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Giovanni Battista Canepa al confino di Lipari

di Giuseppe La Greca

L’arrivo a Lipari

(12.1926) - Appartengo al gruppo di antifascisti che nel dicembre del 1926 furono assegnati a domicilio coatto dalla Prefettura di Genova, e dunque per primi giunsero in questa isola. Eravamo i primi confinati politici, e lungo il percorso della ferrovia che collega Napoli con la Sicilia, nelle stazioni dove il convoglio sostava, le autorità del luogo avevano organizzato dei facinorosi che si avvicinavano al vagone dove stavamo in catene lanciandoci improperi, chiamandoci figli di cagne, rinnegati, traditori della Patria. A Paola poi, dove il treno sostava a lungo, un individuo che s’era spacciato per capitano dei carabinieri (e forse lo sarà stato), ottenne di penetrare nel vagone; e subito si mise a inveire, urlando ch’eravamo tutti figli di puttana, dei maledetti traditori della patria, e che sarebbe stato meglio se ci avessero impiccati; e quando il comandante della scorta finalmente lo costrinse ad andarsene, fece in tempo a sputarci addosso. Si può dunque immaginare qual’era il nostro stato d’animo quando apprendemmo ch’eravamo diretti a Milazzo dove, in attesa d’imbarcarci per l’isola di Lipari, avremmo sostato nel carcere di quella città. (….) La nostra permanenza nel carcere a Milazzo essendosi prolungata oltre il previsto, protestammo col caposquadra, e questi disse che saremmo partiti non appena fossero ripristinati i cameroni della “colonia” che gli abitanti di Lipari, alla notizia che nella loro isola veniva ripristinato il “domicilio coatto”, avevano devastato; e ciò ci fece supporre che la nostra presenza non fosse affatto gradita.

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Invece, fin da quando c’imbarcammo su l’”Adele”, una vecchia bagnarola che due volte alla settimana espletava il servizio passeggeri con le Eolie, il suo Comandante si mostrò molto umano, e, col pretesto del mare ch’era agitato, impose alla scorta di toglierci le manette; e allora, mentre i carabinieri, abbacchiati dal mal di mare, non erano più in grado di controllarci, prima i marinai e poi anche i passeggeri, ne approfittarono per intrattenersi cordialmente con noi per tutta la durata del viaggio. (…) E dunque la situazione a Lipari non era quella di un paese ostile alla nostra permanenza nell’isola, fattaci intravedere da quel babbeo di capoguardia. E che così fosse ce ne rendemmo conto non appena il vaporetto gettò l’ancora e le imbarcazioni, ch’erano venute a prelevarci, approdarono a Marina corta: la gente che stazionava sul piazzale, vedendoci in difficoltà (i carabinieri, forse per eccesso di zelo, o anche per ripicca al Comandante, prima di scendere, ci avevano nuovamente ammanettati) si precipitò ad aiutarci; e Binotti tra loro riconobbe subito i due confinati che ci avevano preceduti e che gli corsero incontro: erano il professor Basso, un deputato che dopo il delitto Matteotti era stato incaricato di dirigere la segreteria del Partito Socialista, e un repubblicano, l’avvocato Angeloni. Quando ci incolonnammo sulla strada che porta al Castello, ci fu persino chi osò avvicinarsi per porgerci dei dolci e della frutta. Giunti poi al comando della Colonia, il Direttore ci venne incontro dandoci il benvenuto e ci fece subito togliere le manette dicendo che dovevamo ritenerci dei “cittadini in libertà vigilata”, e cioè tenuti soltanto ad osservare le norme che prescrivevano l’ora in cui dovevamo ritirarci, eppoi l’obbligo di rispondere ad un appello giornaliero e di non oltrepassare, senza la sua autorizzazione, i limiti fissati dal perimetro della città.

