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di Beatrice Giunta Saltalamacchia

STORIA DI PEPPINO. NONA PUNTATA

Per approfondire il periodo storico in cui Peppino visse, bisogna andare indietro nel tempo e focalizzare l’oscurantismo dei secoli precedenti, in questo caso, dell’Ottocento, in cui si soffriva per qualsiasi motivo: anche la gioia si viveva paradossalmente come dolore, da offrire a Dio per guadagnare il regno dei cieli. Era il periodo del Romanticismo, in cui l’unica alternativa alla triste realtà del quotidiano era la preparazione all’aldilà.

L’uomo “trasumanava”in una realtà trascendentale e immaginava “sovrumani silenzi”e “ profondissima quiete “, sfuggendo, in questo modo, alla tempesta degli affanni e alla paura della morte. L’alternativa di dare un senso alla vita terrena era quella di comporre brani musicali o di cantare in versi le grandi imprese: si tratta, infatti, del secolo degli eroi, delle gesta gloriose, perché solo così si poteva sopravvivere e resistere alla fame, alla miseria e alle privazioni alle quali si era sottoposti, perché la vita della maggior parte della gente era, purtroppo, reclutata nelle campagne o nella pesca.

Peppino, però, aveva un grande ideale: quello di solcare gli oceani alla ricerca di se stesso e della propria identità.

Un’altra nota su questi velieri: si diceva che durante questi lunghi viaggi , la coperta della nave ( il ponte principale) fosse di solito sovrastata dal mare e che sempre crescessero le alghe.

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Ecco la foto di famiglia con gli antenati. Il piccolino è Salvatore Saltalamacchia, il fondatore del Notiziario delle Eolie cartaceo e che tu con grande passione (la "stoffa" si vedeva sin da quando eri mio studente all'Istituto) hai riportato alla ribalta in forma online...

NOTIZIARIOEOLIE.IT

6 NOVEMBRE 2019

LE INTERVISTE DE "IL NOTIZIARIO". Lipari, i 65 anni dello "storico" Notiziario delle Eolie (prima cartaceo, ora online). A cura dell'inviato speciale Gennaro Leone

La signora Beatrice Saltalamacchia, nipote dell'avvocato fondatore del Notiziario e già professoressa del nostro direttore Bartolino Leone...

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STORIA DI PEPPINO. OTTAVA PUNTATA.
I bambini dei pescatori vedevano i loro padri tutte le sere, al contrario dei figli dei naviganti che non godevano di questo privilegio. A loro era riservata una vita di lotta e disperazione, di speranze e di preghiere, fino al giorno in cui avvenne un fatto clamoroso e tanto atteso: ricevettero una lettera, spedita tanti mesi prima, in cui si preannunciava un evento: “ Arriveremo a Lipari tra la fine di giugno e i primi di settembre, se Dio vorrà “.

Poi, all’improvviso, si udirono urla forti e gioiose di bambini e voci sommesse ed esultanti di donne; pure il parroco si mise a suonare le campane, come richiamo liturgico per la popolazione. Era tornato il grande e vecchio veliero, stracarico, con le ancore appennellate ed i marinai, ormai stanchi, avevano le barbe incolte: qualcuno era troppo vecchio e, forse, anche ammalato.
Era la fine dell’Ottocento, il periodo chiave delle rotte internazionali e transoceaniche.

I ricchi del Paese pensarono al grande profitto economico realizzato dagli scambi commerciali effettuati da questi grandi bastimenti a vela, che consistevano nell’acquistare in un avamposto le merci più disparate, soprattutto pomice e ossidiana, ma anche generi alimentari, come ceci e pesce secco, per consegnarle, poi, in un altro porto commerciale.

Nei giorni che seguirono tutto l’equipaggio recupero’ le quote di denaro spettanti. Dopo tre viaggi e quarant’anni di amore incondizionato per il mare e i bastimenti d’altura, Peppino ricevette dall’armatore, per la prima volta, tutti i soldi a lui dovuti: la tempra forte del proprio carattere e l’assenza totale di incertezze lo avevano abituato a comportarsi con gli uomini allo stesso modo in cui aveva sempre solcato gli oceani.

La sua voglia di vivere si poteva paragonare a quella di un leone e, quando una mattina vide per la strada una donna bellissima, senza tremare, si avvicinò a lei e disse solo: “Io sono Peppino e tu mi piaci. Ti conoscevo già ma non avevo il coraggio di avvicinarti, ti potevo solo pensare”.
Mentre Peppino parlava Caterina lo guardava e capiva che era lui quel giovane che in un tempo remoto aveva visto e che portava ancora nel cuore.

Fu come un fulmine che diede vita ad un fuoco, seguito da tanta gioia. Non si sarebbero mai lasciati, era scritto nei loro occhi.
Accadde una cosa strana: il vecchio veliero, ormai fatiscente, venne demolito; ciò apparve come un sacrificio di un Dio del mare che se ne andava via per sempre, dopo aver messo al sicuro i propri fedeli marinai.

