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mgiacomantonio1di Michele Giacomantonio

Il personaggio. Francesco Alliata: un Principe per le Eolie

 

Francesco Alliata di Villafranca . Palermo 17 novembre 1919 – Bagheria 1 luglio 2015

 

 

 

Francesco Alliata e le Eolie

Francesco Alliata principe di Villafranca, una antica e nobile famiglia siciliana, è morto a Bagheria il primo luglio scorso all’età di 95 anni. Era un uomo cortese e gentile innamorato delle Eolie al cui sviluppo nel dopoguerra aveva dato un apporto significativo.

Francesco Alliata aveva altri otto nomi e una lunga trafila di tioli tra i quali, oltre a quello di XIV Principe di Villafranca, Principe del Sacro Romano Impero, Altezza Serenissima, Grande di Spagna, Duca di Salaparuta.

Nella sua vita ha fatto l’imprenditore ed in particolare di gelati ma noi lo ricordiamo come produttore cinematografico che nel 1946 con altri giovani fondò la “Panaria film” e contribuì al lancio delle Eolie nel turismo mondiale. Infatti le riprese filmate soprattutto delle isole di Vulcano e di Stromboli colpirono il vulcanologo Aurum Terzieff che le proiettò in Francia e Belgio e spinsero l’associazione parigina

I ragazzi della Panaria film: assieme a Francesco Alliata Giovanni Mazza, Pietro Moncada di Paternò, Renzo Avanzo, Fosco Maraini.

Connaissance du monde a inserire le Eolie nei suoi tours. Tappa a Vulcano e da qui escursioni per Stromboli, Lipari e le altre isole. Siamo nel 1949 e lo spettacolo di questi turisti francesi che traversavano in fila Corso Vittorio rimase a lungo nell’immaginario dei liparesi. I film Stromboli e Vulcano con la “guerra dei vulcani” fra la Bergman e la Magnani vennero dopo e nella produzione del film Vulcano è coinvolto ancora Francesco Alliata con la sua Panaria film.

Ma oltre ad avere il merito di avere fatto conoscere le Eolie e di avere promosso il turismo eoliano che rappresenta il nuovo strumento di sviluppo di queste isole, Francesco Alliata è stato anche il pioniere delle riprese subacquee in Italia utilizzando apparecchiature importate dagli Stati Uniti con le quali ha realizzato nelle Eolie fra l’altro anche un film documentario nel 1946 “Cacciatori sottomarini”.

Una immagine delle riprese sottomarine della Panaria Film.

Il principe Alliata anche quando non si è più occupato professionalmente di cinema ha mantenuto nei confronti di questa attività artistica una attenzione costante coltivando soprattutto i rapporti col Centro Studi Eoliano che ha fatto del cinema uno dei suoi cavalli di battaglia. E col Centro Studi ha progettato la nascita del Museo del Cinema e della Civiltà del bello e nel 2009 gli ha affidato documenti della panaria Film ed i manuali di specializzazione subacquea editi da Olimpia e questo perché – come lui stesso riconosceva nella lettera indirizzata ai dirigenti del sodalizio . proprio il Centro Studi era stato parte fondamentale della rinascita della memoria della Panaria.

Infine non si può dimenticare che era stato fra i promotori e sostenitori della missione delle Eolie negli Stati Uniti – Los Angeles e New York - nel febbraio del 1998 per presentare le Eolie e la sua cultura anche cinematografica al Museo di Arte Moderna,

Il Principe Alliata al centro studi durante la presentazione di una mostra sul film Vulcano con Nino Saltalamacchia e Michele Giacomantonio allora Sindaco di Lipari  

all’Istituto Italiano di Cultura, al Waldorf Astoria.

Indubbiamente non poteva mancargli la cittadinanza onoraria concessagli dalle Amministrazioni eoliane.

                                                                                             Michele Giacomantonio

Il ricordo del Centro Studi

Era il 1995 quando Anna Leone, allora presidente del Centro Studi, presentava i due volumi "Le Eolie della Panaria Film" che raccontavano l'avventura di 4 giovani amici che, appassionati di cinema ed innamorati del mare delle Eolie, sperimentavano le prime riprese cinematografiche subacquee.
La raccolta di immagini, ancora oggi unica e ricca di fascino, pur sempre cara al Principe Alliata, era rimasta accantonata tra i tanti ricordi. Il Centro Studi si è fatto promotore affinché tale patrimonio fosse messo a disposizione della Prof.ssa Rita Cedrini per la realizzazione dei due volumi.
Numerose, da allora, sono state le occasioni di incontro come nel 1998 quando il principe Alliata ha presenziato alla settimana eoliana a New York.
Ricordiamo con particolare emozione il suo intervento durante la proiezione delle foto all'Anfiteatro del Castello di Lipari e la sua rievocazione degli anni della giovinezza e del successo mondiale di foto e filmati, nonché del film della Panaria "Vulcano" con Anna Magnani.
Proprio ieri il Centro Studi ha ricevuto, in anteprima, l'ultimo lavoro di Francesco Alliata "Il Mediterraneo era il mio regno – memorie di un aristocratico siciliano" che questa estate verrà presentato durante il festival del cinema. Un omaggio che il Centro Studi aveva riservato al Suo socio onorario nonché cittadino onorario del Comune di Lipari. Ora sarà un omaggio alla memoria di un sostenitore che lo ha sempre onorato con la Sua amicizia e supportato con il Suo entusiasmo e la sua grande esperienza il cui ricordo sarà di sprone a sempre meglio operare.
                                              

                                                                                             Nino Saltalamacchia -  Presidente Centro Studi

Il ricordo di Caterina Conti

La morte del Principe Alliata é stato, per me, un dolore grandissimo. La fine di un'epoca della quale Alliata era il maggior e più importante rappresentante. Lo vidi a Vulcano la prima volta durante la ripresa del film con Rossano Brazzi e la Magnani. Erano, quelli della Panaria, un gruppo di giovani bellissimi. Io allora avevo dieci anni meno di loro ed ero una ragazzetta. Ho rincontrato in questi ultimi trent’anni il Principe più volte a Lipari  e siamo divenuti amici. Era un uomo gentile ed affabile, innamoratissimo della moglie che perse alcuni anni fa colpendolo profondamente.
Sarebbe stata una cosa meravigliosa se avessimo potuto avere la mostra del cinema con tutti i prototipi delle apparecchiature create da Alliata durante la lavorazione del film Vulcano, con Anna Magnani e Rossano Brazzi, estate 1948. Purtroppo per contingenze ambientali questo non è stato possibile ed è stata una grossissima perdita che non se sarà possibile rimediare.
Per la Sicilia per la cinematografia e la genialità italiana è un grande lutto ed una grandissima perdita.
Troverei bellissimo se l'Amministrazione Comunale predisponesse l'intestazione di tutta la zona antistante l'Hotel Mari del Sud alla memoria del Principe Alliata.

Martedì 7 luglio 2015 nella Chiesa di Porto Salvo è stata celebrata da Mons. Gaetano Sardella una Santa Messa in suffragio del Principe Francesco Alliata di Villafranca, socio onorario del Centro Studi.

(Archivio Storico Eoliano.it)

villaenricalogo
 

Il personaggio. Vartuluzzu Ruggiero e la canzone popolare eoliana

 

  

Vartuluzzu Ruggiero

Intervento di Michele Giacomantonio all’incontro”In memoria di Bartoluzzo Ruggiero” tenutosi nella Chiesa dell’Immacolatamercoledì 12 settembre 2012 in occasione della presentazione del fotolibro “Bartoluzzo. Una traccia sul mare Eoliano”

Vartuluzzo Ruggiero è stato certamente un importante esponente, forse uno dei maggiori, della canzone popolare eoliana. Diciamo questo  sapendo che è difficile fare raffronti con artisti di epoche lontane anche solo poche decine di anni visto la scarsezza della documentazione scritta e canora, per il passato.