Canneto e la famiglia Ferlazzo

(...) M’ero sistemato magnificamente a Canneto, a più di un’ora di cammino dalla colonia; ed era un agglomerato dove, in un paio di stabilimenti, si lavorava la pomice estratta dalle vicine cave di Acquacalda, e le ditte esportatrici poi, con dei barconi trasportavano sulle navi, per lo più straniere, che stazionavano al largo per il tempo occorrente all’imbarco, due o tre giorni al massimo. Ad assumermi era stato appunto un esportatore, Don Ninì Ferlazzo, che aveva chiesto al Direttore di poter impiegare un confinato in grado di espletare la corrispondenza e la contabilità della sua azienda: io ero stato prescelto per la conoscenza che avevo della lingua francese. Così ero stato anche autorizzato ad alloggiare a Canneto, negli uffici attigui a casa sua; una sistemazione ottima dunque che mi faceva sperare che avrei trascorso la mia pena senza troppe preoccupazioni, tanto più che, sia Don Ninì, che sua moglie, Donna Luisa, mi trattavano come se ormai facessi parte della famiglia, colmandomi di attenzioni e premure. Godevo anche della massima libertà, perché non solo non dovevo rispondere all’appello quotidiano, ma i carabinieri che avrebbero dovuto controllare se mi ritiravo all’ora prescritta, si facevano vedere di rado. Tale situazione di privilegio debbo dire che invece di provocare invidie mi aveva conferito un certo prestigio tra i confinati, tanto che perfino i maggiorenti del Partito Comunista, che difficilmente si lasciavano avvicinare, il Berti, Massini, (...) il Molinari, cercavano di intrattenermi quando alla domenica mi toccava scendere a Lipari per fare atto di presenza in Direzione; e ciò debbo confessarlo, sollecitava moltissimo il mio orgoglio.

1927 – gli scontri con la milizia

(...) intanto da Ustica, eppoi da Pantelleria, e specialmente da Lampedusa, dove il servizio d’ordine era affidato esclusivamente alla milizia fascista, giungevano notizie di continui soprusi e angherie cui venivano sottoposti coloro che erano confinati in quelle isole.

[con l’arrivo della milizia nella primavera del 1927] improvvisamente vennero adottate delle misure restrittive che cambiarono in modo radicale le condizioni di vita, non solo dei confinati, ma anche della popolazione. Per prima cosa il vecchio Direttore, ritenuto forse troppo arrendevole e non disposto a instaurare un nuovo corso, venne sostituito da un commissario di Pubblica Sicurezza che subito emise un’ordinanza con la quale, tranne che nelle ore riservate ai pasti, era severamente proibito intrattenersi nelle mense; eppoi fece chiudere la scuola e la biblioteca. Come se non bastasse, a sostituire la polizia e i carabinieri nel servizio d’ordine, giunse un’intera centuria della milizia fascista che costituì dei posti di blocco e restrinse i limiti del confino”. (…) nacquero così i primi incidenti [con la milizia], il più clamoroso dei quali ebbe per protagonista un anarchico carrarese – mi pare che si chiamasse Dal Moro.

 

La Grande Retata

Nella notte del 7 dicembre 1927, imprevista si ferma alla fonda, al largo di Marina Corta, una grande nave cisterna. Viene da Messina. È carica di carabinieri. Piove. La tramontana è pungente. Le fioche lampadine all’imbocco dei vicoli sono agitate da raffiche impetuose. Alle 4 del mattino di giovedì 8, ancora al buio, i carabinieri sbarcano. È caccia grossa. Un confinato – spia, il sardo Antonino Cocco, ha segnalato che trattorie cooperative, scuole, biblioteca e palestra sono in realtà luoghi e occasioni per cospirare, ricostituire i partiti disciolti, istigare alla lotta armata contro il fascismo, e che in casa del tornitore meccanico milanese Luigi Repossi, ex deputato comunista, si complotta. In pari tempo, a Milano, in un magazzino di via Ruggero Lauria, la polizia ha scoperto una tipografia clandestina. C’erano carte sovversive: tra esse, due criptogrammi. Sono riusciti a decifrarli. Si trattava di rapporti dal confino di Lipari alla centrale del Partito comunista d’Italia, relatore Pompilio Molinari. La direzione della colonia avrebbe già dovuto avere sentore di un tentativo di ricostituzione del partito comunista al confino, avendo ricevuto alcune segnalazioni, provenienti sia dal segretario del fascio di Lipari sia da Alessandrina Tonti, moglie del dissidente fascista Vincenzo Tonti. In una lettera indirizzata a Mussolini, la donna lamentava una scarsa sorveglianza nei confronti degli elementi della colonia – che avrebbero dovuto destare più sospetti – e un eccessivo riguardo nei confronti dei confinati più in vista. Mentre le segnalazioni del segretario del fascio di Lipari sortirono un effetto immediato, provocando la chiusura dei locali adibiti a scuole per confinati, l’astiosa lettera della moglie di Tonti non fu presa sul serio, ritenuta dettata da “bassa rappresaglia” – come la definì l’ispettore generale di PS Valenti – perché costretta a lasciare l’isola. I duecento carabinieri venuti da Messina con il procuratore del Re hanno lunghe liste di indiziati. Si fanno guidare dai militi fascisti. Operano una serie di irruzioni, perquisizioni; alle nove del mattino, dopo cinque ore di violenze e minacce, gli arrestati sono 146 alcuni dei quali, destinati in consegna temporanea in locali adiacenti al cimitero, pensano ad una prossima fucilazione. Sciolto l’equivoco e liberati la maggior parte degli arrestati dopo due giorni di interrogatori, in 41, in prevalenza comunisti e socialisti, sono trasferiti nel carcere di Siracusa e, dopo otto mesi di detenzione, vengono tutti assolti dallo stesso Tribunale speciale nell’agosto del 1928. La mattina grigia e gelida di sabato 10 dicembre 1927 viene stabilita la partenza.

