Eventi e Comunicazioni

agevolazioni_bonus_pubblicità_2024.jpg

"Con il Notiziario delle Eolie Bonus pubblicità con credito d'imposta al 75%"  email bartolino.leone@alice.it

Dettagli...

mgiacomantonio1di Michele Giacomantonio

Finalmente l'illuminazione elettrica

 

La proposta di Giuseppe De Luca

Il primo stabilimento della Società Elettrica Liparese

Il 25 maggio del 1925 il Consiglio Comunale approva di prendere in esame il capitolato presentato da Giuseppe De Luca per la “concessione dell’impianto ed esercizio di una centrale termo elettrica per l’illuminazione pubblica e privata nella città di Lipari e frazione di Canneto”con 16 voti favorevoli, quattro contrari ed un astenuto. L’anno precedente il commissario Cesare Ferri sulla base di un progetto di impianto redatto per conto del Comune dall’ingegnere “motricista” Rumore, aveva pubblicato un bando di concorso. Erano giunte al comune tre proposte: del sig. Scanu, del sig. Perrone e del sig. De Luca. Venuta meno la proposta Scanu erano rimaste in discussione le ultime due ed il Consiglio  dopo aver ampiamente discusso era giunto, a maggioranza, alla determinazione di prendere il esame il capitolato presentato da De Luca rigettando quello di Perrone. Inoltre aveva dato mandato all’Amministrazione di apportare, assistita da un tecnico, le modifiche ritenute convenienti agli interessi del Comune dei privati e di concludere le trattative con la ditta De Luca mantenendo invariata la misura del canone che era stata indicata in lire 70 mila annue.

Nella sua richiesta il De Luca aveva sottolineato che questa cifra poteva sembrare esagerata ad una prima considerazione, ma “non è altro che una ristretta risultanza di precisi calcoli, e ciò a causa del rilevante capitale occorrente per l’impianto e del non meno oneroso esercizio. Essa è quindi irriducibile se l’Amministrazione vuol disporre di un impianto elettrico che ne assicuri, in tutti i tempi, un ottimo funzionamento[1]

Il De Luca non chiede al Comune alcuna partecipazione alle spese per la rete di distribuzione pubblica, opere murarie ecc. e garantisce che tutte le spese di esercizio compreso il ricambio delle lampade restano sempre a suo carico.

La concessione, in esclusiva, della durata di trent’anni “a cominciare dal giorno di inizio dell’esercizio” riguarda – dice l’art. 1 - “una centrale termo elettrica con tutte le linee e reti di distribuzione dell’energia elettrica ad alta e bassa tensione, per l’illuminazione pubblica e privata, e per la distribuzione di forza motrice”.

All’art. 4 si prevede che il Comune, senza indennizzo alcuno, concederà “il diritto di occupare gratuitamente il suolo, soprasuolo e sottosuolo comunale delle vie, piazze ed aree comunali in genere, per la distribuzione dell’energia elettrica, a condizione che dopo eseguiti i lavori non resti impedito, né ostacolato il transito ed uso delle suddette aree”.

L’impianto pubblico di illuminazione, è detto all’art. 5, consterà di 282 lampade ad incandescenza a Lipari e di 64 a Canneto. “Complessivamente n. 346 lampade, la ubicazione delle quali  dovrà limitarsi entro il perimetro della città e verrà fissato dalla Amministrazione comunale. Dopo la prima collocazione ogni altro spostamento voluto dal Comune, sarà a carico e spesa dell’Amministrazione e da eseguire sempre dalla società concessionaria. La società usufruirà gratuitamente, per tutta la durata della concessione, di tutto il materiale di illuminazione a petrolio, come bracci, candelabri, ecc; s’intende che tale materiale resterà di proprietà del Comune ed è obbligo della Società di riconsegnarlo allo scadere della concessione. L’orario di accensione e spegnimento delle lampade sarà regolata da apposita tabella che sarà controfirmata dalle parti”.

Per ogni ulteriore lampada installata e per aumento di intensità di quelle esistenti, il canone sarà aumentato di lire 1,50 per kwh.

Il Comune – si dice all’art. 8 – entro i limiti della disponibilità locale di energia elettrica “ha il diritto di chiedere in linea temporanea, in occasioni di feste, fiere ed altre pubbliche riunioni, la illuminazione di quella parte di suolo entro il perimetro della città, che riterrà opportuno previo pagamento, a presentazione di fattura, delle spese d’impianto mentre l’energia sarà pagata” al prezzo di lire 1,50 per kwh.

Un apposito articolo, il 13°. Regolamenta il prezzo dell’energia ai privati. “Il Comune lascia libera la società concessionaria di praticare per la fornitura di energia elettrica e di fora motrice ai privati quei prezzi che più convenienti si renderanno opportuni col variare dei tempi, delle condizioni commerciali del paese e del valore effettivo della lira carta, e ciò per permettere in ogni tempo un adatto andamento che possa assicurare alla società concessionaria un buon funzionamento. Le spese per l’impianto interno resteranno sempre a carico dell’utente, e poiché è interesse comune sia dell’utente, come della società concessionaria, che tutti gli impianti, sia di illuminazione che di distribuzione di fora motrice rispondano a quei requisiti che la tecnica moderna richiede, quest’ultima si riserva il diritto di concedere l’energia solamente a quegli utenti il cui impianto interno è stato è stato eseguito da un elettricista autorizzato dalla società stessa.

Un articolo parla della vigilanza e del controllo da parte delle Guardie municipali sul rispetto delle lampade, dei circuiti e degli apparecchi di proprietà della società “come se fossero di proprietà pubblica”avvertendo tempestivamente la società di ogni inconveniente e guasto.

Nasce la S.E.L.

Bartolo Zagami

Dopo poche settimane viene firmato il contratto con la Società Elettrica Liparese. Soci fondatori erano Gaetano Giuffré, Giuseppe De Luca e Bartolo Zagami.

Col tempo la SEL si sarebbe identificata con il comm. Bartolo Zagami[2].  La decisione di impegnarsi in questa impresa la racconta lui stesso[3] con un simpatico aneddoto. Una casuale gita lo fece tornare a Lipari l’8 Settembre 1922, segnando definitivamente quello che sarebbe stato il suo futuro; infatti, alla sera, durante una partita di carte giocata alla fioca luce di una candela in casa della futura moglie Iolanda Saltalamacchia, che lo aveva colpito per la sua giovane bellezza, scommise che avrebbe portato la luce elettrica in quell’isola così bella ma anche così buia. Naturalmente quelle parole dette così all’improvviso da un giovane sollevarono la ilarità dei presenti; ma la promessa, nata quasi per gioco, si concretizzò nel giro di qualche anno per la grande audacia e la grande volontà del giovane Bartolo. Si trattava di un progetto arduo, anzi pauroso, principalmente per la mancanza di disponibilità economica e il rifiuto categorico del padre che non ebbe fiducia nell’operato del figlio. Ma una sua zia, sorella della madre, accettò spontaneamente di aiutare il giovane nipote che aveva cresciuto e ammirato per le sue doti. Cominciarono per lui anni di duro lavoro, di dubbi, di preoccupazioni, di notti insonni, ma il 26 Settembre 1926, la Società Elettrica Liparese, creata e voluta dal giovane Bartolo, venne inaugurata. Madrina la signorina Iolanda Saltalamacchia, ormai sua fidanzata. Tale complesso, iniziato con un solo motore - oggi immortalato in uno spiazzo di fronte alla nuova centrale elettrica-  venne poi aggiornato e modernizzato negli anni al passo con i tempi. Nel 1963 una nuova Centrale più grande, più moderna fu costruita e oggi ben 13 motori lavorano per fornire la costante richiesta di luce elettrica.

La centrale divenne quindi operativa il 25 settembre 1926 e l’evento ha un riscontro in Consiglio comunale dove il consigliere Giuseppe Ziino nel complimentarsi col Sindaco coglie la coincidenza che la luce elettrica tanto attesa arrivi a Lipari quando “compiesi un anno da che l’Amministrazione Fascista assunse il potere”.(Archivio Storico Eoliano.it)



[1] Dal verbale del consiglio comunale del 25 maggio 1925.

[2] Bartolo Zagami nacque ad Alicudi il 12 Gennaio 1900, secondo di cinque figli che ebbero naturalmente destini diversi ma raggiunsero tutti notevoli affermazioni sia nel campo lavorativo che in quello scientifico e politico. Salvatore, primogenito; ingegnere navale, navigò sempre nelle maggiori navi che toccavano i porti dell’Estremo Oriente e dell’America e, proprio quì, durante la guerra del 1940, restò prigioniero di guerra; ma quei lunghi anni gli servirono per incontrare spesso la sorella Carmela che sposatasi molto giovane, viveva a New York con la sua numerosa famiglia.Vittorio, grande studioso, laureatosi in Medicina, divenne docente universitario giovanissimo. Insegnò per oltre 30 anni all’Università di Palermo che, dopo la sua morte, gli dedicò l’Aula Magna; fu autore di oltre 400 pubblicazioni, componente del C.N.R., Presidente della Società Italiana di Biologia Sperimentale, medaglia d’oro del Ministero della P.I., dottore in Farmacia honoris causa. Leopoldo, dirigente dell’Inail, si dedicò alla politica e fu eletto senatore in diverse legislature. Amò intensamente le “sue isole” e, dopo interminabili studi e affannose ricerche storiche, scrisse 4 libri per farne conoscere la loro lunga e importante storia.

L’intera famiglia Zagami si trasferì a Messina nell’Ottobre del 1909, dove tutti i fratelli studiarono sotto la guida dei genitori, in particolare della madre, donna modesta ma dotata di vivissima intelligenza che li spronò sempre a studiare per crearsi un avvenire decoroso. Il passaggio dalla piccola, aspra e silenziosa isola di Alicudi alla città di Messina, benché distrutta dal terremoto del 1908, aprì a tutti i fratelli nuovi orizzonti e una nuova visione della vita: nuovi abitudini, nuove conoscenze, studi più seri e nuovo modo di vivere e socializzare.

Ultimati gli studi Bartolo frequentò l’Accademia navale di Livorno che lo mise a stretto contatto con un ambiente diverso; ambiente severo che perfezionò la sua formazione e gli aprì nuovi orizzonti. Le crociere con l’Amerigo Vespucci che resteranno sempre vive nei suoi ricordi e nei suoi racconti preferiti, spronarono giornalmente la sua irrequieta fantasia sempre alla ricerca affannosa di crearsi un suo lavoro libero ed individuale e le cui responsabilità di successo o insuccesso sarebbero dipese solo dalle sue capacità e dalle sue future decisioni. Egli sognava di creare qualcosa di suo perciò, quando ultimata l’Accademia, per accontentare il padre aveva vinto un concorso alla dogana, rifiutò decisamente il posto. Questo qualcosa di suo fu appunto la SEL.
La sua grande dedizione al lavoro gli fu pubblicamente riconosciuta nel 1967 dalla CCIAA mediante la consegna del diploma di “ Premiazione per la fedeltà al lavoro e per il progresso economico ed il conferimento del titolo di Commendatore del Lavoro” il 27 Dicembre 1965. Morì a Lipari ormai novantenne.

[3] Dalla nota preparata dalla famiglia in base ai ricordi in occasione della richiesta del Rotary Club di Lipari di dedicare al comm. Bartolo Zagami una strada di Lipari.

L'avvento del fascismo e il commissariamento del Comune

 

Max Gubler, Processione a Lipari . Le confraternite

A Roma un "uomo d'ordine" S.E.Mussolino

Il 21 dicembre 1922 il Sindaco informa il Consiglio che trovandosi a Roma per pratiche del Comune fu sorpreso “dagli avvenimenti rivoluzionari dello scorso ottobre che per la fortuna d’Italia si compirono pacificamente e portarono al governo un uomo della fibra imponente e dalla mente lucida e di larghe vedute qual è S. E. Mussolino. Egli ha fede nel puro e immenso patriottismo di Lui e che mercé la sua opera sagace ed illuminata la nostra Italia possa essere ricondotta alle sue antiche grandiose tradizioni. E’ sicuro di interpretare l’animo del paese ed i sentimenti del Consiglio proponendo al Consiglio per acclamazione un voto di fede e di devozione verso un  Uomo che incarna tutte le speranze della Patria nostra[1]. Naturalmente il Consiglio per acclamazione accoglie la proposta del Sindaco.

E’ un uomo moderato Felice Famularo e rifugge dagli eccessi. Mussolini gli piace perché gli appare come un uomo d’ordine ma fu contento quando vide che la “marcia su Roma” aveva avuto uno sbocco pacifico. La figura di Mussolini  viene ad inserirsi nella sua visione a fianco a quella della Patria e della Monarchia.

  

“La popolazione liparese è stata – dirà nel Consiglio del 14 aprile 1923 -  per natura della migliore indole sociale e morale, tenacemente attaccata alla Patria ed alla Monarchia, che ne presiede sapientemente le sorti, ma i malsani contatti, durante la guerra, determinarono anche qui, una certa impulsività ed intolleranza che, pur restando sempre nell’orbita delle leggi, della Patria e della Monarchia, taluni elementi determinavano delle agitazioni, che si è dovuto durare fatica per contenere ed evitare spiacevoli conseguenze. Fu sollevata la quistione operaia, in confronto della lavorazione del “lapillo pomicifero”, che dette luogo a tumultuose manifestazioni, ed il Governo mandò, in un primo tempo, l’ingegnere capo delle miniere di Caltanissetta e poi un Ispettore Generale del Ministero”.

In apertura della seduta del 14 aprile , prima di addentrarsi nelle controdeduzioni alle Risultanze dell’inchiesta Bua, annunzia che ha telegrafato al Ministro della Real Casa perché comunichi a S. Maestà i sentimenti di devozione delle popolazioni eoliane con gli auguri più ferventi per le nozze della Principessa Iolanda e giacchè c’è – inaugurando le sedute ordinarie di primavera – sente anche il bisogno di proporre al Consiglio di inviare “un saluto di affetto e di solidarietà a S.E. il Presidente dei Ministri On. Mussolini, il quale si rende sempre più benemerito per la Nazione per il Suo coraggioso ed immane lavoro di ricostruttore”. Ed anche qui unanimemente il Consiglio approva.

Il Consiglio del 14 aprile è l’ultimo presieduto dal Sindaco Ferlazzo. Nei verbali non abbiamo trovato traccia del perché la sua amministrazione sia stata rimossa. Giuseppe Iacolino, nel suo lavoro sulle strade di Lipari[2], lascia intendere che malgrado il commissariamento e la rimozione, la collaborazione del cav. Ferlazzo al Comune sia continuata operando di concerto con il regio commissario Ferri. Ma di questa tesi non abbiamo trovato riscontro alcuno. A stare ai verbali sembrerebbe che la lunga relazione  del 14 aprile in risposta alle “Risultanze dell’inchiesta” stese dal cav. Bua, non abbia avuto esito positivo.

Gli addebbiti comunicati dal Commissario prefettizio

Il Commissario prefettizio con nota del 3 aprile 1923 aveva comunicato all’Amministrazione dodici addebiti. Alcuni si riferivano a carenze formali: mancata tenuta da parte della segreteria di alcuni registri; irregolare tenuta dei registri delle deliberazioni, mancanza dell’inventario dei beni mobili e immobili del Comune; irregolare tenuta degli archivi e della raccolta delle leggi e dei decreti. Altre sempre di carattere formale apparivano però più consistenti come il ritardato impianto del servizio anagrafico. Ve ne erano però altre ancora di un certo peso e di sostanza come l’accusa di indebita ingerenza all’ingegnere agronomo e consigliere comunale Pietro Amendola in lavori comunali; abuso da parte della Giunta della facoltà di deliberare con i poteri del Consiglio; iscrizione nella parte attiva del bilancio di somme delle quali non si è curata la riscossione falsando così i risultati del bilancio; debiti verso la cassa provinciale scolastica ed i medici condotti; mancata riscossione di diritti di segreteria ed omissioni nell’applicazione della tassa di licenza sulle cave e mancata riscossione della sovrimposta comunale sui terreni e fabbricati; usurpazione del demanio comunale pomici fero ed usurpazione sugli altri demani; irregolare funzionamento dei servizi di igiene, di polizia urbana, di nettezza pubblica e di tutti gli altri servizi municipali; disorganizzazione ed inattività del corpo dei polizia municipale; completo abbandono del cimitero e dell’ospedale.

Da qui la rimozione ed il commissariamento anche se, per dire la verità, il Sindaco rispose puntualmente – in coda alla relazione sull’attività della sua amministrazione - addebito per addebito e spesso con efficacia. Inoltre gran parte degli addebiti ci parevano imputabili  soprattutto alle  precedenti amministrazione prima che a  quella Ferlazzo. Comunque a metà agosto arriva a Lipari il regio commissario Cesare Ferri che vi rimarrà fino al settembre del 1924 quando Lipari tornerà ad avere un Sindaco a seguito delle elezioni  del 22 giugno 1924, il rag. Salvatore Saltalamacchia. Il cav. Ferlazzo sembra essersi ritirato dalla vita amministrativa.

Toccherà al commissario, un giorno di maggio del 1924[3], deliberare la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, “Duce Supremo del Fascismo” , “interpretando i sentimenti purissimi di ammirazione e di fedeltà di questa popolazione verso lo statista che regge oggi con tanta sicurezza le sorti d’Italia”.

Il 14 settembre, quando sarà ripristinato il Consiglio comunale , questo sarà chiamato a testimoniare la sua “fedeltà fascista”. Il Sindaco Saltalamacchia “prima di iniziare i lavori della sessione pervaso da profonda commozione partecipa al Consiglio l’efferato delitto compiuto a Roma da mano assassina in persona dell’on. Armando Casalini[4], del quale ne tesse gli elogi di fascista fervente d’intemerato cittadino, di strenue difensore dei diritti della Classe operaia della quale era apostolo convinto. Formula l’augurio che cessi finalmente nella nostra amata patria la follia dei delitti politici, e nel mentre manda alla cara memoria dell’illustre estinto un deferente saluto avendo avuto occasione di ammirare le peculiari virtù, e la bontà infinita dell’animo suo; propone acché il Consiglio esprima oggi tutto il suo profondo rammarico inviando le proprie condoglianze alla Vedova ed agli orfani derelitti”.

In segno di lutto il Consiglio sospende i lavori per un quarto d’ora. Alla ripresa l’avv. Casaceli, del Partito Popolare, a nome della minoranza, si associa al cordoglio “ e nel mentre depreca tale grave delitto come quello dell’on. Matteotti[5], manda alla memoria degli illustri estinti un deferente saluto con l’augurio che cessi la mania delle basse lotte politiche e la vile persecuzione degli uomini di fede a qualunque partito appartengano per benessere dell’Italia nostra abbisognevole di concordia e di pace”. Anche questa volta il Consiglio, unanimemente si dice nel verbale, si associa.

Come in Italia così anche a Lipari dovevano moltiplicarsi le manifestazioni fasciste, le sfilate concluse al grido di  “Eia Eia Alalà”, l’esclamazione dannunziana assunta poi dal fascismo. E qualche riverbero si ha anche in Consiglio comunale. Così l’11 ottobre 1925 il consigliere Zagami, “per dare una vera sensazione dello spirito fascista liparese” propone di cambiare nome alla piazzetta del Pozzo che era stata intitolata a Giolitti e di dedicarla invece a Mussolini, “nostro grande ed amato duce”. Il consigliere Francesco Paternò propone invece di intitolargli “un’opera più bella e più grande”. Alla fine non si fa niente ma ci si consola concludendo il dibattito con un triplice “Alalà”

Qualche settimana dopo, il 22 novembre, il Consiglio è chiamato a riflettere sulla “turpe congiura di criminali e di folli – così esordisce il Sindaco Saltalamacchia –che cercava di colpire il nostro amato e glorioso Duce nel giorno in cui  tutto il popolo italiano con solenne rito celebrava l’anniversario della Vittoria. I nemici della Patria cercavano colpire a mezzo del vile sicario, non solo il grande genio ma l’Italia tutta per buttarla nel caos di una rivoluzione”.

Il  “vile sicario” era l’on.Tito Zaniboni, uomo mite e tranquillo, decorato per eroico comportamento nella guerra 1915-18, deputato socialista dal 1921 al 1924 e uno dei protagonisti del patto di pacificazione tra socialisti e fascisti nell’agosto del 1921.  Il 4 novembre aveva organizzato con il generale Luigi Capello un attentato contro Benito Mussolini nel quale avrebbe dovuto far fuoco con un fucile di precisione da una finestra dell'albergo Dragoni, di fronte al balcone di palazzo Chigi da cui si sarebbe affacciato il duce. L'attentato fallì in seguito al tradimento di un compagno e di una spia che lo affiancava ; Zaniboni fu arrestato tre ore prima dell'attentato[6].

22 agosto 1926 - Arrivo a Portinente della reliquia di un pezzo di pelle di San Bartolomeo donato a Mons. Paino dal Capitolo di Venezia.

Ma queste cose a Lipari, ma non solo a Lipari, non si sanno. Chi attenta a Mussolini non può essere che un mostro e così il Consiglio che ha seguito in piedi il discorso del Sindaco, “improvvisa – si legge nel verbale – una delirante manifestazione con vivissimi, prolungati e reiterati applausi e grida di “Viva Mussolini! Viva il Duce! Viva il Fascismo!”.

In questo clima viene deciso di aderire all’appello di Mussolini di aprire una sottoscrizione popolare del dollaro per l’estinzione dei debiti di guerra con l’America.  Si vota un contributo a nome del Comune e si costituisce una commissione per la raccolta del dollaro fra la popolazione.

Al voto di solidarietà ed alla sottoscrizione per il dollaro ha concorso anche la minoranza che, conferma il consigliere Bonica, deplora “il misfatto che si voleva compiere contro il Capo del Governo”.

Di rientro da Portinente con la reliquia del Patrono.

L’ordinaria amministrazione di un commissario

Nell’anno in cui Ferri rimase commissario, oltre che alla cittadinanza a Mussolini, provvide anche a prendere decisioni di un certo rilievo per lo sviluppo della comunità liparese come l’istituzione di una farmacia a Canneto che con le borgate viciniori ammontava ora a circa 5 mila abitanti, l’incarico ad una ditta di Palermo a praticare saggi nel terreno per rintracciare acqua potabile, l’erezione di un segnale luminoso sulla secca di Capo Graziano a Filicudi dopo “la sorte toccata alla R.Nave Città di Milano”; l’istituzione di una delegazione per lo stato civile a Ginostra; il riconoscimento di un posto di applicato di segreteria comunale ad un funzionario di stanza a Canneto addetto al controllo e la riscossione della tassa di esportazione della pomice per i piroscafi in partenza da quella frazione; lo sdoppiamento della classe della scuola di Pianoconte che conta 121 alunni con l’affitto di una sede per la seconda aula.

Il 27 febbraio 1924 il commissario conviene che ci sia la necessità assoluta ed urgente di provvedere ad un ospedale che per la sua ampiezza e la disponibilità della strumentazione necessaria sia in linea con le moderne cure sanitarie mentre l’attuale è sprovvisto dei vani necessari, delle apparecchiature indispensabili per operare, e di un sufficiente numero di letti. Sulla base di queste considerazioni il commissario, con i poteri del Consiglio comunale , delibera di contribuire alla spesa occorrente alla costruzione del’ospedale mandamentale in due modi: con il versamento di lire 55 mila che erano dovute dal Comune alla Congregazione di Carità fin dal 1888 quando quest’ultima vendette al Comune medesimo il fabbricato del vecchio ospedale e con la cessione, sempre al Comitato, del terreno acquistato dal Comune per la costruzione del nuovo ospedale. Anche a questo proposito infatti vi era un impegno del Comune con la Congregazione di Carità non mantenuto: quello di costruire nel sito dell’ex Convento dei Minori Osservanti – poi divenuta sede del nuovo municipio -  un nuovo ospedale che sarebbe stato consegnato, una volta ultimato, alla Congregazione.

Il 10 maggio sempre il commissario fa voti al Governo perché si realizzino due pontili, uno a Canneto ed uno ad Acquacalda, per lo sbarco e l’imbarco della posta, dei viaggiatori e delle merci. “Uno sbarco meno pericolo ed incerto di quello attualmente adottato, che è semplicemente primitivo”, cioè consistente nella barca che collega il piroscafo alla spiaggia attraverso una serie di viaggi che in inverno e con le condizioni marine avverse diventa spesso impossibile.

Il 14 marzo il commissario provvede finalmente a chiudere il contenzioso con la ditta Onofrio Russo, appaltatore del basolamento di via Emanuele Carnevale e via Maurolico , lavori ultimati, saldando quando stabilito nella transazione stabilita dalla Commissione arbitrale di Roma; e autorizza il pagamento delle pendenze relative al crollo del muro lungo la scalinata per la Cattedrale del 5 marzo 1915. Il 14 maggio autorizza la redazione del progetto per la rotabile Canneto- Acquacalda; per la strada di accesso al porto rifugio di Pignataro e per la strada Ginostra- San Vincenzo affidandoli  all’Istituto Nazionale opere pubbliche.

Il 2 giugno al Ferri tocca occuparsi del problema delle condotte nelle isole. Nel 1923, ancora Sindaco Ferlazzo era stato disposto che le sette condotte diventassero cinque cioè che ne venissero abolite due. A questa decisione l’Amministrazione si era opposta giudicando le sette condotte – due a Lipari con assistenza anche a Vulcano, una a Canneto ed una per ciascuna isola di Alicudi, Filicudi, Panarea e Stromboli – tutte indispensabili. Ora invece sembra che si sia pervenuto ad un compromesso: le condotte passino da sette a sei venendo abolita quella di Panarea – che comunque pare non avesse più titolare dal 1914 e fosse affidata al medico di Stromboli – e posta quell’isola nelle cure di una condotta di Lipari. In attesa che venga approvato il nuovo capitolato viene esonerato dell’assistenza a Panarea  il medico di Stromboli che per via delle linee marittime non avrebbe più ritorno su Stromboli prima di quattro giorni, e vien incaricato del servizio il dott. Cristoforo Merlino, libero esercente in Lipari, che si è offerto spontaneamente.

La bigata di Lipari (1907)

Anche della fornitura neve e del ghiaccio trasparente a Lipari e Canneto deve occuparsi un commissario. Così il 27 giugno deve provvedere con urgenza al rinnovo dei contratti che scadono il 2 agosto. Chi vince la gara d’appalto dovrà garantire la vendita di neve e ghiaccio trasparente in  magazzini collocati nel centro di Lipari e di Canneto dal 5 luglio al 30 settembre dalle sei del mattino alle 11 di sera e, in casi eccezionali stabiliti dall’autorità municipale, dovrà fare anche servizio notturno.



[1] Verbale del consiglio comunale del 21 dicembre 1922. il nome “Mussolino” compare così nel verbale. E’ difficile dire se si tratta di un errore di Famularo o del segretario comunale.

[2] Strade che vai memorie che trovi, Milazzo 2008, pag. 132

[3] Nel verbale il giorno è lasciato in bianco forse per dimenticanza.

[4] Armando Casalini (Forlì, 1883Roma, 12 settembre 1924) è stato un politico italiano, deputato fascista, esponente delle Corporazioni sindacali. Prima era stato repubblicano,  amico di Pietro Nenni e partecipò alle proteste politiche e sociali del giugno 1914 culminate nella Settimana rossa. Segretario del Partito Repubblicano dal luglio 1916 all’aprile del 1920, dopo la costituzione dei Fasci di combattimento si avvicinò alle posizioni di Mussolini: nel 1922 lasciò il partito fondando l’organizzazione filofascista Unione Mazziniana, e nel 1924, candidato nel cosiddetto listone fascista, fu eletto al Parlamento..Nominato vicesegretario generale delle Corporazioni, fu assassinato in un tram a Roma con tre colpi di rivoltella da un certo Giovanni Corvi, che dichiarò di aver voluto vendicare così la morte di Giacomo Matteotti.

[5] Giancarlo Matteotti, deputato socialista era stato assassinato da sicari fascisti il 10 giugno 1924.

[6] Zaniboni fu condannato per alto tradimento a trent'anni, poi commutati nel confino a Ponza.(Archivio Storico Eoliano.it)

Il Comune a rischio di collasso. Poi ripresa e rilancio

 

Un Comune al collasso

Case di pescatori a Marina lunga

Quando il cavaliere Ferlice Ferlazzo viene eletto Sindaco il 23 dicembre 1919 sa che ha di fronte a se un compito difficile: rimettere la macchina amministrativa in grado di funzionare in nove mesi, quanti ne restano per le  elezioni  amministrative.