Quella della canzone popolare eoliana è una tradizione le cui radici si perdono nel tempo ed è solo, ancora una volta, grazie a Luigi Salvatore d’Austria che possiamo fissare un punto di orientamento sul finire dell’800. Nell’ottavo volume della sua opera, quello dedicato alla parte generale, l’arciduca che amava le Eolie, parla di questi canti che “seguono un ritmo monotono… ma si ascoltano con piacere”.Li sente dalle donne che ramano sul mare, dai giovani che trasportano il mosto, dalle donne che raccolgono i fichi e che lavorano nei campi. L’argomento preferito, come è consuetudine della poesia popolare, è l’amore. Ma nella canzone popolare eoliana, nei canti riportati dall’Arciduca come in quelli di Vartuluzzu Ruggiero, l’amore per l’amata o l’amato si accompagnano o si alternano con l’amore per la propria terra.. Così l’arciduca scrive :

“Un ghiornu, bedda mia, mentre scrivìa

L’anima mia du pettu si staccò.

Ebbi un singhiuzzu e poi mentre chianìia,

a carta sutta l’l’uocchi si vagnò!”

Ma anche:

“Addiu Lipari mia, scuogghiu filici,

lassami arritirari ‘nta la paci,

su abbannunatu di parenti e amici,

pirciò si mi nni vaiu ‘un ti dispiaci”.

  

Sul finire dell’800 il canto veniva accompagnato con strumenti musicali a corde come il contrabbasso, il chitarrone, la chitarra francese, la chitarra da pizzicare, la chitarra battente e il violino. Diffusi anche i flauti e gli ottorini. Di queste canzoni Luigi Salvatore ci offre un ampio campionario. Si suonava e si cantava ai matrimoni, a carnevale, in occasione della gettata del”astricu” che era sempre una grande festa ed aveva un rituale tutto particolare.

A cavallo del secolo, fra l’800 e il 900, anche Lipari ebbe la sua “bella epoque”. Simbolo di questa stagione è il maestro Concetto Abate e la banda musicale diretta da Edoardo Bongiorno. Si suonava in pubblico in via Garibaldi, all’angolo con via Umberto I, dove allora vi era uno spiazzo un po’ più ampio di adesso. Non c’era palco ma solo una pedana per il maestro e al di sopra del corpo bandistico lo stagnino Giovanni Rodà montava una illuminazione primordiale fatta di tubi dove scorreva l’acetilene. Si suonava in pubblico ma anche nelle case private e nei circoli cittadini.

Gli anni del fascismo invece non lasciarono spazio alle tradizioni locali. Ai canti popolari si tentò di sostituire canzoni come Giovinezza, giovinezza, Allarmi siam fascisti, Faccetta nera.. La vena popolare si limitò a produrre i cosiddetti “muttetti” e cioè composizioni in versi di genere faceto, per lo più privi di risvolti sociali, anche per non cadere nelle mire delle autorità e della milizia. Di quel periodo ricordiamo Maniaci ad Acquacalda e Turiddu Giardina  a Lipari . La canzone popolare eoliana era mantenuta in vita da Giovanni Giardina detto“Vanni l’Uorbu”, perché da bambino era caduto in una vasca di calce ed era rimasto cieco, che si accompagnava con l’organetto. Vanni veniva invitato ai pranzi ed alle feste delle famiglie benestanti che lo ricompensavano per lo più con qualche portata del pranzo.

Chiuso il periodo fascista, nell’immediato dopoguerra riprende la canzone popolare ed emerge la figura di Angelo Villanti barbiere, cantante e suonatore. Era detto il cantore della fame che allora era una esperienza molto diffusa fra la gente e proprio della fame parlava in una sua canzone famosa intitolata “Carrube” che si concludeva col desiderio di morire perché nell’aldilà non c’è più bisogno di mangiare:

“Iò vi lassu e mi ni vaiu,

‘nta du munnu ca ‘un si mancia;

e cu resta ca s’arrancia

finu a quannu ‘un veni dà”

Il dopoguerra fu un periodo fertile di associazioni culturali, circoli ricreativi e filodrammatiche. Fra le altre si ricorda l’associazione studentesca “5S” (Siamo studenti sempre senza soldi). Villanti rimase a Lipari anche quando tutti i suoi figli emigrarono, poi nel 1958 emigrò anche lui a Melbourne dove nel 1963 morì.

Gli anni 50 sono gli anni che Pino Paino definisce della “diaspora”. Sono molti i giovani che fuggono dalle Eolie e con essi molti talenti. Solo nel 1973 si ha un forte segnale di ripresa con la nascita del “FolkArte delle Eolie” promosso da Angelo Merlino, Italo Paino, Pino Paino, Nino Sulfaro e Bartolino Ruggiero. Vartuluzzo ne diventa il direttore del gruppo folkloristico. Questo gruppo non ha vita facile  perché deve fare i conti con l’indifferenza e forse anche l’ostilità della amministrazione locale che tenta di privarli anche della sede. Eppure la sua attività si mostrò intensa e con larghi consensi. Si esibirono in cerimonie pubbliche come quella in Vescovado per l’ingresso in diocesi di Mons. Di Salvo, al Carasco durante il congresso nazionale di neurologia, nelle saghe paesane di  a cominciare dalla festa di S. Bartolo a Lipari, poi a Canneto, Acquacalda, Quattropani, Pianoconte, nei dancing come il Turmalin prima che le bande musicali locali venissero soppiantate dalle discoteche.

Leonida Bongiorno notava sul Notiziario del gennaio 1974 che “le musiche, le danze, i canti, quasi tutte creazione del Folk e in particolare dell’inesauribile Bartoluzzo hanno ridato alle Eolie una dimensione da tempo smarrita. E’ rinata una tradizione popolare che sembrava destinata a scomparire definitivamente”.

Fra le canzoni della tradizione eoliana che , accompagnava con la musica del suo inseparabile mandolino, Vartuluzzu riprende  e riformula vi è “A ittata i l’astricu”. Di quella antica riprende il ritornello:
“Li cummari, cummarieddi,

tutti arrivanu chi cistieddi,

chini i pani, cassatieddi,

sfinci fritti, spicchitieddi.

Oh c’arriva, oh c’assuma

Oh chi ciauru i maccarruna”

In Vartuluzzu non manca la tradizione della canzone d’amore. Ricordiamo “Anciulinedda”:

Anciulinedda mia si com’ on sciuri,

bedda di modi e bedda di culuri,

‘nta la to faccia si cum‘a ‘na rosa,

ti amerei i sempri cum’a ‘na sposa”.

E non mancano le canzoni che esprimono l’amore per la sua terra come Ierà, Stromboli, Turisti i tuttu u munnu. Di quest’ultima ricordiamo la sestina iniziale:

“Turisti i tuttu u munnu

v’ospitamu,

a Lipari c’è sciuru di zagara.

Muntagni janchi e beddi

Puru avemu,

ginestra gialla e sciuri in quantità”.

Vartuluzzu e Alberto Lomonaco in una scena teatrale.

Non mancano però le canzoni dedicate  al lavoro come “U cianciuolo” che parla di Bastianu il pescatore:

“Passa la luna veni lu scuru,

Bastianu pripara la rizza, a lampara,

Li marinari cu birrittieddu,

pani, formaggi, buttigghia e cutieddu.

Sunnu cuntenti,

vannu a piscari,,,

e lu cianciuolu…

lu ettano a mari.”

E non manca nemmeno la canzone epica dedicata alla “ruina” del 1545 compiuta da Ariadeno detto il Barbarossa.

“Nove mila l’abitanti,

si purtaru tutti quanti,

li trattaru cumu schiavi,

‘bannunati e morti i fami.

Arrivati ‘nta du munnu,

si truvaru spaisati,

nni murieru tanti, tanti,

Liparuoti ammazzati”.

L’attività del FolkArte delle Isole Eolie, come quella del Piccolo Teatro Eoliano che da questa era stato generato, durarono due anni e poi si esaurirono. Il Folk cercò di rivivere qualche tempo dopo ad opera di Zitelli e di Sparacino ma ormai il nucleo si era disgregato. Vartoluzzo continuava la sua strada sempre più richiesto non solo negli incontri nelle isole ma anche all’estero dagli isolani dell’emigrazione. Andò in Australia, Germania, in America. Memorabile rimane – come ha ricordato recentemente Felice D’Ambra -  una sua esibizione a New York durante un matrimonio col suo violino nell’esecuzione dell’Ave Maria di Shubert.. Alle Eolie intanto, anche sulla sua scia altri cantautori si facevano strada come i fratelli Angelo e Benito Merlino che si affermerà soprattutto in Francia dove andrà a vivere.