(…) Ferlazzo intanto aveva stabilito di iniziare un servizio di trasporto via mare degli operai che da Lipari, per andare a lavorare nelle cave di Acquacalda, erano costretti a compiere un paio d’ore di cammino a piedi. Quando però si presentarono delle grosse difficoltà per installare il motore dell’imbarcazione e già stava per rinunciare al suo progetto, gli suggerii di assumere un confinato che mi risultava d’essere stato alle dipendenze del generale Nobile nel mettere a punto i motori del suo dirigibile. Lui accettò subito e ottenne che Pompilio Molinari si trasferisse a casa mia, a Canneto. Doveva così iniziare la mia collaborazione coi comunisti: infatti quando quegli mi propose di fare imbucare in continente, o meglio ancora all’estero le lettere che m’avrebbe consegnato, evitando così di sottoporle alla censura, accettai di buon grado, senza troppo preoccuparmi dei pericoli cui mi stavo esponendo. Stavo dunque diventando comunista? Niente affatto. Solo che così facendo ritenevo di contribuire a una lotta contro il fascismo che ormai, al confino, soltanto i comunisti pareva che fossero disposti a continuare. Poi, quando il Molinari, terminati i lavori sull’imbarcazione, gli toccò rientrare in colonia, io stesso mi recavo a Lipari da Giuseppe Berti o da Cesare Massini, ch’erano i maggiorenti del partito, per ritirare il materiale da inoltrare senza che passasse la censura. (…) La notte in cui, da una nave cisterna, sbarcò una quantità di carabinieri che, guidati da agenti locali, invasero il paese, irruppero nelle case dove alleggiavano dei confinati e, senza alcun mandato, li prelevarono per portarli al Comando della milizia ch’era su al castello, proprio di fronte al carcere. Qui s’era installato una specie di tribunale, presieduto da un magistrato giunto appositamente da fuori che, affiancato dal Direttore della colonia e dal seniore della milizia, dopo aver consultato un elenco, li smistava: al carcere oppure al cimitero. Si può immaginare quel che passò per la testa a quei poveretti ch’erano destinati al cimitero: nessuno di loro sapeva che proprio in quei pressi era stato requisito un magazzeno per ospitare coloro che il magistrato si riprometteva di interrogare l’indomani come testi. E allora qualcuno protestava con alte grida, mentre altri ormai rassegnati si limitavano a chiedere di rivedere ancora una volta i loro cari o di potergli mandare un ultimo saluto; ma il magistrato, spazientito urlava che glieli levassero dai piedi, che non gli facessero perdere tempo.

Quella fu una notte di tregenda, non solo per i confinati ma anche per gli isolani che, svegliati da quel pò po’ di trambusto, da dietro le persiane avevano assistito terrorizzati al via vai dei carabinieri che prelevavano tutti quei poveretti per portarli su al castello, alla caserma dei militi eppoi udivano le proteste di coloro che venivano avviati al cimitero.