STORIA DI PEPPINO. SETTIMA PUNTATA.
Non si poteva comunicare, se non con le preghiere e con la recitazione della “Scuta” che qualche vegliarda del luogo, rispettata e quasi venerata, ancora ricordava. Rituali pagani e, forse, irreligiosi, attraverso i quali bisognava interpretare ogni segnale: una cima spezzata, una balena spiaggiata, un gabbiano mai visto prima, un gallo che cantava, un cane che abbaiava ecc.; ogni segno, augurante o infausto “ parlava” e sull’isola lontana si ripeteva il medesimo supplicare.

Un groviglio di stregonerie che manteneva gli uomini uniti.
Nell’immaginario di Peppino Caterina era diventata il faro del veliero; quando navigava, Peppino la “vedeva” sempre in attesa di qualche bastimento. In realtà Caterina percorreva ogni giorno la stessa mulattiera che si affacciava sul mare e poi si sedeva su uno scoglio aspettando una nave invelata e, contando gli anni che erano passati, già sette ormai, sentiva che il tempo era vicino.

Quale tempo, se non aveva scambiato nemmeno una promessa, ma solo uno sguardo con quell’uomo moro, gagliardo e vigoroso, ma anche schivo e riservato che l’aveva rapita?

Questa volta Peppino partiva per un altro lungo viaggio  con un veliero forte e stanco. Tutto scricchiolava sotto il peso delle onde e il tiro delle vele. Non avevano foto delle loro donne da guardare, ma solo quelle di Santi e Madonne attaccate dappertutto: alle tempeste ci pensava Sant’Antonio, alle malattie San Giovanni e nei porti le maiare, che pensavano a tutto: prescrivevano medicine,

levavano malocchi che incantavano questi poveri diavoli sperduti per il mondo. I vecchi marinai pensavano alle famiglie, e chi non l'aveva ancora, stampata nella propria mente portava l’immagine della ragazza conosciuta durante l’ultima sosta. Peppino pensava sempre a Caterina, alta, con i capelli neri e con il corpo di una scultura greca.

Nella sua mente aveva visto il proprio futuro accanto a quella donna, con una casa sul mare e tanti figli. La finalità era quella di cambiare la propria vita che, anche se amava, non voleva più fare.

STORIA DI PEPPINO. QUINTA PUNTATA.
Un equipaggio di uomini di ferro svolgeva una missione lunga e difficile. All’arrivo nei porti iniziavano nuove avventure, altre lingue e tanto desiderio di vivere ancora. Incontri con nuove culture e scontri di tradizioni, usi e costumi diversi.

Marinai di isole straniere si incontravano con indigeni di un’altra civiltà. Non erano solo esperienze vissute, ma traumi che cambiavano la mente degli uomini: gli stessi che, tornando a casa, non sarebbero stati più quelli di una volta.

Peppino, invece, imparò tanto; fu il trauma che lo sveglio’ e fece nascere in lui la decisione di vivere bene quella vita così difficile. Contava i mesi, gli anni e poi quanti Natali e Pasque e quante estati passate. Peppino pensava anche costantemente ad una spiaggia della sua tanto amata isoletta ed era lì che voleva fare ritorno.

 

4) STORIA DI PEPPINO. 4° PUNTATA

La navigazione fu lunga e impegnativa, ma Peppino imparò tanto: aveva la felicità nel cuore e l’infinito nell’animo. 
I marinai affrontarono un lungo viaggio estivo e, subito fuori Gibilterra, fecero rotta verso la meta finale, cioè l’Inghilterra.
 
Avevano un carico di uva passa, capperi e malvasia, per caricare poi, carbone, destinato al Cile. Uno di quei viaggi senza fine, in cui li aspettava il passaggio di capo Horn e la navigazione nell’oceano Pacifico, fino a Valparaiso, dove avrebbero scambiato carbone con guano. La posta veniva affidata a un’altra nave, per essere consegnata, dopo tanti mesi, al locale Ufficio Postale del punto di partenza. Il viaggio, cosiddetto alla brusca, non finiva mai, ma la nave era in cerca di un carico da uno scalo all’altro.
 
Si affrontavano tempeste e duri inverni, sotto piogge torrenziali, neve, ghiaccio, nebbie senza fine e tanto freddo. Si consumavano pasti salati senza verdure, senza frutta e senza niente, se non la speranza di arrivare, chissà quando, in qualche benedetto porto.


3) Il grande veliero si fermò per due mesi, era inverno e si dovevano fare tanti lavori, ci voleva, anche, un cantiere per rinforzare, ricostruire e riarmare il bastimento. Passarono quasi sei mesi prima che i marinai fossero pronti per un altro viaggio.

Una mattina di giugno di fine Ottocento, alle prime luci dell’alba, come per incanto, apparve il veliero ricostruito, con la sua livrea grigia e bianca e con la polena rifatta per l’ennesima volta ( Peppino era legato a lei, Nina, una specie di sirena che assomigliava molto a una bella ragazza troppo lontana, forse la futura Caterina che aveva sempre desiderato).