L’immane guerra con la rovina della  finanza nazionale – dirà nel suo discorso programmatico - non ha risparmiato quella del nostro Comune e mentre prima florida dava ragione a ben sperare in una sollecita risoluzione dei diversi problemi cittadini, ora, dissestata come si è ridotta, fa tremare  le vene dei polsi anche ai maggiori e provetti regitori, fa far disperare del domani. Prima della guerra eravamo riusciti ad accantonare parecchie centinaia di migliaia di lire per le opere pubbliche all’inizio delle quali con amorevoli e sollecite cure si era accinta la nostra precedente Amministrazione ma poi i mancati incassi della Tassa pomicifera determinati dal sempre diminuirsi delle esportazioni per effetto dello stato di guerra e l’accrescere degli oneri dovuti ai provvedimenti governativi per effetto della guerra stessa, aumenti di spese per rincari di materiali e di manodopera, creazione di nuovi uffici, caro vivere ed aumento di stipendi agli impiegati, ecc. dettero fondo alle economie accantonate, creando man mano il deficit per cui adesso la finanza comune è estremamente critica. La brevità data alla mia amministrazione non mi dà il tempo di espletare un programma qualsiasi e potrei essere dispensato dal fare una esposizione anche minima.”[1]

Ancora più preciso sarà il 14 aprile 1923 quando ricostruisce la vicenda degli sforzi fatti per uscire dalla crisi rispondendo all’inchiesta del Commissario prefettizio Cav. Francesco Bua.

La guerra aveva inabissato la finanza comunale – spiegherà in una relazione che più che ai consiglieri è rivolta al Prefetto e al Governo -  poiché l’unica tassa  di entità, sulla quale poggiava tutto il bilancio del Comune, quella della pomice,  da oltre 300 mila lire annue che era prima della guerra, si era ridotta a circa 80 mila lire, mentre le spese del Comune si erano triplicate ed anche quadruplicate. Né d’altra parte era stato possibile fronteggiare il forte deficit che man mano si era andato formando, con altre tasse locali , poiché la popolazione priva di ogni risorsa resisteva tenacemente con  minaccia grave dell’ordine pubblico. Per le dimissioni del Sindaco il Prefetto affidò l’amministrazione del Comune ad un Commissario prefettizio nella persona dell’avv. Cincotta che nell’agosto venne sostituito dall’avv. Stagni Attilio, Commissario di Pubblica Sicurezza. Egli tenne l’amministrazione fino ai primi del 1920. L’Amministrazione dei due commissari prefettizi, succeduti al Sindaco Paino, non migliorò la situazione del Comune, né essi pensarono un sol momento, ad imporre le tasse, nemmeno tentarono di riscuotere quella sui cani, che pure era stata imposta dall’Amministrazione Paino, e ciò perché era grande la preoccupazione d’insurrezione della popolazione e di turbare l’ordine pubblico. D’altra parte non studiarono, né escogitarono alcun mezzo per poter fronteggiare la incombente situazione finanziaria che si avviava sempre più a gran passi verso la rovina. I pagamenti non si facevano più e i debiti del Comune si accumulavano spaventosamente, si era dunque in procinto di un vero e proprio stato di fallimento. E con gli altri numerosi creditori non si pagavano i debiti verso i medici condotti e la Cassa Provinciale per contributi scolastici[2]”.

Risanare il comune senza aumentare le tasse

Il motivo ridondante è che bisogna risanare il Comune senza aumentare le tasse. Lo dice Ferlazzo nel discorso del 23 dicembre 1919 e lo ripete con forza il 14 aprile 1923. Anzi nel 1923 c’è una motivazione in più, “il bolscevismo”.  L’arrivo del fascismo aveva introdotto nel linguaggio abituale nuovi termini e nuovi nemici.

Le tasse non si potevano e non si possono aumentare per ragioni “di ordine pubblico, specie in quel tempo in cui il bolscevismo inquinava ed ammalava lo spirito Nazionale,”e più sommessamente si aggiunge “le quali del resto, in qualunque misura applicate, non potevano risolvere la situazione”.

“La disastrosa e allarmante situazione – incalza il Sindaco - impressionò fortemente la popolazione, la quale, non vedendo altra via di salvezza che nella ricostruzione di una amministrazione naturale che studiasse ed adottasse i provvedimenti più idonei e possibili nella grave contingenza senza però imposizione di tasse , reclamò energicamente e a gran voce che essa, senza ulteriore perdita di tempo si ricostruisse. E si reclamò allora che il dimissionario Sindaco Paino tornasse al suo posto: questi però non volle in nessun modo addivenire, né altri tentativi ebbero migliore fortuna, perché la situazione finanziaria faceva spavento.

Dopo vivissime, insistenti pressioni dovetti cedere io nell’assumere il posto di dovere e di sacrificio, e ciò avvenne nel gennaio 1920.

Il primo calice lo ebbi dagli impiegati[3] del Comune i quali non pagati da circa otto mesi, non prestavano servizio regolare, spesso tumultuavano,  e minacciavano ancora uno sciopero generale, onde tutti i servizi erano nel più completo ed assoluto abbandono. Il disordine era generale in tutti i rami di servizio e sovraneggiava spaventosamente. La situazione era più tragica di quanto non immaginassi ed ebbi anch’io, con i miei collaboratori, momenti di grande scoramento e perplessità. Ma la voce del Dovere, l’amore sconfinato per il mio Paese, per il quale in ogni tempo la mia famiglia avea affrontato i più duri sacrifizi  mi sostennero nello spirito e nell’azione e mi decisero alla più faticosa resistenza.

Chiamai a me tutti gli impiegati, feci loro comprendere il dovere e la necessità del paziente sacrificio per tutti, promisi loro tutta la mia benevolenza, come pretesi la disciplina ed il compimento del proprio dovere. Promisi di dare la precedenza al pagamento dei loro averi, arretrati di circa otto mesi, a rate ed appena possibili, rinviando il pagamento di tutti gli altri debiti del Comune. Riunii i medici condotti[4], li resi edotti della situazione, li esortai al sacrificio di rinviare l’esazione dei loro averi, al momento possibile e, con nobile sentimento di civismo, ebbi la loro incondizionata adesione[5]”.

Ma dove prendere le risorse? Questo è il primo problema da risolvere per potere ricominciare. Non potendo pensare a nuove tasse due sole sono le strade che Ferlazzo può percorrere: un mutuo della Cassa Depositi e Prestiti e un decreto governativo che lo autorizzi a raddoppiare la tassa sulla pomice. Questa tassa infatti non cade sulle spalle dei contribuenti locali ma sulle ditte che acquistano. L’esportazione ha raggiunto nel 1918 il punto più basso a livello del 1901 ma si spera che da un momento all’altro, finita la guerra, rasserenatisi i rapporti commerciali, riprenderà a salire[6]. Due strade difficili. La più immediata sembrerebbe quella del mutuo ed invece si rivela la più lunga tanto che nell’aprile del 1923 è ancora in itinere. Invece riesce a spuntarla prima per il decreto.

“…escogitai – spiega Ferlazzo - un provvedimento sanitario; l’invocazione al Governo di un Decreto legge che autorizzasse il Comune a raddoppiare la tassa sulla pomice all’imbarco. Appena il Consiglio comunale deliberò il provvedimento, ed ottenuta l’approvazione da parte del Prefetto, e l’inoltro al Governo, corsi a Roma, dove dopo intenso, faticoso ed incalzante lavoro, presso i Ministeri competenti, riuscii ad ottenere il sospirato Decreto, che doveva restaurare le finanze comunali.[7]”.

Quanto al mutuo, che dovrà essere di almeno 300 mila lire, si potrebbe eccepire che esso sposta l’onere in parte sulle generazioni future. Ma al nuovo primo cittadino questo non procura preoccupazioni morali giacché questa generazione ha patito “le più indicibili privazioni e sofferenze e la perdita di tanti cari, è bene [quindi] che i posteri con i benefici che in un prossimo futuro deriveranno dalla vittoria , abbiano anche una parte di oneri[8]”.

La ripresa e il rilancio di opere e servizi pubblici

Il secondo punto – dopo quello delle risorse per ripianare o contenere il deficit -  riguarda la ripresa dei lavori pubblici e delle altre opere relative alla vita urbana come la pubblica illuminazione che mancava del tutto. “I fanali -  ricorda Ferlazzo -  nella quasi totalità, raccolti nei magazzini di deposito del Comune erano fuori uso.  Provvedetti a farne riparare il maggior numero possibile e nuovi ne acquistai. Così potetti ripristinare l’illuminazione”[9].

Ma quando in quegli anni si parlava di opere pubbliche si pensava principalmente alle rotabili che si attendevano da anni ed anni. Purtroppo, a questo proposito non si poteva più pensare ad un altro mutuo, e quindi andava conseguito “nel più breve tempo possibile l’assunzione da parte dello Stato dei lavori  delle strade statali Lipari Canneto e Lipari Quattropani, ed il proseguimento di quella di Canneto per Acquacalda, onde possano essere presto ripresi i lavori per quella di Canneto, appaltati quelli per Quattropani e redatto il progetto di lavori appaltati nel proseguo Canneto – Acquacalda.” E con i lavori per le strade bisogna sollecitare il Governo anche per la ripresa “dei lavori del porto, la sistemazione dei moli e delle difese degli abitati nelle rade di Sottomonastero e Piazza Sant’Onofrio per la collocazione delle promesseci boe nelle rade di Lipari, Canneto, Acquacalda, Stromboli, Filicudi, Panarea ed Alicudi, per i pontili di sbarco a Lipari e Milazzo, per il miglioramento dei servizi marittimi sia per la nostra Isola sia per Stromboli e Filicudi ed Alicudi.[10]”.

Ed insieme alle opere pubbliche, quello dei collegamenti marittimi.

Piroscafo Adele in rada

“Per effetto della guerra – ricorderà Ferlazzo nel rapporto del 1923 - i servizi marittimi delle Isole Eolie erano stati ridotti e sconvolti, da non corrispondere alle minime esigenze e necessità delle popolazioni, del commercio e dell’industrie. Per le isole che non hanno altro mezzo di comunicazione con il resto del mondo è una delle questioni delle più vitali, e le popolazioni reclamano insistentemente e talvolta eccitatissimi il ripristino dei servizi dell’ante guerra. Le isole di Panarea, Stromboli con la frazione di Ginostra e le isole di Filicudi ed Alicudi, per i loro nuovi bisogni, reclamano energicamente una nuova linea settimanale in aggiunta a quella dell’anteguerra. Sulla linea di Napoli giustamente si pretendeva un piroscafo di maggiore tonnellaggio, e di maggiore velocità, con migliori e più umani adattamenti, per la terza classe e anche per quella unica[11]. … Ma il trionfo della giusta causa arrise ancora una volta, alla sorte delle isole Eolie le quali oltre al ripristino dei servizi dell’anteguerra poterono conseguire:

  1. una nuova linea  Lipari-Panarea- Stromboli con approdi alla frazione Ginostra e ritorno;
  2. una linea Lipari – Filicudi – Alicudi e ritorno quindicinalmente prolungata a Messina ;
  3. un piroscafo denominato Jost[12] sulla linea di Napoli di notevole tonnellaggio e di ottima velocità con magnifici adattamenti”.

Senza trascurare rotabili e piroscafo, Ferlazzo ha un occhio anche per le novità delle comunicazioni.

Nelle mie gite a Roma potei prospettare al Ministro – ricorda il 14 aprile del 1924 - la indifferibile necessità dell’impianto del Telefono, ed alle obiezioni ministeriali delle difficoltà finanziarie, poiché il cavo sottomarino da collocare fra Lipari e Milazzo, sarebbe costato enormemente io potei suggerire di ricercare nel materiale di guerra, dei cavi presi ai tedeschi. Fatte queste ricerche ed avendo dato favorevole risultato, si poté senza troppe spese per lo Stato , ottenere l’impianto del telefono tra Lipari ed il continente, tra i primissimi altri impianti che collegarono i capi luoghi di mandamento”[13].

Non è impegno di poco conto quello che si è assunto il Sindaco Ferlazzo. Un impegno svolto diligentemente. E comunque le emergenze sono esperienza di tutti i giorni e quando si verificano, gli effetti incidono per mesi ed anni.

Il 22 maggio 1919 si era avuta un’altra terribile  eruzione dello Stromboli e questa volta non erano stati colpiti solo i beni ma anche le persone. Esplosioni molto forte, grosse “bombe” e blocchi di 30-60 tonnellate si riversarono anche sui luoghi abitati. Il bilancio fu di quattro morti ed una ventina di feriti, otto case distrutte a San Vincenzo e due a Ginostra ( a S. Vincenzo una bomba di 10 tonnellate ridusse in frantumi una casa), 20 danneggiate. L’eruzione non fu preceduta o accompagnata da terremoti, ma da un forte spostamento d’aria. Il mare prima si ritirò, poi invase la spiaggia per lunghi tratti. Il Consiglio oltre a raccomandare al Governo di condonare per cinque annualità le imposte sui terreni e fabbricati perché tutti quegli abitanti sono stati fortemente danneggiati, delibera di assegnare ai cittadini di quell’isola, danneggiati nella proprietà, un sussidio di 3000 lire e si duole di “non potere concorrere per una somma maggiore date le difficili condizioni finanziarie in cui versa il Comune[14].

Lipari - Via Vittorio Emanuele nel 1896

Così nel precedente gennaio-febbraio si erano avute delle forti alluvioni che avevano distrutto le strade campestri, isolando diversi centri nelle campagne tanto da impedire il trasporto dei raccolti. Su una spesa preventivata di 35 mila lire per ripristinare i collegamenti, il Ministero dei lavori pubblici ne aveva elargito 15 mila ma il Genio civile non dava inizio ai lavori se non aveva a disposizione l’intera somma. Il Comune non sapeva dove reperire le rimanenti 20 mila e doveva chiede al Governo di provvedervi ampliando il sussidio[15].  Nel rendiconto del lavoro fatto il 14 aprile del 1923 il Sindaco accenna ad “interventi per le strade mulattiere rese assolutamente impraticabili dalle frequenti alluvioni degli ultimi anni che si è provveduto con un mutuo oltre ad altri sussidi dello Stato” e di “interventi per le isole minori  che si stanno eseguendo”.

Il sindaco Ferlazzo fra difficoltà e tenacia

Ancora il 12 giugno 1920 il Consiglio deve rescindere il contratto con l’appaltatore, la ditta Onofrio Russo, di via Vittorio Emanuele e di via Maurolico per inadempienza in quanto dopo due anni non ha ancora ripreso i lavori. Il 14 aprile 1923 Ferlazzo può ricordare che “le domande dell’impresa erano di una tale entità e la causa così intricata e manipolata che se non si fosse data tutta la più attenta e incessante assistenza il Comune  pericolava di avere la peggio, pure avendo sostanzialmente ragione”.

Nemmeno i cimiteri sono stati trascurati, sosterrà il Sindaco, contestando le affermazioni del commissario Bua. Riconosce che le vecchie mura che ne chiudono il recinto sono in parte in cattive condizioni statiche ed anche cadenti e da qualche parte è anche agevole l’accesso in maniera che qualche volta è possibile eludere la vigilanza. Tale stato di cose si è determinato a causa delle alluvioni recenti e l’amministrazione oltre ai provvedimenti urgenti adottati per i lavori di minore entità, ottenne dal Consiglio comunale nella seduta del 18 agosto 1922 l’approvazione del progetto della ricostruzione delle mura di cinta e la costruzione di nicchie a colombaia. Per cui quanto prima si procederà all’esecuzione dei lavori. Inoltre nel 1922 fu dato incarico all’ing. Amendola di redigere progetti per i cimiteri di Alicudi, Filicudi, Panarea, Ginostra, Vulcano Piano, Vulcano Gelso, Quattropani ed Acquacalda.

La relazione di autodifesa  del 14 aprile 1923 trova il voto contrario dell’opposizione anche se quando il nuovo consiglio, dopo le elezioni amministrative, era tornato a riunirsi l’11 ottobre 1920, Ferlazzo era stato rieletto Sindaco all’unanimità. Grazie al raddoppio della tassa sulla pomice ma, soprattutto, alla ripresa della sua esportazione si era riusciti se non a risanare il bilancio quanto meno a contenerne il deficit. Nel dibattito che ne era seguito  il consigliere De Mauro si augurava che ora venissero affrontati in particolare tre problemi: la sistemazione della città murata lasciata libera dai coatti sgomberando le casupole cadenti e realizzando, al loro posto, nuove case e magari anche un albergo  “per stimolare qui in Lipari il movimento dei forestieri”; la costruzione di un nuovo ospedale giacchè quello esistente – l’Ospedale dell’Annunciata - oltre ad essere malmesso, dovrà subire una demolizione parziale quando si porrà mano alla sistemazione di via Vittorio Emanuele[16]; infine e soprattutto la scuola sia per quanto riguarda i locali, “diversi dei quali sono stati giudicati pericolanti e purtroppo ancora frequentati dagli alunni e dai maestri”, ma soprattutto per quando riguarda l’istruzione : bisogna che l’amministrazione si assuma l’impegno di fare sparire dalle Eolie la parola analfabetismo.

Per il resto questa prima seduta si era consumata  fra elogi e convenevoli. Si salutava e si elogiava il prof. Emanuele Carnevale, definito “autorevole milite della concordia cittadina” che tornava in Consiglio dopo molto tempo; si salutava e si elogiava il marchese Ugo di Sant’Onofrio, ”benefattore delle Isole Eolie, venerato cittadino onorario” che era stato nominato Senatore del Regno; si salutava Fiume, “città martire”ed “il suo eroico comandante Gabriele D’Annunzio” e con Fiume tutta la “infelice ed eroica” Dalmazia.

Anche il Consiglio del 22 gennaio se ne andava, in parte, – come abbiamo già detto nei capitoli precedenti – per commemorare il risultato della vittoria alla Corte di Cassazione nella controversia col vescovo per la proprietà delle cave; poi il Sindaco informava sulla missione a Roma – sempre accompagnato dal marchese Ugo di Sant’Onofrio, da altri parlamentari e dal consigliere provinciale De Mauro - per sollecitare i vari ministeri per i collegamenti marittimi, per i lavori pubblici, per i sussidi alla gente di Filicudi che aveva avuto le case danneggiate dal terremoto, dell’acqua potabile per la siccità estiva che sarebbe stata questa volta a carico dello Stato.

Infine illustrava le linee programmatiche del suo quadriennio cominciando col ricordare che i problemi finanziari non erano ancora finiti ed il bilancio presentava un deficit ancora di 300 mila lire. Sui servizi. L’illuminazione pubblica a petrolio non sarebbe stata più gestita direttamente dal Comune ma data in appalto mentre si sperava al più presto di arrivare all’illuminazione elettrica. A questo proposito informava di un progetto che voleva utilizzare le fumarole di Vulcano per ricavare l’energia necessaria a produrre elettricità.

Quanto all’acqua non poteva che constatare che il costo di questa, durante i periodi di siccità, era divenuto pesante. L’anno precedente era costato 60 mila lire e si era riusciti a convincere il Ministero dell’interno a farsene carico ma non era strada che potesse essere ripercorsa facilmente. Bisognerebbe verificare una volta per tutta se nell’isola esistesse acqua sorgiva.

Infine il problema delle scuole. “Le attuali aule scolastiche, sono delle più umilianti, mentre il Comune è costretto a pagare ingenti fitti, per i locali che spesso è difficile trovare. Si faranno sollecitamente studiare i progetti e ottenere la costruzione coi benefici provenienti dalle leggi[17]. Ma per incamminarsi in questa prospettiva dovranno passare ancora trent’anni.

E’ un Sindaco tenace Ferlazzo, ma i problemi sono tanti e sembra che tutti si avvitino su se stessi. Le strade non ripartono, le opere marittime procedono lentamente, la pomice fatica a riprendere, l’elettricità e l’acqua sufficiente sembrano una chimera. Che fare?

Nel giugno dell’anno precedente è di nuovo al Governo il vecchio Giolitti e Ferlazzo pensa di rivolgersi a lui. Chiede a Sant’Onofrio che gli procuri un appuntamento e lo ottiene. Si prepara bene il Sindaco all’incontro. Scrive una memoria con i problemi più importanti. Ed è un bene che l’abbia fatto perché a Roma – il 18 aprile 1921 - non riesce a vedere il Presidente ma deve accontentarsi del Sottosegretario alla Presidenza a cui consegna la nota. E Giolitti si interessa. Mette in moto il Ministro dei Lavori Pubblici e questo dopo qualche tempo relazione al Presidente del Consiglio e il Sindaco può leggere con soddisfazione la nota al Consiglio. Il Ministro ha interessato il Genio Civile di Messina e  le opere pubbliche terrestri e marittime dovrebbero risvegliarsi.

Nella lunga autodifesa del 14 aprile 1923 a proposito dei lavori pubblici Ferlazzo dirà.

Canneto "vucca u vadduni"

Altro problema vitale per quanto annoso, era quello delle strade rotabili Lipari – Canneto con prolungamento ad Acquacalda e Lipari – Quattropani, che per l’entità della spesa, se non fossero passate al totale carico dello stato e della provincia sarebbero sempre rimaste un’aspirazione. Con Decreto ministeriale del 30 febbraio 1920 furono ammessi al beneficio del Decreto luogotenenziale del 1918 le rotabili a) Lipari Canneto; b) Lipari Quattropani; c) Lipari Porto Pignataro; d) Canneto Acquacalda”  e successivamente la mulattiera dalla frazione Ginostra a S. Vincenzo nell’isola di Stromboli.

“Un lavoro veramente estenuante – commenta il Sindaco - ha dovuto affrontare l’Amministrazione comunale  e quotidianamente per ottenere la ripresa dei lavori della rotabile Lipari – Canneto e per l’inizio di quella per Quattropani; ed io in ogni mio viaggio a Roma, ho fatto il diavolo a quattro, conferendo con Ministri, sottosegretari di Stato, interessando anche S. Ecc. Giolitti quando presiedeva il Ministero. Ora ho potuto avere sicuri affidamenti da S. Ecc. Carnazza, per sperare che , sotto il Governo di S. Ecc. Mussolini, al fine si potrà conseguire quanto è stato per decine di anni, la costante legittima aspirazione della popolazione di Lipari”.



[1] Il discorso tenuto il 23 dicembre 1919 è riportato nel verbale della seduta del 2 febbraio 1920.

[2] Questo documento comprese le risultanze dell’inchiesta del Commissario Francesco Bua è nel verbale del consiglio comunale del 14 aprile 1923.

[3] Il Comune doveva contare circa 40 dipendenti. Quando il 13 aprile 1925 il Consiglio discute della nuova pianta organica questa prevede appunto 41 dipendenti divisi in sette ruoli. Il primo ruolo riguarda i dipendenti  presenti nella casa municipale e sono 17 (un segretario, un vice segretario, un ragioniere, un tesoriere, un archivista, cinque applicati di segreteria, un agente riscossione della tassa pomice in Canneto, un dattilografo copista, un usciere, un messo comunale e tre messi rurali); corpo delle guardie municipali era composto da un capoguardia e da cinque guardie; il corpo addetto alla vigilanza per la pomice comprendeva: un direttore tecnico minerario, un comandante guardie campestri o vigili pomici feri, cinque guardie, un conduttore battello comunale; la custodia del cimitero prevedeva: un custode cimitero di Lipari, un seppellitore cimitero di Lipari e  un custode e seppellitore cimitero di Stromboli; un maestro di musica; per le scuole  vi erano un bidello scuola tecnica o complementare e  due bidelli scuole elementari; per le carceri: un custode carcere mandamentale e un giardiniere.

[4] Il Comune contava allora sette condotte mediche: due a Lipari centro ( 11.000 ab circa.) di cui una sovrintendeva le borgate di  Pianoconte (500 ab.) , Quattropani (500 ab.) e Vulcano ( 400 ab.); una a Canneto ( (2.000 ab.) con le frazioni di Sparanello, Lami ed Acquacalda ( 500 ab.); una a Stromboli (2.200 ab,) con Ginostra ( 400 ab.), una a Filicudi ( 1.300 ab.), una ad Alicudi ( (800 ab.).

[5] Verbale del Consiglio comunale  del 14 aprile 1923.

[6] Proprio nel 1919 l’esportazione riprenderà a salire ma solo nel 1923 si porterà ai livelli dell’anteguerrà e ciò sulle 30 mila tonnellate all’anno.

[7] Verbale del 14 aprile 1923

[8] Verbale del 23 dicembre 1919.

[9] Verbale del 14 aprile 1023.

[10] Verbale del 23 dicembre 1919.

[11] Le richieste del Comune per i servizi marittimi approvate nella seduta del 18 agosto 1922 erano state::

Linea I Milazzo- Lipari – Canneto- Acquacalda-  S. Marina – Malfa – Rinella – e ritorno, giornaliera sia fatta con piroscafo di 500 tonnellate di stazza lorda e di velocità di 14 miglia orarie Che tutti i locali per i passeggeri, anche quelli di terza classe, siano in buone condizioni con istallazioni chiuse in grado di riparare i viaggiatori dalle intemperie. Le stesse caratteristiche deve avere il piroscafo “di rispetto” cioè che dovesse sostituire quello di linea per emergenze o riparazioni.

Linea II che parte da Messina-Lipari- Canneto – Acquacalda, S. Marina – Malf – Capo – Panarea – Ginostra – Stromboli e ritrono, settimanale con piroscafi della velocità di 10 miglia orari e di 500 tonnellate di stazza lorde.

Linea III a – Messina – Lipari – Canneto – Acquacalda – S. Marina – Capo – Malfa – Pollara – Filicudi porto – Filicudi Pecorini – Alicudi e ritorno passando da Flicudi Pecorini – Filicudi porto -

 Rinella – Lingua – S. Marina – Acquacalda – Canneto – Lipari – Messina.

Linea III b – invertendo l’andata e ritorno con la linea III a) entrambe settimanali con piroscafi di 500 tonnellate velocità 10 miglia orarie.

Linea IV – Lipari – Canneto – Panarea – Ginostra – Stromboli e ritorno settimanale sempre con piroscafi di 500 t. e 10 /mh.

Linea V – Messina – Lipari- Canneto – Acquacalda – Filicudi Porto – Filicudi Pecorini e ritorno

Linea V bis – Lipari – Canneto – Vulcano Gelso – con ritorno a Vulcano porto – Canneto – Lipari settimanale

Linea II bis ( Gruppo Sicilia)  Messin a- Milazzo – Lipari- Canneto- Acquacalda – S. Marina – Lingua – Rinella – Pollara – Malfa – Capo – Panarea- Ginostra – Stromboli – Napoli e ritorno, settimanale con piroscafi di stazza lorda di 1000 tonnellate e dalla velocità minima di 12 mh.

[12] Probabilmente questo piroscafo venne sostituito perché non risulta che sulle rotte per le Eolie sia mai entrato in funzione un mezzo con questo nome.

[13] Verbale del 14 aprile 1923.

[14] Dal verbale del Consiglio comunale del 28 giugno 1919.

[15] Dal verbale del Consiglio Comunale del 21 giugno 1919

[16] Nel Consiglio del 14 aprile 1923 il Sindaco a proposito dell’Ospedale esistente dirà che esso dipende dalla Congregazione di Carità. Esso però è anche un ricovero di mendici inabili al lavoro. L’amministrazione comunale intende provvedere, rassicura il Sindaco, ad un nuovo ospedale secondo le esigenze moderne e ne ha già acquistato il terreno. La demolizione parziale di cui parla il consigliere De Mauro riguarda la parte che si spingeva verso la chiesetta del Rosario lasciando lo spazio di un vicolo, il cosiddetto ‘u strittu a Sena dove terminava, appunto con una strozzatura che doveva essere eliminata,  via Vittorio Emanuele.

[17] Dal verbale del Consiglio comunale del 22 gennaio 1921.(Archivio Storico Eoliano.it)

Le Eolie e la “grande guerra”.