A Canneto le notizie di quegli avvenimenti si ebbero all’alba, ed erano notizie confuse ed allarmanti: si parlava di confinati portati al cimitero per essere fucilati e c’era persino chi assicurava di aver udito delle sparatorie (e forse era soltanto il rumore delle vedette della polizia che s’erano messe a scorazzare lungo il litorale per impedire un’eventuale evasione). Ferlazzo era corso subito a Lipari, dal Podestà ch’era suo amico; ma prima di partire s’era preoccupato di accompagnarmi a casa del dottor Di Perri, il medico condotto del Paese: era una persona coraggiosa che si prestò volentieri a mettermi al sicuro nel caso che i carabinieri fossero venuti a prelevarmi. Al pomeriggio poi, quando fu di ritorno il Ferlazzo ci rassicurò: il suo amico gli aveva detto che s’era trattato soltanto dell’arresto di una cinquantina di comunisti che nella mattinata erano stati trasferiti nel continente a disposizione dei giudici del Tribunale Speciale, mentre coloro che avevano rinchiuso nel magazzino nei pressi del cimitero, dopo un sommario interrogatorio, se n’erano tornati alle loro case. E dunque io che non ero comunista non avevo più nulla da temere. Da quel giorno però la polizia cominciò ad esercitare una stretta sorveglianza sull’equipaggio di una nave che stazionava in rada per l’imbarco della pomice; ma quando m’accorsi che questa sorveglianza, sia pur con discretezza, veniva esercitata anche su di me, subito sospettai che l’arresto dell’intero apparato dei comunisti era certamente dovuto alla scoperta del traffico della posta clandestina, e che non ero stato arrestato per poter scoprire eventuali complicità. Così, una quindicina di giorni dopo, quando i carabinieri vennero a prelevarmi e mi portarono a Milazzo, avevo ormai concordato col Ferlazzo tutti gli argomenti che avrei adottato per difendermi senza comprometterlo. Tuttavia, debbo dire che il giudice del Tribunale Speciale, giunto espressamente da Roma, quando procedette al mio interrogatorio, assunse un tono tutt’altro che inquisitorio, così il mio compito venne facilitato. Difatti, dopo avermi comunicato il capo d’accusa e cioè di aver collaborato con i comunisti nel ricostituire anche al confino il loro partito, reato che comportava pesanti sanzioni, assunse un tono paterno assicurando anzitutto ch’era dispiacente di dover contestare una tale accusa e un valoroso ex ufficiale dell’esercito; aggiunse poi che collaborando validamente con la Giustizia, avrei potuto ottenere non solo la comprensione dei giudici, ma la loro benevolenza. Quindi, dopo avermi offerto una sigaretta, chiese se fossi soddisfatto dell’impiego nell’azienda del Ferlazzo e io m’affrettai a dirgli che si: tanto che avevo progettato di stabilirmi definitivamente a Canneto non appena avessi scontata la condanna inflittami dalla Commissione di Genova. E allora, finalmente, lui venne al sodo osservando che avevo ospitato un confinato che, secondo l’accusa, era responsabile del collegamento dei comunisti col loro centro estero, eppoi insinuò che forse per compiacere quel mio ospite oppure per semplice ingenuità, avrei agevolato il suo compito. Mi fu facile sostenere che, date le profonde divergenze che opponevano i comunisti ai socialisti, anche se avessi voluto, non avrei potuto collaborare con loro, e che pertanto escludevo che il Molinari, durante la sua permanenza a casa mia, avesse potuto stabilire dei contatti con chicchessia. Tutto l’interrogatorio poi verté sull’accusa di una mia complicità coi comunisti, ma io ormai mi stavo rendendo conto che in possesso dell’inquirente non esistevano prove. Infatti il giudice m’aveva ascoltato senza poter contestare alcuna delle mie dichiarazioni; anzi dal modo come le stava riassumendo per il cancelliere, pareva proprio che le ritenesse valide. Quando ebbi firmato ogni pagina del verbale, ordinò al secondino di riaccompagnarmi in cella perché l’interrogatorio era terminato: così quando, qualche giorno dopo, mi imbarcarono sul vaporetto che mi riconduceva a Lipari, mi illusi d’aver sostenuto la mia innocenza senza compromettere nessuno, e che ben presto avrei potuto riprendere il mio posto nell’azienda di Ferlazzo. Solo che, non appena sbarcai a Marina corta, i carabinieri della scorta, invece di togliermi le manette, mi portarono direttamente in carcere.

La fuga dei quattro

La notte del 20 luglio 1928 in quattro tentano la fuga dal carcere di Lipari. Tre dei quattro protagonisti dell’evasione hanno avuto modo di raccontarla. Le loro descrizioni, pur discostandosi a tratti per alcuni particolari, disegnano nel complesso un quadro unitario. Ideata da Domaschi, la fuga è preparata da tempo. Domaschi la propone a Canepa e i due, giunto nel carcere Magri, a quest’ultimo; al trio si aggiunge, infine, Michelagnoli.