Erano i primi di luglio e, dopo i primi abbracci e baci, lacrime e desideri, troncati all’improvviso, con tanto silenzio intorno e una bava di vento, il grande veliero riprese a solcare il mare. Fu la parte più emozionante del tragitto, che portò i naviganti a fare rotta in Inghilterra e poi a capo Horn.

2) Su quel veliero quasi tutti si chiamavano Bartolo, ma quando incominciarono a conoscersi, allora si avvertirono le differenze, perché c’erano Bartolino, Bartoluzzo e poi tutti i soprannomi possibili e immaginabili. In quel veliero un forte odore di pesce salato, di catrame ma, soprattutto, di marciume.

Sotto coperta le stive erano cariche di ogni cosa ma, anche, di storie nascoste. Peppino era tornato da quel lungo viaggio e adesso, a quattordici anni, nonostante fosse ancora un ragazzino, lui , che non aveva mai giocato a palla, era passato direttamente al duro della vita.

Anche la voce era quella di un piccolo uomo: nel rivederlo, la madre, per poco, non si spaventò. Peppino aveva superato ogni paura dell’adolescenza, perché era rimasto stregato dal suo veliero e il mare lo attraeva tanto da desiderarne il pericolo.

1) Il nonno Peppino, che in realtà era un trisavolo, padre della nonna Nunziata, non si può dire che fosse uno sprovveduto qualunque, in quanto era diverso dagli altri: era nato leader.
A Lipari non c’erano solo pescatori che tornavano a casa la sera; ma, anche, marinai che affrontavano lunghi viaggi e il padre di Peppino faceva parte di questa categoria e tornava raramente a casa.

Il figlioletto covava nel cuore, oltre al desiderio di rivedere il padre, una grande ammirazione e una voglia di emularlo per rivivere le stesse emozioni che provava lui. Pertanto fece di tutto per partire, per navigare e vedere nuovi mondi oltre l’oceano, a lui sconosciuti. Fu proprio così che accadde: il ragazzino salpò col padre per un lungo viaggio lasciando la mamma e i la piccola sorellina di solo due anni.

Il grande veliero tornò dopo sette anni . La sorellina era già grandicella e andava dalle suore. La mamma, assieme a tante donne e forse con tutto il paese, riconobbero il vecchio veliero alla marina, carico di alghe, di ruggine, scolorito, con le vele logore e l’ancora pronta per dare fondo.

Il 1923: l’immediato dopoguerra
E’ indicibile e estremamente doloroso ricordare il tempo passato, anche se sono trascorsi cento anni. A volte ricordare non basta a lenire l’affanno, ma occorre scrivere e aspettare che le lacrime scendano lentamente e si asciughino da sole. Lasciar passare questo momento del ricordo senza costringerlo dentro paratie stagne è la situazione ottimale per far venir fuori tutto lo sgomento e per ricominciare a vivere, perché narrare il dolore significa sublimarlo e superarlo.
La guerra era certo terminata, anche se perdurava come attacco alla vita, al lavoro e all’economia.

A quel tempo si viveva male: i farmaci mancavano, non c’era nemmeno un antibiotico, un antipiretico, c’era solo dopoguerra, dolore e disperazione.
Anche le donne svolgevano lavori duri, anzi, soprattutto le donne perché molti uomini erano morti sul campo di battaglia o erano zoppi, ciechi, sordi; tutte malattie che avevano conseguito in guerra e di cui subivano le conseguenze.
Gli sfollati e le baracche: una guerra dopo la guerra.

Erano gli Anni Venti: si andava in America con le vecchie valigie di fibra, legate e di cartone pressato male.
Viaggio in America in cerca di lavoro, affrontando i disagi di un viaggio lungo e periglioso.
Mio padre aveva preso la malaria, perciò era stato rimpatriato e gli era stata conferita la medaglia e l’onorificenza di “Cavaliere di Vittorio Veneto” dal Presidente della Repubblica.

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A L B A N I A - A P R I L E 1918

SITUAZIONE IN ALBANIA: ANTEFATTI DELLA PRIMA GUERRA

Nel 1913 la situazione interna dell’Albania non era abbastanza florida, erano molti, infatti, i tentativi di altre nazioni di avere il sopravvento, soprattutto per la posizione strategica sul mare Adriatico. Tra l’altro, erano diverse le forze esogene che non rendevano compatta la popolazione.

La Repubblica dell’Albania Centrale con Essad Pascià, primo ministro dell’interno, non era abbastanza forte per garantire l’organizzazione e l’unità del Paese; pertanto, dopo il trattato di Londra, appunto nel 1913, viene istituita una Commissione Internazionale di Controllo, esercitata dalle Grandi Potenze: Francia, Germania, Austria, Inghilterra, Russia e Italia, allo scopo di esercitare la funzione di protettorato e di collaborare laddove l’Albania non fosse autonomamente in grado di intraprendere decisioni politiche.