Di Bartoluzzo rimangono oltre al ricordo della sua passione e del suo sorriso, la sua musica e le numerose canzoni che ci ha lasciato in eredità.

Allegati e integrazioni: 

Lipari non è più diocesi autonoma

 

Quando un vescovo segna un'epoca

Il Vescovo Re, il Sindaco Vitale, Leonida Bongiorno, Padre Adornato, padre Agostino da Giardini ed altri personaggi della Lipari anni 50.

E’ indubbio che mons. Re avesse della simpatia per il fascismo. Già nel discorso per la riapertura della scalinata per la Cattedrale, con una enfasi indubbiamente cara al regime, affermava “Camice Nere, voi avete ridato alla chiesa la strada maestra con calce impastata col vostro sudore e col vostro sangue; ma avete fatto di più: avete dato la prova che voi sapete trovare il tempo per fare del bene oltre i limiti di ciò che costituisce il vostro stretto dovere[1]”. Ed in questa stessa direzione vanno l’impegno per la raccolta dell’”oro alla Patria”, per la “battaglia del grano”, la partecipazione alla manifestazione per Mussolini a piazza Venezia il 9 gennaio 1938. Mons. Re  era anche un uomo dalle idee molto conservatrici soprattutto a proposito delle donne.

“La donna, madre sposa, figlia,-   scriveva nella  lettera pastorale del 19 marzo 1930 sulla “procacità della moda femminile” - che dovrebbe essere arcangelo difensore del santuario domestico, forza moderatrice degli ardimenti dell'uomo, giglio di purezza nell'aiuola della famiglia, si è fatta schiava di una dea capricciosa e volubile: la moda. Sotto la ferula di questa tiranna, voluttuosa e corruttrice, la donna ha piegato il collo, si è sottoposta a tutte le torture, le ha sacrificato il candore, la dignitosa compostezza, la forza conquistatrice della sua modestia pavida e contegnosa e si è mostrata in pubblico come una provocante ballerina, con veste che dovrebbe cominciare là dove finisce; con scollacciature tagliate fine alle scapole, con gli omeri denudati e con gonnelle e corpetti così aderenti che lasciano intravedere le linee del corpo”.

Ma  sia sul piano politico che anche su quello morale non si trattava di posizioni ideologiche. Amava l’Italia e credeva che il fascismo fosse la risposta giusta ai suoi problemi e sul piano dei costumi era fortemente condizionato da una cultura dominante allora non solo nel mondo ecclesiastico  ma anche in ambienti laici. Una cultura decisamente “maschilista”, si direbbe oggi, ma che allora, in quel clima, sembrava del tutto naturale soprattutto da parte di un vescovo.

Ma siccome Mons. Re era un uomo riflessivo e di cultura, che non disdegnava di incontrare anche persone che avevano problemi col regime e si trovano a Lipari al confino - come il magnate della finanza Riccardo Gualino e l’etiope Ras Immirù, con i quali amava conversare - non è improbabile che molti dubbi sulla bontà del fascismo gli si ponessero alla mente proprio in quegli incontri e che poi i fatti delle leggi razziali ed il conflitto del regime con la chiesa a proposito dell’Azione cattolica, a cui era particolarmente legato, glieli avessero fatti approfondire.

Il fatto è che non ebbe remora alcuna a collaborare, per il bene del suo popolo, come abbiamo già avuto modo di vedere, prima col governatore inglese e dopo con i politici della democrazia.

Mons. Re con Madre Florenzia Profilio nel 50° anniversario dell'Istituto delle Suore.

Dedicò la prima parte degli anni 50 a visitare gli immigrati eoliani prima negli Stati Uniti e poi in Australia. Negli Stati Uniti fu a Brooklyn che allora era la città dove si concentrava la maggior presenza di eoliani e soprattutto di loro associazioni e confraternite. In Australia incontrò gli eoliani di Sidney e di Melbourne.

Per tutti gli anni 50 continuò a svolgere il suo ministero in particolare con le sue lettere pastorali e le omelie declamate col suo timbro di voce penetrante nella Chiesa della Cattedrale. E se ancora nel 1950 lo si poteva incontrare per le strade di Lipari e delle isole, in visita alle parrocchie su un asinello, nel 1956 si convertì anche lui all’automobile e cominciò a girare per Lipari con una 600 blu che gli aveva regalato il papa Pio XII.

L’ultima battaglia per la sua diocesi la combatterà nel giugno del 1961 quando sulla stampa si diffuse la voce che il Vaticano stava pensando ad una  ricomposizione delle diocesi della provincia di Messina e che probabilmente la piccola diocesi di Lipari e la prelatura di S. Lucia del Mela sarebbero state soppresse a favore di una nuova diocesi che avrebbe avuto come sede Barcellona Pozzo di Gotto, una cittadina che era cresciuta negli ultimi anni, oppure la città di Milazzo. Mons. Re legge la notizia sulla Gazzetta del Sud e subito scrive a mons. Carpino, assessore della Congregazione Concistoriale  ricordandogli che Lipari è, per fondazione, la quinta diocesi della Sicilia che senso avrebbe avuto, dopo diciotto secoli gloriosi chiamarla “diocesi di Milazzo”? E la risposta del prelato romano fu allora rassicurante.

Quando morirà all’inizio del 1963 sembrò che un’epoca si fosse chiusa per le Eolie. Un’epoca, con i suoi drammi ed i suoi problemi, vissuta nell’austerità. Ora se ne apriva un’altra completamente diversa e non era certo l’austerità la sua cifra.

L'ultimo viaggio a Lipari di Mons. Re

Gli ultimi vescovi di Lipari

Il 21 marzo gli successe  mons. Salvatore Nicolosi da Pedara che  il 23 giugno faceva il suo solenne ingresso in diocesi.  Mons. Nicolosi riprense l’antico progetto di mons. Ideo di costruire una Cattedrale nella città bassa vicino al palazzo vescovile. Fece stendere il progetto completo di locali parrocchiali e riuscì ad ottenere anche un finanziamento dal Governo. Ma la Sovrintendenza aveva vincolato tutta l’area come “zona archeologica” perché proprio nell’area dove si voleva costruire vi erano le terme romane, più volte dissepolte e poi sempre risepolte.

Il 18 giugno 1970 mons. Nicolosi  verrà trasferito a Noto anche se resterà Amministratore apostolico di Lipari fino all’1 novembre 1972. Quando va via nessuno sa che sarebbe stato l’ultimo vescovo di Lipari. Infatti l’1 novembre 1972 verrà sostituito da Mons. Salvatore Di Salvo col titolo però di Amministratore apostolico che rimarrà a Lipari fino al 10 dicembre 1976. Il 10 dicembre  1977 mons. Ignazio Cannavò, Arcivescovo di Messina,  viene nominato anche vescovo di Lipari, ed il 16 novembre 1981 sarà  mons. Domenico Amoroso, vescovo ausiliare di Messina, a venire assegnato alla diocesi di Lipari.

Il Vescovo Nicolosi inaugura reparto ospedale

Il fatto che negli ultimi anni si avvicendassero nomine che tendevano ad evitare che la diocesi di Lipari avesse un vescovo proprio, faceva presagire quello che il 30 settembre sarebbe divenuta una realtà, quando l’Arcivescovo di Messina, mons. Cannavò diede esecuzione al Decreto di unificazione della diocesi di Lipari con quella di Messina  e con la Prelatura di S. Lucia del Mela.

Finiva così la storia millenaria dell’autonomia di una diocesi.



[1] A.Lo Cascio,  Mons. Bernarsino Sal. Re, op. cit., pag. 161.

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Mons. Cannavò

Il turismo ed oltre il turismo negli anni 70

 

La vocazione turistica delle singole isole

Alla fine di questa convulsa fase di sviluppo, intorno alla metà degli anni 80, come si  qualificano le diverse isole nei riguardi del turismo? Cominciamo da Lipari che richiama circa il 50% dei flussi che si dirigono alle Eolie. Lipari attira nel suo territorio due tipi di turismo: sia quello di tipo residenziale amante della natura e della cultura ma che non riesce a rinunciare alle opportunità offerte dalla civiltà urbana anche se qui percepita in misura ridotta; sia quello di transito dove l’isola svolge la funzione di centro logistico e di smistamento per escursioni nelle altre isole dell’arcipelago. Il risultato è stato che Lipari ha dedicato molto del suo territorio sia agli alloggi che ai servizi privati e pubblici e questo ha inciso profondamente sul paesaggio. All’inizio degli anni 80 il turismo costituiva la componente più importante dell’organizzazione dell’isola ma non la sola. Infatti a Lipari si avvertiva l’importanza delle cave di pomice e della pesca.