Il carcere di Lipari è situato al termine di un lungo corridoio, scavato nella roccia, che conduce al Castello. In mancanza di secondini il suo portone veniva sorvegliato dal milite di guardia alla caserma ch’era proprio di fronte. Era un carcere molto piccolo, circondato da alte mura: c’erano soltanto un paio di celle d’isolamento e tre grandi cameroni, uno dei quali separato da un muretto era riservato alle detenute; infine, in fondo ad un ampio cortile c’era lo sgabuzzino per il guardiano. Questi era un buonuomo, invalido di guerra, che abitava giù in paese, e sua moglie era incaricata di preparare i pasti per i detenuti: lui arrivava nella tarda mattinata per aprire le porte dei cameroni che poi rinchiudeva all’imbrunire, in modo che i detenuti potessero restare l’intera giornata a passeggiare nel cortile. Non solo, ma lasciava che s’intrattenessero liberamente con chi gli portava il cambio della biancheria e dei generi di conforto: era dunque un carcere per modo di dire, di una inusitata permissività; e io ne profittai subito. Dopo essermi sistemato in una di quelle celle di isolamento, accusai subito una grave forma di claustrofobia che m’avrebbe impedito di prender sonno e così ottenni facilmente che la porta della mia cella rimanesse aperta anche di notte.

(…) Quando il Magri fu messo in carcere per aver contravvenuto alle norme della carta di permanenza: fu lui che, insieme al Domaschi, mi indusse, sebbene riluttante, a prendere parte ad una fuga; ed eravamo in quattro, perché all’ultimo momento anche il Michelagnoli s’era unito a noi. Anni dopo, nel ’50, tornai a Lipari per rivedere quei posti e ringraziare le persone – il Ninì Ferlazzo, con Edoardo Bongiorno e il dottor Di Perri - che avevano reso quasi piacevole la mia permanenza al confino. In quell’occasione venni presentato anche al Pretore che di buon grado accondiscese ad accompagnarmi al Castello; e, giunti che fummo dinanzi alla caserma mi chiese s’era proprio vero che la sentinella di guardia stesse dormendo o se piuttosto non fosse stata nostra complice; e allora gli raccontai com’erano andate le cose e cioè che il Magri aveva fornito quella versione solo per il gusto di inguaiare un fascista e il suo comandante. Arrivati poi sullo spiazzo di fronte ai cameroni, quando gli indicai le numerose crepe e i cespi di capperi delle vecchie mura che cingono la cittadella e gli dissi che appigliandoci a quei cespi eravamo scesi nel vicolo sottostante, si rifiutò di credermi, tanto gli parve impossibile che di notte avessimo potuto compiere una simile impresa. E invece era la pura verità.

(…) Poi il Magri e Domaschi camuffati si diressero verso il posto di blocco della strada che porta a Canneto, nella speranza che a quell’ora i militi di guardia dormissero; in questo caso noi che ci tenevamo a debita distanza li avremmo seguiti se no saremmo tornati indietro fino alla casa di Parri, situata al limite opposto del confino. Era una perdita di tempo ma di lì si poteva facilmente uscire in aperta campagna e loro ci avrebbero aspettati sul viottolo che porta ad Acquacalda. La sentinella al posto di blocco purtroppo dette il “chi va là” e Domaschi prontamente rispose “liparuoti”: così passarono. Noi invece tornammo indietro dirigendoci a casa di Parri: era ancora sveglio, stava leggendo, e quando ci presentammo ci guardò allibito. Poi, come parlando a se stesso disse soltanto: “Perché?”, quindi, senza attendere la risposta, ci accompagnò in cucina e aperse la porta che dava sulla campagna. Secondo il piano che avevamo progettato, si sarebbe dovuto raggiungere Acquacalda molto prima dell’alba, per poterci impadronire di una di quelle imbarcazioni che i pescatori tirano a secco ai piedi del villaggio, nello spazio formato dai detriti di pomice. La lontananza dalla colonia li dispensava dall’obbligo fatto ai loro colleghi di Lipari di ritirare i remi e portarli a casa, e così avremmo avuto la possibilità di prendere il largo e forse di raggiungere il litorale siciliano ancora prima che la nostra fuga venisse scoperta.