Il “Report of the International Commission to Inquire into the Causes and Conduct
of the Balcan War così declama: “Le case e tutti i villaggi sono stati ridotti in cenere, le popolazioni inermi e innocenti sono state massacrate in massa, incredibili atti di violenza, saccheggi e brutalità di ogni genere...con lo scopo di trasformare interamente il carattere etnico delle regioni abitate esclusivamente da albanesi”.

Da ciò si può si può facilmente dedurre che la situazione non dava spazio a grandi ideali di fusione globale della società; per concludere, poi con la scintilla che diede origine alla prima vera e propria catastrofe dell’umanità dal punto di vista bellico: la Grande Guerra.
Al fine di avere un’immagine visiva ed emotivamente valida della vita nelle trincee, si riportano le memorie di un reduce, corredate quanto più possibile da dipinti e da disegni di armi, di animali doppiamente sfruttati per il trasporto di ingenti carichi da soma attraverso impervi sentieri montagnosi e perché condizionati anch’essi dalle maschere antigas. Tutto va visionato per farci un’idea, quanto più possibile completa, della brutalità della guerra, seppur condotta per motivi apparentemente validi.

Nel tentativo, infine, di ripercorrere la tragedia di mio padre e di tanti altri diciottenni come lui, esemplare per me e per le future generazioni, e per calpestare mentalmente gli antichi luoghi e le città storiche ricche di passato, in cui si sono avvicendati illiri antichi, greci, bizantini e romani, fino ad arrivare ai giorni nostri; territori in cui hanno vissuto e operato uomini diversi, per seguire il proprio ideale e per raggiungere un obbiettivo, il migliore che potesse scaturire dalle occasioni di vita e dagli ostacoli che, di volta in volta, riuscivano a superare; questo per la realizzazione della spiritualità che è in noi e per l’intelligenza che differenzia gli esseri umani da tutti gli altri animali.

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Quadro dipinto all’acquerello da Lina Landi

 

CAPITOLO TERZO

Da circa sei mesi eravamo accampati in un altopiano solcato da burroni acquitrinosi.
Il terreno argilloso, sempre umido, ci rendeva pesanti i movimenti. Non si poteva stare fermi a lungo in un luogo perché il terreno cedeva e si cominciava a sprofondare.
Nell’accampamento erano state sparpagliate fronde di alberi e cespugli di vario tipo, per consentire di camminare più agevolmente. I cavalli e i muli, dopo essere stati sistemati sopra una collinetta, venivano riparati dalle intemperie grazie ad una tettoia lasciata dal distaccamento di cavalleria trasferitosi in un’altra località vicina.

Le quattro batterie che s’erano piazzate in punti strategici, vicino al Comando Gruppo, facevano sentire il rombo dei loro cannoni e rispondevano a quelle serbe che, per consuetudine, svolgevano azione di disturbo. Nel raggio di circa 2 km si erano piazzati
gli Arditi delle Fiamme Nere (nota 1), il Distaccamento di cavalleria, il Distaccamento del Genio fanteria e una Compagnia di fanteria. Il concentramento di forze sull’ altopiano lasciava chiaramente comprendere che la località era uno dei punti chiave fra l’Albania e la Serbia.

Nota 1 - Gli Arditi delle Fiamme Nere erano una specialità di Fanti, costituiti da reparti d’assalto. Si soleva dire che l’Ardito delle Fiamme Nere “scavalca i monti, divora il piano, pugnale fra i denti, le bombe a mano”.

Continuazione del secondo capitolo (...non aveva importanza.)

Tralasciamo quest’argomento su cui vi sarebbe molto da discutere e riportiamoci ai pericoli che attraversavamo durante le varie fasi della faticosa marcia; infatti, eravamo bersagliati da un gruppo di persone slave che, non tollerando l’intervento delle truppe italiane, il cui scopo era quello di liberarle dall’oppressione austriaca, non mancavano di farci sfiorare da quelle temute pallottole “dum - dum” (nota 1) che indirizzavano verso di noi. Qualche volta, quando le azioni di disturbo di tali elementi si rendevano più intolleranti e pericolose, si aspettava che le condizioni del terreno lo consentissero, per montare uno o due cannoni con cui rispondere all’indirizzo di provenienza delle pallottole: questo era l’unico deterrente perché tacessero.
Giunti a Koritza, altra sosta di sei giorni per riposo e ricerca strategica della località in cui dovessero essere piazzate le Batterie (nota 2) e la Sede del Comando Gruppo.

Nota 1- Pallottola dum - dum, si tratta di un proiettile ad espansione, costruito nell’arsenale inglese situato nell’omonima città di Dum Dum, vicino a Calcutta, in India,
nel Bengala occidentale, studiato per aprirsi dentro il corpo del bersaglio, per sfigurare e devastare al punto da rendere irriconoscibili i lineamenti di un individuo.
Nota 2- Batteria di Montagna: installazione militare il cui scopo è quello di raggiungere posti invalicabili e terreni impervi; infatti, laddove si presentavano strapiombi pericolosi, la cui ampiezza consentiva il passaggio di una sola persona, bisognava scaricare i muli,
farli passare da soli, senza il carico e quindi i militari erano costretti a portare sulle spalle il materiale: cannoni, ruote e bombarde.