Vulcano. Il villaggio francese all'inizio degli anni 50

Cosa che non esisteva a Vulcano dove tutta l’organizzazione economica ruotava introno al turismo. Un turismo soprattutto residenziale, da seconda casa ed in quegli anni furono molti i borghesi siciliani che comperarono un alloggio o fra il verde di Vulcanello, o lungo la spiaggia di Ponente, o sull’altopiano di Lentìa. A questo turismo residenziale si aggiungeva una sorta di turismo pendolare nelle domeniche e giorni festivi di gente che dalla costa tirrenica veniva a trascorrere una giornata nell’isola spalmandosi il fango sulla pelle e camminando avanti e dietro per le spiagge ostentandolo come un cimelio. Vulcano, l’isola selvaggia della Magnani, a distanza di pochi decenni si qualifica come l’isola dell’improvvisazione e della speculazione per eccellenza che avrà anche portato benessere alla popolazione locale ma con uno spreco di risorse naturali ed ambientali veramente impressionante. Così all’inizio degli anni 80 a Vulcano Porto si concentrano caratteri che non sono certo quelli di un turismo naturalistico e di qualità: abbondanza di cemento, rumori e traffico, scempi paesaggistici. A Vulcano, - scrive Raffa – per costruire ed aprire piste, sono state sventrate formazioni di zolfo e di allume; sono stati distrutti o asportati prodotti vulcanici caratteristici, come le ‘ bombe a crosta di pane’, sono state spianate e sbriciolate rocce di forme particolari o è stato sbarrato l’accesso che vi conduce, come per la ‘Valle dei Mostri’ nella penisoletta di Vulcanello; si è costruito fin sul demanio marittimo”[1].

Anna Magnani in una scena del film Vulcano

Eppure nonostante questo, in quegli anni, proprio Vulcano poteva vantare di raccogliere una fetta cospicua, il 25%, dei flussi delle Eolie.

Stromboli invece veniva al terzo posto con il 13 %. E’ un centro turistico residenziale ma qui il paesaggio non ha subito, in quegli anni, violente trasformazioni. Naturalmente non mancano anche qui improvvisazione, abusivismo, speculazioni ma proprio il grande patrimonio edilizio abbandonato – come abbiamo sottolineato - dagli isolani in fuga sul finire degli anni ’40 ha frenato il proliferare di nuove costruzioni. Anche a Stromboli ormai il turismo è tutto anche se c’è da dire che non sono stati opportunamente sfruttati, con centri di interesse organizzati, né la storia del vulcano con i suoi fenomeni, né i luoghi immortalati da Rossellini e dalla Bergaman. L’attenzione al turismo più che volta a promuovere servizi culturali era diretta soprattutto alla ricettività ed alla ristorazione. 

A Panarea, invece, gli abitanti sono rimasti per lungo tempo spettatori dello sviluppo turistico dell’isola affidato appunto all’intraprendenza di persone venute da fuori e soprattutto, come abbiamo detto, dal nord Italia. A partire dagli anni ’60 sono stati infatti i nuovi proprietari delle seconde case  a dettare le linee di gestione del territorio, tese alla “conservazione” dell’integrità della natura, requisito indispensabile per il loro soggiorno, arrivando persino ad osteggiare l’introduzione di servizi importanti – soprattutto per chi nell’isola doveva viversi tutto l’anno – e cioè la luce elettrica ed il telefono.

A Salina, il turismo, benché si sia manifestato solo a partire dagli anni 70, sul finire degli anni 70 e l’inizio degli anni 80 ha mostrato di poter diventare un polo di attrazione determinante accentuando la sua qualità di “isola verde” una immagine che ormai né Vulcano, né Lipari potevano più offrire. E certamente l’esempio proprio di queste isole ha prodotto nella consapevolezza dei salinari un netto cambio di prospettiva nei confronti di certe tendenze, che come abbiamo visto, pure a metà degli anni 70 si erano cominciate e manifestare nell’isola.

La scelta di un turismo che tenesse conto dell’ambiente naturale con una tendenza all’edilizia turistica “sparsa” e non “concentrata” in voluminosi impianti, si è evidenziata in particolare nell’iniziativa dell’agriturismo che in quegli anni si propose a Malfa con buoni risultati. A Salina si può dire che il turismo ha avuto un effetto meno stravolgente sull’agricoltura. Non è mancato anche qui un certo esodo agricolo, ma l’intreccio fra la crescente domanda turistica con il rilancio della malvasia ha sollecitato un miglioramento ed incremento della cultura della vite.

Ma se la vocazione turistica a Salina seppure tardiva si manifesta molto veloce dimostrando non solo una volontà di recupero ma anche una capacità di saper fare tesoro degli errori degli altri, in quegli anni Filicudi ed ancora più Alicudi rimangono ai margini del fatto turistico assorbendo rispettivamente l’1,3% e lo 0,2% del flusso nell’arcipelago. E questo malgrado il tentativo di farne luogo di soggiorno obbligato per i presunti mafiosi fosse fallito e l’evento della rivolta avesse destato una certa curiosità ed attenzione.

Avrà influito certamente la loro perifericità che ha scoraggiato l’intervento di investitori forestieri e così si è dovuto aspettare che maturassero nei locali la cultura e le risorse per fare degli investimento nelle attività ricettive e nella ristorazione.

Anche qui, come per Panarea, hanno svolto un certo ruolo turisti che hanno cercato di imporre le loro logiche elitarie calando le loro esigenze su quelle della popolazione locale ed in qualche modo condizionandola. 

Le altre risorse: l'inustria della pomice

Di tutti i settori economici del territorio comunale di Lipari, sul finire degli anni 70,  quello che è in forte crescita insieme al turismo ed all’industria della pomice,  è il settore dell’edilizia coerentemente con una prospettiva di turismo basata sulle costruzioni e le speculazioni.  Le imprese locali del settore erano a metà degli anni settanta 23 con 150 dipendenti contro le 10 imprese edilizie non locali con 120 dipendenti;  se ci riferiamo a Vulcano la maggior parte degli imprenditori che operavano nell’isola importavano mano d’opera dalla Sicilia,[2] Per l’edilizia a cominciare da quella abusiva il turismo ha fatto da volano, come anche per il commercio ed i servizi[3]. Nessuna influenza invece il turismo ha avuto sull’industria della pomice, a meno di fare riferimento al prodotto adoperato nell’edilizia locale soprattutto con la fabbricazione di blocchi per le costruzioni, che comunque rappresentava una percentuale minima rispetto alle centinaia di migliaia di tonnellate esportate.

A metà degli anni 70 alla lavorazione della pomice si dedicavano la Pumex spa di Canneto, la Italpomice di Acquacalda e la Cooperativa San Cristoforo di Canneto. Le prime due lavoravano per il 75% circa per l’esportazione, mentre la cooperativa si occupava solo di produzione. La Pumex era sorta nel 1958 dalla graduale fusione di diversi gruppi imprenditoriali che nel passato avevano concessioni per lo sfruttamento del giacimento. La Italpomice, che sfruttava le cave di Acquacalda, era stata costituita nel 1956 dal tedesco H. Leonholdt, dopo che la famiglia Saltalamacchia cedette cave  e impianti di lavorazione.

In alto la Bergman in una delle scene drammatiche e conclusive del film "Sreomboli, terra di Dio". Qui sopra la locandina del film.

Dopo la crisi della prima guerra mondiale il commercio ebbe una ripresa nel 1922 con 27.221 tonnellate di materiale esportato e un andamento favorevole, per il crescente impiego nell’edilizia. Questo fino al 1940 quando la produzione fu di 41.801 tonnellate.

Nel secondo conflitto mondiale  l’industria della pomice subì la stessa sorte delle altre industrie.

Agli inizi degli anni 50 l’esportazione si intensificò e nel 1953 si raggiunsero le 114.840 tonnellate pur essendo allora caratterizzata la produzione da modeste aziende individuali che operavano con mezzi tecnologici e impianti rudimentali. Cominciò allora un lento processo di aggregazione nella Pumex delle aziende Th. Ferlazzo, F. La Cava, Eolpomice e Angelo D’Ambra.