 

Una guerra lontana per i più

Certo le Eolie, come d’altronde tutta la Sicilia, erano lontane dal fronte di guerra, eppure non si può dire che ne siano rimaste estranee ed indifferenti. Al di là di molta retorica che voleva che la guerra affratellasse l’Italia in realtà gli effetti interni, economici e  sociali, furono sicuramente più negativi che positivi. Perché, se è vero che i contadini meridionali e gli operai settentrionali parteciparono alla lotta a fianco alla borghesia, scoprendo di fare parte di una stessa nazione e sperando in un riscatto sociale, è ancora più vero che la guerra del 1915-18, come d'altronde quella coloniale del 1911-12 voluta da Giolitti, si rivelò – oltre che pesante in termini di perdita di vite umane tanto che non c'è paese della Sicilia che non abbia la sua lapide di caduti - anche eccessivamente costosa ed incise duramente proprio sul mezzogiorno e le zone rurali bloccandone lo sviluppo, stravolgendo i commerci, comprimendo i prezzi del grano e della farina e alimentando così  il mercato nero e con esso la mafia. Inoltre i contadini tornati dal fronte trovavano disoccupazione e nuove restrizioni all'emigrazione e vivevano in clima di continua tensione ed agitazione come, d'altronde, i piccoli borghesi che avevano ricoperto, durante i combattimenti, ruoli di ufficiali e di comando ed ora mal sopportavano di dover tornare a funzioni subalterne. Questa tensione e questa agitazione qualche volta divenivano protesta politica come per l'occupazione delle terre, oppure progettualità sociale attraverso il movimento cooperativo, ma più spesso, purtroppo, trovavano sfogo in forme di microcriminalità e di prevaricazione E sarà proprio questa miscela esplosiva di frustrazione, microcriminalità e prevaricazione – diffusa su tutto territorio nazionale – che verrà utilizzata da strutture di potere senza scrupoli per dar vita a quella svolta reazionaria che porterà al fascismo.

Di questa travagliata vicenda le Eolie, oltre alle lapidi con i loro tributi di sangue, conservano ben poco nella memoria collettiva anche se Lipari, come abbiamo visto, non mancò allora di partecipare all'eccitazione nazionalistica e patriottica che si sviluppò dal 1911 fino al 1918.  Ma Lipari e le Eolie soprattutto risentirono gravemente delle restrizioni e dei condizionamenti bellici a cominciare dall'industria della pomice che si vide chiusi molti mercati e quindi ridurre fortemente le esportazioni e con esse il lavoro degli operai e le entrate del Comune per il quale la tassa sulla pomice era divenuto l'unico vero provento. Una economia di sopravvivenza, mancanza di lavoro, carenza di generi alimentari, collegamenti marittimi traumatizzanti , blocco delle opere pubbliche sono i caratteri più significativi di questa fase.

Ma i problemi economici si fanno sentire

Dure e realistiche sono le considerazioni a proposito del Bilancio comunale che fa il consigliere Palamara nel Consiglio del 2 maggio 1917. “Nessuno ha saputo prevedere – esordisce il relatore in un discorso che è lontano dalla retorica nazionalistica di quei tempi  – la durata di questa immane conflitto e nessuno può ergersi a profeta per prognosticare la fine. Di ciò la necessità di occuparci e di preoccuparci delle risorse del nostro bilancio che vanno sempre più sensibilmente assottigliandosi e necessariamente si dovrà al più presto ricorrere alle odiate tasse, che potrebbero in parte scongiurarsi imponendosi la più stringata economia”.  Ma nel momento attuale il paese non può sopportare alcuna tassa e quindi bisogna rinunciare alle spese facoltative. Già nel 1916 senza le spese facoltative si avrebbe un disavanzo di circa 100 mila lire che nel 1917 raddoppieranno sempre non considerando le spese facoltative. Quanto al mutuo in cui si spera, si tratta di “un pio desiderio per gli ingenui”. Quindi si è di fronte ad una alternativa: o aumentare le tasse o prendere delle decisioni drastiche rispetto alle uscite “sopprimendo e sospendendo tutto ciò non dovuto per legge e limitando le spese obbligatorie al vero fabbisogno”.

Nel Consiglio del 21 dicembre dello stesso anno si discute sulla risposta della Cassa Depositi e prestiti a cui si era chiesto un mutuo di 300 mila lire per portare a compimento le opere appaltate fin dal 1914 che sono la rotabile Lipari-Canneto e  il lasticamento delle vie Vittorio Emanuele e Maurolico di Lipari e i cui lavori procedevano regolarmente. La Cassa dice che vista la situazione generale, Lipari deve ridurre la richiesta al finanziamento di una sola opera. L’assessore ai lavori pubblici Felice Ferlazzo dice che questo è impossibile. Lipari fin che ha potuto ha fatto fronte con i fondi comunali ma ha chiesto il mutuo quando questi, per la crisi della pomice, si sono venuti esaurendo. Bloccare alcuni lavori vuol dire subire danni ingenti. Per cui alla Cassa si deve rispondere che Lipari ha bisogno di non meno di 170 mila lire.

Comunque la crisi del Comune si trascinerà e nel luglio del 1919 si arriverà alle dimissioni perché l’amministrazione è bloccata da uno sciopero dei dipendenti salariati che reclamano gli aumenti, il carovita, il pagamento degli arretrati. Il Sindaco Gaetano Paino non sa come farvi fronte proprio per le gravi condizioni del bilancio conseguenza della guerra  che “ha tutto sconvolto”.

Fra paura delle epidemie ed ospiti indesiderati

La guerra non vuol dire per le Eolie soltanto crisi economica ed amministrativa. Pesa su queste isole il marchio di luogo di confine e per alcuni relegati che partono altri ne arrivano e comunque la psicosi dei possibili arrivi di ospiti indesiderati portatori di epidemie fisiche o morali permarrà a lungo.

La vittoria in Libia aveva avuto una conseguenza. Sul finire del 1912, erano stati mandati al confine a Lipari una decina di  persone reduci della resistenza in Tripolitania. Questi erano stati alloggiati in casupole e magazzini fatiscenti nel quartiere di Sopra la terra. Da allora quella zona  si chiamò quartiere arabo e questa etichetta rimase nel tempo anche quando questi reduci, dopo meno di un anno, andarono via e lì rimasero ad abitare solo i pescatori acitani che divennero anch’essi “gli arabi”[1].

Comunque la paura che “gli arabi” potessero tornare ed in maggior numero, rimase nel paese tanto che il 10 giugno 1915  il Consiglio comunale si mobilita quando si diffonde la notizia dell'arrivo di 600 arabi espulsi dalla Tripolitania. Si decide di telegrafare al Ministro dell'interno, al Prefetto ed al deputato del collegio, l’on.Ugo di Sant'Onofrio, chiedendo di sospendere l'invio, per l'oggi ma anche per l'avvenire. E si ricorda, una volta di più, che Lipari se malamente sopporta una colonia di domiciliati coatti – che è ancora presente - non potrebbe tollerare questi nuovi confinati, i quali costituirebbero grave pericolo per la pubblica salute e per la moralità.

Il 27 dicembre il Consiglio Comunale viene convocato perché ci sono due novità: una che rallegra ed una che preoccupa. La buona notizia è che finalmente è stata tolta la colonia dei coatti e per questo si ringrazia il Governo e ci si augura che il futuro non debba più presentarsi questo problema perché – viene detto in Consiglio – la colonia non è scuola di redenzione ma di criminalità.

Chiusa la colonia i reclusi vengono in parte trasferiti, altri tornano alle loro case, diversi - oltre quelli che da tempo si erano accasati e si erano rifatti una vita -  rimangono a Lipari, molti sbandati ed emarginati. a vivere come barboni, sempre ubriachi, gettati lungo le strade. Ancora nel 1919 il Consiglio fa voti che sia ripristinata a Lipari una Brigata di Pubblica Sicurezza ed a Canneto una sottobrigata giacché nel Comune c’è “un numero considerevole di coatti che possono turbare, come speso avviene, l’ordine pubblico[2] .

La notizia che preoccupa e che a Lipari sono arrivati e stanno arrivando nuovi ospiti. Quanti? La voce di popolo parla addirittura di 30 mila. Il 27 dicembre ancora  non si sapeva se si trattasse di profughi o prigionieri ed il Consiglio – pur ritenendo che un contributo Lipari doveva darlo ai sacrifici per la guerra in corso – aveva chiesto che - piuttosto che profughi che, per i disagi patiti, potevano essere veicolo di malattie ed inoltre sarebbero stati liberi di muoversi per il paese – si mandassero a Lipari dei prigionieri che sarebbero stati controllatati dai soldati e alloggiati in luoghi assegnati. Infatti Lipari era un’isola popolosa, aveva problemi d’acqua, non aveva adeguate strutture sanitarie e se scoppiava una epidemia sarebbe stato un dramma per tutta la popolazione. Inoltre una epidemia avrebbe nociuto al commercio della pomice che ora, dopo la guerra, si sperava che riprendesse a pieno ritmo. Invece, quando il Consiglio torna a riunirsi il 27 gennaio è chiaro che si tratterà di profughi e fra di essi alcuni sono malandati in salute. Inoltre l’ufficio sanitario dove vengono visitati è proprio posto in centro al paese e  quindi cresce l’allarme. A questo punto il voto del Consiglio è che ci si limiti ai profughi già arrivati e non se ne mandino altri e se proprio altri ne devono arrivare vengano dopo un periodo di quarantena, che vengano mandati infermieri e personale sanitario e il gabinetto batteriologico sia tolto dal paese e spostato al Castello, che anche al Castello vengano fatti alloggiare gli ospiti.

Probabilmente la preoccupazione per i profughi rientrò in fretta . Essi furono mandati al Castello ed anche al Castello, nei locali dell’ex palazzo vescovile,  fu spostato il gabinetto batteriologico Rimase invece viva nella popolazione la preoccupazione per il ripristino della colonia coatta .Ed ogni tanto questa esplodeva. Come quando si diffuse la voce che alcuni interessati avessero inviata una petizione al Governo per chiedere il ripristino della colonia. Così il Consiglio del 5 dicembre 1916 vota un ordine del giorno in cui si minacciano le dimissioni in massa se dovesse verificare questa eventualità ed all’on. Ugo di Sant’Onofrio si fa sapere che la fiducia che il paese ripone nella sua persona sarebbe scossa profondamente.

Il Lazzaretto a Pignataro di fuori

Ma per quante assicurazioni si ricevessero la preoccupazione restava e, come vedremo, nel 1926 portò ad una vera e propria sollevazione popolare.

Quando l’amministrazione comunale faceva presente al Governo che l’isola era impreparata a far fronte ad epidemie e che l’eventuale diffusione di queste avrebbe creato problemi drammatici era perché con questa preoccupazione si era convissuti fin  dal 1911 quando si ripresentò il problema del colera e più tardi, negli anni della guerra e del dopoguerra[3], anche quello del vaiolo. Ed è stato per questo che fin dal 21 giugno 1911  l’amministrazione comunale fu sollecitata dalla Prefettura a disporre di un ospedale di isolamento per mettere i malati di malattie infettive. Così fu preso in affitto un  fabbricato a Pignataro di Fuori di proprietà del’ing. Gaetano Martines e quel posto, da allora, si chiamò il  Lazzaretto. Non sappiamo se si trattò di una pura formalità perché era necessario avere un posto con questa finalità o se veramente lì furono ricoverati dei malati infettivi. Il fatto è che nel 1919 l’edificio risultava non “idoneo,” perché semidistrutto, mancante degli infissi, inaccessibile via terra e raggiungibile solo a mezzo barca[4]” e per queste ragioni, quando ci fu una epidemia di vaiolo, non si potè farne uso e si dovette occupare, per tale scopo, il vecchio palazzo vescovile[5] al Castello. Così il Commissario prefettizio, Attilio Stagno, che era stato mandato a sanare una situazione disastrosa,  disdisse l’affitto..

Pignataro case di fuori dove era collocato il Lazzaretto.



[1] G.Iacolino, Strade che vai, memorie che trovi, Milazzo 2008, pag.140-141.

[2] Verbali del Consiglio Comunale del 4 febbraio 1919.

[3] Una epidemia vaiolosa si sviluppa nel 1919 e 1920 infatti nel Consiglio del 28 marzo 1922 il Presidente informa che “il signore Esposito Salvatore ha fornito al Comune per gli infermi ricoverati in questo Lazzaretto, il casermaggio per un complesso di giorni 377 e precisamente dal 19 marzo 1919 al 31 marzo 1920 al prezzo convenuto di lire 0,55 per ogni fornitura di letto completo” e quindi per un totale di lire 4.385,00. 

[4] Verbale del Consiglio comunale del 17 settembre 1919.

[5]Per questo edificio che probabilmente era divenuto ospedale di isolamento e anche centro di controllo sanitario dei profughi giunti nel 1915, ma non era entrato nelle disponibilità del Comune, il 22 febbraio 1919 il Consiglio chiede al Governo l’occupazione temporanea del caseggiato che afferma essere di proprietà demaniale, il camerone San Nicola, il gabinetto batteriologico ed il bagno annessovi potendo il Comune avere bisogno di adibirlo in linea provvisoria per ospedale qualora venisse a mancare l’ospedale attuale. Delibera anche di chiedere il materiale sanitario di arredo. Dal verbale del Consiglio del 22 febbraio 1919(Archivio Storico Eoliano.it)

“Noi manchiamo di tutto!Tutto!Tutto!”

 

Le difficoltà dei collegamenti marittimi

Con la Società Siciliana di navigazione a Vapore, come abbiamo visto, si erano avute corse quotidiane con Milazzo, settimanali con Messina e da qualche anno funzionava anche una linea con Napoli ma il vero problema era la qualità dei navigli. I collegamenti con Filicudi e Alicudi erano quindicinali -  più tardi settimanali e bisettimanali- e venivano subappaltati all’armatore liparese don Francesco La Cava il quale utilizzava dei navigli piuttosto modesti suoi modesti natanti - l’Unione, la Famiglia, l’Organetto - che male sopportavano il vento ed il mare e la situazione non migliorò di molto quando la Società acquistò dalla Finanza due ex motovedette – la Flora e la Zelina – che affidò alla gestione di padron La Cava. Non più stabili però erano i mezzi della Società armatoriale: il Mazzini che faceva la linea giornaliera, l’Eolo quella per Napoli e lo Scilla che veniva utilizzato nelle frequenti sostituzioni dei primi due. Erano navigli logori e fradici che non superavano le 10-12 miglia orari cioè due ore e mezza da Lipari a Milazzo e cinque per Messina. Anche il vapore Adele che fu immesso nel 1908  sulla linea principale era vetusto e con pessime condizioni di stabilità. La terza classe era a cielo aperto e angusta e in pochi metri quadrati erano costretti a stare insieme passeggeri, detenuti in transito e bestie da macello intossicati dal fumo della ciminiera o schiaffeggiati dalle onde del mare o dalla pioggia. Eppure la convenzione aveva fruttato, per stare solo al 1909, alla Società di Navigazione ben 250 mila lire annue.

Ma quando arriva la guerra la situazione peggiora. Il 9 marzo del 1915 il Consiglio comunale discute di un primo taglio effettuato dalla Società armatrice senza avere preventivamente informata l’amministrazione. E’ il primo segnale al quale ne seguiranno altri. Nella primavera del 1917 si giunti a tre corse settimanali con Milazzo e si vorrebbero integrare utilizzando l’”Unione” di La Cava per quanto piccola e carente sia. Infatti ridotta la frequenza e siccome il piroscafo Flora è di dimensioni ridotte, all’imbarco scoppiano risse fra i viaggiatori per chi debba avere  la precedenza per partire – visto che è stato prefissato un limite e si da la precedenza ai militari - e così qualche volta è successo che qualcuno, nella confusione, è caduto in mare. Inoltre, il Consiglio protesta perchè i viaggi avvengono di notte ritenendoli più sicuri più sicuri, invece creano solo un maggior disagio ai viaggiatori[1]. Inoltre mancano sedili e tende per cui  “chi viaggia è costretto a buttarsi a terra come gli animali, e per giunta allo scoverto dalle intemperie della stagione e da tutte le esalazioni più o meno nocive che derivano dalla macchina” [2].

Per garantire almeno il servizio postale quotidiano si chiede il 14 giugno 1918 l’utilizzo di un idrovolante da Milazzo. Finalmente qualche settimana dopo l’autorizzazione viene concessa. Il veivolo era comandato dal liparese Salvatore Iacono, sergente dell’aviazione, che era ideatore dell’iniziativa.. Il successo fu enorme e la gente correva a Marina Corta per  assistere all’ammaraggio e per attendere la posta dei parenti e degli amici dal fronte. E proprio una gran folla assistette l’8 settembre 1918 all’avaria dell’idrovolante che si fracassò – in un fuggi fuggi generale – sulla spiaggia, finendo contro le barche tirate a secco. Grazie a Dio, Salvatore si salvò e un pezzo del veivolo finì come cimelio nel suo laboratorio di falegname che aprì, qualche tempo dopo, in via Roma[3].

Quando l’11 novembre del 1918 si conclude la guerra il Consiglio nella seduta del 24 dicembre chiede che siano ripristinate al più presto le linee  che vi erano prima del conflitto ma con navigli più adeguati di quelli che fino ad ora aveva disposto la Società Siciliana, anzi sarebbe stato bene che il servizio passasse allo Stato e possibilmente alle Ferrovie. E sempre nello steso Consiglio, si parla anche delle opere marittime, che erano direttamente collegate ai trasporti

E si tratta di un’altra grossa emergenza perché ancora il trasbordo dalle navi alle banchine – anzi nelle isole minori mancano persino le banchine - avviene attraverso barche  e non esiste un vero porto rifugio. Così le priorità che si indicano sono molto ampie: il completamento dei lavori portuali e di difesa dell’abitato; la sistemazione delle banchine e dei pontili di sbarco. I lavori già iniziati sono quelli di Pignataro e Sottomonastero e cioè a Pignataro il prolungamento del braccio in costruzione,  le “le calate” perché esso “possa rendersi utile alla marineria sia come ricovero sicuro, sia come ormeggio e traffico” e la strada di accesso; a Sottomonastero occorre che la banchina sia elevata di livello e portata sino a Punta Scaliddi, con un braccio ad angolo, per rendere più sicuro l’ormeggio delle navi e provvedere ai lavori di difesa dell’abitato fino alla foce del torrente Valle perché il mare già batte sui fabbricati e durante le mareggiate c’è il rischio che vengano portati via. Si parla anche del porto di Marina San Giovanni dove le banchine devono essere elevate di livello perché probabilmente il bradisismo negativo si fa già sentire e quella che guarda Vulcano va prolungata con un braccio ad angolo per permettere l’attracco del postale. A Canneto c’è invece bisogno”di un pennello di molo”.

Il problema dell'acqua

Quello dell’acqua è sempre stato un problema per le Eolie. Prima vi era il grande serbatoio del Castello costruito all’epoca dei normanni e che aveva sopperito, bene o male, alle esigenze dei liparesi quando si viveva nella città alta. Poi, via via che si sviluppava la città bassa si era provveduto con i pozzi che raccoglievano l’acqua piovana e le “senìe” che servivano per i campi. Così nel 700 i vescovi fanno costruire delle cisterne  nei pressi del palazzo Vescovile di Diana e quel posto si chiamerà d’allora in poi “u’ Puzzu”. La gestione pubblica e privata dell’acqua piovana raccolta era sempre meno sufficiente, soprattutto nei periodi di siccità, ed era allora che l’Amministrazione comunale faceva provvedere a portare l’acqua da fuori forse qualche volta con le navi della marina militare ma il più delle volte acquistandola da armatori privati che possedevano navi adatte per questo trasporto. A Lipari, una volta giunta l’acqua veniva immessa nelle cisterne pubbliche e forse anche in qualche cisterna privata di abitazioni più vicine al porto giacchè ancora il 22 agosto del 1911 il Sindaco rendeva noto ai consiglieri che “malgrado lunghi studi non si era potuti addivenire ad una soluzione” per quanto riguardava le condutture di acqua potabile nella città.  Il 12 maggio del 1912 il Sindaco informa il Consiglio che, “per la mancanza assoluta di acqua in Paese”, ci si era rivolti al Ministero tramite la Prefettura ma la risposta era stata negativa perché tutte le cisterne erano impegnate per il rifornimento dell’acqua per l’Esercito e la Marina. Così si era sentita alla ditta Valenzano di Napoli con cui si era in rapporti da tempo. Erano rapporti non sempre pacifici perché già in passato vi era stata una contestazione sul quantitativo arrivato. Ma probabilmente non erano molte le ditte che svolgevano questo servizio e quindi si tornav a servirsi di questa  che aveva già inviato un primo carico al costo di lire10,15 la tonnellata. Il Consiglio apre in Bilancio un capitolo di spesa imputandovi lire 10.000 segno che le necessità annue erano stimate, quando vi erano periodi di siccità, intorno alle mille tonnellate.

Ma indubbiamente la soluzione non era soddisfacente se nel giugno del 1913 si dovette nominare una commissione presieduta dall’assessore all’igiene dott. Francesco  De Mauro per studiare “il miglior modo come fornire di acqua potabile l’Isola di Lipari “[4].

In questi anni ripetutamente viene sollecitata l’amministrazione per realizzare serbatoi d’acqua potabile anche a Canneto ed Acquacalda. Nel Consiglio del 15 dicembre 1915, ad una interrogazione in proposito, il Sindaco risponde “ che non si è potuto provvedere date le difficoltà tecniche per la costruzione di esse”.

Nel Consiglio del 24 dicembre 1918, nell’ambito della rilevazioni delle esigenze di lavori pubblici nel Comune a proposito dell’acqua si dice che “Lipari fa uso di cisterne per provvedersi l’acqua potabile. Il Governo ha qualche volta delegato persona che venisse in aiuto a questa popolazione. Ma le persone  incaricate a tal fine non hanno fatta opera completa.” Sarebbe necessario, per fare un lavoro serio, che venissero inviati, più di una volta, dei tecnici specializzati che compissero dei saggi   e prospettassero concretamente il lavoro da farsi e lo riferissero al Governo dal quale il Comune attende “aiuto sollecito e completo”. Si pensa naturalmente a rintracciare, se esistono, sorgenti di acqua sorgiva.

Fra le priorità che il Consiglio prospetta al Governo sulle opere pubbliche necessarie, per quanto riguarda l’acqua si indicano la sistemazione dei bacini montani e la conduttura per l’acqua potabile a Lipari.

Se quello delle strade rotabili, dei collegamenti marittimi e del rifornimento e distribuzione dell’acqua potabile sono le grandi emergenze altri problemi nelle isole non mancano. Sempre a proposito delle opere pubbliche nel  Consiglio del 24 dicembre 1918 si parla anche di ospedale, plessi scolastici,  vie urbane, ecc. E’ una seduta fiume che si carica di molte speranze ma dove anche affiora il risentimento per essere stati a lungo trascurati e dove ancora brucia quella nota del Consiglio di Stato dei primi mesi del 1914 dove si definiva Lipari un Comune troppo ricco per potere avere diritto a particolari attenzioni finanziarie. L’assessore De Mauro – in un ampio intervento che spazia su tutti i problemi - invoca una legge speciale per le isole minori che affronti i problemi delle strade e degli scali marittimi. “Lo Stato e la Provincia , da che è stato costituito il Regno d’Italia – incalza l’assessore – hanno avuto tutti i contributi senza mai avere aiutato questo Arcipelago il quale ancora oggi ha le sue vie costituiti da letti di torrente, da viuzze semplicemente fatte dal solo piede dell’uomo e dove ancora oggi non può neanche passare l’asino. Noi abbiamo le isole di Alicudi, Stromboli, Panarea dove le sole spalle dell’uomo debbono soddisfare ai bisogni di ogni genere di trasporto, abbiamo le isole di Filicudi e Vulcano dove solo in minima parte l’asino può giovare in qualche modo dove però in massima parte  le comunicazioni sono fatte in precipizi…. Nel mentre in tutto il mondo oggi si gode il lusso di viaggiare anche per aria, nelle isole nostre ancora oggi nemmeno è possibile andare a cavallo di un asino! E non solo di vie noi manchiamo. Noi manchiamo di tutto, tutto, tutto![5](Archivio Storico Eoliano.it)



[1] Non hanno torto i consiglieri se si pensa che i viaggi sulle tratte per Flicudi e Alicudi e per Panarea e Stromboli avvengono invece di giorno malgrado la navigazione avvenga in un mare più aperto mentre fra Milazzo e Lipari c’è la protezione costante dei cannoni posti alla punta di Capo Milazzo e alla punta S.Francesco a Lipari. Inoltre insistere con i viaggi notturni nella stagione invernale aumenta il pericolo e costringe a saltare molti viaggi.

[2] Dal verbale del Consiglio comunale del  3 agosto 1917. Dove non dichiarato diversamente le informazioni di questo capitolo si intendono tratti dai verbali del Consiglio comunale.

[3] “Don Salvaturi, postino per via aerea!”, in “I quaderni”, Aercipelago Eolie di P. Paino, in appendice a L.S. d’Austria, Le Isole Lipari, vol.III, Lipari; Iacono mio padre…, R.De Pasquale, Il mio tempo. Ricordi ed immagini, Lipari 1990, p.13.

[4] Dal verbale del Consiglio comunale del 21 giugno 1913.

[5] Verbale del Consiglio comunale del 24 dicembre 1918.

Retorica nazionalista e il difficile cammino della modernità

 

La retorica nazionalista

Festa nazionale a Piazza Mazzini

Il 29 settembre del 1911 il governo Giolitti dichiara guerra alla Turchia e anche Lipari partecipa con manifestazioni popolari e fiumi di retorica alla campagna nazionalistica che ormai dilagava da almeno quattro anni.. La solita “Voce della Patria” arriva a scrivere che “Lipari, che ancora ricorda, malgrado i secoli trascorsi, la ferocia musulmana che distrusse portandone via schiavi quasi tutti i suoi abitatori, oggi che si vede vendicata dalle armi gloriose della Patria unita, ha il dovere di associarsi con entusiasmo all’opera patriottica ed umanitaria che da Torino a Palermo l’Italia unanime ha secondata[1].

Quando le truppe italiane occuparono Tripoli il Consiglio comunale, il 20 ottobre del 1911, si riunì per inviare al Ministro della Real Casa un telegramma di plauso, inneggiando alla vittoria che portava “libertà, progresso, fraternità” mentre nelle strade si svolgevano cortei con alla testa il Sindaco Franza,la musica e le bandiere e si recavano al Castello ad acclamare i soldati del presidio al grido di “Viva l’Esercito”, “Viva la Marina”, “Viva il Re”, “Viva Tripoli”pensando – scriveva “La Voce” - “ai valorosi bersaglieri, ai militari tutti, che lontani, in terra straniera, fra gente selvaggia e vile, combattono per l’onore e la dignità della patria”. Al Castello ci sono i discorsi del Sindaco e del Tenente comandante del distaccamento. Poi nuovamente in corteo, con i soldati del distaccamento, per le vie del paese[2].

Qualche giorno dopo “La Voce” si farà promotrice di una sottoscrizione popolare a favore della Croce Rossa.

In quegli anni  Lipari  si  arricchisce di nuovi locali pubblici di spettacolo, di incontro, di consumo, come non si erano mai visti prima. Nel febbraio del 1911 si aprono contemporaneamente il cinema Marconi, che aveva l’entrata su via Vittorio Emanuele da cui si accedeva ad una struttura in legno collocata nel terreno retrostante, e il teatrino Tripoli, “Supra u’ Chianu”, con un generatore proprio, un proiettore a manovella, un pianoforte in sala. Entrambi i locali avranno vita breve: due anni il Marconi ed un anno il Tripoli distrutto da un incendio. Nel 1912, in un giardino du Strittu Luongo  si apre un cinema teatro estivo chiamato “Eolo”. L’anno dopo, il posto del Marconi viene preso da un altro cinema-teatro, l’Elena.