7) Continuazione del secondo capitolo (...non aveva importanza.)

Tralasciamo quest’argomento su cui vi sarebbe molto da discutere e riportiamoci ai pericoli che attraversavamo durante le varie fasi della faticosa marcia; infatti, eravamo bersagliati da un gruppo di persone slave che, non tollerando l’intervento delle truppe italiane, il cui scopo era quello di liberarle dall’oppressione austriaca, non mancavano di farci sfiorare da quelle temute pallottole “dum - dum” (nota 1) che indirizzavano verso di noi. Qualche volta, quando le azioni di disturbo di tali elementi si rendevano più intolleranti e pericolose, si aspettava che le condizioni del terreno lo consentissero, per montare uno o due cannoni con cui rispondere all’indirizzo di provenienza delle pallottole: questo era l’unico deterrente perché tacessero.
Giunti a Koritza, altra sosta di sei giorni per riposo e ricerca strategica della località in cui dovessero essere piazzate le Batterie (nota 2) e la Sede del Comando Gruppo.

Nota 1- Pallottola dum - dum, si tratta di un proiettile ad espansione, costruito nell’arsenale inglese situato nell’omonima città di Dum Dum, vicino a Calcutta, in India,
nel Bengala occidentale, studiato per aprirsi dentro il corpo del bersaglio, per sfigurare e devastare al punto da rendere irriconoscibili i lineamenti di un individuo.
Nota 2- Batteria di Montagna: installazione militare il cui scopo è quello di raggiungere posti invalicabili e terreni impervi; infatti, laddove si presentavano strapiombi pericolosi, la cui ampiezza consentiva il passaggio di una sola persona, bisognava scaricare i muli,
farli passare da soli, senza il carico e quindi i militari erano costretti a portare sulle spalle il materiale: cannoni, ruote e bombarde.

6) Dopo cinque giorni di estenuante marcia, si giunse ad Alessio da dove, dopo quattro giorni di riposo (per gli animali, non per i militari), per vie mulattiere, si riprese il cammino per Koritza.

Per circa quindici giorni, lottando contro gli elementi incostanti della natura, valicando monti e vallate, per sentieri impervi, argillosi e franabili, spesso scavati fra le gole delle montagne, con strapiombi paurosi e pericolosi, la cui ampiezza consentiva appena il passaggio di una persona, si era costretti a farvi passare i muli col loro carico e, quando ciò non era possibile, a scaricare gli animali, farli passare da soli per la località pericolosa e, quindi, noi militari eravamo costretti a trasportare il materiale vario oltre tale località, con grave pericolo per la nostra incolumità fisica. La salute dei militari non aveva importanza; era prioritario, oltre all’incolumità dei muli, che il materiale da essi trasportato non subisse deterioramento. Infatti, come allora si rilevava sulle pareti esterne dei carri merci ferroviari, che fungevano da “tradotta” (nota 1) per il trasporto dei militari, stava scritta la frase: “CAVALLI 8 - UOMINI 40”. Non aveva alcuna importanza se si fossero sacrificati cinque uomini, pur di salvare un cavallo o un mulo che fosse, perché un cavallo equivaleva a cinque uomini. La vita o l’incolumità di uno o più uomini non aveva importanza.

Nota 1 - Tradotta, convoglio militare adibito al trasporto delle truppe.

5) Gli altri militari venivamo paragonati alle bestie da soma e come tali eravamo trattati; infatti, eravamo costretti a portare ognuno addosso il nostro zaino, nonché il moschetto
(nota 1) e l’armamento in dotazione; a provvedere al governo degli animali e alla conduzione di essi e, quando si effettuavano trasferimenti, a provvedere al carico, allo scarico, alla sistemazione e alla guardia del materiale e dei muli, nonché dell’accampamento e, quando tutto era in ordine, a provvedere a noi stessi, cioè alla nostra sistemazione.
Da Bacelik fino ad Alessio si marciava sulla strada nazionale che, in qualche modo, era discreta, malgrado le erosioni e le devastazioni prodotte, specie nel periodo invernale, dallo straripamento del fiume “Drin” che, per il tragitto di oltre 120 km, fiancheggia la strada predetta. Tale strada era l’unica via che congiungeva Scutari Vecchio - Tirana - Valona - La Voiussa - Tepleni ed altre località. (Continua).

4) Dopo circa due mesi che stazionavamo a Bacelik Posten - villaggio o paese situato a circa 15 km da Scutari vecchio - il 50mo Gruppo Artiglieria da Montagna aveva ricevuto

l’ordine di trasferirsi ai confini serbi, a circa 10 km a sud di Koritza.
Gli unici mezzi di trasporto in dotazione alle Batterie che componevano il Gruppo e al Comando Gruppo, del quale facevo parte quale scritturale di Fureria (nota 1), erano costituiti da muli, sui quali venivano caricati i cannoni, le munizioni e le salumerie in generale.
Soltanto agli ufficiali era assegnato un cavallo ( il Maggior Comandante del Gruppo ne aveva due) per uso personale, soldati, caporali e sottufficiali erano appiedati.
I sottufficiali fruivano del beneficio che il proprio zaino, contenente gli effetti personali,
venisse trasportato dai muli.