Arrivammo così sul versante a picco dell’isola ch’era troppo tardi per poter raggiungere gli altri sul sentiero che porta ad Acquacalda. Allora decidemmo di nasconderci in un anfratto tra i dirupi, e rimanervi in attesa che calasse la sera per poter proseguire fino alle cave di pomice dove speravamo che si fossero rifugiati i nostri compagni. Quando fece buio dunque ci rimettemmo in cammino, e avevamo appena imboccato il sentiero che porta ad Acquacalda quando c’imbattemmo in un contadino che stava rientrando dal lavoro. Senz’altro lo abbordammo spacciandoci per poliziotti che, nella ricerca dei quattro evasi, ci s’era sperduti tra quelle balze e ora soltanto stavamo rientrando a Lipari; ma lui subito osservò ch’eravamo diretti nella direzione opposta; eppoi, accortosi del nostro imbarazzo, con un’aria d’intesa, ci chiese se non fossimo noi quelli che la polizia stava ricercando, preferii dirgli la verità, e aggiunsi che se ci avesse aiutati, lo avrei ricompensato largamente: avevo con me due biglietti da mille che Rosselli m’aveva fatto pervenire in carcere, frutto di una colletta tra confinati benestanti, e glieli porsi. Era una somma per quei tempi ragguardevole. E gliela avevo offerta, e lui non solo rifiutò di accettarla, ma ci invitò a seguirlo a casa sua dove avremmo potuto ristorarci. Cammin facendo poi ci disse che in quel pomeriggio i carabinieri avevano accalappiato il Magri e il Domaschi e quella notizia ci convinse dell’impossibilità che ormai avevamo di attuare da soli il nostro piano; cosicché, quando avanzò la proposta di accompagnarci in una proprietà del suocero, dov’era difficile che ci scovassero, senza esitare accettammo. Era un vigneto abbastanza esteso, forse più d’un ettaro, con un piccolo capanno per gli attrezzi: in quella vigna, al riparo dei pampini, dovevamo rimanere nascosti durante tutto il giorno; scesa poi la notte era possibile raggiungere il capanno dove lui, o sua moglie, avrebbero provveduto a farci trovare del pane, delle uova sode e del formaggio; quindi, dopo averci raccomandato che per nessun motivo, durante l’intera giornata dovevamo muoverci, ci salutò per tornarsene a casa. Rimasti soli ci piazzammo a una certa distanza un dall’altro, in modo che se uno di noi fosse stato scoperto, dichiarando di essersi separato fin dall’inizio della fuga dal suo compagno, avrebbe reso possibile all’altro di scampare.

Di quel che accadde nel tardo pomeriggio di tre giorni dopo, quando il Michelagnoli, stufo di starsene tutto il santo giorno acquattato nella vigna, decise di rifugiarsi nel capanno, mi resi conto soltanto quando un gruppo di isolani, ingaggiati dalla Direzione della colonia per prendere parte alle ricerche, lo avvistarono e, dopo aver circondato il capanno con alte grida richiamarono i poliziotti perché l’ammanettassero e lo riportassero in carcere. Io mi guardai bene dal fare il più piccolo movimento, ma attesi pazientemente che si facesse buio per allontanarmi il più possibile. E dunque, verso l’alba potei raggiungere una piccola radura letteralmente invasa da enormi felci alte forse più d’un metro: era un ottimo rifugio, nel versante opposto alle cave di pomice. Non esitai dunque a farmi largo al riparo di quelle felci e, vincendo la ripugnanza che m’incutevano gli scorpioni e i giganteschi ragni che infestavano quel sottobosco decisi di rimanerci fin tanto che le ricerche in quella zona non fossero affievolite. L’indomani però, quando udii il suolo dei campanacci di un gregge che pascolava nelle vicinanze, spinto dai morsi della fame e più ancora della sete, mi aprii un varco fino al limite della radura e di là richiamai l’attenzione del pastore. Questi accorse prontamente e mi disse di rimanere acquattato tra le felci perché nelle vicinanze stavano pattugliando dei militi fascisti che avrebbero potuto avvistarmi e che sarebbe tornato per portarmi un po’ di latte. Difatti ritornò di lì a poco con una gavetta in mano, e io, non sospettando nulla feci capolino di tra le felci, ma quando giunse accanto mi sbatté quella gavetta in faccia e, afferratomi per il collo mi riversò a terra urlando come un dannato di correre in suo aiuto. Arrivò un carabiniere che dopo avermi ammanettato mi aiutò ad alzarmi; nel frattempo però erano capitati anche dei fascisti della milizia che presero a colpirmi col calcio del moschetto e tutti quelli che poi incontrammo per strada, si accanivano su di me con pugni e calci, nonostante il carabiniere cercasse di opporsi protestando ch’ero suo prigioniero e che la smettessero di picchiarmi; anche lui però finì col prendersi la sua parte di botte, poveretto. Giungemmo a Lipari che stava calando la sera, ed io mi reggevo a malapena; ero talmente malridotto, tutto pesto e sanguinante, che quando giungemmo alla Direzione della Colonia, si rinunciò ad interrogarmi. Anzi, un ufficiale, forse preoccupato dello stato di prostrazione in cui mi trovavo, ordinò che invece di portarmi in carcere fossi condotto nella caserma affinché mi venissero apprestate le cure necessarie e mi ristorassero convenientemente. Venni a sapere dopo ch’era nientemeno che il comandante della legione dei carabinieri di Messina, parente stretto dell’avvocato che, qualche tempo dopo volle assumersi la mia difesa quando fui processato per l’evasione.