Qualche segnale di "modernità"

Grande interesse provocano l’apertura di due o tre negozi di barbiere con poltrone girevoli e posizionabili, specchi che coprono le pareti, vetrine d’esposizione di prodotti da toilette. Portavano a Lipari modelli americani ed infatti il primo barbiere fu don Gaetano Zaia che era tornato giusto allora dagli Stati Uniti e non la finiva di raccontare le meraviglie di laggiù. “Si eseguisce il lavaggio della testa con un nuovo sistema Italo-Americano” prometteva la pubblicità ma oltre a tagliare barbe e capelli, a lavare le teste ed a vendere saponi e profumi don Gaetano praticava i salassi e cavava i denti. Subito dopo un altro barbiere sempre “di stile americano” aprì la sua bottega, “u’ Puzzu” che aveva preso da poco il nome di Piazza Giolitti. In via Garibaldi invece aprì i battenti una sorta di grande magazzino dove si trovava di tutto dagli abiti confezionati, alle camice, alle scarpe, alle valigie , agli specchi, all’oreficeria.

Supra u' timparozzu, la strada centrale di Lipari nell'800 e primi novecento

Erano gli anni in cui a Lipari come a Salina si cercava di lasciarsi dietro le spalle la crisi dell’agricoltura e dei trasporti a vela riconvertendo le produzioni con l’innesto della vite, sperimentando la navigazione a vapore, puntando sull’industria della pomice che nel 1912 supera le 30 mila tonnellate di esportazione, traendo vantaggio dai nuovi collegamenti marittimi con la Sicilia e con Napoli e soprattutto, come abbiamo visto, dalle rimesse degli emigrati. In quegli anni si porta a compimento il nuovo palazzo di città con la ristrutturazione dell’antico convento dei frati minori osservanti che era passato al Comune. La notizia che era stato completato il primo piano e quindi mancavano solo i lavori di rifinitura viene dato nel Consiglio del 22 agosto 1911 ed il Sindaco Franza ottiene il plauso dei consiglieri. L’anno dopo, il 22 luglio 1912, il Consiglio approva la spesa per l’arredamento del nuovo edificio e così il Municipio si trasferisce da via Garibaldi a sopra la Civita. I locali a pianterreno dell’edificio ristrutturato vengono occupati dalla scuola tecnica commerciale pareggiata.

Ed è in questo clima che si promuovono nuove imprese ed attività industriali e commerciali come la fabbrica del ghiaccio di Carmelo Biscotto di cui si è detto, la fabbrica di gazzose di don Ferdinando Maggiore, una sala di “Bigliardo e caffè”, un locale di mescita con annessa cucina casereccia che aprì, supra a’ Civita,  un ex agente di polizia don Cesare Bernardi[3] e dove al sabato ed alla domenica si ballava al suono di una pianola americana. Anni dopo, questo locale diventerà un rinomato ristorante col nome di “Filippino”.

I primi tempi del Ristorante Filippino

Fra tanti fermenti non si può non pensare alla realizzazione di una centrale elettrica che in Italia si erano cominciate a realizzare già da circa trent’anni.  Dal 21 maggio del 1906 al Comune giacevano due progetti uno proposto da don Onofrio Palamara e l’altro da don Giovanni Paternò.Il primo aveva preventivato una spesa annua di L. 20 mila ed il secondo di solo 8 mila.  Ora nella seduta del Consiglio del 3 aprile 1911 si interrogava il Sindaco per sapere che fine avesse fatto il progetto proposto da Palamara. Il Sindaco si riservò di rispondere in altra seduta, ma lascò cadere l’argomento che per un po’ di tempo non fu più ripreso. I progetti erano fermi perché l’Amministrazione non sapeva che fare. I proventi della pomice ammontarono il primo anno che era entrata in vigore la legge a 100 mila annue per via delle numerose contestazioni, nel 1912 essi erano arrivati a circa 225 mila ed il bilancio comunale rispetto a dieci anni prima era praticamente raddoppiato. Ma non tutto si poteva fare con le entrate della pomice soprattutto se si voleva che queste servissero  per contenere le imposte dei cittadini.

La lunga odissea delle rotabili

E poi, in una realtà che sognava il futuro e voleva vivere gli agi delle grandi città, vi erano ancora troppe emergenze che forse venivano prima della luce elettrica. Vi era innanzitutto il problema delle strade di collegamento fra le frazioni che non esistevano. Anzi non esistevano nemmeno delle buone mulattiere. Vi era il problema dell’acqua potabile e cioè del rifornimento visto che aumentando le esigenze non bastava più quella piovana raccolta dai tetti e nemmeno i serbatoi pubblici esistenti. Vi era infine il problema dei collegamenti marittimi che ora finalmente erano entrati in funzione regolarmente e con una buona frequenza ma lasciavano molto a desiderare per la qualità del servizio.

Vediamo come il Comune affronta queste tre emergenze. Il problema delle rotabili, innanzitutto. Si parla di Lipari perché è l’isola più abitata e quella dove esistono diverse borgate distribuite sul territorio. Un problema quasi identico – in scala però inferiore –  lo ha Salina e la mancanza di strade praticabili è uno dei nodi, forse il maggiore, che  avvelena i rapporti fra le borgate. Ma ormai l’isola ha l’autonomia amministrativa. Le borgate di Lipari sono distribuite su tutti  i 37 chilometri quadrati della sua superficie. C’è Lipari che è il centro più popoloso – nel 1911 contava 6.000 abitanti -  col suo porto e quindi il nodo di convergenza di tutti i traffici commerciali sia quelli relativi all’agricoltura che si sviluppa soprattutto intorno a Quattropani e Pianoconte, sia quelli relativi al termalismo alle terme di  San Calogero che si raggiungono da Pianoconte, sia quelli relativi alla pomice di Canneto e di Lipari anche se gran parte di questo traffico avviene con  navigli che caricano direttamente dalle rade di queste due borgate. L’idea di realizzare almeno due tronchi di strade rotabili una da Lipari a Canneto ed una da Lipari a Quattropani passando per Pianoconte  si pose fin dal 1884 quando fu dato l’incarico all’ing Molino Foti di stendere i relativi progetti per ottenere i finanziamenti in base alla legge del 30 agosto 1968. Questo lavoro fu interrotto una prima volta nel 1894 quando viene revocata la legge la legge per il finanziamento delle strade. L’8 luglio del 1903 esce una nuova legge e subito viene chiesto all’ing. Molino di riprendere i lavori. Ma purtroppo l’ingegnere incaricato muore nel terremoto di Messina e con la sua morte vengono persi anche i suoi elaborati. L’amministrazione incarica un nuovo progettista, l’ing. Rumore e questo il 7 gennaio 1911 presenta al Consiglio comunale  il lavoro fatto. La “rotabile  dell’isola di Lipari” proposta consta di tre tronconi: La Lipari- Quattropani via Pianoconte, la Lipari- Cannetto, la Pianoconte- San Calogero.  Il problema torna in Consiglio il 28 novembre perché il Genio Civile di Messina ha fatto sapere che la legge  riguarda solo i collegamenti del centro abitato con il porto o stazioni ferroviarie e il vero centro abitato dell’isola è Lipari. Tutt’al più,  “in considerazione della disagiata viabilità all’interno dell’isola” il Ministero dei Lavori pubblici potrebbe finanziare un solo tronco ed il Comune deve decidere quale. Ma il Consiglio insiste sulla necessità dei tre tronconi e così si forma una commissione presieduta dal  il Sindaco che è  il cav. Franza. Questa va a Roma e qui, accompagnata dall’on. di Sant’Onofrio cerca di convincere il Ministero della necessità di un progetto così articolato per l’isola. Riescono ad avere tanta comprensione ma la situazione non cambia. Con la legge del 1903 si può finanziare, tutt’al più, un solo tronco. Ma discutendo si trova una qualche soluzione. Oltre alla legge del 1903 vi è il Regio Decreto del giugno 1904 che finanzia però solo un quarto dell’importo dei progetti e la rimanenza è a carico dei Comuni. Si potrebbe chiedere un prestito alla Cassa Depositi e Prestiti e così  l’incidenza sul bilancio comunale sarebbe diluita nel tempo. E  la proposta che la Commissione fa al Consiglio del 9 aprile 1912 è così articolata: chiedere di finanziare con la legge del 1903 la Lipari-Quattropani via Pianoconte che è la strada più lunga, finanziare con il Regio Decreto del 1904 e con il prestito sia la Lipari-Canneto che dovrebbe essere prolungata fino ad Acquacalda visto che questa frazione sta crescendo di importanza, sia la Pianoconte- San Calogero. Nella stessa seduta il Consiglio approva la proposta nella sua globalità ma propone di dare un altro incarico per la Canneto- Acquacalda proprio per non ritardare i progetti già in corso.

Ma siamo solo all’inizio di un percorso travagliato perché il Consiglio di Stato respinge il finanziamento con la legge del 1903 sostenendo che il Comune di Lipari è troppo ricco  per avere diritto ad eccezioni e se proprio è necessario ricorra alla Cassa depositi e prestiti. E così viene fatto anche per non perdere tempo con ricorsi e reclami. Ma  qualche anno dopo, nel pieno della guerra, il Comune deve constatare che il commercio della pomice ristagna e con essa la tassa relativa per cui, per fare fronte ai costi delle opere pubbliche chiede prima, inutilmente, un aiuto della Provincia e poi un nuovo ricorso alla Cassa.

Così il 24 dicembre, a guerra finita, si fa un bilancio in Consiglio, del problema delle opere pubbliche necessarie a cominciare proprio dalle strade per potere accedere al miliardo che il Governo ha stanziato a favore di Ministeri, Province e Comuni con il Decreto Luogotenenziale  del 30 giugno 1918 n. 1019..E’ una sorta di programmazione di lungo respiro che vale la pena richiamare: i lavori della Lipari- Pianoconte- Quattropani e della Lipari-Canneto- Acquacalda , sebbene iniziati, sono stati sospesi a causa della guerra e non si sa come riprendere i lavori perché il conflitto ha lasciato le casse comunali in condizioni miserrime.  Per questi tronchi di rotabili come anche per la Pianoconte- San Calogero, il Consiglio chiede al Governo la priorità. Inoltre si indicano le esigenze di reti stradali delle campagne di Liapri e delle altre isole minori: la strada per Castagna e Lami; per Pirrera; per Piano Greca; per i Bagni di S.Calogero per cui fu richiesto il sussidio ma che non è mai arrivato; per Monte; per S.Salvatore; per Alicudi; per Filicudi al fine di collegare le frazioni Pecorini, Valle di Chiesa, Zucco Grande, Liscio fra di esse e con lo scalo marittimo; per Panarea collegando le frazioni di Iditella, Draut, Punta Milazzese fra di esse e lo scalo marittimo; per Stromboli per collegare Ginostra e Stromboli fra di loro ed allo scalo marittimo; per Vulcano collegando le frazioni di Gelso, Piano e Porto sempre  fra di loro e con il porto. Nel febbraio del 1919 mentre si sollecitano i lavori delle rotabili in corso si parla anche di un possibile collegamento di Quattropani con Acquacalda.

Dovranno passare però ancora degli anni  perché le rotabili siano completate e funzionanti . La Lipari- Canneto nel luglio del 1925 era già transitabile da pedoni, da uomini a dorso d’asino da carrettieri e da ciclisti, ma bisognerà aspettare il 1932 per vederla perfettamente rifinita. Nel 1932 invece quella di Pianoconte consentiva il transito ma si trovava ancora in fase di completamento; anche se il rustico era stato tracciato sette anni prima. Per raggiungere Quattropani ed Acquacalda invece si sarebbe dovuto aspettare la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni 60 anche se questa seconda era già stata tracciata dagli inglesi del colonnello Jeo tra il 1943 e il 1944.(Archivio Storico Eoliano.it)



[1] Nel numero dell’Ott. Nov. 1911

[2] La Voce della patria, anno I, n.4 nov-dic. 1911, p.3.

[3] Don Cesare Bernardi era nato a San Genesio di Macerata nel 1877 e morirà a Lipari il 23 agosto 1923. Con gli anni la “cucina” diventa ristorante e si chiamerà prima “Ristorante Belvedere” e poi, nel 1950, “Ristorante Filippino” in memoria del padre di don Cesare.

Gli anni della polemica nei confronti del Vescovo

 

Mons. Paino, un vescovo colto ed aperto

 La personalità e l’opera di Mons. Paino  venivano ad inserirsi nella vita di Lipari proprio in questi anni di grandi aspirazioni.  Il 22 agosto 1908 Mons. Paino fa la sua entrata solenne a Lipari sbarcando alla marina di San Giovanni.

Angelo Paino fu fatto vescovo di Lipari perché a Lipari c’era bisogno di un pastore che avesse diretta conoscenza degli uomini e delle situazioni del paese, giacché in un breve volgere di anni nelle Eolie s’erano verificati mutamenti sostanziali di cui era bene che la chiesa locale prendesse consapevolezza. Dotato com’era di vasta cultura, di esemplare pietà,  di risoluto dinamismo, di diplomatica prudenza egli sembrava l’uomo adatto al momento.

Nella prima lettera pastorale egli lancia uno sprone forte ai preti:”Troppo dormimmo e dimenticammo che la corona non è degli’infingardi, che la Chiesa non ha che farsi de’ pusilli, che non a riposo c’era data la terra, che il riposo dei forti è il Cielo! Oh! Io non tollererò mai l’ignavia dei miei Curati, che tradirei la mia missione e le speranze della Chiesa…. Si disingannino coloro che sono venuti a cercar agi e riposo all’ombra del santuario, milizia fra tutte la più aspra  e faticosa. Azione ci vuole, zelo, costanza, abnegazione”.

Come primo gesto di amministratore della diocesi è la creazione delle parrocchie, spogliando il vescovo della figura di parroco universale. Così eleva al rango di parrocchie le 15 vicarie curate. Per ogni singola parrocchia istituisce un beneficio in denaro che, fatti salvi i diritti della Suore di Carità, preleva dal legato Ideo col consenso della S. Congregazione concistoriale. Ancora, con i fondi della mensa vescovile rimise mano al progetto della scalinata per la Cattedrale che si era interrotta nel 1903 con la dipartita di mons. Audino. L’opera venne compiuta in meno di tre anni dal 1910 al 1913.

Di preti ne aveva a disposizione quarantadue oltre a sei padri cappuccini[1] e ad uno dei quali affidò la Parrocchia di Porto Salvo. Non vi erano le risorse per far rinascere il Seminario ma il Vescovo cercava di tenersi vicini gli adolescenti creando una sorta di associazione cattolica che ospitò al primo piano del palazzo vescovile ed alla quale assegnò un piccolo campo di gioco nel quadrato che allora si estendeva a ponente del palazzo stesso.

Era di carattere aperto  sebbene a volte poco duttile e alquanto spigoloso, obiettivo comunque e tuttavia appassionato, spesso deluso dall’impatto con la realtà ma restando sempre operante e propositivo. Fu questo carattere a portare mons. Pajno a cacciarsi, come abbiamo visto,  nella grande mischia che, dopo il 5 gennaio del 1908, aveva ripreso a divampare intorno ai campi pomiciferi dell’isola di Lipari.

Arrivo del Vescovo Paino

I progetti che andava delineando di rilancio della diocesi e dell’azione pastorale abbisognavano di risorse sicure. Da qui la richiesta di  accedere ad una parte delle risorse che il Comune si apprestava ad incamerare col dazio sulla pomice. Ma questo fece scattare il corto circuito al di là di quanto egli stesso potesse pensare. Infatti, se ai suoi occhi le richieste che avanzava potevano apparire ragionevoli e moderate, negli uomini della classe dirigente locale, anche in quelli come i popolari che dovevano essere più vicini alle esigenze dei vescovi e della Chiesa, c’era la preoccupazione che un atteggiamento di mediazione, anche un riconoscimento parziale delle richieste della mensa, potesse rappresentare un ritorno al passato, al regime feudale che, per la verità, nessuno rimpiangeva.

Una vertenza che mette in gioco il futuro del Comune e della Diocesi

Il Sindaco Franza, come abbiamo visto, era fortemente impegnato, tra ingiunzioni e regolari procedimenti giudiziari, a contenere tutti i tentativi di intolleranza verso la legge ed a combattere le usurpazioni ed il contrabbando di fatto dei proprietari dei terreni pomiciferi.. Ora si vede parare dinanzi, inserito tra le fila degli aventi causa del Comune, mons. Angelo Pajno con tutto il peso della sua personalità e l’acume della sua intelligenza, che agiva in nome e per conto della mensa vescovile di Lipari. Era stato eletto il Franza, al di sopra delle parti, proprio per rilanciare il Comune e portarlo fuori dalle secche della crisi. La legge n. 10 era l’approdo di un lungo cammino e il punto di partenza di un percorso ancora tutto accidentato. Come poteva aderire alle richieste del vescovo? Come riconoscere che le terre pomicifere erano del vescovo e non del demanio comunale? Voleva dire rinnegare anni ed anni di lotte. Voleva dire rompere l’unità del Consiglio e del paese che si è creata intorno alla sua persona e consegnare il Comune alle posizioni più radicali bruciando tanti sogni e tante speranze. Se il vescovo di Lipari riteneva di difendere la sopravvivenza della chiesa in un territorio complesso e difficile come era un arcipelago con l’esaurimento delle vecchie provvidenze e l’assoluta mancanza di nuove, del pari con ragioni forti veniva presentata la tesi comunale. Dice infatti l’avv. Carnevale: “La interpretazione dei diplomi normanni ( come quello di Lipari e analoghi, ve ne sono parecchi altri) è grave argomento che interessa tutta la Sicilia, e che non solo richiama l’antico contrasto tra potere ecclesiastico da una parte e autorità civile e diritti delle popolazioni dall’altra,  ma ha insieme evidente attinenza con tutto il vasto problema della riforma agraria e del migliore ordinamento delle terre pubbliche: se la tesi di mons. Pajno avesse potuto trionfare, gli ultimi residui del feudalesimo avrebbero pesato ancora sulle più ardenti aspirazioni delle nostre plebi rurali[2].

Se sono soprattutto il futuro della diocesi e del comune a livello locale che sono in gioco nella vertenza non si può nascondere che essi rimandino a questioni più generali. Forse né il vescovo né il sindaco nel 1910 possono immaginare il rilievo anche nazionale che la disfida sulla proprietà dei terreni pomiciferi finirà con l’assumere. Ed è indubitabile che essa  coinvolga anche forze a livello nazionale. Puoddarsi che sia vero, come afferma il  prof. Carnevale che in appoggio delle tesi del vescovo si muoveva il Vaticano, ma non si può nemmeno escludere, come sosteneva Mons. Paino, che in tutto il corso della procedura dibattimentale ebbero buon gioco le manovre della Massoneria.

Quando si chiude  nel 1921 la lunga querelle  che era durata dieci anni l’attenzione che l’aveva caratterizzata nei primi anni era di molto scemata e questo sia per la difficoltà a seguire un procedimento così lungo e complesso, sia  perché di mezzo si erano avuti eventi gravi come la grande guerra e l’epidemia colerica che ne seguì.

Ma dal 1911 al 1913 la polemica contro mons. Pajno divampò vivace ed anche violenta. Non solo i consiglieri democratici ma anche gran parte di quelli della maggioranza manifestarono il loro risentito sdegno morale perché leggevano nell’azione del Vescovo una volontà  di restaurazione del dominio temporale.

Piazza Mazzini 1900

A quel punto, tutto diventava occasione di polemica  da parte de “La Voce della Patria – Cronaca Mensile delle Isole Eolie”, che è il giornaletto locale che si faceva portavoce del pensiero laico[3].  Il Vescovo  aveva ripreso i lavori per la scalinata della Cattedrale e da un anno questi procedevano alacremente? La scalinata, si sottolinea, è un danno grave al nostro patrimonio storico.  Doveva assentarsi per impegni fuori Lipari e non poteva così presenziare alle feste di San Bartolomeo del 13 febbraio e del 5 marzo 1912? Lo si considera un fuggiasco che abbandona il suo popolo. Indiceva una manifestazione religiosa per solidarietà ai reali che avevano subito il 14 marzo 1912 un attentato fortunatamente fallito? Gli si rimprovera di aver scelto al chiesa di San Giuseppe troppo piccola e quindi è responsabile di un increscioso ma limitato diverbio  che vi capitò. Il 9 maggio, per la Madonna di Pompei organizzava nel viale vescovile un pranzo per i poveri? E’ solo propaganda e non carità perché: “A proposito di carità, scusi, eccellenza, ricorda cosa dice il Vangelo? Ah! Vostra Eccellenza, ‘in tutt’altre faccende affaccendato’. Non può ricordarlo, altrimenti avrebbe proibito simili sistemi nel fare la carità…”.

Un carnevale sopra le righe

In questo clima si inseriva il Carnevale del  18-20 febbraio 1912. Ecco come ne parlava la Voce: “La prima mascherata, approvata ed applaudita dalla maggioranza  della folla presente lungo le strade, uscì verso le ore 17 dell’ultima domenica. Essa rappresentava la lotta tra il Vescovo e il Paese per la questione pomicifera. Ammiratissime furono le maschere rappresentanti il Vescovo, il fido Alazza e i sagrestani… Di questa mascherata abbiamo disapprovato gli estremi, ma dopo tutto non possiamo dire male. Lungo le strade le donnicciuole e la ragazzaglia trattavano in malo modo la maschera rappresentante il Vescovo..”[4].

Abbiamo disapprovato gli estremi”, scrive “La Voce” ma intanto fra il pubblico che ammirava lungo la via Vittorio Emanuele la sfilata delle maschere si faceva circolare un foglietto a stampa con un lunga filastrocca satirica intitolata “Occhio alla stola”. In questa fra l’altro si leggeva:

“Concittadini, non vi crediate

Che voglion bene alle vostre contrade.

Un mondo, insomma, di fesserie

Van predicando per tutte le vie

Monaci, preti, Chiese e altari,

grasse perpetue e campanari.

Le loro carte logore e belle?

Buone ad avvolgere strutto e sardelle” [5]

Si era così creata una situazione di irrequietezza popolare  alla quale, come abbiamo visto, mons. Paino pensò bene di sottrarsi, abbandonando l’isola nell’estate del 1913[6]. Rimane però Amministratore apostolico della diocesi e rinuncerà a Lipari solo il 20 gennaio del 1921.

Ancora due anni dopo la partenza,  il risentimento nei confronti del vescovo era molto forte come dimostra – fra l’altro – il Consiglio comunale di fronte ad un evento drammatico che si verifica il 5 marzo 1915. 

La scalinata per la Cattedrale con il muro crollato.

La famosa gradinata di cui si parlava fin dai tempi di mons. Ideo e che collegava via Garibaldi con la Cattedrale era stata completata finalmente nel 1913 ed inaugurata dal vescovo Paino. Non era sempre accessibile al pubblico perché all’ingresso erano stati posti dei cancelli voluti dalle autorità politiche per ragioni di pubblica sicurezza visto che ancora al Castello vi erano i coatti. Il 5 marzo era una delle tante feste di San Bartolomeo, quella dedicata ai contadini istituita da mons. Lenzi nel 1823, e si svolgeva la tradizionale processione che sarebbe tornata alla Cattedrale per la nuova scalinata e per questo i cancelli erano stati aperti. Ne avevano profittato un gruppo di ragazzetti  per giocarci. Quando la processione è sulla via del ritorno e sta per  accedere alla scalinata ecco che si verifica la tragedia. L’alto muro di contenimento sulla sinistra della salita che era stato posto all’altezza della breccia  nel muro del castello, sotto la chiesa dell’Immacolata, crollò e seppellì tre ragazzini fra i 10 ed i 13 anni. Un evento sconvolgente che rimase impresso nella memoria popolare. Ciò che colpisce è invece il comportamento del Consiglio comunale, almeno per quello che emerge dai verbali. Nessun accenno alla tragedia nemmeno per ricordare i morti nelle riunioni del 9, del 13 e del 17 marzo. Si parla dei tagli ai trasporti marittimi; di norme per la vendita del grano; del mosaico “Il Ratto d’Europa” trovato negli scavi di via Umberto ed ora al museo di Siracusa per il quale si chiede la restituzione; del bando di concorso per il posto di Segretario comunale; ma  non del crollo del muro e delle vittime.

Di questo evento se ne parlerà  esattamente un mese dopo, ma l’argomento sarà affrontato solo per dare conto delle spese che il Comune ha sostenuto per lo sgombero dei materiali, la ricerca dei cadaveri e il puntellamento dei muri non caduti ma pericolanti. Anche qui nessun cenno di cordoglio per le morti da parte di consiglieri che solitamente non sono avari di commossa retorica per la patria, la “santa guerra[7]”, per gli eroici sacrifici dei soldati ecc. ecc. Un clima decisamente polemico si coglie nei confronti del vescovo in particolar in alcuni interventi che però non vengono contrastati. In conclusione si vota un ordine del giorno, con solo tre astensioni, per chiedere al  vescovo la rivalsa della somma spesa “autorizzando il Sindaco al relativo giudizio contro lo stesso, esaurite infruttuosamente le trattative bonarie”[8].



[1] I cappuccini erano tornati a Lipari nell’ottobre del 1900. Erano due padri e un fratello laico; poi, nel giugno del 1901 la comunità sarà composta da tre padri, tre chierici teologi e un fratello laico. P. Agostino da Giardini, I Frati Minori Cappuccini a Lipari, Catania 1962, pp.90 e ss.

[2] E.Carnevale, Miei ricordi di vita e di lavoro, Palermo 1923. G. Iacolino, inedito cit. Quderno  XII  p. 695.

[3] La “Voce della patria “ era un mensile e consisteva di due fogli, direttore era un certo Giuseppe Favorito ed uscì tra il 1911 ed il 1912. L’intellighenzia laica si riuniva presso la tipografia Amendola, quella di Accattatis e la farmacia Esposito. Probabilmente lì si pensavano e si imbastivano i pezzi da pubblicare che non venivano mai firmati ma al più comparivano con le iniziali o con pseudonimi di fantasia. D’altronde così facevano anche gli autori di due o tre pieghevoli di segno opposto che apparvero in quei mesi con la firma “Un gruppo del clero”. Uscì anche un bollettino laico dal titolo “La libertà delle terre di Lipari”.

[4] G.Iacolino, inedito cit., Quaderno XI

[5] G: Iacolino, idem, pag. 708.

[6] Nel 1913 pare che a mons. Paino venga prospettata la possibilità di trasferirsi alla sede di Otranto ma non accetta.  Consigliato anche dalla Santa Sede egli andò via da Lipari perché “pensò che forse miglior partito sarebbe stato, per il bene della anime a lui affidate, restituire all’isola completa serenità allontanandosene”(G. Foti, Un Console per Messina, Messina 1968, p.44).

[7] Sulla retorica del periodo basti  questo saggio tratto dal discorso del Sindaco Notar Gaetano Paino all’apertura del  Consiglio del 10 giugno 1915 : “ In questi momenti solenni per tutti in cui la madre patria è impegnata in una santa guerra d’indipendenza, è doveroso che Lipari, eminentemente patriottica e civile, si unisca agli altri centri per raccogliere, a pro delle famiglie dei soldati di terra  e di mare le offerte cittadine onde alleviarne in parte i disagi e la miseria”.

[8] Verbale del Consiglio comunale del 14 aprile 1915.(Archivio Storico Eoliano.it)

Il terremoto di Messina e il rilancio delle Terme

 

Il terremoto di Messina

  

Il 28 dicembre del 1908 nasce con l’evento drammatico del terremoto di Messina che alla commozione per la città distrutta con i suoi 80 mila morti sui 150 mila che allora la popolavano, si accompagnò l’apprensione per la sorte  di tanti eoliani che lì dimoravano o vi si erano recati occasionalmente per affari. Almeno una ventina dovettero essere i liparesi periti nel disastro e fra questi diversi studenti che erano a Messina per studiare, professionisti ed operai. Vi erano anche un assessore, Bartolomeo La Cava, ed un avvocato, Giuseppe Ferlazzo, del Comune di Lipari  che erano a Messina in missione per chiarimenti sul regolamento di esecuzione della legge n. 10. Altri furono dati per dispersi mentre invece erano stati trasferiti a Palermo da dove poi ricompariranno sani e salvi.

Sin dalla tarda serata di quello stesso 28 dicembre – e per molti giorni appresso – il banditore del Comune, preceduto dal rullo del tamburo, invitò i giovani e gli uomini validi che lo volessero, ad imbarcarsi sui battelli che facevano la spola con Messina per portare cooperazione e aiuto nelle operazioni di scavo. Non mancarono però anche azioni di sciacallaggio di cui si macchiò qualche eoliano come quel proprietario di una motobarca che, in quei giorni, faceva viaggi fra le isole e Messina per portare sui luoghi del disastro persone alla ricerca dei propri familiari scomparsi e riportare isolani scampati al terremoto che tornavano a casa spesso con sul corpo i segni della catastrofe. Il “padron” della barca attirò su di sé l’attenzione e quindi le denuncie per il comportamento insensibile ed egoista che dimostrava nei confronti dei trasportati, rifiutando, nei loro confronti, il minimo segno di solidarietà umana. I sospetti si dimostrano veritieri quando   nella sua casa alla Serra i carabinieri ritrovarono diversa refurtiva sottratta a negozi ed abitazioni devastati dal terremoto[1].