Nota 1 - Fureria: ufficio il cui scopo è l’organizzazione militare; in questo caso, il furiere è addetto alle operazioni di servizio, di contabilità e di dattilografia, utili all’Artiglieria di Montagna.

3) I nitriti disperati del cavallo che, ormai col muso in aria, continuava a scomparire nel gorgo e le grida d’invocazione dell’individuo che, già sprofondato fino a metà corpo, continuava a chiedere soccorso creavano un’atmosfera di terrore e di pietà ma nessuno si muoveva per dargli aiuto, anche perché non si poteva oltrepassare il limite che segnalava la zona di pericolo.
Così quell’individuo e il cavallo lentamente scomparvero inghiottiti dalla fanghiglia che segnò e chiuse il loro destino.
Dagli uomini che lo avevano inseguito apprendemmo che tale individuo per futili motivi aveva ucciso un loro congiunto. Poi, visto che un castigo più orrendo era stato inflitto al malcapitato avevano provato un senso di umana pietà nell’assistere inorriditi alla tremenda scena.

2) Poco dopo tale individuo, avvolto nel suo tradizionale manto bianco, il cosiddetto baracano (nota 2), proseguendo nella fuga, comparve su una vicina pianura dove trovava tragica fine, assieme a quel povero cavallo che montava.

Alla vista di ciò, gli inseguitori si fermarono all’altezza del burrone e, cessando di sparare, guardarono inorriditi quell’individuo che, continuando nella fuga a galoppo sfrenato, forse ignaro che quella località fosse un acquitrino di fanghiglia argillosa in continuo ribollimento, aveva oltrepassato un piccolo recinto di fragili canne che stava a indicare la zona di pericolo e s’era inoltrato verso il centro.
Per circa ottanta metri o poco più, seppure faticosamente, il cavallo aveva proseguito nella corsa ma poi, sopraffatto dalla fanghiglia, nitrendo lamentosamente, s’era fermato e, nei movimenti che faceva per cercare di liberarsi 
dalla stretta che lo avvolgeva, affondava sempre più. L’individuo che lo cavalcava, compreso l’immane pericolo e il tremendo destino che lo attendeva, gridava cercando aiuto, ma nessuno degli inseguitori si mosse. (Continua).

Nota 2 - Baracano, vestito costituito di solito da due drappi rettangolari bianchi che avvolgono il corpo e la testa.

1) Eravamo quasi a metà della strada che separa Alessio da Koros, località di confine fra l’Albania e la Serbia, meta del trasferimento strategico del 50° Gruppo Artiglieria da Montagna (2°Regg.to) al quale appartenevo.

Avevamo trascorso la notte su un altopiano, luogo in cui ci saremmo dovuti soffermare due giorni per fare riposare i muli (nota 1), stanchi per il trasporto delle someggiate, dopo vari giorni di faticosa marcia fra mulattiere impervie e pericolose, tracciate nell’argilla fangosa. Anche l’altopiano su cui alloggiavamo era costituito da argilla però questa era un pò solida, forse perché prosciugata dai raggi solari.

Eseguivo il mio turno giornaliero di guardia dalle ore sei alle ore dodici. Il servizio di guardia durante i trasferimenti, era stato disposto in sei turni nelle ventiquattro ore e cioè: due turni di sei ore ciascuno, dalle ore sei alle diciotto e quattro turni di tre ore ciascuno durante la notte. Di notte i turni erano di tre ore perché il clima rigido e gelido non consentiva di resistere più a lungo nello svolgimento del servizio di guardia.

Erano circa le ore nove. Nell’accampamento fervevano i servizi di governo degli animali quando, a distanza di circa mille metri, si vede spuntare un individuo che, a cavallo lanciato a galoppo sfrenato, attraversava la pianura cercando scampo in un burrone, per sfuggire alle fucilate di un gruppo di uomini che, anch’essi a cavallo, lo inseguivano.

Nota1- Durante le guerre il mulo era preferito al cavallo e all’asino per il trasporto di armi pesanti e per gli approvvigionamenti, soprattutto in zone montagnose; questo perché più resistente al freddo e alla fame, oltre che per la sua particolare forza e mansuetudine. Fine del 1° capitolo

 

Parola del giorno: coraggio.
Coraggio di non avere paura.
Paura di difendere valori supremi in difesa della società;
paura della morte;
paura di fidarsi;
paura di cambiare: metempsicosi dell’anima.

Trasumanar significar per verba, non si poria; però l’essemplo basti a cui esperienza grazia serba.(Paradiso, canto I).
Mirabile visu, cotal rinacque la ond’egli l’avelse...nasceranno altri uomini come Falcone e Borsellino, come ci insegna la metafora del ramoscello con cui Virgilio leva a Dante la caligine infernale.