I miei compagni di fuga, subito dopo l’arresto avevano dichiarato ch’ero stato io a ideare e ad indurli a compiere quella fuga che, in mancanza di complici e di mezzi adeguati, era da ritenersi insensata; e dunque non già per fuggire dall’isola, ma soltanto per realizzare una clamorosa protesta per una detenzione che si stava protraendo troppo a lungo. Così, quando a mio volta venni interrogato, confermai quella versione anche perché mi attribuiva un ruolo che non mi dispiaceva affatto: il ruolo di protagonista dell’impresa. Anzi, per ribadirlo, aggiunsi parole oltraggiose all’indirizzo del duce e del regime, responsabili di una detenzione che definivo illegale e arbitraria.

Con la cattura finisce la permanenza di Canepa a Lipari. Ritonerà qualche giorno prima del 17 maggio 1957 come giornalista dell’Unità. Quello che segue è il suo articolo:

Ritorno a Lipari (…) Il battello di Lipari si prende a Milazzo, di buon mattino. La giornata è grigia e, fuori del porto, le acque si prevedono mosse. Davanti alla biglietteria, come la volta scorsa quando feci quel viaggio, un frate dall'aspetto trasandato tende la cassetta delle elemosine per 1'obolo propiziatorio: a uno a uno, individua i viaggiatori abituali, e li interpella famigliarmente; mentre agli altri s'avvicina umile e discreto, il collo torto. Il viaggio dura un paio di ore o poco di più: e appena fuori del capo, già s'intravvede il profilo dell'isola dello Stromboli; ma i passeggeri son rintanati nelle salette o, giù in basso, nelle corsie di seconda classe, dove si soffre meno. Sul ponte e rimasto solo un signore, e a lui mi rivolgo per scambiar quattro chiacchiere: e il professor Bernabò Brea che soprintende agli scavi archeologici nel Mezzogiorno.

Allora, quando feci il viaggio di Lipari, era assente, il museo non era ancor aperto al pubblico e la sua aiutante, Madame Cavalier si diceva fosse alquanto scorbutica coi giornalisti, e certo non invogliava a chiedere una deroga alle disposizioni: e dunque ora si sarebbe potuto visitare questo museo? Si, naturalmente, e se lo avessi voluto, lui stesso cortesemente si offriva per accompagnarmi. Fu cosi che, all'arrivo, potei far la conoscenza della sua famosa aiutante, madame Cavalier: e a me parve tutt'altro che d'umor difficile, che anzi, percorrendo assieme quei cameroni che una volta servivano per l'alloggio dei confinati, e che ora hanno mirabilmente trasformati in museo, e avendole chiesto se i metodi in uso in certe altre zone, a Cerveteri, ad esempio, con sonde elettriche e assaggi acustici e fotografici, più che a esplorare quella data zona archeologica non servissero a saccheggiare le tombe, per tutta risposta e come non avesse rilevato l'indiscrezione della domanda, veniva descrivendomi le ansie e al tempo stesso, le gioie dell'esplorazione del sottosuolo con scavi sistematici o giacimento, senza peraltro ricorrere a strumenti scientifici moderni, ma semplicemente operando con estrema pazienza e con metodi che essi stessi andavano perfezionando di giorno in giorno. Cosi operando erano riusciti a ricostruire la successione delle culture umane dal periodo neolitico a quello del bronzo, del ferro, fino al periodo greco, tanto che ora, in quel loro museo si poteva abbracciare, in maniera unica, cinque millenni di storia della civiltà. Il professore intanto s'era messo a parlarci dei periodi di prosperità e di decadenza delle isole, e ci andava sottoponendo frammenti di vasi in ceramica impressa oppure dipinta a bande rosse e nere, o ancora d'impasto bruno; eppoi lucerne, tazze, orci, maschere di personaggi della commedia attica e ateniese; e infine gioielli di diversa fattura, statuette, scarabei: oggetti che cosi come eran disposti nelle varie sale, rappresentavano la documentazione precisa della successione stratigrafica di quell’area archeologica che comprende il milazzese e le isole Eolie: Filicudi, Panarea, Basiluzzo e, principalmente Lipari. In tal modo dunque, questi scienziati che avevan dedicato la loro vita a frugare sottoterra alla ricerca di mondi scomparsi, indirettamente rispondevano a un laico che con poca discrezione li aveva richiesto d'un giudizio su metodi di ricerca che forse non li convincevano o che per lo meno non avevano voluto essi stessi adottare: e ciò mi richiamava alla mente un racconto che lessi anni fa, d'un astronomo e di un tale suo conoscente che avendogli chiesto la conferma di non so qual cosa spiacevole che gli era occorsa, per tutta risposta gli s'era messo a parlare dei milioni d'anni che la luce d'un dato astro impiegava per raggiungere la terra.