Non causò seri danni nelle Eolie questo terremoto se non alcune crepe e lesioni ai fabbricati ma le provvidenze varate dal Governo invogliarono parecchi proprietari a portare migliorie ai loro stabili. Qualcuno ingaggiò anche artisti per decorare pareti e soffitte.

Lipari Marina corta. L'arrivo di due eoliani morti nel terremoto di Messina

In quel tempo si riparlò anche dello sviluppo delle Terme di San Calogero. Abbiamo detto che nel 1905, il Comune aveva ricevuto una nuova proposta di gestione, quella dei farmacisti Luigi Mancuso e Nunzio Esposito. Il contratto fu firmato il 12 luglio del 1906 e la durata della locazione era prevista per trent’anni con possibilità di recesso ogni cinque anni con disdetta un anno prima della fine del quinquennio. Per i primi dieci anni non vi era canone di affitto ed in seguito il canone era crescente dalle trecento lire dell’undicesimo anno alle millecento lire l’anno del sesto quinquennio. Inoltre  i concessionari si impegnavano a investire nello stabilimento in restauri, migliorie compreso la strada che porta a mare lire novemila e cinquecento. Vi erano tariffe agevolate per gli utenti liparesi e per i poveri.

 Il rilancio delle Terme

Noi ci proponevamo – scriverà Luigi Mancuso – un programma molto esteso: migliorare, trasformare, perfezionare, ingrandire tutto lo Stabilimento, provvedendo fin dal primo anno a tutte quelle opere indispensabili che la scienza Balnoterapeutica moderna imponeva ed esigeva; un po’ di eleganza e comodità in tutte le sale; comodità e completa aereazione nei camerini da bagno, nella sala per le docce e per la stufa; trasformazione delle vasche poiché quelle esistenti erano veramente un’ironia…Ci proponevamo di impiantare una sala elettroterapica, applicata alla idroterapia…, aggiungendovi la kinesiterapia, con l’obiettivo di impiantarvi qualche altro ramo di terapia fisica, e tutto ciò oltre le modifiche, secondo le esigenze dell’igiene moderna, che si rendono necessarie ed indispensabili ad ogni stabilimento termale[2].

L’obiettivo era di far diventare Lipari “una stazione climatica di prim’ordine” capace di attrarre forestieri e stranieri. Ed, infatti, dopo due anni lo stabilimento, per la bontà delle sue acque verniva ritenuto fra i migliori d’Italia, poi però giunsero le difficoltà. Prima il terremoto di Messina che blocca il flusso di utenti da quella città, poi la guerra, poi la crisi…

Dopo ben venticinque anni di lavoro, di sacrifici, di stasi prodotte dal terremoto, dalla guerra, dalla crisi economica, di angherie subite da parte di varie amministrazioni, una fra le quali, veramente assillante, per l’andamento dello Stabilimento, siamo stati costretti a rinunciare alla concessione, notificando l’atto di rinuncia e domandare il risarcimento di quello che si era speso in più a beneficio dello Stabilimento, collaudando i lavori eseguiti di cui lo stesso ha usufruito e continua ad usufruire”.

Già una volta nel 1921 c’era stato un contrasto fra concessionari delle terme e amministrazione comunale. Dovendo realizzare dei lavori si chiede la riduzione del canone e la regolarizzazione degli arretrati attraverso la compensazione fra canoni dovuti e lavori fatti. Ma il Comune non volle sentire ragioni e quindi si chiese la rescissione del contratto con disdetta anticipata. Ma poi nel 1923 grazie alla mediazione del commissario prefettizio si venne ad una amichevole composizione. Ma dieci anni dopo la rottura diviene insanabile. Nel 1934  il Comune torna alla gestione diretta.

Nel contratto del 1906 si era parlato anche di una rotabile da Pianoconte a San Calogero.Ma la rotabile non si fece [3].

Per altri quarant’anni lo stabilimento continuò ad operare ed ospitò numerosi pazienti di Lipari ma anche forestieri. Vi accudivano, per conto del Comune, Angelo Favaloro ed il figlio Bartolo che facevano da infermieri e da custodi.



[1] G. Iacolino, inedito cit. Quaderno XI, pag. 541.

[2] L. Mancuso, Terme di San Calogero – illusioni e delusioni”, Lipari 12 gennaio 1931. Stralci in G.La Greca, Le terme di San Calogero, op. cit., pp. 70-74.

[3] Si farà solo ai primi degli anni 60.(Archivio Storico Eoliano.it)

Il travaglio di Salina

 

L'iniziativa e l'alacrità di Salina

Sul finire del secolo scorso Luigi Salvatore d’Austria considerando globalmente il rapporto degli eoliani col lavoro scriveva: “L’iniziativa e l’alacrità non sono in genere molto spiccate nelle Eolie, tranne che a Salina  e a Stromboli, dove la gente si dimostra veramente instancabile nel lavoro”.[1]

Ed è  proprio grazie all’alacrità ed all’iniziativa se Salina, come abbiamo visto, qualifica il suo sviluppo nell’800 superando nella seconda metà del secolo la stessa Lipari in alcuni settori dell’economia. E la nascita del nuovo Comune nel 1867 dà maggiore impulso alla crescita. Ma sul finire del secolo si viene scoprendo una insospettabile fragilità nel modello di sviluppo dell’isola. Il punto di forza della marineria a vela viene insidiato dalle imbarcazioni a vapore, il grande successo del vino, della malvasia e della passolina sono legate alla vite che dovunque in quegli anni in Europa ed in Italia è colpita dalla fillossera. E siccome il male della vite nelle isole giunge in ritardo rispetto alle altre località, finchè resiste la vite resiste anche la marineria ma il dilagare della fillossera colpisce al cuore l’economia salinara. Così, come per il resto dell’arcipelago, anzi più che nelle altre isole, a Salina comincia l’esodo dell’emigrazione e all’inizio del nuovo secolo, nel 1901, degli 8.904 abitanti - che erano stati iscritti nei registri anagrafici nel 1891 - ne mancano ben 3.900[2].

Come abbiamo visto nella nuova amministrazione salinara, fin dagli inizi si manifesta una tensione fra Santa Marina da una parte e Malfa e Leni dall’altra giacchè queste ritengono che la frazione sanmarinese sia avvantaggiata dall’essere sede del capoluogo e cercano così di spostarlo a Malfa. Proprio questa tensione probabilmente avrà contribuito ad l’indebolire il tentativo dell’avv. Tripi di creare la società “La navigazione Eolica” fra  gli armatori dell’isola - che avevano visto le proprie attività entrare in crisi per l’introduzione dei navigli a vapore e dalla malattia dell’uva - con l’obiettivo di puntare a partecipare alla gara per ottenere i collegamenti dell’arcipelago con la costa tirrenica.

Ma tutti i tentativi di spostare a Malfa la sede del municipio – malgrado siano approvati dal Consiglio comunale dove la maggioranza è dei consiglieri di Malfa e Leni – venivano puntualmente bocciati  dalla Giunta provinciale amministrativa con la motivazione che il porto di Santa Marina  era il terminale dei traffici mercantili e di linea. Oggetto delle recriminazioni di Leni e Malfa era in particolare il notaio Domenico Giuffrè che era stato il primo Sindaco di Salina dal 7 febbraio 1867 al 25 luglio 1870 ed era tornato ad esserlo dal 25 febbraio 1876 al 21 ottobre 1877 per poi occupare il ruolo di segretario comunale. A lui si attribuiva una costante prevaricazione degli interessi delle due frazioni a tutto vantaggio di Santa Marina anche se  obiettivamente il notaio aveva sempre operato a favore del decentramento dei servizi comunali. Così aveva promosso l’istituzione di distinti uffici di stato civile e di scuole separate, aveva curato di correlare le spese a favore delle diverse borgate alle entrate di Bilancio, aveva promosso  una polizia urbana strutturata in tre nuclei di frazione, aveva diviso la condotta medica ed aveva fatto costruire quattro cimiteri, aveva cercato di portare a Salina la sede di un ufficio pretorile. Rimaneva il fatto che fosse fermamente determinato a conservare a Santa Marina la sede municipale e in questa direzione spendeva tutta la sua influenza. E siccome questo era risaputo, per quanto facesse per allentare la tensione, le avversità nei suoi confronti andavano aumentando anche perché col progredire della crisi economica la possibilità di triplicare i servizi diventa più difficile mentre crescevano i sospetti . Così all’inizio del 1902 Giuffré viene accusato di illeciti contabili e l’1 febbraio viene arrestato e sospeso dalla carica mentre  l’amministrazione viene sciolta e nominato un commissario col compito di svolgere una indagine amministrativa parallela a quella giudiziaria. Le due inchieste hanno esito favorevole per Giuffré ma la situazione rimane di grande tensione. Dopo le elezioni dell’11 maggio 1902 vengono ricostituiti gli organi ma il municipio è ingovernabile perché è un continuo scontro fra gli otto consiglieri di minoranza di Santa Marina e i dodici di maggioranza di Leni e Malfa.

Fra il 1902 ed il 1906 il consiglio funziona malissimo e nei due anni successivi praticamente non funziona affatto. Nel 1906 si riunisce solo una volta e deve arrivare a Salina un commissario prefettizio, accompagnato da trentacinque carabinieri e da un delegato di pubblica sicurezza.

Alla fine anche il notaio Giuffré si convince che non c’è alternativa alla divisione malgrado rimanga convinto che  “è un delitto che grida davanti a Dio[3]” . Così nel gennaio del  1907 il Consiglio comunale approva all’unanimità la proposta di scissione e, con il parere favorevole del Consiglio provinciale e della Giunta provinciale amministrativa, la invia al governo perché la trasformi in disegno di legge.

Il Comune si divide in tre

Ma il disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati viene respinto al Senato. La situazione è nuovamente nel caos mentre il Consiglio comunale riesce a riunirsi soltanto il 20 agosto 1908 per deliberare, una volta ancora, lo spostamento della sede municipale a Malfa. Il 27 dicembre il Consiglio è sciolto e viene nominato un commissario governativo che, constatata l’impossibilità di ogni pacificazione, fa lui stesso la proposta di tripartizione  che il 26 dicembre 2009 diventa legge dello Stato col n. 807.

Ma le diatribe non sono finite. Si riaprono proprio sulla ripartizione del territorio. Malfa e Santa Marina si contendono la piccola frazione del Capo mentre tutte e tre le frazioni litigano sulla ripartizione di Monte delle Felci. Ma il vice prefetto Antonio Savagnone che ha il compito della divisione amministrativa del territorio, va avanti per la sua strada e  consegna la proposta alla fine dell’estate del 1910. Nel 1911 ci sono le elezioni per i tre consigli comunali e quindi per gli organi di governo. Primo Sindaco di Santa Marina sarà patron Salvatore Re, patron Giuseppe Bongiorno sarà il primo Sindaco di Malfa e il sacerdote Bartolo Picone sarà il primo Sindaco di Leni[4].

Nonostante le tensioni fra le frazioni comunque intorno al 1910 si hanno cenni di ripresa economica grazie anche ai servizi regolari e giornalieri di collegamento marittimo con la costa siciliana. Così qualcuno comincia a pensare di reimpiantare i vigneti con i portainnesti americani sperimentati in Sicilia ma ciò di cui si sente la necessità, per dare una nuova spinta al commercio dei prodotti della vite, è un collegamento con il continente. Sul finire dell’800 la Società Siciliana aveva proposto un servizio di collegamento con Porto Santa Venere in Calabria ma non se n’era fatto niente. E’ solo a seguito del terremoto di Messina del 1908 che il Ministero della Marina Mercantile autorizza  un collegamento settimanale con Napoli. Ed è proprio questa nuova linea che stimola  molti proprietari di Malfa e Leni a reimpiantare i vigneti e si parla addirittura di avviare un commercio della malvasia con le Americhe.

Anche a Salina come a Lipari e nelle altre isole, giungono le rimesse degli immigrati ad alimentare l’economia. Secondo stime nel 1905 presso la Cassa postale di S. Marina Salina sono depositati risparmi per 392 mila lire, 200 mila presso quella di Malfa e 54.960 in quella di Leni. Un flusso che andrà via via aumentando fino a raggiungere, nel primo dopoguerra,  una media annuale di 3 milioni di lire per l’intera isola. Sono diversi inoltre i salinari che , fatta fortuna negli Stati Uniti, tornano nelle Eolie per investire i loro risparmi.  Valga per tutti l’esperienza di Carmelo Biscotto di S. Marina che vende il suo negozio di generi alimentari di New York ed apre a Lipari, sulla banchina di Sottomonastero, una fabbrica di ghiaccio e, più tardi, in società con Bartolo Zagami e Giuseppe de Luca fonderà la Società Elettrica Liparese.

Lipari. Sottomonastero. La fabbrica del ghiaccio

Ma, malgrado questi segnali, la strada per uscire dalla condizione di marginalità cui da una parte l’isolamento insulare e dall’altra la lunga stagione del confino - che riprenderà sotto il fascismo pur con altra qualità di confinati - avevano relegato le Eolie sarà ancora lunga.

Inoltre a bloccare, praticamente sul nascere, sogni e speranze arriva la grande guerra. La linea con Napoli viene sospesa e le navi della Società Siciliana vengono requisite. I collegamenti fra l’arcipelago e la Sicilia, con cadenza bisettimanale, sono affidati ai vecchi ferry boats che facevano il servizio sullo stretto di Messina, mentre il collegamento fra le isole è abbandonato a piccoli motovelieri che svolgono un servizio approssimativo e saltuario. I cenni di ripresa economica sono così congelati e bisognerà aspettare il 1919 per riparlare di ripresa.



[1] L.S. d’Austria, op. cit., vol VIII, pag. 25.

[2] M. Saija e A. Cervellera, Mercanti di mare, op. cit., pag. 159; A. Savignone, Relazione amministrativa per la divisione territoriale e patrimoniale del Comune di Salina nei tre Comuni autonomi di Santa Marina,, Malfa e Leni giusta la legge 26 dicembre 1909, n. 807, letta dal Commissario relatore l’1 agosto 1910, Stabilimento tipografico G. Fiore e figli, Palermo 1911.

[3] D. Giuffré, Pro Santa Marina, Messina 1907.

[4] M.Saija e A. Cervellera, Mercanti di mare, op. cit, 171-193. Tutto questo paragrafo si basa sul terzo capitolo di questo libro.(Archivio Storico Eoliano.it)

Il primo Novecento e la speranza di uno sviluppo diverso

 

Villa Mazzini ai primi del secolo.

I fermenti del primo 900

Il primo 900 è ricordato nella storia italiana come l’”età giolittiana”, cioè una fase in cui la figura di Giovanni Giolitti - che fu presidente del consiglio dei ministri quasi ininterrottamente per un decennio, dal 3 novembre del 1903 fino al 7 marzo 1913 - svolse un ruolo preminente contribuendo ad ammodernare lo Stato ed a fare crescere la società. Furono gli anni in cui uscirono leggi per la tutela del lavoro delle donne e dei bambini, fu resa obbligatoria l’istruzione elementare, nacquero le ferrovie dello stato, si stabilì un modus vivendi fra governo e sindacati e gli scioperi non vennero più repressi, si svilupparono  movimenti popolari come quelli dei socialisti e dei cattolici, si introdusse il suffragio universale maschile portando gli elettori da 3 milioni e mezzo a circa 9 milioni. Si ebbe cioè, in questo periodo, una notevole crescita della società civile.

Anche Lipari in qualche modo partecipò a questo fermento associativo. Nel novembre del 1903 si costituì un comitato provvisorio “Pro Isole Eolie” sotto la presidenza dell’avv. Gaetano De Pasquale che si proponeva  di “gittare le fondamenta di un’Associazione che abbia lo scopo, in generale, di sollevare un pochino le sorti di tutti gli eoliani, e più particolarmente quelle di molti piccoli proprietarii che il flagello fillosserico, nonché quello d’’emigrazione ha ridotto…a mal partito[1]

Continuavano intanto ad operare la Società operaia di mutuo soccorso animata dall’avv. Onofrio Carnevale Rossi e dall’avv. Francesco Casaceli, il Circolo cattolico, il Circolo dei cacciatori, il Nuovo Circolo che era un’associazione culturale e forse anche una Associazione dei Commercianti.

Inoltre proprio l’1 novembre 1905 nasceva l’ “Istituto delle suore francescane dell’Immacolata Concezione di Lipari”  promosso da una giovane liparese, Giovanna Profilio[2], che era emigrata a New York nove anni prima e li si era fatta suora. Giovanna divenuta suor Florenzia era stata richiamata a Lipari dal vescovo mons. Raiti perché diversi esponenti del clero eoliano avevano convinto il presule che a Lipari ci fosse l’esigenza di un istituto locale che si dedicasse ai bambini abbandonati ed alle ragazze madri giacchè le suore di Carità sembravano privilegiare l’insegnamento per le ragazze delle famiglie borghesi[3].

Suor Florenzia Profilio

In Consiglio comunale si fronteggiavano  il Partito popolare liberal-progressista e del Fascio dei Lavoratori che detenne la maggioranza dai primi del novecento sino alla vigilia della prima guerra mondiale e il Partito democratico che rappresentava l’opposizione e di cui i consiglieri più attivi erano Felice Sciarrone e Nino Marchese che erano anche animatori del movimento degli operai della pomice.

Come abbiamo avuto già modo di dire furono anni questi di grande instabilità amministrativa. Per ben due volte fu nominato un regio commissario. La prima fra i 27 settembre 1903 ed il 22 febbraio 1904 al culmine di uno scontro in Consiglio comunale fra l’Amministrazione del Sindaco Faraci e  il consigliere Caserta che aveva denunciato “ furti e corruzioni che si commettono ogni dì da persone di questa Amministrazione”. I furti e le corruzioni riguardavano il contrabbando che, secondo Caserta, praticavano molti borghesi di Lipari proprietari di terreni pomiciferi fra cui anche esponenti della maggioranza. La seconda nomina del regio commissario è fra il 15 gennaio ed il 15 luglio 1907 ed,  ancora una volta ad essere interrotta, è l’amministrazione del Sindaco Faraci. Il problema è sempre quello del contrabbando della pomice per non pagare i diritti comunali ed è a proposito di esso che viene votata la sfiducia il 27 agosto 1906. La Giunta procede il suo mandato, sebbene in minoranza, fino alla fine di dicembre.

E fu proprio nel periodo del commissariamento che a Lipari maturano nuove prospettive politiche ed economiche. Si ha la certezza che verrà approvata la tanto attesa leggina che istituisce il dazio sulla pomice a favore del Comune garantendo così un flusso di risorse che si prevede notevole e si prospetta una amplissima convergenza – al di là degli schieramenti politici – sul cav. Giuseppe Franza.. Ed il 16 luglio 1907 il Consiglio comunale elegge con 28 voti Sindaco il Franza che presentò il suo programma  nella seduta del 12 agosto.

Nel suo discorso il Sindaco disegnò grandi scenari di sviluppo non solo grazie alle entrate della pomice . Annota il segretario comunale nel verbale che “accenna parimenti ad opere da farsi onde abbellire la cittadina  pel richiamo dei forestieri i quali, trovando tutto il confortabile della vita specie in buoni e decenti alberghi, in amene passeggiate, in fronsute villette, darebbero quell’utile da cui il piccolo commercio troverebbe quell’incremento che attualmente non vede”[4]. Già Franza sogna il turismo.

L'esigenza di uno sviluppo diverso

Parlare di sviluppo turistico all’inizio del 900 poteva sembrare avventato perché le Eolie allora, a parte i bei paesaggi ed un mare limpido, non avevano proprio nulla di accogliente e non solo in senso ricettivo ma  anche per molti usi e costumi degli abitanti. Un esperto come Luigi Vittorio Bertarelli del Touring Club Italiano – che aveva visitato l’arcipelago alla fine dell’800 e vi era tornato dieci anni dopo - scriveva[5] nel 1909 : Gli alberghetti sono al di sotto di qualunque infima osteria di un paese settentrionale e così sporchi da apparire inabitabili. Il ristorante – quasi l’unico – che passa per il migliore di Lipari è una bottega sudicia ad archivolti bassi, dove si mangia alla meno peggio ma dove il servizio è fantasticamente diverso da quanto s’usa in luoghi rispettosi del viaggiatore. La commissione per il miglioramento degli alberghi del Touring qui nulla potrebbe fare; si troverebbe come un missionario incompreso in partibus infidelium… L’evoluzione è ancora lontana, l’abiezione attuale non è quasi avvertita”.

E facendo il raffronto con i ricordi della prima visita scriveva:” Essa mi è sembrata quest’anno identica alla Lipari di dieci anni fa, quando un’altra volta visitai le Eolie. Anche oggi trovai l’identica mancanza di confort e la stessa sporcizia  per la quale, messo piede nell’Albergo Nazionale, che passa per il principale, fuggii in strada inorridito senza saper bene dove avrei posato il mio scarso bagaglio. Mi indicarono un altro albergo di cui poi da altri sentii parlare come d’un canile, ma mentre mi avviavo, fui fermato per la strada da un bottegaio che mi offrì una camera mobiliata dove stetti discretamente…Non vidi nella pubblica edilizia alcun che di mutato in dieci anni”

A questo punto il Bertarelli si sofferma a descrivere un “vespasiano” che esisteva ancora negli anni 40 ed era alla sinistra, guardando, la chiesetta del Purgatorio.

” Dietro la Capitaneria di Porto vi è ancora come allora (dettaglio zoliano ma caratteristico di cui non posso defraudare i lettori della Rivista )un pubblico ed utile ritrovo. E’ costituito da una sala intorno alla quale corre una specie di divano orientale o gradino, coperto di piastrelle bianche con vaghi disegni azzurrini, opportunamente perforato  nel piano superiore da una dozzina di buchi rotondi di trenta centimetri, come una cucina economica. Su questo bel piano si assidono per le proprie occorrenze i cittadini liparoti, conversando piacevolmente dei propri affari, e dimostrando così una grande attività poiché senza perder tempo compiono due servizi. L’ingegnoso monumento vespasiano ritrae particolare pregio dall’essere impostato sopra una grossa roccia quasi a raso del mare, in cui guardano direttamente i sopradetti trafori. Quando c’è un po’ di maretta gli schiaffi delle onde battono di sotto in su e il rinfresco deve essere detersivo e delizioso”.

Ma il grottesco di questo “servizio pubblico” si sposa ad altri  elementi che farebbero fuggire qualsiasi turista di oggi.

“Le case liparitane hanno –continua il fondatore del TCI -  un aspetto prettamente orientale. La maggior parte sono basse, con tetto a terrazzo lievemente convesso per inviare le acque nelle cisterne. Purtroppo non vi sono nell’isola sorgenti.  Tutta l’acqua che si beve è piovana e , di regola, neppure grossolanamente filtrata[6]. Vi sono dei pubblici serbatoi[7] accanto ai quali furono installate delle piccole pompe col criterio igienico di impedire che nella loro acqua fossero immersi i secchi di tutti ma, forse per non guastar le pompette, queste sono chiuse accuratamente da uscioli di legno, la cui chiave sarà, credo, al Municipio, e così tutti attingono colle proprie corde ed i propri secchielli…

Nelle pittoresche casette, brillanti internamente di sempre rinnovato imbianco, la pulizia privata lascia a desiderare, non meno di quella pubblica, in troppi siti. Dalle screpolature, assai spesso sismiche, che un po’ dappertutto fanno capolino alla superficie degli intonachi, vengono fuori, specialmente alla sera a prendere il fresco, insetti di ogni qualità che non sono abbastanza etmologo per classificare, ma che vanno dai centopiedi e dai ragni, dei quali la dimestichezza non è poi tanto spiacevole, alle blatte e alle cimici di cui guai a preoccuparsi perché non si avrebbe più il coraggio di dormire. E le pulci? Che dire delle pulci? D’estate in generale in tutta la Sicilia sono un flagello..Nulla dico delle zanzare…”

Certo, osserva ancora Bertarelli a “ Lipari vi sono del resto numerose case di ricchi negozianti, di industriali in vino e in pomice e di agricoltori che nulla lasciano a desiderare, ma sono case private alle quali naturalmente non può accedere chi vuole.

Comunque, che a Lipari in quegli anni stia maturando anche un nuovo senso estetico e si cominci a pensare anche all’immagine della propria cittadina, lo dimostra una lettera che abitanti della Marina San Nicolò, proprietari delle case e dei terreni  lungo quella strada, scrivono al Sindaco ed ai Consiglieri per proporre un intervento su di essa.

Se gli on. Signori del Consiglio – si legge nella lettera – si fanno due passi per la detta Marina, che poi in tutti i tempi e più specialmente nelle stagioni calde è la passeggiata preferita anzi ambita da indigeni e forestieri, si accorgono a prima vista degli sconci enormi che essa presenta. Case, che rientrano; case che escono più in fuori; piccole cucine e scale aperte costruite sulla pubblica via. Sembra, ce lo consentano, una strada di un centro ancora adamitico!...Ora, gli esponenti, desiderosi di estetica e di ordine nelle vie, e di vedere con lo sviluppo economico il progresso edilizio e un rinnovamento del Paese, si offrono spontaneamente per l’allineamento del tratto di detta via, sulla quale fronteggiano, pronti a subire la spesa per l’acquisto del terreno, a titolo di vendita o di concessione, pagando la spesa a cui ognuno rispettivamente sarà tenuto”.

In premessa gli scriventi[8] avevano detto che “sarebbero disposti ad incontrare qualsiasi sacrificio, pur di vedere un po’ di quell’ordine nella costruzione dei fabbricati che tanto di bello farebbe acquistare al Paese”. A loro non dispiacerebbe che un tale provvedimento “fosse adottato per tutto Lipari” ma comunque intendono dare un segnale importante ed allegano anche uno schizzo planimetrico. Naturalmente il Consiglio approva all’unanimità. Un solo contrario e due astenuti sul punto della delibera che stabilisce l’allineamento anche per l’ultimo tratto della Marina adiacente alla proprietà Famularo il cui proprietario non era fra gli scriventi.

Se Lipari lascia a desiderare sotto diversi aspetti, ben più grave deve essere, in genere, la vita nelle borgate e nelle isole a cominciare da Canneto che, nel comune, dopo Lipari, è la realtà più popolosa.

Ancora nel 1910 Canneto era un piccolo borgo di contadini, pescatori e cavatori che sul finire dell'800 ed i primi del 900 aveva avuto una crescita esponenziale della popolazione a  causa dell'industria della pomice [9].  Si perveniva per una mulattiera profondamente incassata nel tufo che prima si arrampicava  sul timpuni della Serra e poi scendeva a Canneto di Dentro. Canneto si raggiungeva da Lipari o a piedi, con una buona ora di cammino, o a dorso d'asino, o con il vapore che vi faceva scalo operando con le barche, il cosiddetto rollo. Lungo tutta la spiaggia che si sviluppa a falce sorgevano case bianche alternate con grandi magazzini e baracche che servivano da depositi della pietra pomice. Al centro del paese, come oggi, la chiesa di San Cristoforo che dava direttamente sulla spiaggia, stretta ai fianchi ed alle spalle da  case e casupole nate senza alcun ordine.[10].

Il sentiero che da Bagnamare (Pignataro) portava alla Serra e da lì a Canneto.

La condizione di Canneto e i problemi di Stromboli

A Canneto nel 1890 erano stati istituiti una collettoria postale e un ufficio telegrafico, quando il Consiglio affronterà il dibattito sul Bilancio del 1900 fra le opere previste si parla del tracciamento di una strada interna nel villaggio parallela alla spiaggia e di una condotta medico-chirugica. Nel dibattito emerge anche la necessità di un cimitero, di una farmacia, di una strada che metta “ in diretta comunicazione quella borgata col capoluogo del Comune”. Nella seduta del 5 novembre 1906 vengono fatti voti al governo perché il piroscafo di linea giornaliera  faccia scalo nella rada della borgata “essendo Canneto, specie d’inverno, tagliata interamente fuori dalla Città di Lipari, ove avvengono gli attuali approdi essendo che tra Lipari e Canneto non hanno alcuna strada rotabile e mulattiera”.