La morte di questi magistrati ci insegna che non dobbiamo aver paura, anzi questa ci dà coraggio a comportarci come loro.

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GUARDARE IL PASSATO PER PROGETTARE IL NOSTRO FUTURO

L’epidemia continua a rallentare e i numeri scendono.
Bisogna sapere come finiscono le pandemie che ci hanno sempre inquietato e infuso terrore e disastro nelle varie epoche storiche.
Sembra di vivere nel tempo della nobiltà e del tramonto degli ideali di don Chisciotte o, dell’uomo solo, ma industrioso e intraprendente del secolo successivo, Robinson Crusoe, descritto da Daniel Defoe.

Alla luce del nostro passato, che cosa possiamo fare per accelerare i tempi e migliorare l’economia?
Se noi usiamo distanziamento, farmaci e vaccini, i parassiti della virulenza vengono debellati e si rivolgono altrove.
In questo periodo bisogna Interrogare gli economisti perché sono necessarie nuove politiche. Se la nostra povertà dipendesse da carestia, le categorie essenziali da rispettare per la ripartenza dovrebbero essere: duro lavoro, astinenza e invettiva. Perciò rimbocchiamoci le maniche e ragioniamo seguendo logica e lavoro, ne’ sottomissione assoluta al potere del primo Marcel, “di ogni villan che parteggiando viene”.

Bisogna farsi le proprie opinioni ascoltando gli altri e leggendo tanti giornali così diceva, una volta, da Fazio, Umberto Eco.
Dopo carestie o epidemie la dittatura potrebbe essere dietro l’angolo. Non è questo il caso del nostro Paese, dove esiste una persistente democrazia.
“Un bel dì vedremo - levarsi un fil di fumo - sull’estremo confin del mare - e poi la nave appare. Tutto questo avverrà, te lo prometto”.
Che cos’è il futuro se non il presente tanto desiderato?
Il presente - futuro che stiamo vivendo.

---Riflessione durante il coronavirus

Ormai abbiamo preso l’abitudine a restare in casa, nella gioia e nel dolore.
In questo periodo, molto pesante e molto brutto, vediamo il lato positivo.
Pensare e riflettere può e deve far bene. Proprio quando sembra di avere toccato il fondo, quando pensi che sia finita, è proprio allora che comincia la salita. “Che fantastica cosa è la vita”.

Non sono io a pensarlo, ma lo condivido. Qualsiasi posto bellissimo può essere una prigione se il corpo è sprovvisto dello “strumento testa”. Li’ dentro c’è tutto quello che può esserci utile. Hai le lacrime per piangere e la bocca per ridere e poi ricominci la salita.

“Non credi tu me teco e ch’io ti guide”; e poi “una mano venne dal cielo e in più spirabil aere, pietosa, il trasporto’”.
Non sono nuovi i problemi attuali: detenuti, anziani, lavoro, salute. La pandemia non ha portato niente di nuovo: questi problemi sono frutto di qualcosa che c’era già prima.
Sapevamo già questo: basta riflettere.

 

Pasqua

La Pasqua è un’occasione per riunire le nazioni in quarantena.
Se restiamo chiusi in casa per il Coronavirus, non pensiamo a cose tristi (morte, solitudine); pensiamo, invece, che si tratta di una necessità globale, quella di combattere definitivamente per vincere la pandemia e la morte.

Questo binomio è il dilemma dei nostri giorni.

La solitudine ci insegna, molto spesso, più della scienza.

Nella solitudine di una “selva oscura” l’uomo può ritrovare se stesso e, perché no, la felicità .
Per Giorgio Gaber la solitudine non è una follia, è indispensabile per star bene in compagnia.

Anche la morte si supera con la Pasqua.

La metafora morte-resurrezione insegna che non si muore veramente, che la realtà non è quella che appare a noi, esseri limitati. E con la Pasqua crediamo in questo; infatti si dice: Pasqua di resurrezione.
Ma poi, a che cosa servono gli antichi, se non a spiegare meglio questo concetto? Se c’è la morte non ci siamo noi, e viceversa.
La letteratura è la soluzione morale di tutti i mali, è la serenità dell’animo.
“E tu, onore di pianto, Ettore avrai”, sarai sempre compianto, “finché il sole risplenderà...“Ettore diventa immortale, paradossalmente vince.
Al “Trionfo della morte” e qui ricordiamo i tempi dell’umanesimo, sembra opporsi “I cavalieri della morte”. Abbiamo fatto un salto nel Novecento. Il diavolo-morte si è stancato. Seneca, Petrarca, Sciascia. Sta all’uomo interpretare i vari messaggi.

Con l’augurio che nel raccoglimento della solitudine possiamo tutti vincere, trovare il superamento dell’abbandono e della morte e riscoprire la fede religiosa nel mistero della resurrezione pasquale.