Nel 1969 si esportarono 496.999 t di pomice di varie qualità. Cioè la produzione in sedici anni si era pressoché quadruplicata sia per miglioramenti produttivi sia per la ricerca di nuove strade commerciali. Fra il 1969 ed il 1976 la produzione avrà degli alti e bassi oscillando fra le circa 600 mila tonnellate del 1972 e le poco più di 200 mila del 1975. In questi anni cambiano anche i mercati di esportazione  e nel 1976 l’area del mercato comune europeo soppianta gli Usa come principali importatori della pomice di Lipari mentre al terzo posto si attestano sempre i paesi africani. Sulla riduzione delle importazioni dagli Usa  ha influito la crisi internazionale di quel periodo ma anche la concorrenza della pomice greca che era favorita sia sul piano fiscale che su quello del costo della manodopera.

Nel 1977 lavoravano nell’industria della pomice 226 persone la grande maggioranza nella Pumex: 186 contro i 29 dell’Italpomice  e gli 11 della Cooperativa S. Cristoforo. Altre 250 persone erano addetti ad attività complementari. 

  

Ma c’era un problema che immediatamente non venne avvertito. Era cambiato il procedimento di estrazione per lo sfruttamento dei giacimenti.  In passato l’estrazione avveniva a cava, a taglia e in galleria. L’estrazione a cava consisteva nel praticare ampie buche nel terreno, entro un’area più convenientemente sfruttabile.  L′estrazione “a taglia” veniva praticata in superficie, a cielo aperto, per la produzione dei materiali pomicei più comuni e di minor valore commerciale quali, ad esempio, i “lapilli”, pomice ricca di impurità. I cosiddetti “tagliaroli”, coordinati dal capo-taglia, scalfivano la montagna sino a realizzare tre o quattro buche profonde un paio di metri , poste l′una accanto all′altra. Si formava così un grande “ritaglio” di roccia che, sfruttando la naturale pendenza del terreno, veniva fatto “precipitare” verso il basso. Il colpo d′asta decisivo veniva inflitto dal capo-taglia, il più esperto nel riconoscere i punti deboli della roccia e l′esatto momento del crollo definitivo. L’estrazione “in galleria” infine veniva praticata da cavaioli specializzati che, attraverso gallerie, si spingevano all’interno dei giacimenti.

Ora invece il sistema di scavo veniva effettuato attaccando il giacimento per piani orizzontali, dall’alto verso il basso, con ruspe, che spingono il materiale in tramogge ricavate nel corpo della montagna stessa e dal cui fondo, attraverso apposite bocchette di scarico, l’escavato precipitava su un nastro trasportatore che lo convogliava ai canali di produzione.

Certamente questo metodo di lavoro riduceva i rischi di infortuni rispetto a quando si lavorava con picconi e zappe di ferro operando in cunicoli o gallerie o provocando degli smottamenti, ma l’impatto ambientale era di molto più rilevante. I bulldozers operando dall’alto verso il basso affettavano la montagna come un cosciotto di prosciutto cambiandole completamente fisionomia e, a lungo andare, questa attività non poteva non entrare in conflitto con un territorio che voleva sviluppare la sua vocazione turistica, soprattutto se questo turismo doveva essere di tipo naturalistico e legato, per buona parte alla vicenda dei vulcani[4].

E il termalismo?

Un rapporto virtuoso fra turismo e termalismo è sempre stato nelle aspirazioni degli eoliani ma questo processo non si è mai potuto attuare pienamente.

Per quanto riguarda le Terme di San Calogero[5], dopo la gestione Mancuso lo stabilimento è passato nelle disponibilità del Comune che lo gestiva attraverso l’ufficio Ragioneria. Funzionava per stagioni termali di 92 giorni che andavano dall’1 luglio al 30 settembre e vi lavoravano 4-5 persone. Lo stabilimento continuava ad essere  carente di luce elettrica e telefono che verranno istallati solo nel 1968. La strada di collegamento con la frazione di Pianoconte  verrà completata nel corso del 1964.

Mancava un adeguato impianto di smaltimento reflui e l’acqua corrente per usi umani.

Nel corso degli anni ’60 i pazienti curati durante la stagione estiva si aggiravano intorno ai 150 che era il massimo che lo stabilimento poteva ospitare nelle camere a disposizione. Malgrado i rilievi avanzati dal medico-sanitario il Comune non operava alcun intervento di riqualificazione mentre l’assistenza si rilevava insufficiente, il telefono non funzionava e il trattamento di cucina risultava pessimo. E sarà proprio il peggiorare delle condizioni igienico sanitario che a metà degli anni ’70 porterà alla chiusura delle terme.

Giustamente Pino La Greca osserva che più che una chiusura si tratta di un abbandono infatti l’impianto viene utilizzato per alcuni anni come bivacco da parte dei turisti e dopo il 1978 l’Amministrazione ci collocherà i terremotati.

Nel 1983 l’Assessore al Turismo della Regione Siciliana firma il decreto di finanziamento per l’importo di un miliardo. Si decide di dare il via ai lavori malgrado la somma sia insufficiente e la portata dell’acqua della fonte è di 25 litri/minuto mentre era preventivata una portata di 104 litri/minuto. La nuova costruzione stravolge completamente l’antico edificio. Quando nel 1994 i lavori verranno consegnati l’Amministrazione comunale  scopre che per potere diventare operativo l’impianto ha bisogno di tutta una serie di importanti supporti ma soprattutto ha bisogno di conoscere su quale volume di acqua termale si può far conto. 

L’altro termalismo operante nelle Eolie e molto utilizzato, a partire dagli anni 50 - anche se privo di ogni  assistenza e controllo non solo medico ma anche di natura igienica - è quello dei fanghi di Vulcano a cui si accompagnano le fumarole ed il mare che bolle. Fin dall’agosto del 1957 furono richieste concessioni per lo sfruttamento delle acque termali. Ma gli interventi operati dalla ditta Castrogiovanni fra il 1957 ed il 1965 produssero solo una devastazione del territorio nella zona di Porto Levante senza arrivare a nessun risultato utile. Nel 1970 voleva provarci la società Hephaistos ma scatenò una tale reazione che non se ne fece niente. Qualche tentativo di organizzarne in qualche modo l’utilizzo è stato avviato a partire dal 1998, anche qui con forti resistenze da parte di chi voleva che la fruizione rimanesse libera.

L'agricoltura e la pesca

Più volte abbiamo detto che l’agricoltura, che aveva rappresentato in passato l’attività forte dell’arcipelago,  già nel 1950 era ridotta ad una attività praticamente marginale salvo forse per l’isola di Salina. La coltura della vite, importante per la produzione  del vino “malvasia” e dell’”uva passa” aveva subìto il tracollo maggiore con la conseguente scomparsa di oltre il 50% delle aziende prevalentemente viticole ed una riduzione della coltura che nel 1970 arriverà a 210 ha.[6]

“L’agricoltura eoliana – scriveva  nel 1979 Carmelo Cavallaro – si trova in grave dissesto; pur se il carico umano gravante sulle campagne è diminuito notevolmente in questi ultimi anni, esso deve però essere considerato la causa dell’attuale crisi, determinata, salvo rare eccezioni, dal frazionamento eccessivo della proprietà fondiaria; dall’indirizzo economico delle aziende agricole basate sull’autarchia familiare e quindi su culture non adatte ai terreni; dalla limitata possibilità di lavorazioni meccaniche a causa della morfologia dei terreni; della mancanza di organizzazione commerciale per la trasformazione dei prodotti e dall’eccessivo carico fiscale. A queste cause  si aggiunga il miraggio dell’attività turistica e di sicuri guadagni che ha indirizzato ulteriore manodopera verso lavori meno faticosi”[7].

Così il turismo che poteva essere il volano per il rilancio di produzioni di pregio come la malvasia, la passolina ed il cappero, nella versione speculativa che le Eolie hanno conosciuto a partire  dagli  anni 60, ha finito col dare il colpo di grazia fatale ad un settore in crisi. Dovranno passare diversi anni perché si comincia a ragionare in termini di sinergia fra il turismo e l’agricoltura. Comunque nel 1974 la “Malvasia delle Lipari” diventa doc.