Una testimone[11] ricordando quei tempi lontani, descrive il  villaggio di Canneto come “abbandonato”. “C'erano poche case. Mio padre era considerato benestante perché aveva due case.... A quel tempo erano quasi tutti contadini o pescatori; non sapevano né leggere né scrivere. A Canneto non c'era luce, non c'era gas, né un dottore, né una farmacia. Bisognava andare a Lipari. La gente partiva al mattino per lavorare in campagna e tornava la sera. Oppure si lavorava per cavare la pietra pomice, cento palmi sotto terra[12]. La gente tirava avanti col ricavato della campagna, della pesca e della vendita della pietra pomice. La sera si accendevano i lampioni, che ogni mattina venivano riempiti di petrolio. La sera non usciva nessuno. Il gelato si vedeva per San Bartolo o san Cristoforo. La carne si mangiava raramente e la mangiavano chi aveva galline o qualche coniglio... Si mangiavano legumi. Anche la pasta era scarsa. Dopo la guerra si ritirava con la tessera. Arrivava un vaporetto e tutti si mettevano in fila per ritirarla. Qualche volta anche inutilmente perché la distribuzione finiva prima che tutti potessero avere la loro razione e a volte doveva intervenire un pubblico ufficiale per evitare le particolarità.

Le cose vanno meglio a Stromboli, almeno sotto l’aspetto della pulizia e dell’igiene ma anche qui i servizi, a cominciare dall’acqua, sono completamente assenti.

Gli abitanti – commenta Bertarelli – non hanno segreti né paure, ossia nulla da nascondere moralmente e materialmente: tutte le porte sono aperte, né vi è un solo carabiniere in tutta l’isola. Si guarda perciò liberamente dappertutto, si entra dove si vuole, certi d’essere accolti cortesemente. Davanti ad ogni casa c’è un allegro pergolato; nel complesso le abitazioni hanno un’aria, se non d’agiatezza, per lo meno di decorosa povertà…C’è, complessivamente, una certa pulizia, favorita dal clima sempre secco, anzi purtroppo così secco che la mancanza d’acqua è una grave calamità normale. Come in tutte le Eolie, qui non c’è una sola fonte, o, per essere preciso, ce n’è una la quale dà, goccia a goccia, si e no una bottiglia d’acqua ogni dieci minuti! Tutta l’acqua che si beve è di cisterna, ma talora le cisterne sono insufficienti, e si patisce la sete. D’estate non piove mai e quando le cisterne sono presso ad esaurirsi, l’acqua è veramente pessima. Io mi portai dell’acqua minerale da Lipari, ma siccome non mi bastò, mi provvidi poi di acqua filtrata al semaforo, per gentilezza dei semaforisti”[13].

Forse il problema maggiore degli abitanti di Stromboli è il loro vulcano con cui convivono ma che ogni tanto crea dei problemi. Come nel 1916.

Nella notte tra il 3 e il 4 luglio – scrivono al Sindaco ed al Consiglio trentanove cittadini di Stromboli – questo vulcano esplodendo violentemente, lanciò in aria migliaia di tonnellate di materiale infuocati, di cui una parte cadde sulla sciara del fuoco e quindi in mare ed un’altra parte si riversò sul versante coltivato dell’isola , giungendo fino in prossimità dell'abitato. Si verificarono molti incendi e nei due terzi superiori dell'isola fu distrutto tutto il raccolto ed una gran parte dei vigneti. La scossa dell'esplosione ruppe tutti i vetri dell'abitato e molte imposte producendo pure lesioni alle case. Non si ebbero a lamentare vittime perché tutto ciò successe di notte ed in un'ora in cui tutti gli abitanti erano a letto. Il Governo inviò i professori Ponti e Palonà di Catania per verificare ciò che era successo e il Brigadiere del Regio Carabinieri fece subito un primo elenco dei danni che in seguito, negli ultimi di luglio, furono pure constatati da un Tenente dei carabinieri venuto espressamente. Si calcola che il danno ascenda a più di 150.000 lire[14]”. Gli scriventi  chiedono lo sgravio della tassa fondiaria per almeno dieci anni. Il consiglio all'unanimità fa voti perchè il Governo accolga la richiesta.

Ed è proprio il vulcano che già allora attira turisti. Tanto è vero che Bertarelli ne incontra due nella sua escursione: sono un professore di geografia, polacco e slavo che fa un viaggio di istruzione a spese del governo austriaco ed un giovane fotografo professionista tedesco.

Ad Alicudi non c'è serenite nemmeno per i morti

Ma se i servizi pubblici lasciavano a desiderare a Stromboli ed a Lipari la situazione è veramente intollerabile ad Alicudi ,”isola perfettamente dimenticata” come ebbe a definirla il 5 febbraio 1900 in Consiglio comunale Giovanni Caserta pretendendo che si leggesse una lettera inviata il 26 novembre del 1899 dai capi famiglia dell’isola e rimasta in evasa.  Tre sono i problemi che essi fanno presenti al Sindaco, alla Giunta ed al Consiglio comunale: il medico che manca da quattro mesi e non si è potuto fare il vaccino del vaiolo per i bambini mentre nell’ultimo anno ci sono stati morti per malattie infettive  ; la levatrice che non si è mai avuta e che ora viene richiesta pressantemente perché molte donne sono in stato interessante; la mancanza di un cimitero. E a proposito del seppellimento dei morti la situazione che descrivono e degna di un racconto dell’orrore. “Da sei mesi in qua, ogni qualvolta si deve seppellire un cadavere, si dovrà prima piggiare i morti nella sepoltura con dei legni o con i piedi per poter fare andare il morto”.

Ma se non era ancora il momento del turismo certo , grazie all’appoggio del deputato locale e le nuove risorse che vengono dalla pomice, si può pensare a tante cose che fino ad ora si erano trascurate. E fu negli anni del Sindaco Franza che si ottennero miglioramenti nei servizi marittimi, nel rifornimento idrico a mezzo navi cisterne della marina militare, che arrivarono anche finanziamenti per qualche opera pubblica. Si lastricò con basole di pietra lavica per intero via Garibaldi, si accelerarono i lavori del nuovo edificio sulla Civita destinato a sede municipale, si risistemarono e prolungarono di qualche metro le banchinette nord e sud della penisoletta del Purgatorio, si realizzò un pezzo di approdo a Sottomonastero, si attrezzò e prolungò di quaranta metri il molo di Pignataro, vennero progettate le rotabili Lipari-Canneto e Lipari-Quattropani con deviazione per San Calogero anche se ancora nel 1920   non c'erano strade carrozzabili e la cosiddetta mulattiera Lipari-Canneto era in realtà un sentiero da capre, malamente praticabile per gli uomini e per gli asini.

Grazie alla legge n.10 del 1908 i proventi permisero al Sindaco di ridurre notevolmente le tasse ordinarie e di riportare a pareggio il bilancio. La legge prevedeva un regolamento applicativo che fu approntato e pubblicato il 21 luglio e con delibera dell’8 agosto il  Consiglio comunale  fissava l’ammontare delle tangenti a seconda della qualità dei prodotti. Ma per via di contestazioni da parte dei cavatori, nei primi anni, il Comune ebbe serie difficoltà a far rispettare i suoi diritti. Comunque dopo le prime difficoltà i proventi ammontarono a circa L. 100.000 annue. Non erano i 500 mila calcolati, o forse solo sperati,ma si trattava comunque di una buona entrata che poteva permettere a Lipari di guardare con più serenità e fiducia al futuro.

Le contestazioni riguardavano l’esenzione dei materiali  estratti in data anteriore al giorno di pubblicazione del regolamento e giacenti nei magazzini. Ora malgrado il Comune avesse nominato una commissione per accertare  queste giacenze, alcune aziende piccole e grandi, si diedero a praticare una sorta si contrabbando smaltendo le giacenze e ripristinandole via via, in maniera occulta con materiale di recente escavazione.

Comunque – malgrado le forti carenze - la società liparese  sembrava sollecitare uno sviluppo diverso, capace di andare al di là di una agricoltura ormai divenuta insufficiente e di una industria della pomice, per quanto in crescita, sempre limitata di fronte alle esigenze crescenti. Uno sviluppo meno pauperistico ed austero ed in qualche modo già con qualche licenza consumistica.



[1] G. De Luca, L’economia Eolia, Riposto 1926, prefaz. P.IV. Altri componenti di questo Comitato furono il notar Domenico Giuffré, l’avv.Giuseppe La Rosa, il dott. Giuseppe Pittorino, il dott. Favazza …

[2] Madre Florenzia Profilio, al secolo Giovanna, nasce a Pirrera all'alba del 30 dicembre del 1873 da Giuseppe e Nunziata Marchese. Vedi la scheda sulla sua vita.

[3] M.Giacomantonio, Florenzia che ha svegliato l’aurora, Cinisello Balsamo 2009.

[4] Verbale del Consiglio comunale del 12 agosto.

[5] L.V. Bertarelli, Escursione alle Isole Eolie, in “Rivista mensile Touring Club Italiano”, agosto 1909, pp.340-342.

[6] Le famiglie più agiate, annota Iacolino (Inedito, cit. Quaderno XI, pag. 528 a 2).disponevano di un filtro ingegnoso costituito da una grossa pietra di natura porosa sagomata a forma di anfora romana, cava all’interno e con la base a punta. Siffatto contenitore veniva collocato su un treppiedi di legno e ferro. Ripieno d’acqua, anche limacciosa, il filtro restituiva dal ‘pizzo’, a goccia a goccia, il liquido discretamente limpido.

[7] Le famose “gibbie” che si trovavano al Pozzo,all’inizio del viale vescovile

[8] Ecco i nomi degli scriventi dotati di senso civico:  Giuseppe Cincotta, Antonino Profilio, Giovanni Gioffé fu Antonino, Bartolo Le Donne di Giuseppe, Giovanni Natoli fu Antonino, Nicola Fazio di Giuseppe, Salvatore Sciacchitano, Caterina Merlino, Matteo Giuffré, Caterina Sciacchitano, Giovanni Tesoriero, Caterina Favorito vedova Paternò Gaetano, Ferdinando Paino fu Onofrio, Nunziata Macrì fu Vincenzo, Giuseppe Casaceli.

[9] G. Iacolino,  Strade che vai, ecc., op.cit. pagg. 99-113. Nel 1810 la borgata era ancora “ piccolo casale”, nel 1971 contava 792 abitanti, nel 1907 questi erano saliti a 2.526.

[10] Per la ricostruzione dell'immagine di Canneto come della strada di collegamento ci siamo appoggiati al libro di Luigi Salvaore d'Austria, Le isole Lipari. Vol. III , Lipari, op.cit. pag. 56-60, ritenendo che nel 1912 i cambiamenti rispetto a venti anni prima dovessero risultare minimi. V. anche G. Iacolino, Strade che vai..., op.cit.

[11] Anna Megna vedova Virgona nata a Canneto il 16 giugno 1906 ed avente l'età di 87 anni al momento della deposizione ( 13 settembre 1993). La testimonianza si trova nell'Archivio della Casa generalizia delle Suore a Roma in una cartella denominata “Segnalazioni di grazie attribuite all'intercessione della Serva di Dio Madre Florenzia Profilio”.

[12] Oltre ad essere un lavoro faticoso e pericoloso come lo può essere il lavoro in cava sempre a rischio di crolli nelle piccole gallerie, quello dei cavatori di pomice era un mestiere anche a rischio a causa, come abbiamo visto,  delle “liparosi”.

[13] Idem, settembre 1909, p. 388.

[14] Dal verbale del Consiglio comunale del 22 agosto 1916.(Archivio Storico Eoliano.it)

 

Le difficoltà di un territorio, e le difficoltà di un vescovo

 

La valvola dell'emigrazione

Alla fine dell’800,  cade vistosamente l’agricoltura soprattutto per via della malattia della vite, la fillossera, che colpisce i tre quinti dei vigneti e soprattutto la produzione di vino e passolina; si esaurisce il ruolo strategico svolto dall’arcipelago come tappa obbligata sulle rotte mediterranee, in un’epoca in cui la navigazione a vela costituiva il mezzo principale per il trasporto di merci e persone dalla Sicilia al continente[1]; armatori e padroni di piccoli velieri si trovano in difficoltà oltre che per la concorrenza delle navi a vapore, perché le ferrovie e le strade, soprattutto lungo la costa tirrenica meridionale, rendevano più facili e meno onerosi i trasferimenti via terra di certe merci[2]; è sepolta dall’eruzione di Vulcano la piccola industria di zolfo e allume; scarsamente redditizia  la minuscola salina di Lingua. Vi era l’industria della pomice che- come abbiamo visto – fra alti e bassi cercava di trovare un proprio percorso di crescita ma non poteva soddisfare tutte le esigenze occupazionali. Vi era anche la marineria peschereccia che si manterrà più o meno stabile quantitativamente anche se stenta a divenire una vera e propria attività professionale. I vuoti causati dalle emigrazioni verranno riempiti da graduali immigrazioni di altri pescatori provenienti dal palermitano, messinese, dalla riviera di Acitrezza del catanese. [3]

Rimaneva – osserva  Giuseppe Arena – ben poco della già fiorente vita economica eoliana[4] e la crisi esplode gravissima. L’incremento e la regolarizzazione del lavoro nelle cave e il piccolo contributo, che può venire da una pesca ancora in via di professionalizzazione, non possono compensare la crisi dell’agricoltura e così la situazione economica generale, al principio degli anni 90 , cominciò a farsi pesante e, nel giro di qualche lustro, divenne drammatica[5].

Una  crisi che si riflette sul popolo minuto. Per tali motivi gli eoliani furono costretti a cercare altrove nuove occasioni di reddito e ciò spiega l’esodo massiccio che a partire dai primi anni del 900 ha interessato l’arcipelago: emigrazione definitiva di interi nuclei familiari prevalentemente rivolta verso i paesi extraeuropei[6].

Nel 1893 cinquecento eoliani vivevano all’estero[7]. Nel 1901 questi dovevano essere non meno di cinquemila, per lo più originari di Lipari e Salina. Dal 1901 al 1914 emigrarono 9.916 eoliani e di questi 6.719 in USA, 2.527 in Argentina e 670 in Australia[8]. Nei primi anni del secolo varie decine di marinai di Filicudi ed Alicudi andarono a lavorare come palombari o come braccianti generici nella costruzione dei nuovi porti in Tunisia, Algeria e a Marsiglia.[9] Non erano pochi i braccianti che non se la sentivano più di fare affidamento sul precario reddito delle campagne o di logorarsi l’esistenza nelle cave pomicifere dove ogni anno due o tre uomini  ci lasciavano la pelle. Era poi improbabile che qui, come avveniva in molti altri paesi della Sicilia, si organizzassero società operaie volte ad obiettivi di rivendicazione. [10]

Punto di arrivo per molti? Five Point a New York

Emigranti eoliani in partenza da Canneto

La gran parte degli eoliani che emigra è quindi gente povera che deve affrontare viaggi lunghi e difficili verso i continenti d’oltreoceano su navi che impiegano settimane, stipati in terza classe, superando i travagli e le difficoltà che una letteratura ormai ricca ci ha fatto conoscere. Per chi va negli USA ed a New York, è sono come abbiamo detto la maggioranza, dopo veti giorni di viaggio c’è la quarantena di Ellis Island e poi una metropoli in piena trasformazione con i gravi problemi dell’abitazione, del lavoro, della lingua, dell’assistenza sanitaria. Molti eoliani andarono ad abitare nel quartiere italiano fra Mulberry street e Baxter Steet, “un agglomerato di casacce nere e ributtanti, dove la gente vive accatastata peggio delle bestie[11]. Eppure moltissimi di essi riuscirono a mantenere un loro decoro. E il decoro, malgrado la povertà, è il tratto da cui, forse la maggior parte, non deflette distinguendosi dalla gran parte degli altri immigrati. Il decoro e la dignità ecco il tratto , in genere, dei liparesi che emigrano in quegli anni. Gente che ha famiglia e che tiene alla famiglia e, anche quando la lascia al paese, non se ne distacca spiritualmente, ma pensa a ragranellare un suo gruzzolo per tornare a investirlo a casa e migliorare le dure condizioni di vita. Gente povera ma parsimoniosa e soprattutto profondamente onesta, i liparesi di allora, che sanno che cosa vuol dire “degrado” perché lo hanno conosciuto attraverso la condotta di vita di molti coatti, e se ne vogliono mantenere distanti, separati come da una linea ideale che però loro hanno ben presente.  E così appena possono non vanno ad abitare nel calderone di Five Point ma nelle sue prossimità tenendosi ad una certa distanza come nel quartiere di Sullivan Street dove c’è una chiesa di francescani italiani e possono continuare a praticare una religione che ricorda quella di casa loro. Una vita che in qualche modo ricordi le isole di provenienza. Ed in ciò sono aiutati da tutta una rete di società di mutuo soccorso che permettono un’agevole integrazione nella società americana. Fra il 1898 ed il 1915 se ne costituiranno, fra gli eoliani, ben quattro[12].

New York, Little Italy fine 800

Comunque  quell’ondata migratoria non incise più di tanto sulla popolazione eoliana. 21.210 abitanti contavano le Eolie nel 1891 e 20.610 ne avevano nel 1911. Inoltre  diversi emigranti del primo flusso erano tornati nelle isole per investirvi i loro risparmi mentre quelli che erano partiti lasciando nelle isole la famiglia, regolarmente inviavano le rimesse in valuta che influivano positivamente bell’economia dell’arcipelago che, come si è detto, contava problemi non indifferenti. Ed è proprio grazie a queste rimesse che si cominciano a notare fabbricati interamente ristrutturati, con i prospetti messi a nuovo e finalmente, con all’interno, moderni servizi igienici.

Ma dall’emigrazione non rientrano solo capitali o persone che intendono investire, come vedremo, nelle isole. Rientrano anche persone inferme e affette da malattie contagiose “per le privazioni e dure fatiche in quelle terre” [13]

Le difficoltà di un vescovo

Ma mentre gli eoliani costretti ad emigrare ricercano nella chiesa cattolica un dato di continuità con la loro vita passata e si stringono ad essa a cominciare proprio dai salinari che all’emigrazione danno un contributo imponente, la borghesia di Salina rimasta nell’isola polemizza col nuovo vescovo mons. Audino giunto da poco a Lipari. Il 24 ottobre del 1899 in una “Lettera del Vescovo di Lipari ai suoi fedeli diocesani” mons. Audino afferma che “Il soffio della malvagia rivoluzione” -  intende quella risorgimentale -  ha invalidato la norma evangelica  del “dare a Cesare quello che è di Cesare, e ad Dio quel che è di Dio” per cui la Mensa vescovile è giunta allo stremo  e non si sa se possa esistere o debba scomparire.

Al vescovo, un comitato di salinari, risponde con una lettera di sette pagine a stampa, con in calce una decina di firme delle personalità in vista. Ricordando la lunga battaglia per affrancarsi dalle decime che giudicano ingiuste perché si usava il frutto annuale dei poveri coltivatori per fare arricchire altri con gli appalti, colle laute pensioni della mensa e perfino con maneggi più o meno loschi. Le rendite della Mensa non gravano in giusta proporzione su tutti i diocesani. La Mensa ha bisogno di sostegno finanziario? Si ricorra ad una forma di autotassazione che gravi su tutti i fedeli indistintamente e non sui soli contadini. “Salina non tenta di sottrarsi al peso rateale del mantenimento della Sede Vescovile; dice soltanto: Dividiamo i pesi in giusta proporzione” [14].

Questa risposta, certo polemica, ma con un fondo di verità non dovette offendere il prelato se, nei quattro anni in cui governa la diocesi, andrà a Salina[15] diverse volte – e vi tornerà anche quando è vescovo di Mazara del Vallo - ed il 21 luglio 1901 consacra il Santuario della Madonna del Terzito a Val di Chiesa.

Nella lettera pastorale che riguardava l’anno santo, l’1 gennaio del 1900, mons. Audino annunzia  - in realtà come diremo i primi passi li aveva già compiuti - la volontà di aprire, “entro quest’anno memorando”, la nuova strada che permetta di accedere alla Cattedrale, “il maggior tempio, e forse l’unico degno di tale nome, che si ammiri in questa città”.

Lavori di fronte alla Cattedrale

I lavori, come si ricorderà, erano stati avviati da mons. Palermo che aveva acquistato i terreni dove doveva essere fatto il taglio e forse aveva anche avviato i lavori di sbancamento. Per questo lavoro il vescovo deve attingere al lascito di mons. Ideo che era – dopo il prelievo fatto da mons. Palermo – di 80 mila lire in titoli che il suo predecessore aveva cadenzato secondo una precisa sequenza di obiettivi. Fra questi non c’era la scalinata ma c’era la costruzione di una nuova Cattedrale e quindi mons. Audino, come prima di lui mons. Palermo, pensando che le due opere fossero fungibili, ritiene che anche la scalinata rientri nel lascito. I titoli di credito mons. Natoli li aveva consegnati alle suore di Carità  che ne amministravano anche gli interessi giacchè fra le destinazioni, all’ultimo posto, vi erano anche le suore di Carità. Così il vescovo si rivolge alla superiora delle suore e chiede i titoli.

Suor Luisa Mandalari, superiora delle suore di Carità, consegna, per ubbidienza, il lascito ma è tutt’altro che convita. Visto infatti che la cattedrale in piano non si faceva e il Seminario era praticamente chiuso pensava che ormai fosse acquisito che, se non tutta la somma, almeno una buona parte, sarebbe andata alla realizzazione dell’Istituto delle suore. Così mentre consegna i titoli fa formale ricorso alla Congregazione dei vescovi e dei regolari chiedendo comunque la tutela degli interessi del suo istituto. L’Audino,  cerca di rassicurare le suore mettendo a loro disposizione 20 mila lire di quel capitale, e contribuendo con fondi suoi propri si appresta a dare il via alle opere di scavo e di sfondamento delle mura. Il preventivo è di 50 mila e pensa che , tutto sommato, può starci dentro. Ora gli occorrono le autorizzazioni di Comune e Governo. Il 9 settembre 1899 scrive al Sindaco trasmettendogli il progetto e si augura che il Consiglio lo approvi nel più breve tempo ed all’unanimità perché “vuole subito cominciare i lavori e compirli con fondi suoi privati entro pochi mesi”.

Il progetto della scalinata per la Cattedrale

 Il Sindaco, avv. Ferdinando Paino, si muove celermente e non solo per deferenza al vescovo ma anche perché i lavori possono assorbire un po’ di quella disoccupazione che affligge l’isola per via della siccità e della fillossera. E così il 19 ottobre il progetto arriva in Consiglio con la proposta di discuterlo al primo punto dell’ordine del giorno. Ma già fa fatica il Sindaco a fare passare questa precedenza e comunque non riuscirà ad ottenere l’unanimità, come il vescovo sperava, ma si dovrà contentare di diciassette voti contro tre. Inoltre la discussione durò per più sedute e se in generale gli interventi furono tutti di consenso e di plauso non mancarono però osservazioni e critiche. Così il consigliere Caserta vorrebbe la strada a rampe e non a gradini perché una “scalinata immensa stancherà tutti quelli che devono salire alla Cattedrale, tanto che molti preferiranno la vecchia[16]”. Inoltre il Caserta si opporrà anche alla richiesta di chiedere al governo la demolizione di ventun metri di mura perché “si deturperebbe la vetustà monumentale del Castello[17] e suggerisce che si chieda il parere della Commissione Governativa per la conservazione dei monumenti d’arte antichi.

Prima la discussione in Consiglio e poi la burocrazia, i tempi si allungano. Se mons. Arduino pensava che si potesse realizzare l’opera in pochi mesi, entro l’anno santo, dovette ricredersi presto. Infatti soltanto nel maggio del 1903 giunse l’autorizzazione per demolire i fabbricati sulla via Garibaldi di fronte al tratto di mura da sventrare[18], e in agosto si poté mettere mano al taglio delle mura con la gente che accorreva a vedere come ora la Cattedrale sembrasse più vicina. Ad ammirare “la Cattedrale più vicina” però non c’era fra i tanti mons. Audino che proprio nel mese di giugno era stato trasferito a Mazzara del Vallo e con la sua partenza l’opera si bloccherà e passeranno anni prima che venga ripresa.

Probabilmente è con mons. Audino che si inaugurano le collette all’estero fra gli emigranti eoliani per realizzare opere religiose e sociali. La colletta serve per opere di restauro nella Cattedrale  ed il 9 settembre 1901  il vescovo -  quando sono giunte le prime rimesse per 3.300 lire - elenca le cose fatte e quelle che rimanevano da fare[19].

Si deve anche a mons. Audino l’idea di ampliare e abbellire la chiesetta di Santa Lucia che era ai margini del Vallone fuori città. Lì tutte le domeniche mattine i contadini delle campagne scendevano con gli asinelli per vendere i prodotti della loro terra e fare provviste per la settimana. Legavano gli asini agli anelli che pendevano numerosi dal muro di recinzione del terreno vescovile e andavano alla chiesetta di Santa Lucia per ascoltare la messa. Ma i contadini erano tanti e la chiesa era piccola e così la messa finivano con l’ascoltarla solo le donne mentre gli uomini stavano sulla soglia a chiacchierare. Era un andazzo che al vescovo non piaceva e così pensò di affidare la chiesa alle cure spirituali di don Emanuele Scolarici che era un giovane prete vivace socialmente e politicamente ma che aveva anche doti di buon predicatore . Ed in una decina d’anni la chiesa fu ingrandita e restaurata.

Pensava di rimanere a lungo mons. Audino a Lipari perché era giovane e pieno di buona volontà, ma era anche un uomo combattivo che amava impegnarsi ed esporsi nelle cose in cui credeva. Così quando il 28 novembre del 1902 il presidente del consiglio on. Zanardelli presentò alla Camera il disegno di legge sul divorzio, il vescovo decise di fare una crociata sull’indissolubilità del matrimonio. E quale migliore occasione della novena dell’Immacolata per parlare contro il divorzio? Così fece venire a Lipari dei valenti oratori ed organizzò, nell’omonima chiesa al Castello, un grande raduno impegnando confraternite ed associazioni. La chiesa si riempì oltremisura e stava per prendere la parola il primo oratore quando fece irruzione la polizia ed il commissario avvicinatosi all’altare intimò al vescovo lo scioglimento del raduno. Il vescovo – come ebbe a scrivere in una lettera pastorale che fece stampare il 12 gennaio del 1903 – “da prudenza consigliato” dovette “cedere alla forza per evitare altri malanni”.

Ancora poche settimane ed il 4 aprile 1903 riceveva un biglietto da Roma nel quale gli si comunicava, ufficiosamente, che era stato deciso il suo trasferimento a Mazara del Vallo.



[1]  La navigazione a vela diventa un ricordo storico e i vettori liparesi non dispongono dei capitali necessari per rinnovare le loro imbarcazioni. Feluche, brigantini, paranze, paranzelle e bovi, scibbecchi, scorridori e speronare dopo la metà del secolo rimangono ferme sui lidi delle isole dove si consumano divenendo miseri scheletri. Sul finire del secolo solcano però ancora i mari il brigantino Orsolina, la goletta Bella Anima, le tartane Madonna dell’Arco e S.S. Vergine, la bilancella Nuova Rosina, i brigantini a palo Alabama e Luigia. Angelo Raffa – Pirati, corsari, schiavi, marinai, mercanti  - in Atlante.

[2]  G. Arena, op. cit. pag. 52. Rocco Sisci – Marineria di pesca e da traffico nella tradizione eoliana, in Atlante:“Verso la fine degli anni venti del 900 la marineria da traffico appare  Lipari in fortissima crisi: i velieri di un certo respiro sono del tutto scomparsi, mentre sopravvivono ancora, in numero poco elevato, piccole imbarcazioni. Non risolverà il problema – se non per i viaggi a livello locale e con la Sicilia – neppure la trasformazione dei natanti a vela in motovelieri nel corso degli anni 30. E così dopo una effimera ripresa del traffico a vela nel periodo a cavallo del secondo conflitto mondiale, il veliero scomparirà per sempre agli inizi degli anni 50”.

