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Milano, il carabiniere che ha salvato un ragazzo dall'incendio: «Ho sfondato la porta col telaio di una bici, ho visto un piede, ho tirato»

L'incendio in via Arquà e il maresciallo Giuseppe Merlino

Giuseppe Merlino, figlio dell'ing. Salvatore, e nipote del nonno Pino, il maresciallo che ha salvato un ragazzo dall'incendio di via Arquà: «Ho sfondato la porta col telaio di una bici, ho visto un piede, ho tirato»

di Matteo Castagnoli

Il carabiniere 30enne sabato sera passava da via Arquà per un controllo con un giovane collega. «C'era fumo ovunque, gridavamo di uscire. Un vicino ci ha indicato quella porta, era sicuro che c'era qualcuno»

«L’incendio era ancora vivo. Allora mi sono messo a carponi, trattenendo il respiro. Poi ho visto delle gambe. Ho trascinato quel corpo per un piede: pensavo di aver tirato fuori un cadavere». Quel corpo era il 29enne pakistano inquilino al secondo piano della palazzina in via Arquà 16, dove sabato sera è scoppiato un incendio. Il bilancio: tre appartamenti inagibili, persone evacuate e cinque soccorsi tra cui quattro bambini. E se quel ragazzo, di professione rider, lotta per la vita al Niguarda è soprattutto grazie al maresciallo Giuseppe Merlino30 anni, del Nucleo Radiomobile di Milano. Non pensava sarebbe dovuto entrare in quella palazzina a due passi da via Padova. Era passato per uno dei normali controlli a bordo di una gazzella del Radiomobile. Al volante c’era un collega carabiniere. Ma «in strada abbiamo notato un gruppo di persone». Che li fermano: «Siete arrivati», esclamano. «Ma arrivati per cosa?» si domandano i due militari. «C’è un incendio, la risposta».

Era successo da pochi minuti.
«Sì, le scale erano piene di fumo. E le fiamme che si vedevano dalla finestra erano ancora alte».

Cosa avete fatto?
«Urlavamo alle persone di scendere. Ci siamo divisi le scale, bussando a tutte le porte e accompagnando gli inquilini per la scale: non si vedeva nulla. Qualcuno era titubante e l’abbiamo dovuto convincere. L’appartamento l’avevamo dato per spacciato».

E invece...
«E invece è successo che mi ha avvicinato una persona che era al telefono con il proprietario della case in fiamme. Erano certi che dentro ci fosse qualcuno».

Era così. E l’ha salvato.
«Non mi era mai successo nulla del genere. La porta era ustionante. Prima ho provato a sfondarla con dei calci. Poi ho usato il telaio di una bici come ariete. Una volta aperta, dopo qualche minuto, sono stato investito dal calore. Ma mi sono detto: “Ce la faccio”. Ho visto quel corpo dopo aver gattonato per un paio di metri e l’ho afferrato per un piede. A sua volta il collega, che mi aveva raggiunto, mi ha tirato per la gamba e così abbiamo recuperato il ragazzo».

Poi?
«Pensavamo fosse morto. Abbiamo provato a rianimarlo. Era ustionato e non respirava più. Finché dopo tre/quattro manovre ha ricominciato. Allora me lo sono caricato in spalla e sono corso fino all’incrocio con via Padova dove mi dicevano fosse appena arrivata un’ambulanza. Quando l’ho vista ho urlato: “È vivo, respira”».

Anche lei è stato portato in ospedale.
«Sì, sono tornato in via Arquà ma a quel punto erano arrivati gli altri soccorsi. Quindi mi sono fermato e sono stato portato al Fatebenefratelli per gli accertamenti».

Esito?
«Siamo usciti alle 5 del mattino. Ero un po’ intossicato. Due giorni di prognosi. D’altronde ero entrato senza mascherina. È andata bene che non abbia preso fuoco anch’io».

Se chiude gli occhi, quale immagine le rimane impressa di quella sera?
«Quando il 29enne ha ripreso a respirare. Senz'altro. L'euforia e l'adrenalina per salvarlo sono schizzate».

Un esempio di coraggio.
«Se lo sarò, sarò contento. Per esempio, il carabiniere che era con me, era al primo turno di Radiomobile. Speriamo che quanto successo serva a spiegare a tanti giovani colleghi cosa sia il nostro lavoro».(corriere.it)

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