Il turismo certamente ha stimolato la pesca tanto che il naviglio complessivamente è aumentato di 99 unità passando dalle 359 del 1963 alle 458 del 1979. Di queste 458 unità da pesca – barche remo veliche, moto barche  e moto pesca – 281 erano concentrate a Lipari, 100 a Salina, 45 a Stromboli, 23 a Panarea e solo 9 a Filicudi. A Lipari erano concentrati anche la gran parte di pescatori: 975 su  1.033 iscritti nelle apposite liste.

Visto che nel 1954 gli iscritti dell’arcipelago erano solo 235 si potrebbe parlare di un incremento notevole di attività. Probabilmente questa crescita però non è dovuta solo al turismo ma anche, osserva Cavallaro, alla facilità di potere usufruire di vantaggi assistenziali e previdenziali. Comunque rimane il fatto che il “consumo locale è aumentato, in particolar modo nel periodo estivo, per la richiesta  dei gestori di alberghi, locali pubblici della ristorazione  e dai forestieri soggiornanti in case private[8]”.

Questo incremento di consumo e di produzione aveva portato, nel corso degli anni 70, ad un tentativo di autogestione fra i pescatori promuovendo una cooperativa che gestiva il centro ittico di raccolta e smistamento. L’impianto ricettivo accoglieva il pescato dei cooperatori in alcuni locali di proprietà comunale a Marina corta. Il centro ittico contrattava il pescato con i commercianti al dettaglio e con gli incettatori che provvedevano a collocare il prodotto sui mercati di Milazzo, Messina e Palermo. I locali erano inadeguati ad moderno centro di raccolta e fra i pescatori non era matura la cultura della cooperazione. C’era sempre qualcuno che cercava di socializzare le perdite e di privatizzare i profitti. E così alla lunga la cooperativa dovette chiudere.

Proprio fra il 1967 e il 1970 un allarme veniva lanciato dall’Istituto di Zoologia dell’Università di Messina che costatava il progressivo e preoccupante depauperamento dei fondali di gran parte delle isole.  La responsabilità veniva attribuita alla pesca di frodo , esercitata in alcune zone su larga scala per inefficienza degli organi di vigilanza e alla pesca sportiva subacquea accusata di causare il progressivo allontanamento delle specie  verso zone di maggiore profondità.

Che questa fosse una preoccupazione molto presente lo dimostra la polemica che accompagnò l’organizzazione del IX Campionato di pesca subacquea organizzato nelle Eolie dal 5 al 10 agosto 1969 e che interessò anche giornali nazionali come il Corriere della sera e regionali come il Giornale di Sicilia. La candidatura delle Eolie era stata promossa dalla Azienda turismo delle Isole Eolie che pensava al grande ritorno pubblicitario che l’arcipelago avrebbe avuto visto inoltre che al campionato si era abbinato anche un rally nautico. A questa iniziativa si contrappose un “Comitato per la difesa dell’ambiente delle isole Eolie” costituitosi per l’occasione per iniziativa soprattutto di forestieri che avevano scelto le Eolie come luogo di residenza o di villeggiatura. Il Comitato attraverso lettere a firme di una “cernia bruna” che viveva nei fondali di Panarea, chiedeva che fosse impedita la manifestazione che avrebbe provocato una catacombe di pesci ma anche una distruzione delle loro tane. La manifestazione si svolse lo stesso anche se per la carenza di strutture – porti, banchine, strade, energia elettrica nelle isole minori, mancanza di comunicazioni, punti di rifornimento carburanti,… - essa  attirò numerose critiche ed il Notiziario delle isole Eolie la definì questa candidatura “un atto garibaldino[9].

Una bella cernia bruna

Si cominciò a parlare allora di un parco marino con particolare riferimento a Panarea ed al XIII Convegno nazionale di Italia nostra tenutosi a Roma nel dicembre del 1971 anche di un Parco nazionale delle Isole Eolie per la protezione dell’agricoltura, del mare e dell’ambiente in genere.



[1] A. Raffa, Le trasformazioni ecc., op. cit., pag. 189.

[2] C.Cavallaro, Evoluzione e prospettive della regione turistica…, op. cit., pag. 59.

[3] Tra il 1951 ed il 1971 l’edilizia è passata dal 5,2% al 14,3%, il commercio dal 5,8% al 12,5%, i servizi hanno raggiunto il 10,1%. Pressocché stazionaria l’industria e la pubblica amministrazione, in forte calo l’agricoltura dal 48,3% al 18,5%. In A. Raffa, La trasformazione dell’ambiente naturale…, op. cit., pag. 185.

[4] Nel dicembre del 2000 le isole Eolie sono Patrimonio dell’Umanità, inserite dall’Unesco nell’Heritage List con la seguente motivazione: “I peculiari aspetti vulcanici delle Isole rappresentano in maniera esemplare l’oggetto degli studi della vulcanologia mondiale. Grazie  alle ricerche avviate nel XVIII secolo, le isole hanno consentito l’approfondimento dei due tipi di eruzione – vulcaniana e stromboliana – e la trattazione dei temi più importanti della vulcanologia e geologia moderne contribuendo alla formazione di una classe di scienziati in oltre 200 anni di ricerche. Le isole continuano ancora oggi ad essere un ricco terreno di studi e continui processi che ancora stanno mutando l’aspetto del paesaggio e la composizione geologica dell’arcipelago”-

[5] Anche per questa parte continuiamo a fare riferimento al G. La Greca, Le Terme di San Calogero, op. cit. , pp.89 e ss.

[6] C. Cavallaro, Le recenti modificazioni dell’attività agricola e della pesca nelle isole Eolie., in “Annali della Facoltà di Economia e Commercio” dell’Università di Messina, n.2 del 1979.

[7] Idem, pag. 15.

[8] Idem, pag. 25.

[9] Il Notiziario delle isole Eolie, agosto settembre 1969.

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Salvare la

La rivolta di Filicudi

 

Filicudi, un’isola “trascurata”

Abbiamo visto che Filicudi, insieme naturalmente ad Alicudi, è l’isola che quando ha cominciato a svilupparsi il turismo nell’arcipelago è parsa la più trascurata. Non presentavano l’attrazione dei fenomeni vulcanici e non erano su una rotta così battuta come quella che dalla Sicilia tirrenica porta a Napoli.

Spallanzani scrive che nel 1788 l’isola aveva 680 abitanti mentre nel 1861 ne contava 2025 e nel 1901 1530. Al censimento del 1931 gli abitanti erano 1094 ed il 50% viveva in case sparse ed i rimanenti in agglomerati nei centri di Filicudi Pecorini, Rocca di Ciauli e Valle Chiesa. Nel 1971 a questi nuclei bisognava aggiunger quelli di Filicudi Porto e Canale mentre l’emigrazione crescente aveva determinato lungo il terrazzamento di Seccagni e Zucco Grande uno stato pressoché totale di abbandono. Quasi analoghe situazioni si riscontravano nelle località di Valle Chiesa, Rocca di Ciauli e Pecorini.

Il numero di emigranti tra il 1890 e il 1961 è stato di 920 unità. In un primo tempo l’emigrazione era diretta verso l’America ma a partire dal 1912 e soprattutto dopo il secondo dopoguerra si volse verso l’Australia. Ed è proprio a causa dell’emigrazione che  vi è stato l’abbandono delle culture, dove una volta vi erano vigneti che fornivano uve eccellenti. Così se nel passato si producevano 3-4 mila ettolitri di vino, ora, a fine anni 60 non si superavano i 250-300 ettolitri. Così è anche per l’olio per il quale si è passarti dai 1900 quintali del 1930 ai 42,5 di fine anni 60. In regresso anche la produzione del cappero  dai 900-1000 quintali l’anno del 193 ai 100.120 q. di fine anni 60. Trascurabile la produzione di cereali.

Sul finire degli anni 60 ovunque si notavano abitazioni abbandonate e lasciate incustodite. La maggior parte della popolazione viveva delle rimesse dai congiunti emigrati e per il resto si adattava a qualunque mestiere.

Qualche risorsa veniva dalla pesca giacchè la fauna ittica era abbondante e ricca di qualità. Di particolare pregio le aragoste anche se sul finire degli anni 60 la loro pesca manifestava una certa flessione. La maggior parte del pescato veniva esportato.