[3] Rocco Sisci – Marineria di pesca e da traffico nella tradizione eoliana, in Atlante:Questo fenomeno inizia ai primi del novecento e andrà gradualmente aumentando fino agli anni 40 del 900. I pescatori acitani ( acatani) si stabiliscono a Lipari a Marina Corta ed adoperano una barca delle loro parti, la palummedda.  Comunque, nella prima metà del 900 ( anni 20 in particolare) la pesca è divenuta a Lipari già una attività professionale, mentre non lo è ancora nelle altre isole.

[4] G.A.M. Arena, L’economia…, op. cit., pp.51-52

[5] G. A.M. Arena, op.cit. , pag. 51.

[6]  Maria Basile- Linee storico-evolutive della consistenza della popolazione . in Atlante.

[7]  1891- In tutto il Comune di Lipari si sono avuti 109 emigranti per New York, 50 in Australia e 22 a Marsiglia. Da Salina sono emigrate 147 persone per USA, 72 in Australia e 5 per l’Argentina.

[8] A. Mori, Emigrazione delle Isole Eolie, in “Rivista Italiana di Socilogia”, XIII, pp.51-63. L’emigrazione eoliana continuò ad essere rilevante anche nel primo trentennio del Novecento. Si fermò quasi del tutto dal 1931 al 1945, riprese con ritmo sostenuto dal 1946 e cessò quasi completamente negli anni Sessanta.Negli anni 50 l’emigrazione eoliana sarà diretta in prevalenza verso l’Australia. G.Arena, op. cit., pag. 53.

[9] G.Iacolino, inedito cit., Quaderno XI , pag. 525.

[10]  Pur tuttavia si avvertirono segnali di effervescenza borghese, di risveglio sociale e di invito al libero dibattito  con la creazione di due periodici locali.

[11] A.Rossi, Un italiano in America, Milano, 1894. Una panoramica efficace della vita degli italiani negli Usa in quegli anni in G.A. Stella. L’orda, Milano 2003.

[12][12] Marcello Saja, Il museo dell'emigrazione eoliana di Salina, Gualdo Tadino, 7-8 giugno 2002, in www.emigrazione.it Anzi la prima società costituita da liparesi e salinari (provenienti dalla vicina isola di Salina) nasce a Brooklin nel 1887 – ben prima della grande crisi della vite – e si chiama “La Lega eoliana. Società di mutuo soccorso”. Dalla bella mostra itinerante “Sicilian Crossing to America and Derived Communities”  predisposta dal CIRCE, Centro internazionale di ricerca per la storia e la cultura eoliana.

[13] Dal verbale del Consiglio comunale del 3 agosto 1912.

[14] A S.E. Mons. Nicolò M. Audino, Vescovo di Lipari, Tipografia P. Conti Lipari 1900. Il Vescovo di Lipari ed i suoi mezzi di sussistenza. Breve risposta del Popolo di Salina alla lettera del Vescovo di Lipari del  24 ottobre 1899 diretta ai suoi Diocesani.

[15] A favore dell’ipotesi che il vescovo si fosse riconciliato con le personalità di Salina, non solo ma che avesse stabilito un rapporto particolarmente cordiale sta il fatto a fine agosto, prima di lasciare la diocesi, passerà nell’isola alcuni giorni di riposo visitando la chiesa della Madonna del Terzito.

[16] Verbale del Consiglio comunale del 19 ottobre 1899.

[17] Verbale del Consiglio comunale dell’1 luglio 1903.

[18] In gran parte fabbricati della famiglia Bongiorno.

[19] G. Iacolino, inedito cit., Quaderno XI, p.512.(Archivio Storico Eoliano.it)

Dall'era dell'ossidiana a quella degli Eoli (II puntata).

La tholos di San Calogero.

La scoperta del significato che questo manufatto - collocato in una zona periferica della nostra isola - acquista per la nostra michele7tholos1storia, matura di fatto negli anni 80 nel corso dei lavori di ristrutturazione di tutto il complesso termale di San Calogero. In quell'occasione, per l'opera di demolizione di alcune sovrastrutture murarie, l'antica stufa può essere osservata e studiata da Bernabò Brea e dalla Cavalier. Lasciamo a loro la parola:

"Fin dal momento in cui, penetrando nella cupola termale di San Calogero, ormai aereata ed illuminata, potemmo portare su di essa la nostra attenzione, rimanemmo colpiti dalla appariscente somiglianza, sia del tipo architettonico sia della struttura, con le tholoi micenee e la nostra impressione fu condivisa dai colleghi che subito dopo di noi, venendo a Lipari, poterono visitarla. Si trattava di una impressione, a cui peraltro davano fondamento i confronti che cercammo di istituire con altri monumenti a falsa cupola del Mediterraneo. La falsa cupola, la volta costituita cioè da filari sovrapposti di blocchi litici aggettanti gli uni sugli altri in cerchi via via sempre più ristretti, ha antichissime origini e lunghissime tradizioni nel Mediterraneo. E' certamente molto più antica dell'età micenea, se ne ritroviamo già i lontani precedenti nelle capanne di Kirokitia a Cipro. I Micenei l'hanno portata alla più elevata espressione architettonica ed artistica, ma potremmo ricordare le innumerevoli sopravvivenze nell'edilizia rustica fino ai nostri giorni, di cui i trulli di Alberobello sono uno dei più noti esempi.( ..) Si potrebbe quindi dire che la falsa cupola fa parte del comune patrimonio tecnologico delle genti abitanti sulle sponde del Mediterraneo fin dall'età neolitica. La tecnica con cui la nostra tholos è costruita non sarebbe dunque di per sé stessa una prova definitiva dell'antichità attribuibile ad essa. Tuttavia le analogie tipologiche e strutturali che essa presenta con le tholoi di età micenea sembrano più strette che con qualsiasi altra classe di monumenti, tecnicamente analoghi, delle nostre regioni con cui la potremmo confrontare (...) Questa serie di confronti sembra in realtà confortare l'ipotesi di una attribuzione della nostra tholos all'età del bronzo. Senza dubbio, di tutti i monumenti costruiti con questa tecnica architettonica, quella a cui essa è più vicina sono le tholoi funerarie della Grecia micenea. Essa sembra veramente riprodurre il prototipo da esse costruito, in una scala ridotta, che è in rapporto con la sua funzione di stufa termale. La distruzione della sommità della cupola e degli stipiti della porta rendono impossibili confronti riguardanti questi dettagli e d'altronde senza dubbio le piccole dimensioni e la scarsa ampiezza delle due aperture rendevano superflui dei triangoli di scarico al di sopra degli architravi che quasi costantemente ricorrono nelle tholoi micenee(...)Se la tholos di San Calogero è un monumento dell'architettura micenea essa riproduce esattamente, in dimensioni molto ridotte, la forma e le strutture della stessa Micene. In modo particolare si avvicina alla più raffinata, alla più elegante fra esse: il tesoro di Atreo. Ha di questo la stessa struttura, interamente in blocchi quadrati, mentre la maggioranza delle altre tholoi la presentano solo in parte. Ma la tholos del mondo miceneo ha, per quanto conosciamo, solo una funzione sepolcrale. E' la grandiosissima tomba di un principe o di una famiglia principesca. La nostra ha una funzione del tutto diversa. E' stata creata come una stufa termale, ed è l'unico caso finora noto di un simile adattamento del tipo. Senza dubbio in stretto rapporto con questa diversa particolarissima funzione sono le sue piccole dimensioni".

La tholos di S. Calogero a sinistra e la tomba di Atreo a destra.

Dal punto di vista storico e culturale una simile ipotesi , continuano i nostri archeologi, è in linea con le altre ricerche fato sul campo ed il rinvenimento di centinaia di frammenti di ceramiche di quell'epoca a Capo Graziano, sul Castello di Lipari, sulla Montagnola di Filicudi, a Serro dei Cianfi di Salina, e di ceramiche di stile miceneo nelle stesse località, sul promontorio del Milazzese nell'isola di Panarea e in quello della Portella di Salina. Tutti questi rinvenimenti ci mostrano che le isole Eolie erano in quell'età fra i principali empori del commercio miceneo del Mediterraneo occidentale. Empori che dovevano essere visitati regolarmente, ogni buona stagione, dalle navi micenee che ad essi facevano capo..

"Essa ci apparirebbe nella sua struttura - dicono ancora Bernabò Breaa e la Cavalier -come un tipico monumento dell'architettura micenea, vorremmo dire come una delle più perfette realizzazioni di questa cultura, soprattutto se noi la consideriamo per quello che doveva essere al momento della sua costruzione ed ha continuato ad essere per più di un millennio e mezzo, prima del dissesto che ne ha alterato le forme e distrutto l'armonia delle linee, nella tarda età imperiale romana. Se noi la confrontiamo con quanto conosciamo dell'architettura indigena delle Isole Eolie dell'età a cui è attribuibile, ci rendiamo conto che essa nono potrebbe essere in alcun modo uno spontaneo germoglio sbocciato in essa ( sia pure ad imitazione dei modelli stranieri) e neppure l'opera di architetti e maestranze locali. Essa ci apparirebbe invece come un evidente apporto del mondo miceneo, non diversamente dalle ceramiche che si rinvengono in gran numero nei livelli di questa età degli insediamenti eoliani. Apporto questa volta consistente non nell'invio di prodotti manifatturati ma nella fornitura di tecnologie, nell'invio sul posto di dirigenti e di maestranze specializzate per realizzarle".

Considerata sotto questo aspetto la tholos farebbe dunque parte di quel complesso di scambi commerciali che in questa età abbiamo visto esistere fra le isole Eolie e il mondo miceneo e proprio la sua esistenza permette di qualificare e valorizzare, più di quanto si ritenesse fino a qualche decennio fa, queste relazioni. Se chi presiedeva ai grandi commerci dovette ritenere utile e necessario trasferire alle Eolie tecniche e competenze fino allora sperimentate in Grecia per realizzare un'opera di così straordinaria grandiosità per quel tempo, era perché doveva pendere a loro favore una bilancia dei pagamenti di notevole rilevanza .. "Il fatto stesso - sottolineano Bernabò Brea e la Cavalier - che sia stato possibile ideare, programmare e realizzare un'opera di questo genere implica che fra le isole Eolie e i principati micenei dovevano esistere rapporti stretti, costanti e duraturi, implica cioè un approfondita conoscenza reciproca. E' ovvio d'altronde che se le navi micenee venivano regolarmente nelle isole Eolie ad offrire prodotti non lo facevano a titolo di dono generoso, ma le usavano come merci di scambio contro altri prodotti. E d è ovvio altresì che questo commercio doveva essere in qualche modo organizzato. Era necessario cioè che agenti commerciali micenei risiedessero stabilmente per periodi più o meno lunghi nelle isole Eolie per preparare la raccolta di quelle merci che le navi dei loro paesi sarebbero venute a caricare alla stagione dovuta".

Rappresentanti che dovevano avere anche una funzione più ampiamente politica e diplomatica, veri e propri consoli ed ambasciatori, il cui compito era quello di assicurare quelle buone relazioni fra i loro principi ed i principi locali e di condurre delle trattative per cui le merci che ad essi interessavano fossero incanalate verso i loro paesi e non verso stati concorrenti. E ciò soprattutto trattandosi di prodotti di fondamentale importanza strategica quali lo stagno e gli schiavi. Ma non vi erano solo costoro. Oltre a questi doveva essere frequente che raggiungessero le nostre isole anche membri delle più eminenti famiglie locali per visitarle. E' dunque su questo sfondo di rapporti politici, economici e culturali, che va vista la costruzione della tholos micenea di Lipari: solo così - osservano Bernabò Brea e la Cavalier - si potrebbe spiegarne l'esistenza.

"La tholos di San Calogero sarebbe dunque sorprendente - concludono i nostri archeologi - non solo come testimonianza di uno straordinario spirito di ideazione e di iniziativa nel campo delle relazioni politiche ed economiche, ma anche come la dimostrazione di una eccezionale capacità di adattamento tecnico da parte degli architetti che l'hanno progettata, sarebbe nel suo genere quale stufa termale, un monumento unico, senza confronti, nel campo dell'architettura micenea. E' probabile comunque che essa sia il più antico edificio termale fino ad oggi conosciuto nel mondo mediterraneo, anche se l'utilizzazione a scopo curativo delle risorse termali è forse vecchia come la stessa umanità."TP[1]PT

Oltre alla tolos di San Calogero ed ai reperti archeologici del Castello e di Capo Graziano, a testimoniare la grande vitalità di questa fase della nostra storia – in cui gli Eoli di Occidente sembrano acquisire quasi il monopolio del commercio del mondo miceneo tra il XVIII e il XVI secolo a. C. -, rimane anche un dipinto trovato negli scavi di Akrotiri, antico centro dell'isola di Santorini, ed oggi conservato nel Museo Archeologico di Atene. Secondo l'archeologo greco Cristos Dumas, autore di quegli scavi, quel dipinto raffigurerebbe un viaggio fra Santorini e Lipari avvenuto prima del 1600 a.C.,quando Akrotiri fu distrutta da un fortissimo terremoto che sconvolse l'antica Thera, le Cicladi e la civiltà minoica dando probabilmente origine al mito di Atlante.

fotosantoriniLipari e Santorini

Scrive Luigi Bernabò Brea a questo proposito:TP[2]PT "In questo famosissimo dipinto sono raffigurate due terre, separate fra loro da un ampio tratto di mare, sul quale saltano delfini e attraversato da numerose navi. Nella terra di destra, in base ai caratteri morfologi del terreno, egli aveva riconosciuto d tempo la stessa città di Akrotiri e il suo litorale. L'altra sarebbe precisamente Lipari. La coincidenza di tutti gli elementi è in realtà singolare. Si direbbe che il pittore abbia davvero visto i luoghi o riproduca uno schizzo fatto da una persona che ben li conosceva".

L'affresco di Santorini per esteso.fotosantorini1

Si riconosce al centro la rocca del Castello con le sue scoscese balze e in certo qual modo anche il dorso della Civita che la prolunga a minore altezza sul lato destro. Si riconoscono, in veduta aerea, i due torrenti del Vallone Ponte a sinistra e di Santa Lucia a destra e, al di là della rocca, la pianeggiante contrada di Diana da essi delimitata. E' evidente a sinistra il porticciolo di Marina

Il particolare della rocca.

Corta, protetto da massi su cui, in secoli vicino a noi, è stata costruita la chiesetta delle anime Purganti. E al di là di Marina Corta iniziano le balze con cui si affaccia sul mare il dosso di Sopra la Terra. Verso destra invece il promontorio di Monte Rosa appare bensì indicato ma ridotto fortemente di scala.

Ciò risponde, osserva Bernabò Brea, " alle convenzioni artistiche che regolano questa arte, nella quale i singoli elementi non sono nelle proporzioni relative reali, ma in proporzioni diverse in rapporto alla loro importanza reale. Vorremmo dire che nelle maggiori proporzioni sono i delfini. Seguono poi gli uomini e gli animali che sono in proporzioni molto maggiori delle navi e soprattutto delle case. E queste prevalgono sul territorio che le circonda, che è all'ultimo gradino della serie. Nessuna meraviglia quindi se anche il promontorio del Monte Rosa si riduce ad una espressione simbolica".

"Tenuto conto di ciò possiamo dire - conclude il padre del Museo archeologico eoliano - che la coincidenza di tutti gli elementi appare troppo perfetta, fino ai più minuti dettagli, per poter essere casuale. Avremmo dunque una veduta di Lipari presa dal mare degli inizi del XVI secolo a. C., dell'età cioè delle fasi evolute della cultura di Capo Graziano, dell'età alla quale appartiene una massa di frammenti di ceramiche egee rinvenuti a Lipari e nelle altre isole. Siamo precisamente nella stessa età a cui sembra potersi attribuire il tholos termale di San Calogero" .

(www.archiviostoricoeoliano.it)

TP[1]PT L. Bernabò-Brea,M. Cavalier, Le terme di San Calogero, in Arcipelago , VII, 1983, n.3, p.5..

TP[2]PT L.Bernabò-Brea, M. Cavalier, F. Villard, "Meligunis Lipara" vol, IX , pag.19-20, Regione Siciliana, Assessorato ai Beni culturali e Ambientali e della P.I.;1998).(L.Bernabò-Brea, M. Cavalier, F. Villard, "Meligunis Lipara" vol, IX , pag.19-20, Regione Siciliana, Assessorato ai Beni culturali e Ambientali e della P.I.;1998.

Le Eolie dall’ossidiana agli Eoli (I puntata)

L’era dell’ossidiana

Dalla prima avventurosa spedizione che abbiamo immaginato, dovranno passare più di mille anni perchè si possano registrare dei nuovi arrivi di gente portatrice di tradizioni artigianali diverse e soprattutto di diverse tecniche nella lavorazione della ceramica forse richiamate dalle grandi potenzialità dell'Ossidiana e dalla possibilità di commerciarla. Ed anche se IacolinoTP[1]P ci invita alla prudenza quando si parla di “via dell’ossidiana” vista le difficoltà di intraprendere lunghi viaggi con le imbarcazioni possibili, in qualche modo un certo commercio dovette svilupparsi. E che questi nuovi arrivati fossero particolarmente interessati alla commercializzazione lo dimostra la scelta delle nuove ubicazioni. Così nei primi secoli del IV millennio a.C. si possono riscontrare i primi insediamenti sulla rocca di Lipari. Le abitazioni sorgono si in prossimità del mare ma su una fortezza naturale che rivela come, a fianco di una attenzione alletholos1 comunicazioni ed ai collegamenti via mare, permanessero problemi in ordine alla sicurezza. Da dove vengono questi popoli? Le ceramiche da loro prodotte rivelano interessanti consonanze con le popolazioni al di là dell'Adriatico (Dalmazia e Grecia) le quali dovettero aggiungersi a quelle che già abitavano al Castellaro vecchio. Si può pensare così che si andasse consolidando una economia fondata sulla lavorazione dell'ossidiana, oltre che sulla coltivazione dei campi e, come abbiamo detto, sul commercio di questo preziosissimo minerale. I rapporti probabilmente non andarono oltre ai rapporti con commercianti della costa tirrenica e dell’Italia meridionale, ma da commerciante a commerciante, essa si diffuse al di là della Sicilia e dell'Italia meridionale. Infatti l’ossidiana di Lipari è stata ritrovata in Liguria, nella Francia meridionale, e soprattutto in Dalmazia. Fu l'interesse per l'ossidiana che insieme con le relazioni commerciali aprì la strada a nuove immigrazioni visto che i giacimenti di Lipari erano sempre più rinomati

http://www.archiviostoricoeoliano.it/sites/www.archiviostoricoeoliano.it/files/Via%20dell%27ossidiana%20001.jpg" height="502" width="751">

Mappa del Mediterraneo con le fonti dell'ossidiana (da Williams Thorpe 1995)

L'insediamento sulla rocca di Lipari, grazie anche agli scambi ed alle relazioni pacifiche, col passare dei secoli non solo andò prosperando ma acquistò sicurezza tanto che le abitazioni cominciarono ad espandersi oltre la fortezza, nella pianura circostante della contrada Diana. Ancora qualche secolo e nella seconda metà del IV millennio ritroviamo “un vastissimo insediamento, uno dei più vasti e popolosi del Mediterraneo centro-occidentale, che vive e prospera appunto sull'industria e l'esportazione dell'ossidiana”TP[2]PT . Inoltre villaggi sorgono anche nell'entroterra: di Lipari a Pianoconte, Mulino a vento, Spataredda...Mentre a Salina oltre che a Rinicedda, sorgeva un villaggio intorno al 3000 a.C. a Serro Brigadiere alle spalle di Santa Marina, e poi uno a Serro dell’Acqua.

Fino a quando prospera questo commercio dell'ossidiana, e cioè fino a quando non cominceranno a fondersi i metalli, le Eolie vivranno una condizione di prosperità e di crescita. La gente, oltre che l'isola di Lipari, popolerà tutte le altre isole, Vulcano esclusa e la fabbricazione delle ceramiche rivelerà sempre nuove tecniche di lavorazione e di colorazione a testimonianza che le relazioni e quindi la contaminazione culturale è intensa e proficua.

L'arrivo degli Eoli

La recessione economica e demografica dovette manifestarsi proprio con l'avvento dell'età dei metalli, nella seconda metà del terzo millennio, cioè durante l’età del rame che è metallo troppo fragile per potere scalzare subito e totalmente la pietra ed all’inizio della lavorazione del bronzo. Proprio questa convivenza della pietra con i metalli fa si che la crisi sia lenta anche se progressiva ed inesorabile visto che l'economia di Lipari è legata ad una monocultura - quella della produzione e del commercio dell'ossidiana – e fa fatica a diversificarsi e riconvertirsi. Più duttile è invece l’economia di Salina - allora circa 200 abitanti contro i mille di Lipari - che può contare su una terra più generosa, su coltivazioni più redditizie, su selvaggina abbondante e su ricche sorgenti d’acquaTP[3]PT.

Quanto dura questa crisi? Probabilmente mezzo millennio a partire dal 2600. Infatti proprio negli anni a cavallo fra il III ed il II millennio incontriamo un nuovo periodo di forte fioritura. Questo risveglio sembra coincidere con una nuova trasmigrazione di gente che giunge dall'oriente: sono gli Eoli che daranno il loro nome alle Eolie. Probabilmente è proprio l'avvento dell'era dei metalli- e soprattutto la scoperta del bronzo che deriva dalla fusione del rame con lo stango -michele6 che mette le popolazioni in movimento alla ricerca di aree più ricche di risorse o collocate strategicamente. Inoltre dovettero contribuire non poco anche alcuni progressi avvenuti nel campo della navigazione grazie alla maggiore capacità di lavorare il legno, a metodi migliori per saldare le connessioni, a tessuti più grandi e più solidi da adoperare come vele.TP[4]PT Comunque è proprio in questo periodo che sta a cavallo dei due millenni che si sviluppa una fase di grandi trasmigrazioni che investono tutto il mondo e procedono, in genere, da est verso ovest..

Prima di noi, è la penisola greca ad accogliere ondate successive di popoli che incalzano e sospingono in avanti quelli che erano giunti prima. Proprio nel II millennio si stanzieranno sul suo territorio popolazioni indoeuropee provenienti da oriente, probabilmente dalle coste dell'Anatolia sul Mar Nero, ribattezzando la penisola col nome di Ellade. Così prima giungono gli ioni, quindi gli eoli e gli achei. Infine, ma siamo già nel 1150, giungeranno i dori.

Mentre gli ioni occupano l'Attica, gli achei (conosciuti anche col nome di micenei) il Peloponneso entrando in rapporti commerciali con la civiltà cretese, gli Eoli si stabiliscono nella Beozia e nella Tessaglia oltre che nella zona mediana della Grecia, su tratti della costa dell‘Asia Minore ed in diverse isole greche. E saranno essi che si spingeranno oltre che sulle coste ioniche dell'Italia anche fino alle Eolie per proseguire verso la Campania e la Toscana. Da noi giungono prima, probabilmente, con missioni esplorative, poi per realizzare - come sarà anche per Malta - presidi che favoriscano le rotte commerciali ed infine, proprio in relazione a questi presidi si creano insediamenti più stabili. Anzi proprio le Eolie e Malta rappresenteranno per gli Eoli le principali stazioni di transito e di commercio della loro imponente rete marinara.

La prima scelta sarà naturalmente la rocca di Lipari, poi le altre isole - a Stromboli nel 1980 viene alla luce, nei presi della chiesa di S. Vincenzo, un villaggio preistorico di capanne risalenti alla prima metà del II millennio a.C. - ed in particolare Capo Graziano a Filicudi. E proprio da Capo Graziano questa nuova cultura delle Eolie prende il nome.

Il nome Eoli secondo la tradizione deriverebbe da Eolo Eponimo, figlio di Elleno e patriarca degli Elleni cioè dei popoli che emigrarono dall'Anatolia verso lamichele7 Grecia dando vita all'ondata degli Ioni, degli Achei e quindi degli Eoli. Da noi la loro presenza, in un modo o nell'altro si estende lungo circa mille anni: dal XXI secolo all'XI a.C.

Sulla via dello stagno

Conclusa la fase del commercio dell'ossidiana le Eolie riacquistano interesse grazie soprattutto alla loro posizione strategica. Era iniziata infatti l'”età del bronzo” e l'arcipelago era divenuto punto di passaggio, rifornimento e commercio per i navigatori – e fra questi in particolare gli Eoli e comunque navigatori provenienti dall'Egeo - che percorrendo la U“via dello stagno”U traversavano il Mediterraneo dalle coste del vicino Oriente e dal mondo miceneo ad Occidente passando attraverso lo stretto di Messina. Attraverso questo percorso giungevano fino alle isole britanniche- dove esistevano giacimenti di questo minerale che aveva acquisito un ruolo fondamentale nella vita quotidiana -, attraverso il ponte terrestre dalle foci della Garonna alle foci del Rodano .

Mappa dell'ecumene basata su Strasbone che indica le mitiche Cassiteridi a nord della Spagna su cui sarebbero esistiti giacimenti di stagno e quindi una delle mete della “via dello stagno).

Ma lo stagno era solo una delle mercanzie che alimentavano i traffici lungo questo percorso. Vi erano le ceramiche , tessuti, pellame, vino, olio, frutta secca e gli schiavi che dovevano rappresentare la mercanzia più richiesta. Quanto alle Eolie, persa l'ossidiana, grandissima parte del loro interesse commerciale, ebbe il punto di forza soprattutto nella posizione strategica. Nondimeno avevano anche loro prodotti da esportare come il vasellame ma soprattutto l'allume e lo zolfo e più tardi il caolino e la pomice. L'allume in particolare lo si adoperava in tintoria, per la concia delle pelli e come astringente in medicina. Non dobbiamo dimenticare inoltre i prodotti della terra come il l'olio ed il vino.

Non dovette essere nemmeno secondario l'interesse per i soffioni, i fanghi e le acque curative di cui queste isole erano famose fin dall'antichità come dimostra la stufa a forma di tòlos di San Calogero che richiama, in scala, l'architettura di tombe micenee e la cui costruzione può farsi risalire a prima del 1430 a.C. Ma di questo parleremo in una prossima puntata.

(1 continua).

                                                                                       (www.archiviostoricoeoliano.it)

 



TP[1]PT          G. Iacolino, Raccontare Salina, vol.I, pag. 28-29

TP[2]PT          M. Cavalier, idem, pag.18.

TP[3]PT          G. Iacolino, op.cit., pag. 24-25.

TP[4]PT            G. Iacolino, op.cit., pag. 33. H.W.Van Loon, Soria ella navigazione, op.cit. pa. 43,


La scoperta delle Eolie nell’VIII millennio a.C.

I primi insediamenti umani stabili nelle isole Eolie hanno avuto luogo negli ultimi secoli del V millennio a.C. in una fase iniziale di quello che può considerarsi il neolitico medio e sono stati determinati dallo sfruttamento dell’ossidiana, il vetro nero vulcanico” TP[1]PT .La cava probabilmente era quella dalla colata del Pomiciazzo- Gabellotto che risale a 10 mila anni fa e quindi all’VIII millennio a.C. Secondo questa ipotesi quindi gli uomini sarebbero giunti alle Eolie oltre 30 mila anni dopo che l’homo sapiens ebbe fatta la sua comparsa, 20 mila dopo che si era dislocato lungo le coste del Mediterraneo, e dieci mila dopo che era giunto in Sicilia.

Chi erano i primi eoliani, da dove provenivano? La scoperta della capanna di Rinicedda nel 1989 fa ritenere che fossero popoli che provenivano dall’Italia meridionale, ma che, per decidere di visitare le Eolie, viste le difficoltà delle comunicazioni marine, dovevano aver sostato per qualche tempo sulle coste tirreniche della Sicilia, a Milazzo o a Patti o in una località intermedia. Le difficoltà delle comunicazioni marine nascevano dalle imbarcazioni rudimentali che allora potevano costruirsi. Infatti non esistevano né asce, né seghe per trasformare i tronchi degli alberi in tavole, né esisteva la pece per rendere stagne le giunture dei legni e quindi le imbarcazioni o erano tronchi scavati, o zattere di tronchi tenuti insieme con pioli di legno, pezzetti di fune e malta e creta, sospinti da vele di stuoie o da remi formati di tronchetti d’albero con inserite cortecce robuste da formare una sorta di pagajaTP[2]PT.

