Lipari - Isolano da 9 anni è accusato di furto e maltrattamenti ad un cane pastore tedesco e dalla Cassazione la vicenda giudiziaria ritorna nuovamente in Corte d'Appello a Messina.
L'accusato è il professore Luigi Megna di Lipari, accusato dall'albergatore Bartolo Basile e dalla moglie Federica Piccione, rappresentati dall'avvocato Alessandro Billè. Il cane si era allontanato da casa nell'agosto del 2013.
Il professore Megna, difeso dall'avvocato Saro Venuto, ha sempre negato le condotte contestate in quanto mai commesse. Il cane fu rinvenuto dentro una sua proprietà a San Salvatore dopo giorni di ricerche da parte dei proprietari abitanti li vicino.
A seguito della denunzia dei proprietari Il tribunale di Barcellona nell’anno 2019, dopo un lungo procedimento, sulla base dell’istruttoria che si è articolata con prove testimoniali e l’acquisizione del certificato medico veterinario che attestava le pessime condizioni di salute del cane ritrovato all’interno di un casolare posseduto dall’imputato, lo condannò alla pena di mesi cinque di reclusione, e euro 300,00 di multa oltre al pagamento delle spese processuali in favore della costituita parte civile, nonché il diritto al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede.
Proposto appello, la Corte di Appello di Messina, nel maggio 2020, ha assolto l’imputato dal reato di maltrattamenti del cane perché il fatto non sussiste, e ha confermato la condanna per il reato di furto e concesse le circostanze attenuanti generiche, rideterminando la pena in mesi quattro di reclusione e € 200.00 di multa. Ha confermato la condanna alle spese processuali e di parte civile liquidate in complessive € 900,00 oltre rimborsi di legge.
Il Megna reagisce proponendo ricorso per Cassazione. La quinta sezione penale della Cassazione all’esito dell’udienza ha accolto le censure mosse alla sentenza della Corte di Appello annullandola con rinvio per un nuovo giudizio avanti ad altra sezione della Corte di Appello di Messina.
di Alessandro Longo
BASTA che il gestore di un sito sappia - o si presume che sappia - di un commento potenzialmente diffamatorio perché ne sia responsabile. È questa l'eredità che ci lascia la sentenza della Cassazione, di cui Repubblica ha dato notizia ieri, a quanto emerge dal dibattito che si sta scatenando in queste ore tra gli addetti ai lavori. Si apre così una voragine che rischia di inghiottire chiunque faccia informazione sul web, in modo professionale o no: un commento di un lettore può portare al sequestro del sito, a una condanna penale per diffamazione e a risarcimenti economici che in sede civile possono essere molto salati.
Vediamo perché. A quanto si legge nella sentenza, il gestore del sito Agenziacalcio.it è stato condannato per la presenza di questo commento sul presidente della Figc Carlo Tavecchio, perché secondo la Cassazione non poteva non sapere della sua esistenza. E non poteva non saperlo poiché l'autore del commento gli aveva mandato una mail in cui allegava il certificato penale di Tavecchio.
"Ricadiamo così nel caso tipico delle piattaforme tecnologiche, che diventano responsabili per legge dei comportamenti dei propri utenti solo dal momento in cui ne sono fatti consapevoli", dice il Garante Privacy Antonello Soro, a Repubblica. "Questo discrimine importante- tra sapere e non sapere dei contenuti incriminati- è riportato nella giurisprudenza fin dai tempi del caso Google Vividown", dice Soro. "Per esempio: Google di base non risponde dei reati compiuti dai suoi utenti (diffamazione, violazione del diritto d'autore). Può essere condannata solo se non interviene dopo che gli è stato notificato quel reato", spiega il Garante. E al solito a quel punto, dopo alcune verifiche, cancella il contenuto o il link in questione.
Tuttavia, "la sentenza della Cassazione compie un salto, rispetto a quanto finora previsto dalla normativa. Un salto pericoloso per la libertà di espressione sul web", aggiunge Guido Scorza, avvocato tra i massimi esperti di diritto digitale. E con lui concordano altri esperti che commentano la vicenda. Il senso è che "c'è una bella differenza tra sapere dell'esistenza di un contenuto e sapere che quel certo contenuto è considerato lesivo da una parte", dice Scorza.
Concorda Fulvio Sarzana, avvocato specializzato in diritto digitale: "secondo la normativa sul commercio elettronico, gli intermediari come Google sono responsabili solo a fronte della segnalazione da parte di un'autorità (giudiziaria o amministrativa)". Questo principio sembrava applicarsi anche ai commenti dei lettori sui siti e blog. La novità portata dalla sentenza è proprio qui: "Il gestore di Agenziacalcio.it però è stato condannato per la semplice, presunta, conoscenza di un certo commento", dice Sarzana. Ha infatti rimosso il contenuto subito dopo averne avuto richiesta dalle autorità.
Dalle riflessioni degli esperti si può desumere quindi che da oggi il gestore di un sito è responsabile dei commenti di cui è venuto a conoscenza. Non è necessario che sia informato da un'autorità o da una parte in causa che quel contenuto è illecito. E questo è da subito un problema per tutte le piattaforme che hanno una forma di moderazione dei commenti, magari contro lo spam. Moderandoli, non possono negare di aver letto i commenti, ergo sono consapevoli dell'esistenza degli specifici contenuti. "I commenti di cui si è al corrente sono insomma equiparati agli articoli pubblicati", dice Sarzana. "È possibile che alla luce di questa sentenza ora altri giudici considereranno responsabile i gestori di siti per i commenti sottoposti a moderazione", concorda Scorza.
Non solo. "Nella sentenza si presume soltanto che il gestore sapeva del commento in base a certi indizi. La situazione è quindi pericolosamente aleatoria", dice Sarzana. "Qualunque sito si può trovare nella condizione di essere "sospettato di sapere", in base alle circostanze".
Sono molte le testate giornalistiche online, i blog o i siti collegati a partiti politici come Beppegrillo.it che possono ricadere in questa casistica. Ma anche se si limitasse il caso all'inconfutabile consapevolezza del gestore, comunque sarebbe un guaio per tutte le piattaforme che vogliano avere un minimo di moderazione o gestione dei commenti. Una pratica a volte necessaria per consentire un civile dibattito ed evitare degenerazioni.
Per altro, questa stessa moderazione è servita finora anche a evitare denunce per diffamazione. Dalla sentenza di Cassazione possiamo desumere infatti solo che si è responsabili dei commenti di cui siamo consapevoli. Non che siamo automaticamente irresponsabili dei commenti di cui non siamo consapevoli. La giurisprudenza infatti non è definitiva su questo secondo punto.
Tutti i gestori dei siti si troveranno insomma adesso tra incudine e martello. Moderare i commenti, sorvegliando attentamente ed esponendosi a un rischio diretto di "concorso in diffamazione" alla luce dell'ultima sentenza della Cassazione; oppure lasciarli liberi, danneggiando però così la qualità del dibattito ed esponendosi comunque al rischio di denunce. Una situazione difficile, che può portare alla scelta di eliminare lo spazio dei commenti. Ma questo significa danneggiare la facoltà di espressione degli utenti e privarsi del valore apportato da loro agli articoli. "Voglio sperare che questa sentenza sia solo un incidente di percorso.
Che sia presto superate da altre sentenze della Cassazione, in senso opposto", dice Scorza. Resta il fatto che è la prima volta che la Cassazione si esprime in materia e quindi i prossimi scenari restano incerti, per chiunque abbia un sito aperto ai commenti dei lettori.(repubblica.it)