di Fabio Pavesi per Il Fatto Quotidiano
Un gigante delle costruzioni. Il suo nome è Condotte ed è il terzo gruppo italiano dietro Salini-Impregilo e Astaldi a contendersi il business rischioso e impegnativo delle grandi opere ferroviarie e stradali. Non solo in Italia ma in giro per tutto il mondo con un portafoglio ordini per il gruppo lievitato a fine del 2016 a oltre 5 miliardi di valore e salito a oltre 6 miliardi nel 2017. Poi il buio, giunto apparentemente inaspettato, come un fulmine a ciel sereno: il quasi crac con la richiesta a inizio del 2018 del concordato in bianco. Una sorta di resa, di bandiera bianca; un salvagente chiesto al tribunale per evitare l'assalto dei creditori...Si riuscirà a convincere le banche e i fornitori a concedere tempo per il rimborso dei debiti? Per la società che è controllata dalla holding Ferfina, guidata da Isabella Bruno Tolomei Frigerio, la strada del concordato era divenuta obbligata per, come ha spiegato la società, l'oggettiva difficoltà di incasso dei crediti vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni.
Un fatto, certo. Ma se si scava nei conti della antica e blasonata società di engineering si scopre che non di un fulmine a ciel sereno si è trattato. Condotte è un gigante dai piedi d'argilla sul piano finanziario e non da ieri. Il capitale netto con cui lavora è di soli 220 milioni. Il resto a comporre un attivo di bilancio di 2,3 miliardi sono soldi di altri. In particolare le banche: Condotte prima della resa aveva debiti finanziari con quasi tutti gli istituti di credito del Paese per oltre 600 milioni; poi ci sono i debiti con la galassia di oltre 50 società collegate per 313 milioni e infine dulcis in fondo i fornitori che di fatto finanziavano con le banche la gestione operativa: con i soli fornitori Condotte aveva a fine 2016 esposizioni debitorie per 700 milioni. Alla fine il cumulo di debiti totali del gruppo dalla storia centenaria, che rischia ora di finire amaramente, ammontava un anno prima della richiesta di concordato al Tribunale alla cifra monstre di 2,1 miliardi di euro. Dieci volte il patrimonio netto; oltre una volta e mezza il fatturato annuo e 20 volte il margine operativo lordo fermo a fine 2016 a soli 115 milioni. Su 1,3 miliardi di fatturato i costi si portano via quasi tutto...
Basta che un committente ritardi i pagamenti o addirittura non paghi e si rischia di saltare all'istante. E fonti della società raccontano al Fatto Quotidiano dei continui appostamenti a riserva per centinaia di milioni per ritardi dei pagamenti per la Nuvola di Fuksas a Roma per le difficoltà di Eur Spa. O gli oltre 100 milioni accantonati per la Tav a Firenze e l'atto di citazione contro Rfi per i ritardi dovuti anche agli stop ambientali per le presunte mancate bonifiche. O le difficoltà dei grandi lavori in Algeria. Tutte pendenze che hanno reso precaria la già gracile struttura finanziaria del gruppo. Certo pesano i crediti aperti con i clienti. Valgono oltre 400 milioni. Se fai fatica a incassare non hai i flussi di cassa per pagare fornitori e banche.
Già i fornitori. A loro spettavano a fine 2016 pagamenti per oltre 700 milioni quasi il doppio dei crediti che Condotte vantava verso i clienti...Un circolo vizioso che ora sembra giunto al capolinea. Nessuno pare essersi accorto del disastro in arrivo. Né la società che si descriveva, come abbiamo visto, in salute finanziaria né tanto meno il consiglio di Sorveglianza presieduto da Franco Bassanini ex Cdp. Con il bilancio 2016 fu approvato anche il piano triennale: il margine lordo sarebbe passato tra il 2017 e il 2019, secondo la relazione di Duccio Astaldi da 120 a 133 milioni; l'utile operativo da 65 a 87 milioni e l'utile netto da 8 a 18 milioni.
Tutto bene? Non il debito: solo quello con le banche stazionava costantemente fino al 2019 sopra il mezzo miliardo. Il vizio di lavorare, contando solo sui soldi a prestito, continuava, anche pochi mesi prima della richiesta di aiuto al Tribunale, ad aleggiare come un fatto fisiologico nei vertici di Condotte. Poi di colpo l'amaro risveglio. Una storia, l'ennesima di capitalismo privato senza capitali.