Ed è dalla costa tirrenica che vedevano stagliarsi proprio di fronte le isole che durante la notte dovevano illuminare il cielo con i loro frequenti fenomeni vulcanici. Questi popoli provenienti dalle coste della Calabria e forse anche della Campania, che avevano già avuto qualche difficoltà a traversare lo Stretto di Messina, dovettero indugiare parecchio prima di avventurarsi verso queste terre che distanti almeno venti miglia, pretendevano un impegno maggiore di quello fino allora sperimentato. Inoltre la turbolenza degli elementi, i sordi boati, le eruzioni, i fumi, l’acre odore di zolfo portato dai venti non erano certi fattori che invogliavano all’esplorazione. Per questo prima, con tutta probabilità, fu una staffetta mandata in avanscoperta che traversò il mare e approdò a Lipari. La ricognizione dovette durare diverse settimane, il tempo necessario a scoprire che se il porto di Lipari era il luogo più opportuno per sbarcare e tirare a secco il loro naviglio, le risorse maggiori però si trovavano dall’altra parte dell’isola dove c’era la creta, l’acqua e soprattutto l’ossidiana: questa pietra splendente che forse non avevano mai visto prima ma della quale compresero immediatamente l’importanza e l’utilità. E forse fu proprio nel corso di questa missione esplorativa che scoprirono Salina, isola più tranquilla, con un approdo più protetto a Rinella dalle intemperie marine, disposto proprio di fronte a Quattropani, a un’oretta di tragitto a remi e forse meno se si trovava una brezza favorevole alla vela.

Fin all’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso non c’era alcun dubbio che la prima immigrazione si fosse stabilita sugli altipiani di Castellano Vecchio, come dimostravano molti ritrovamenti. Qui infatti – come ha fatto osservare Pino PainoTP[3]PT , - trovano terreni fertili ed anche abbastanza protetti da improvvise incursioni dal mare, vi erano, nelle vicinanze, due sorgenti ( Madoro e il Bagno Secco) ed in oltre erano vicini alla colata di Pomicizzo dove vi era la pietra che aveva attirato la loro attenzione. Inoltre a poche centinaia di metri vi era la cava del Caolino che forniva materia per le ceramiche. Infine non dovette essere senza importanza il fatto che questa località si trovasse abbastanza distante dai vulcani attivi dell'isola che erano allora Monte Sant'Angelo e la Chirica.

Poi, la sorpresa. Nel 1989 a Salina, in località Rinicedda nei pressi di Rinella, vengono ritrovati prima dei cocci di ceramiche di impasto bruno-nerastro , identici a quelli trovati a Castellaro Vecchio, poi addirittura una capanna, intatta nel basamento, l’unica ritrovata nell’arcipelago, simile ad altre rinvenute nell’Italia meridionale. Allora i primi uomini si sono insediati innanzitutto a Lipari - Castellaro Vecchio o a Salina -Rinicedda?

E perchè prima a Rinicedda se qui sembra che fra le loro attività principali ci fosse quella di lavorare l’ossidiana di Lipari e forse anche la creta del Caolino? Non potrebbe essere il contrario, come si è sempre ritenuto e, una volta stabilitisi a Lipari, una parte della spedizione decise, dopo qualche tempo, di colonizzare anche Salina?

A meno che la scelta di insediarsi a Rinicedda non fosse dovuta al fatto che l’isola di Salina la si riteneva più sicura dal rischio sismico visto che a Lipari in quel tempo le eruzioni vulcaniche - anche se abbastanza distanti da Castellaro -dovevano essere piuttosto frequenti. Così, in un primo tempo la stazione di vita e di lavoro divenne Rinicedda ed a Lipari si veniva solo, attraverso il canale che separa Rinella da Acquacalda, per prelevare la materia prima da lavorare. Poi, in un secondo momento, avendo acquisito più familiarità con i fenomeni vulcanici, si scelse anche di insediarsi al Castellaro.

Abbiamo cercato di immaginarci come potrebbe essere avvenuta, in un giorno di settemila anni fa, la scoperta delle Eolie.

“Era molto tempo che lui ed i suoi amici guardavano quelle isole là in fondo, sull’orizzonte. Le isole del tuono e del fuoco le chiamavano perché giungevano, portati dal vento, rombi fortissimi e la notte brillavano come mille fuochi accesi. Erano il regno dei demoni, qualcuno diceva e molti ci credevano. Ma lui no e nemmeno i suoi amici. Così avevano iniziato a discutere come andarci e quando andarci. Non era solo spirito di avventura. Volevano vedere com’erano quelle terre, se erano grandi, se c’era acqua e soprattutto se c’erano pietre dure e forti. Le pietre erano un materiale importante per vivere. Ma bisognava aspettare la stagione più calda quando i venti si calmavano e con essi il mare, anche se qui, di questo, non si poteva essere mai certi. Anche nella stagione del bel tempo scoppiavano forti mareggiate.

La zattera era già pronta, l’avevano costruita da tempo e con essa avevano fatto molti viaggi lungo la costa. Avevano raggiunto la punta che si protendeva verso le isole ma si erano accorti che una volta giunti lì il cammino era ancora lungo. Ma in sei remando ad un certo ritmo se non in un giorno, sicuramente in due ce l’avrebbero fatta.

E così un mattino di grande calma nel cielo e nel mare partirono. Partirono prima che sorgesse il sole e trovarono una buona corrente che lì aiutò nella traversata. Quando il sole cominciò a calare erano già in vista dell’isola più vicina, quella che aveva una grande bocca che brontolava in continuazione e dalla quale uscivano fumi e vapori. Anzi tutta l’isola emanava fumi e vapori. Avevano già deciso che non sarebbe stata quella la loro meta. Loro erano coraggiosi ma perché sfidare la fortuna? Così quando raggiunsero l’isola le passarono a fianco in uno stretto canale che la divideva da un’isola vicina, più grande, ma anch’essa con tante bocche di fuoco. Proprio una di queste si levava alla loro destra e il percorso fra le due bocche non fu piacevole.

Vogarono tutta la notte fra boati e bagliori infuocati. In alcuni punti, lungo la costa, persino il mare bolliva e per quanto fossero coraggiosi il loro cuore si era ristretto e batteva forte come se volesse schizzare dal petto. Ma poi erano giunte le luci del giorno e, con esse, era tornata la forza ed il coraggio. Ma era bene che non ci si fermasse nemmeno a quest’isola, era meglio che si puntasse alla terza che si scorgeva più in fondo. Anche lì c’erano le bocche di fuoco ma non sembravano tanto impetuose e poi l’isola era più verde, c’erano alberi e piante e forse avrebbero trovato anche dell’acqua.

I compagni erano stremati ma furono d’accordo. Era lui il capo e quello che diceva era quasi sempre giusto. Così arrivarono ad una spiaggetta e poterono tirare a secco la zattera. Poi si gettarono sulla sabbia per riposare. Passarono nell’isola diversi giorni perché lui il capo voleva conoscere, vedere tutto, capire. C’era acqua dolce e anche frutta per mangiare. C’era anche della selvaggina da cacciare. Ma lui, il capo, guardava sempre l’isola di fronte che gli pareva la più grande e la più misteriosa.

Ed un mattino misero la zattera di nuovo in mare e vogarono verso la costa di fronte. Non fu difficile ed anche qui, tirata la zattera a riva, decisero di vistare l’isola.

-       Saliamo in cima al monte, disse lui il capo, così possiamo avere una visione di tutto.

Ed infatti in cima c’era un pianoro da cui si poteva scorgere tutto l’orizzonte. L’isola che avevano lasciato, la prima che avevano incontrato e poi, molto più lontano, altre isole che sembravano più piccole ma tutte con la loro bocca di fuoco ed il loro pennacchio di fumo.

-       Questa mi sembra l’isola più importante, il centro. - disse ancora lui, il capo – Non ce ne andremo di qui se non l’avremo tutta visitata. Ora riposiamoci e poi, in cammino.

E fu così che camminando ed osservando, tutto con grande curiosità giunsero ad una collina di pietre bianche in mezzo alle quali ve n’erano di nere che brillavano al sole. Fecero l’ultimo tratto di corsa. Di che si trattava? Non avevano mai visto nulla di simile. Con circospezione ne presero una e videro che era pesante ma limpida come l’acqua che quasi ci si poteva specchiare. Provarono a vedere se fosse anche forte e resistente. E dopo averci pestato sopra con un’altra pietra più grossa, la prima andò in frantumi e produsse mille schegge. Schegge taglienti come nessuna pietra lo era.

- Questa è una grande scoperta, disse lui il capo, dobbiamo tornare la villaggio sulla costa e parlarne agli altri. Con questa pietra si possono fare armi per cacciare, armi per difenderci, si possono tagliare i frutti della terra, si può incidere il legno, e tante altre cose. Ma non bisogna diffondere troppo la voce. Bisogna dirlo solo ai capi e prepararci a trasferirci su quest’isola con le donne ed i bambini. Si, qui si può vivere. E se fa troppo paura abitare su quest’isola potremmo vivere su quella di fronte e venire qui di tanto in tanto a raccogliere le pietre nere per lavorarle”.

Pressa a poco così dovette realizzarsi la prima colonizzazione delle Eolie grazie a un gruppo di giovani ardimentosi che riuscirono a convincere gli altri membri della loro tribù ad abbandonare la costa, fare la traversata e stabilirsi nelle isole.

                                                           (www.archiviostoricoeoliano.it )

 


TP[1]PT          Madeleine Cavalier, isole Eolie, Archeologia e storia fino all'età normanna, in “Atlante dei beni etno-antropologi eoliani, a cura di Sergio Todesco, Regione Siciliana, Assessorato dei beni culturali ed ambientali e della P.I., p.17.

TP[2]PT          G. Iacolino, Raccontare Salina, vol. I, Palermo, 2009., pag.28.. H.W. Van Loon, Storia della navigazione - dal 50000 a.C. ai nostri giorni, Milano, 1936, ‘ag.46.

TP[3]PT               “La vera storia di Lipari”, Messina, 1996

I privilegi di Lipari

 

Fra Angioini e Aragonesi
 
La battaglia di Lipari sancisce un nuovo passaggio delle Eolie in questo andirivieni fra Palermo e Napoli che andò avanti praticamente per due secoli. Se,infatti,  a conclusione dei Vespri siciliani del 31 marzo 1282 i liparesi – che pur in qualche modo li avevano promossi con la protesta dinnanzi al re del loro vescovo Bartolomeo  -  rimasero alla dipendenza di Napoli e degli Angioini perché si sentivano troppo esposti alle rappresaglie, già nel 1302 vengono riannessi alla Sicilia. Tornano nelle mani degli Angioini nel 1339 con un accordo di pace che è tutt'altro che un documento di resa e che in qualche modo inaugura quella che verrà chiamata “l'era dei privilegi”[1]. Cioè in tutti i passaggi fra Regno di Napoli e regno di Sicilia -  nel 1347 tornano ai Siciliani, nel 1357 di nuovo a Napoli,  nel 1372 , col trattato di Avignone, rimangono assegnate a Napoli fino al 1423 quando re Alfonso le dichiara aggregate alla Sicilia per riaggregarle al regno di Napoli nel 1450;. infine nel 1458, secondo le disposizioni testamentarie di Alfonso il Magnanimo in favore del figlio Ferdinando, risponderanno per circa un secolo e mezzo al viceré di Napoli - i Liparesi riusciranno spesso ad avvantaggiarsi con sgravi fiscali, franchigie, riparazioni di edifici, autorizzazioni a portare le armi, ecc.
 
L'era dei privilegi
 
Questi privilegi erano “il frutto della grande abilità del ceto dirigente liparese, pronto a sfruttare a proprio vantaggio ogni opportunità, ogni varco che si apriva nel complicato svolgersi degli avvenimenti”[2]. Alla fase iniziale della concessione dei privilegi – che si configurano al tempo di Federico imperatore , come elargizione dall’alto – fa seguito in età successiva una pratica pattizia tra governanti e potere centrale  che è prova del dilatarsi e rafforzarsi delle autonomie periferiche[3] ma anche, nel caso delle Eolie, nell’importanza strategica che le Eolie avevano assunto nello scacchiere del basso Tirreno. Non a caso il maggiore “bottino” di privilegi i liparesi lo faranno, come vedremo, il 15 maggio 1502 quando lo scontro fra Napoli e Sicilia è più acceso, malgrado essi trattino una resa.
Comunque, al di là di queste notizie generali ¸ le informazioni su questi anni,  sul conto delle Eolie sono scarse o addirittura assenti. Rimangono da registrare la successione dei vescovi che però presentano alcuni vuoti e alcuni dubbi e, a volte, hanno poco a che vedere con la diocesi giacchè la loro nomina assume, per lo più, il carattere di un riconoscimento onorifico piuttosto che un incarico pastorale e politico.
Così il 27 novembre 1342 il papa Clemente VI nomina vescovo , dopo almeno sette anni di sede vacante, Vincenzo dell’Ordine dei Minori che probabilmente riuscì a raggiungere Lipari ma non Patti visto che le due sedi erano politicamente  nuovamente separate fra Napoli e Sicilia. Vincenzo, pur in questo possesso precario della diocesi si rese conto che molti beni erano stati occupati e distolti e per questo si rivolse al papa che il primo ottobre del 1346 lancia la scomunica contro i detentori in malafede dei beni della diocesi.
Vincenzo, però, era morto nei primi del 1346 e papa Clemente aveva nominato con bolla del 15 febbraio un altro frate minore, Pietro de Pernis, di origine tedesca come rivela l’appellativo di Theotonicus, che era stato cappellano maggiore della corte di Palermo e fedelissimo alla corte siciliana.
Intanto nell’estate del 1347 otto galere aragonesi attaccavano Lipari e fra la fine d’agosto ed i primi di settembre i siciliani ne riacquistano il pieno controllo.
 
La pratica della pirateria
 
Pietro de Petris muore il 21 gennaio del 1354 e si apre di fatto un’altra vacanza anche se il 15 novembre 1354 viene nominato vescovo di Lipari e Patti fra Pietro Tomasio[4]. Ma si tratterà di una nomina del tutto onorifica, e così il 15 novembre del 1354 verrà nominato vicario e procuratore per le cose spirituali e temporali, un certo Francesco di Catania cappellano regio. Fra le poche notizie che riguardano le Eolie spiccano due serie di documenti che si riferiscono al periodo 1355-1357 , fino a quando cioè le Eolie non tornano sotto il governo angioino. La prima serie riguarda lo svilupparsi nell’arcipelago di una pirateria locale probabilmente come reazione alla situazione di incertezza e di precarietà che si era abbattuta sulle isole. Una pirateria che non distingue fra amici e nemici e che porta il re Federico IV detto il Semplice, salito al trono appena tredicenne, come successore del fratello Ludovico, a fare presente “ a tutti gli uomini della città di Lipari suoi fedeli”, che non è possibile armare galee, barche e vascelli di qualsivoglia tipo, atti a praticare la pirateria, senza la licenza dell’ammiraglio del Regno o del vice ammiraglio[5].
La seconda serie[6] riguarda invece le richieste di somme e contributi che la curia del re ordina alla diocesi di Patti e Lipari e specificamente al procuratore e vicario del vescovo, Francesco di Catania. Sono somme richieste per realizzare fortificazioni nelle Eolie e nella piana di Milazzo, pagare armigeri del castello di Tindari e il capo della guarnigione di Lipari. Proprio il castellano e capo della guarnigione di Lipari, Berteraymo Formica, sul finire del 1356, fiutando il pericolo di un cambiamento di regno, rassegna le dimissioni e fugge, così il re è costretto a nominare capitano e castellano Vinciguerra figlio di Artale d’Aragona, Maestro giustiziere del regno[7]. Infatti alla fine del mese di dicembre del 1356 gli angioini, con poche galere, senza colpo ferire, occupano Lipari dopo che qualche giorno prima avevano occupato Messina.
La perdita delle Eolie arrovella il re siciliano che studia come rientrarne in possesso promettendole a chi si fosse adoperato per il loro recupero. Contemporaneamente il papa Innocenzo VI che era schierato con gli angioini pensò di consolidare il loro controllo nominando vescovo Giovanni Graffeo visto  che Pietro Tomasio era oberato da impegni che lo legavano alla Sede Apostolica[8] e il procuratore vicario Francesco di Catania  era accusato di scorretta amministrazione.(Archivio storico eoliano.it)

[1] C.M.Rugolo distingue fra capitoli e privilegi. I capitoli sarebbero le richieste inoltrate dai sudditi al potere centrale e alle quali l’approvazione regia conferisce valore normativo, i privilegi, seguono lo stesso iter ma avevano una più specifica valenza economica. “Il recupero della memoria. I codici dei Capitoli e Privilegi di Lipari” in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 105, 2003,  pag. 387.

[2] Idem, pag. 400. E’ stato fatto osservare che “probabilmente già in età sveva, in ambiente meridionale si distinguevano privilegia, cioè norme di ius singulare specificatamente connesse alle singole città con provvedimenti del sovrano in forza della sua piena maestà, spesso attinenti a rapporti di diritto pubblico; consuetudines aprobatae, cioè norme cittadine regolanti i rapporti di diritto privato, forse non ancora definite in forma scritta, seppure di corrente applicazione, delle quali era riconosciuto e accertato l’uso, e forse anche statuta, cioè provvedimenti deliberati dalle assemblee cittadine  e trascritti in libri privilegiorum custoditi dalla città”, A. Romano, Vito la Mantia e le fonti della legislazione cittadina siciliana meridionale, prefazione a La Mantia, Antiche consuetudini delle città di Sicilia, Messina 1993, pp LVI-LX, nota 119, in C. M. Rugolo, op.cit., pag.423.

[3] C.M. Rugolo, op. cit., pag. 423-424.

[4] Fra Pietro Tomasio sarà canonizzato santo e verrà proclamato coprotettore della diocesi  con giornata commemorativa fissata al  19 gennaio.

[5] G. Cosentino, Codice diplomatico di Federico III d’Aragona e IV re di Sicilia (1355-1377), in “Documenti per servire la Storia della Sicilia”, I serie, vol. IX, Palermo, 1855, pag. 34; 14 e 287. G. Iacolino, Le isole Eolie…, vol. III, op. cit. pagg. 84-87.

[6] G. Cosentino, idem, pp 25, 56, 57, 250, 251, 280. G. Iacolino, op.cit., pag. 88-89.

[7] L. Zagami, Lipari e i suoi cinque millenni di storia, op.cit., pag. 199, nota 18.

[8] A. Sidoti, I documenti dell’Arca Magna del Capitolo Cattedrale di Patti, in “Timeo”, periodico annuale della Soc. Pattese di Storia Patria, n.1, marzo 1987; G. Iacolino, op.cit., pag. 95.

L'occupazione araba.

Abbiamo visto come le Eolie a cominciare la sacco dell'838 furono oggetto di occupazioni e di abbandoni nel buio pressoché assoluto delle fonti storiche dove, di tanto in tanto, si intravedono dei puntini di luce che però non riescono mai a rischiarare il quadro ed a fornirci informazioni sugli abitanti e le condizioni di vita. Questo dura fino all'arrivo dei Normanni che secondo Bernabò Brea[1] avviene approssimativamente nel 1083 ma che per Iacolino[2] potrebbe risalire a due decenni prima quando i Normanni cioè attaccano ed occupano Messina. Il 13 febbraio del 1061[3] erano sbarcati nel porto di Milazzo e vi avevano fatto scendere già i cavalli quando precipitosamente riguadagnarono le navi, lasciando i cavalli allo stato brado, perchè non si ritenevano abbastanza numerosi per fronteggiare i saraceni. Qualche mese dopo, quando occuparono Messina, “le truppe normanne sciamarono nei dintorni facendo razzia e carneficina”[4], e quindi è pensabile che non trascurarono le Eolie che potevano rappresentare un importante ponte per preparare l'assedio di Palermo. D'altronde il presidio arabo non doveva essere poi tanto forte se diverse volte era stato sopraffatto da bizantini e pisani.
Ma se i normanni presero Lipari fra il 1061 e il 1063 usandole come base d'appoggio per i navigli militari, la vera colonizzazione dell'isola dovette avvenire proprio intorno al 1083 quando affidarono l'isola all'Abate Ambrogio ed ai suoi monaci benedettini col compito di aprirvi un monastero e di ripristinare, a partire dalla rocca, una normale vita comunitaria.
 
La tesi delle Eolie praticamente deserte
 
Ma chi trovarono a Lipari Ambrogio ed i suoi monaci? La discussione su questo punto è stata molto vivace e vedremo più avanti il perché. La tesi prevalente vuole che le Eolie all'arrivo dei normanni fossero praticamente disabitate[5]. Iacolino da per “certissimo” che “al momento del loro arrivo, la campagna  i Benedettini la trovarono trascurata ed in abbandono nell'intero ambito dell'Arcipelago. Se poi, qua e là scorgevansi in Lipari segni di lavoro umano, questi erano opera dello sparuto nucleo di nativi, epigoni della tradizione bizantina, stentatamente sopravvissuti nel silenzio e nella più totale segregazione dal resto del mondo”[6].  Più precisamente la tesi è che sull’isola, dopo l'838, rimase solo un gruppetto di liparesi che disertarono il Castello e la cittadina e si rifugiarono all’interno, verosimilmente nella conca di Piano Greca – che si chiamava allora Vulcanello per via delle fumarole e delle manifestazioni vulcaniche - che in qualche modo li riparava dagli occhi indiscreti delle navi di passaggio.
Sulla rocca di Lipari dovette insediarsi una guarnigione araba che presidiava i mari circostanti ma doveva avere una funzione esclusivamente militare. [7]Lo stesso papa Urbano II nella bolla del 3 giugno 1091, indirizzata all'Abate Ambrogio a proposito di Lipari dice “che è stata ridotta quasi a deserto[8] . Le cause di questa desertificazione sarebbero state oltre alla recrudescenza dei fenomeni vulcanici, di  cui abbiamo detto, le varie incursioni  degli arabi a cominciare dalla prima metà del IX secolo e quindi la loro occupazione (anche se probabilmente saltuaria).
 
La tesi di una lipari popolata che conviveva con gli Arabi
 
Giuseppe la Greca, commentando il testo di Mons Tronci, di cui abbiamo detto, sulla spedizione pisana del 1035 a Lipari, osserva: “possiamo dedurre che gli uomini impegnati nell'attacco e nell'assedio vanno da un minimo di 1.200 ad un massimo di 2.000. Per utilizzare un contingente così numeroso, è da ipotizzare che l'isola dovesse avere una guarnigione consistente ed una cospicua presenza di popolazione dedita all'agricoltura. La popolazione liparese, inoltre, non era certamente confinata soltanto a Piano Greca ma doveva essersi distribuita nelle zone agricole a ponente dell'isola, già occupate in epoca greca, ed in minima parte risiedere nelle immediate adiacenze della Chiesa di San Bartolomeo nell'area conosciuta oggi come 'Sopra la terra'.”[9].
La Greca eccepisce anche alla tesi di una dominazione araba sull'isola particolarmente repressiva. “La Sicilia con la conquista araba – osserva -, rifiorì sia economicamente che culturalmente e godette di un periodo lungo di pace e prosperità. Nulla vieta di pensare che lo stesso modello si sia proposto nel caso dell'isola di Lipari (…). Ai liparoti, inoltre, venne tollerata la libertà di culto consentendo di raggiungere agevolmente[10] la Chiesa dedicata a san Bartolomeo, collocata sulla costa, nel sito oggi occupato dalla Cappella di San Bartolomeo e dalla Chiesa di San Giuseppe. La continuità del culto di San Bartolomeo, dopo la traslazione delle reliquie da parte dei Beneventani, conferma la presenza di una comunità, certamente superiore alle 250 unità in grado di preservare usi e costumi antecedenti all'invasione saracena. Possiamo ipotizzare un discreto incremento demografico nel periodo di pax araba”[11].
D'altronde lo stesso Iacolino[12] considerando alcuni testi arabi[13] e scritti di Kislinger[14] e  Golb[15] riconosce che nell'epoca della dominazione araba il porto di Lipari abbia continuato ad essere frequentato anche se la città, a suo avviso, doveva essere “quasi del tutto spopolata” e conclude “uno studio più specifico su tale argomento, e il rinvenimento di atri eventuali documenti potrebbero riservarci straordinarie sorprese”.
 
Un presidio militare arabo sulla rocca
 
Comunque allo stadio attuale delle conoscenze e facendo riferimento alla situazione che trovarono i benedettini ci sembra di poter concludere che per gli arabi Lipari era soprattutto  un presidio militare. Infatti rabberciarono al meglio le fortificazioni della rocca, sul ciglio orientale innalzarono tre torrette di avvistamento e un’altra, quadrata e più imponente, la edificarono sulla porta di accesso che chiamarono Torre di Medina. Altri reperti risalenti a questo periodo non ci sono rimasti. Probabilmente convissero con i liparesi di Piano Greca e forse anche di un piccolo insediamento “Sopra la terra” e di qualche altra fattoria sparsa nelle campagne, credibilmente fra le due comunità si stabilirono relazioni di tolleranza, ma, quasi sicuramente, continuarono a vivere separate.

[1]              L. Bernabò Brea, Le isole Eolie dal tardo antico..., op.cit., pag.32.

[2]              G. Iacolino, Le isole Eolie nel risveglio delle memorie sopite. Dalla rifondazione della communitas eoliana alla battaglia di Lipari del 1339, Lipari 2001, pag. 16.

[3]              S.Greco, Messina medioevale e moderna. Dai normanni ai Borboni, Messina 1998, pag.9 nota 3.

[4]              S.Greco, idem, pag.10.

[5]              L. Bernabò Brea, Le isole Eolie dal tardo antico..., op.cit., pag. 31;

[6]              G.Iacolino, Le isole Eolie...Dalla rifondazione..., op cit., pag. 41.

[7]              G.Iacolino, Le isole Eolie...Il primo millennio..., op.cit., pag. 225 e ss; G.Iacolino, La fondazione della Communitas eoliana agli albori della rinascenza (1095-1995), Lipari 1955..

[8]              G. Iacolino, idem, pag. 38.

[9]              G.La Greca, Lipari al tempo degli arabi, op.cit. Pag. 42.

[10]             Vittorio Giustolisi ipotizza in “Lipari bizantina” che con l'avvento degli arabi i cristiani che prima occupavano il Castello e le pendici limitrofe si siano trasferiti proprio “Sopra la terra”.

[11]             G. La Greca, Lipari al tempo degli arabi, op.cit. Pag. 43. Questa tesi di una convivenza pacifica fra arabi e liparesi è sostenuta pure da Pino Paino in “La vera storia di Lipari”( 1996) che aggiunge come  anche sotto i normanni gli arabi non mancarono di svolgere attività culturali tanto che re Ruggero aveva affidato ad Edrisi l’incarico di geografo ufficiale e furono proprio gli architetti arabi, che sempre nell’età normanna realizzarono a Palermo gli splendidi palazzi della Zisa. Luciano Catalioto in “Il Vescovato di Lipari-Patti in età normanna (1088-1194)”( Messina 2007), riconosce , con particolare riferimento al Valdemone, che “ un clima di tolleranza sarebbe subentrato nei rapporti tra i dominatori mussulmani ed i monaci rimasti entro il territorio insulare, contro i quali non pare si verificasse alcuna persecuzione sistematica; i monasteri ubicati nell'area pattese, che i Normanni trovarono attivi al loro arrivo in Sicilia, seppure ridotti sotto il profilo patrimoniale, disponevano infatti di ampi margini di autonomia ed esercitavano probabilmente diritti di signoria sulle terre che possedevano” (pag. 36).(Archivio storico eoliano.it).

liparivecchia25

[12]             G. Iacolino, Le isole Eolie...Il primo millennio...., op.cit. Pag. 231-234.

[13]             Ibn-Khurdadhbih, Libro delle vie e dei regni, Biblioteca Geographorum Arabicorum, Leida, 1889,vol,VI.

[14]             E. Kislinger, Le isole Eolie in epoca bizantina e araba, in “Archivio storico messinese”, n. 57, Messina 1991.

[15]             N.Golb, Aspects of Geographicl knowledge among the Jews Earlier Middle Age, in “Popoli e paesi nella cultura altomedioevale”, I-II Spoleto, 1983.

hotel-raya.jpg