 

Dolore

Si tornerà alla virtù per sconfiggere i postumi del Coronavirus..
Quando si potrà raccontare il dolore, senza provare sgomento e strazio per la ferita, allora si dirà che “saria lungo a dirti; de l’alto scende virtù”(Purg., canto primo).

Quando la pandemia sarà finita, si vedrà come dire e saremo liberi dall’angoscia.
Senza avere una visione distopica della realtà, si può dire che saranno molti i senza- lavoro.
Conteremo e riconteremo i morti per il virus. La contraddizione sui dati diventerà una “danza macabra”. L’unica certezza saranno le molte migliaia di deceduti. Ci chiederemo quanti saranno stati i morti per influenza e quelli per virus, perché i morti effettivi dì Covid sono molti di più di quelli ufficiali.

Si cercherà per il futuro il farmaco della speranza e non ci fideremo delle medicine.
Conteremo i medici morti .
Sarà la logica, non più il dolore a guidarci nei movimenti.

Giorno dopo giorno

Gli sconvolgimenti sociali ci portano a cambiamenti del pensiero?
Il virus sta assestando un colpo mortale al capitalismo?
Il virus ci isola , ma non può uccidere globalizzazione e capitalismo. 
Che cosa ci dice, a questo proposito, il filosofo coreano, Chul Han? 
È certo che nevrosi e psicosi inducono l’uomo a profondi mutamenti del carattere.

Queste e molte altre domande ci poniamo da sopravvissuti al Coronavirus. 
Forse siamo di fronte a un tempo nuovo: allo sconvolgimento sociale che stiamo vivendo, corrisponde un profonda crisi strutturale del pensiero.
Niccolò Fabi : 
-tutto ti sorprende e non ti appartiene ancora;
-tutto il resto è “giorno dopo giorno”, è costruire, ma rinunciare alla perfezione;
-tra il primo tempo e il testamento c’ è giorno dopo giorno.

Civiltà Occidentale

Certi mali ce li cerchiamo noi o sono imprescindibili con il divenire storico e con lo sviluppo della civiltà.

Quello che succede in Turchia è esecrabile, però in un tempo remoto tutto era morale, perfetto. Gli asceti vivevano, di loro libera scelta, nel deserto per scontare le colpe che (non) avevano commesso. Quali colpe, poverini! Ora “ti guarda in seno, s’alcuna parte in te di pace gode”. Questa invettiva era rivolta al Bel Paese, nel canto VI del Purgatorio e non riguarda, nel caso specifico, la Turchia, ma tutti.

Ma stavo parlando della ineccepibile dirittura morale degli asceti, di Ermete Trismegisto, di Palladio di Galazia, e della ineccepibile dirittura morale di molti altri uomini cattolici o laici.
Ora “il tempo passa, fissando qualche video digitale che ci fa partecipare a un mondo virtuale che non c’è e che riesce a distoglierci da quello che c’è e che stiamo distruggendo, nel senso che ci impedirà in maniera sempre maggiore di uscire di casa e di relazionarci, termine che ha, in questo periodo, assunto spesso significato di vita sociale”.

Sembra una profezia, vorrei dire con profonda ammirazione a Vittorino Andreoli e affermo con forza che la civiltà occidentale è in agonia.

---ASP di Messina, al lavoro h24 per permettere un trapianto di rene

Nonostante l'emergenza Covid-19 stia occupando le cronache e le corsie dei nostri Ospedali le altre patologie non sono certo in "quarantena"; in questo momento presso il laboratorio di biologia molecolare dell'Ospedale di Barcellona PG fra gli altri tamponi che si stanno analizzando c'è quello di un giovane paziente seguito dalla U.O. di Nefrologia dell'Ospedale di Milazzo che deve essere sottoposto domani a trapianto di rene presso l'Ospedale di Siena dove c'è un organo compatibile.
"Il nostro paziente - dice il direttore generale Paolo La Paglia - è già in viaggio per Siena con un volo di Stato e grazie al dott. Antonello Calabrò e alla sua equipe in serata l'ASP di Messina comunicherà l'esito del tampone per permettre ai chirurghi di Siena di intervenire immediatamente in piena sicurezza."
Nonostante le critiche ingenerose e i tentativi di delegittimazione l'ASP di Messina c'è.

 

OLTRE DIECIMILA MORTI, QUASI TUTTI DI CORONA-VIRUS

Saldo è la parola del giorno (Radio Tre).
Bisogna stare ben saldi in un momento come questo: piangere in silenzio i morti e stringere i vivi che sono rimasti.

Piccarda e Costanza erano fedeli al loro credo, ma i loro principi non erano ben saldi all’ideale che avevano scelto perché, una volta strappate dal chiostro, non avevano opposto adeguata resistenza alla violenza esercitata su di loro dai parenti, “ma così salda voglia è troppo rada” (Divina Commedia, verso 87 del Paradiso).

Ci rendiamo tutti conto di quanto sia difficile realizzare tutto questo, soprattutto ora che siamo bersagliati da tante verità contrastanti: tutte vere, ma contemporaneamente false.
“Così è, se vi pare”; e l’uomo è nessuno, anzi centomila.

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