicité linguistique européenne. À cela s’ajoute aussi indirectement la valeur éducative de l’apprentissage des langues étrangères. L’Europe n’est pas tellement riche en ressources minières. Sa vraie richesse consiste en sa diversité culturelle. Et celle-ci est essentiellement basée sur sa multiplicité linguistique. Les forces et les traditions scientifiques et culturelles des Européens sont conservées dans leurs différentes langues.

Un immenso giardino pieno di piante e fiori. Una miniera sterminata. Ma bisogna difenderla. Soprattutto da chi vuole le " riforme", chi stabilisce le " regole", che la riducono a " schema burocratico".   Governi scellerati di   Destra e Sinistra uniti contro la Cultura. Governi totalitari. Oscurantismo. Mirano al " predominio" . Bloccano lo Sviluppo. Dominano le " masse". Bloccano il nostro sviluppo, la nostra Libertà. . Chi comanda vuole la "Cultura" ..docile, sottomessa....censurata e controllata. Il messaggio è : rimanete pure ignoranti e noi vi guidiamo. Noi siamo la Luce. Noi sappiamo, voi no. Il governo che " guida", che " riforma" che detta " regole" è il peggior nemico della Cultura. La Cultura non ha bisogno di " Stato". Non ha bisogno di " Titoli" . Attenti a i falsi profeti che uccidono il nostro spirito creativo, l'innovazione. Non vogliono il " Nuovo". Ecco il " Pensierio Unico". Il

Partito Dominante. Il cancro che uccide.

" Dans une langue unique, ils disparaîtraient progressivement. L’histoire européenne des idées montre clairement que la multiplicité linguistique soutient le progrès économique, scientifique et culturel plus qu’elle le gêne. Le début de la modernité européenne dans les sciences, l’économie et la culture alla de pair avec l’émancipation des langues « populaires » italien, espagnol, français, anglais, allemand etc. face à la langue unique des élites européennes du Moyen Âge, le latin. Comme nous le savons, la multiplicité des langues de civilisation européennes se développant à l’époque n’a pas nuit à la créativité des Européens, mais elle l’a stimulée. La multiplicité linguistique est considérée comme un élément central de l’identité européenne. Mais une langue véhiculaire commune ne serait-elle pas justement profitable à la formation d’une identité commune ?

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