L’isola all’inizio degli anni 70

Prima guida alle Eolie

Alla fine degli anni 60 Filicudi contava solo strade mulattiere che collegavano i vari abitati. Le comunicazioni con le altre isole dell’arcipelago e la Sicilia venivano effettuate con corse trisettimanali da piroscafi della Navisarma e, nel periodo estivo, più frequentemente con motovelieri e barche a motore. Sul finire degli anni 60 fu avviato un servizio di aliscafi che in estate era trisettimanale ma nel resto dell’anno risultava spesso aleatorio.

Quanto al turismo l’organizzazione di Connaisance du Monde avviò all’inizio degli anni 50 molti soci interessati alle pesca subacquea verso Filicudi.  Col tempo sorsero due alberghi, uno a Filicudi Porto ed uno a Filicudi Pecorini, e furono attrezzati circa 50 posti letto in case private. Questa nuova attività influì positivamente sull’economia dell’isola anche se il movimento turistico rimase complessivamente modesto. Anzi nel corso degli anni 60 si era registrata una sensibile flessione rispetto ai livelli raggiunti nella seconda metà del decennio precedente[1].

Questa era la condizione di Filicudi quando il 26 maggio del 1971 si verificò quella che fu chiamata “la rivolta di Filicudi”[2] contro la decisione di confinare nell’isola dei presunti mafiosi.

Quel 26 maggio 1971

La mattina del 26 maggio è convocato a Filicudi il Consiglio comunale proprio per discutere di questo problema. All’alba sbarcano a Pecorini con una speciale corsa di aliscafo il Sindaco  e diciotto dei trenta Consiglieri. La riunione si tiene nella stanzetta a pino terra dell’albergo Sirena.

Il Sindaco spiega come è nata la vicenda e come l’amministrazione è impegnata a far rientrare il provvedimento. Il Consiglio non dura molto perché non c’è molto da dire e così alle 9,30 il Sindaco ed una parte dei consiglieri riprendono l’aliscafo e tornano a Lipari.

Rimangono sull’isola alcuni consiglieri che temono che la situazione precipiti da un momento all’altro. Intanto alle 10 con un altro aliscafo arrivano da Lipari tanti altri cittadini venuti a dare una mano a chi era già sul posto. Altra gente arriva da Salina e dalle isole più lontane con barche da pesca.

Vitale arriva a Filicudiper discutere con la popolazione.

Che quello sia il giorno fatidico lo si vede subito dopo quando sbarcano a Filicudi porto cinquanta poliziotti in assetto antisommossa con caschi, fucili, manganelli, lacrimogeni. Nessuno si oppone, ma tutta l’isola si mette in allarme ed infatti poco dopo sbarcano anche una quindicina di “presunti mafiosi”. Le campane della chiesa di Santo Stefano suonano a distesa. I filicudesi e la gente venuta da Lipari si avviano correndo lungo i pendii rocciosi verso il Porto. La truppa e i “mafiosi” si sono radunati sotto il tetto incompleto dell’albergo in costruzione mentre la gente si raccoglie vicino alla stradella che conduce a Canale e comincia a rumoreggiare scandendo con le parole il proprio dissenso.

Ironia strana – commenta l’articolista anonimo del Notiziario – ; questo grosso complesso turistico che dovrebbe avviare Filicudi ad un migliore avvenire viene costruito con il contributo dello Stato – mutuo agevolato della Cassa per il Mezzogiorno – e i primi gratuiti ospiti sono dei ‘presunti mafiosi’. Gentile pensiero e significativa premessa per le fortune turistiche dell’albergo dell’isola[3].”

L’ordine di “caricare”

E’ a questo punto che dalla parte della truppa arriva l’ordine ai militari di assestarsi pronti alla carica contro la folla. Caricare chi e perchè? La gente inerme che protesta solo con la propria voce? Per evitare il possibile scontro fisico la gente comincia a creare con tavole, sedie, masserizie e quant’altro una barricata quasi simbolica. Improvvisamente gli animi si placano e si perviene ad una tacita tregua. I funzionari invitano il proprietario di un piccolo ristorante vicino al porto ad aprire il locale e lì si asserragliano le truppe e i mafiosi.

La manifestazione di Lipari in appoggio ai filicudari.

Così gli uni nella piccola sala del ristorante gli altri al di là della barricata passano due giorni e due notti con la protesta tenuta sotto controllo ed anche con alcuni momenti in cui si fraternizza offrendo ai militari i viveri che erano giunti da Lipari in grande abbondanza. Le notti erano lunghe da far passare con i fuochi accesi, le ombre vaganti come fantasmi, la gente addormentata ai margini della strada.

I contatti col Sindaco erano tenuti attraverso l’unico telefono che si trovava a Canale. In alto sopra il Porto.

Arriva così l’alba del 28 maggio. Verso le 8 e mezza si ferma in rada una nave bianca  zeppa di militari e poco dopo arriva un traghetto con altra truppa e tanti mezzi da sbarco, idranti, camions. I camions? Ma dove devono andare se a Filicudi non ci sono strade? E poi contro chi devono combatte?

Abbandonare Filicudi!

Gli abitanti di Filicudi decidono di abbandonare l'isola come forma di protesta.

Era chiaro. Chi aveva ordinato quella operazione non conosceva Filicudi, mancava di buonsenso e non aveva il senso del ridicolo. Se si voleva usare la forza non bastavano i carabinieri di Filicudi?

Di fronte a tanta stupida arroganza non rimaneva che una cosa da fare: abbandonare tutti Filicudi. E fu la decisione che venne presa con dignità, orgoglio e coraggio. I filicudesi raccolgono pochi indumenti, sprangano le porte delle loro case e si imbarcano sui mezzi che erano in porto alla volta di Lipari e tutto questo sotto gli sguardi attoniti e stupefatti dei funzionari, dei militari e dei “presunti mafiosi”.

E quando i filicudesi giungono a Lipari si scatena una gara di solidarietà ad accoglierli, rifocillarli, assisterli.

Lo stesso giorno la notizia della protesta pacifica e coraggiosa di tutti gli abitanti di un’isola si diffuse in tutto il mondo ed il Governo non poté fare altro che revocare il provvedimento. Lo confermò in una riunione a Palermo il Presidente del Consiglio Emilio Colombo ricevendo il Sindaco Vitale e una delegazione del comitato Pro Filicudi.

Il libro di Giuseppe La Greca

Nel 2011 Giuseppe La Greca ha pubblicato per le edizioni del Centro Studi Eoliano  il libro “Le giornate di Filicudi. 26 maggio 1971, la prima rivolta contro la mafia in Sicilia” con una prefazione di Pietro Grasso allora Procuratore Nazionale Antimafia. La ricerca si caratterizza per un inquadramento generale nel fenomeno mafioso ricollegandosi all’omicidio Scaglione ed all’uccisione nel 1971 di Walter Tobagi e considerando il confino – non solo alle Eolie ma anche in altre isole come Linosa, Pantelleria, le Egadi – e la sua validità di strumento per combattere questo fenomeno. Gli eventi vengono raccontati attraverso i servizi dei quotidiani che allora si occuparono della vicenda e soprattutto il Corriere della sera, il Messaggero, il Giorno, la Stampa, l’Unità. la Gazzetta del sud ed anche stranieri come lo spagnolo ABC, la rivista Life  il settimanale Panorama, vari servizi radiofonici e televisivi (in particolare quello di TV7 diretta all’epoca da Emilio Fede). Oltre naturalmente alle testimonianze dell’epoca – in particolare Renato de Pasquale e il Notiziario delle Isole Eolie – e quelli di testimoni che hanno rievocato l’evento.

La ricerca di La Greca si conclude con un capitolo dedicato ai mafiosi inviati a Filicudi. Con la consapevolezza della storia che abbiamo vissuto possiamo dire, che diversi di loro, sono stati fra i protagonisti dell’azione mafiosa degli anni che sono seguiti come, ad esempio, Gaetano Badalamenti.



[1] Per questa parte storico-geografica ho fatto riferimento a C.Cavallaro, L’isola di Filicudi, in “Universo”, anno XLVII, n. 6 novembre-dicembre 1967.