Cassa del Mezzogiorno - L’isola di Vulcano dista poche miglia da Lipari, ma è poco conosciuta ai turisti per le difficoltà di comunicazione: il vaporetto non fa un servizio giornaliero e, nella stagione cattiva, può anche capitare di rimanervi segregali per qualche tempo. L’altra volta che ci venni, tre anni fa, m'era parso il posto ideale per trascorrere qualche giorno in pace e in libertà, senza dover sentire gracchiar le radio e nemmeno poter leggere i giornali; e cosi, lasciata Lipari la compagnia del vecchio Bongiorno, il papa di noi tutti quand’eravamo confinati, e gli altri amici che m'avevano accolto festosamente, m'imbarcai su un fuoribordo per godermi colà quei pochi giorni che mi rimanevano di vacanza, e magari far qualche bagno d'acqua solforosa che m'avevan detto esser miracolosa per i primi acciacchi della vecchiaia. Subito nei pressi dello sbarcatoio, c'e una dozzina di casupole malmesse: il paesino e in alto, a poco più di un'ora di cammino, nella estrema punta dell'isola; mentre di fronte all'insenatura fatta dalla sottile striscia di sabbia che unisce Vulcano a Vulcanello, sapevo che si poteva trovar alloggio in due pensioncine, dove si mangia del buon pesce fresco e il vino che servono e della Perrera, un vino d'un bel rosso corallino, generosissimo. E difatti trovata ancor chiusa la prima pensione, bussai alla seconda, quella di Giuffrè, dove subito mi accolsero cordialmente; e, deposti i bagagli, prima ancora di pranzo, corsi indietro, sulla penisoletta, a godermi lo spettacolo di Vulcanello, coi colori strani e violenti delle sue roccie, e, di lassù, alle ultime luci del tramonto, la vista incomparabile dell'arcipelago. Ora, mentre m'incamminavo per quel luoghi un tempo deserti, avevo notato con meraviglia un gran fervore di opere; già s'era costruito un albergo e un altro se ne stava costruendo e come non bastasse, una squadra di operai s'indaffarava a trasportar dei massi che poi venivano accatastati un sull’altro, costruendo in tal modo un muretto basso sulla sabbia, esattamente come fanno i ragazzi quando giocano sulle nostre spiaggie. E chiesto cosa significasse quel loro gioco, mi venne risposto che si trattava d'una vera strada carrozzabile; e che gli stecchi che vedevo affiorare ogni tanto dalla sabbia, erano un rimboschimento che avevan fatto e che naturalmente non aveva attecchito: «E cosi — borbottava un di loro — ci sarà ancora lavoro per quest'altro anno ... ».

Infine, prima d'andarmene, avevo chiesto chi finanziasse con tanti milioni quel lavoro di Sisifo, e m'ero sentito dire, in tono compiaciuto, che si trattava della Cassa del Mezzogiorno.

 

Filicudi, i "Giovanni Eoliani" arrivano a scuola con una valigia di Pupazzi...

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di Domenico Palamara*

I fanciulli sono la nostra priorità da 3 anni a questa parte.

Con grande piacere sono stato a Filicudi a trovare i bambini della scuola, con una piccola valigia piena di pupazzi donati dalla famiglia Saltalamacchia e un gioco di società acquistato da Giovanni Giardina.

Grazie a chi sostiene le nostre iniziative riusciamo giorno dopo giorno a fare qualcosa di bello per l’intera comunità.

Stiamo abbracciando tutto l’arcipelago e continueremo finché avremo dei sostenitori pronti ad aiutarci, consapevoli e certi del lavoro che facciamo.

*Rappresentante Giovani Eoliani

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