[2] Sulla rivolta di Filicudi: La rivolta di Filicudi, in “Il Notiziario delle Isole Eolie”, maggio 1971.; R. De Pasquale, Il mio tempo, op. cit., pp. 106-114.

[3]La rivolta di Filicudi, in “Il Notiziario delle Isole Eolie”, maggio 1971.

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Il successo della rivolta

L'era di Checchino Vitale

 

Il Sindaco Vitale

Una manifestazione al campo sportivo. A destra il Sindaco Checchino Vitale, al centro il segretario comunale Profilio, a sinistra Renato De Pasquale.

Lo sviluppo delle Eolie si intreccia, nel bene e nel male, con il protagonismo di un personaggio, passato nell’immaginario popolare come l’amministratore capace per antonomasia: il Sindaco di Lipari Francesco Vitale detto Checchino. Egli amministrò il Comune  ininterrottamente dal giugno 1952 al 3 luglio 1976 anche se nella vita politica locale aveva fatto la sua comparsa nel periodo fascista essendo stato segretario del partito prima dal 1929 al 1933 e poi, quando ormai gli alleati erano alle porte, nel 1943. Nel parlare di lui ci lasceremo guidare da un altro eoliano, Renato De Pasquale, che con lui ebbe modo  di collaborare ma anche di confrontarsi e di affrontarlo nelle competizioni politiche.[1]

“Il Vitale entra decisamente – scrive De Pasquale – nella scena politica locale con i primi movimenti democratici del dopoguerra, ma egli comincia a tessere il suo impero nel 1952, con le elezioni amministrative di quell’anno e l’investitura alla carica di primo cittadino.

La sua indiscussa personalità – e forse anche precedenti esperienze gerarchiche durante l’era fascista – lo pongono nella condizione ideale per dare alla sua sindacatura un’impronta di prestigio e di comando. Le elezioni del 1952 mi videro schierato in una posizione politica contrapposta a quella di Vitale. C’era in noi giovani, usciti da una lunga dittatura e da una sciagurata guerra, la grande voglia di rinnovamento e di partecipazione alla vita democratica. Di qui la mia scelta e la nostra contestazione ad uno schieramento che consideravamo di stampo conservatore. Non sto a raccontare le tante vicende legate alla strenua battaglia tra le due liste, la nostra “La bilancia” e l’altra “Il Vascelluzzo”. Per una manciata di voti vinse “Il Vascelluzzo”, e fù l’inizio dell’era Vitale.

Passano gli anni, seguono altre elezioni ed altri tentativi di contrapposizione democratica al consolidato potere dello schieramento di maggioranza, con il Vitale rieletto puntualmente, di volta in volta, alla carica di Sindaco. Solo agli inizi degli anni Sessanta, dopo le varie vicende politiche di cui non servirebbe fare la cronaca, ebbi modo di entrare in Amministrazione e quindi di meglio conoscere ( da quell’ideale e ravvicinato osservatorio) il personaggio in tutti i suoi aspetti umani e politici.

Con Vitale Lipari diventa democristiana

Una cerimonia pubblica. Si individuano al centro il Vescovo Mons. Re con la lunga barba bianca, alla sua destra il Sindaco Vitale, sua moglie, don Alfredo Adornato, il guardiano dei cappuccini p. Agostino Lo Cascio da Giardini, Leonida Bongiorno, il maestro Cangemi. ( di Pino Di Giovanni - Il bambino, il terzo da destra sono io. Il primo da destra è il Comandante Mario De Luca, poi mio padre , io piccolino, mia madre, mia zia Lina Di Giovanni, il Direttore Liotta, il Vescovo Mons. RE, il Sindaco Vitale, la moglie, Mons. Adornato, Padre Agostino, il Prof. Leonida Bongiorno, il Preside Megna ( si intravede la testa), il Prof. Cangemi, poi quel ragazzo che guarda verso il bambino sulla sedia è mio cugino Giovanni Paino).

Intanto egli esercitò sempre il mandato col pieno sostegno del Partito che lo aveva espresso, la DC. Seppe inoltre curare e conservare per tant’anni la sua grande popolarità, affidando ai fedelissimi del suo seguito il compito di alimentare l’entusiasmo e la fiducia della gente, che arrivò a considerarlo come il Capo indiscusso e insostituibile.

Vivendo alla luce della sua popolare investitura egli poco si curò, va detto, di dare il giusto risalto alle qualità e all’impegno dei suoi collaboratori, che agli occhi dei più finivano coll’apparire come personaggi secondari, quasi di contorno, ovviamente perdenti al confronto con il primo cittadino. Questo suo atteggiamento non era indubbiamente quello di chi avrebbe potuto e dovuto pensare anche al dopo,  che in ogni vicenda umana è cosa naturale e ineluttabile…

Detto ciò, come non riconoscere al Vitale indiscusse doti di amministratore capace e attento, di abile politico e di grande protagonista nell’opera di ricostruzione e di sviluppo civile e sociale  realizzata durante gli anni del suo governo? Rassegnati a esercitare un ruolo non sempre appagante e poco appariscente, tanti di noi ebbero ugualmente a dare la propria collaborazione, nel rispetto della funzione e della condivisione del comune indirizzo volto a risolvere i tanti grossi problemi del territorio e della gente.

Fare l’elenco delle realizzazioni legate all’era Vitale sarebbe valido pretesto per suffragare la concretezza operativa di quella lunga gestione. Dalla costruzione di nuove strade, alla elettrificazione delle borgate e delle isole minori; dalle tante strutture portuali ( anche se ancor oggi insufficienti e incomplete), ai serbatoi idrici e relative reti di distribuzione; dai plessi scolatici ai nuovi impianti sportivi di Lipari. Senza dimenticare la conquista della doppia corsa della nave per Milazzo e l’istituzione del servizio aliscafi nel 1957. E l’elenco potrebbe continuare. Certo per una comunità territorialmente così vasta e decentrata come la nostra i problemi sono tanti e sono di anno in anno crescenti.

Ma tornando al nostro personaggio, va detto che il Vitale era dotato di tenace perseveranza e si serviva, occorrendo, del suo prestigio politico per ottenere il finanziamento delle opere che via via venivano programmate.

Nei rapporti personali era sicuramente corretto e neppure ai suoi avversari dava a mostrare risentimento o rancore. Almeno all’apparenza. Difficilmente perdeva la calma. Per far valere sempre e comunque le sue scelte, di fronte a posizioni avverse egli preferiva incassare e attendere.

Nell’esercizio della sua funzione di Sindaco era certamente un protagonista indiscusso ma anche un grande accentratore. Durante le sedute del Consiglio Comunale egli si poneva come il solo interlocutore dei Consiglieri presenti, raramente consentendo agli Assessori di fornire dirette risposte su problemi di loro pertinenza.

Era il suo temperamento, e non era facile indurlo ad atteggiamenti diversi e più rispettosi, come legittimamente auspicato dagli stessi suoi collaboratori. Ricordo tuttavia che in occasione dell’insediamento di una nuova Giunta, naturalmente sempre da lui presieduta, riuscimmo a far valere una impostazione nuova della funzione di ciascuno e del rapporto Assessori-Consiglieri.

Un grande accentratore

Costruzione del cosiddetto teatro greco.

Infatti, alla prima seduta del Consiglio ogni componente della Giunta illustrò in aula il programma del proprio assessorato. Fu quella una novità ( e tante altre  nel proseguo riuscimmo a portare avanti) che egli ebbe a subire con malcelata irritazione.

Le riunioni del Consiglio erano allora assai proficue, e il confronto, a volte anche acceso, avveniva – come sempre dovrebbe essere – nella esclusiva contrapposizione di proposte e di idee. Nella sua conduzione politica egli riusciva  ad intrattenere corretti rapporti con le minoranze dalle quali ambiva – e sovente otteneva – condivisioni e consensi. Il che gli serviva a volte per scoraggiare e frenare qualche timida rivolta all’interno del suo stesso schieramento politico.

Ritengo debba essere comunque imputabile a quel periodo, per altri versi ricco di tante realizzazioni, una mancata visione programmatica del territorio e delle sue risorse.

Il Municipio

Capire del perché non si vollero portare avanti gli strumenti urbanistici, più volte elaborati, non è cosa facile, e preferisco non azzardare valutazioni personali o qualsivoglia ipotesi. Certamente, oggi paghiamo le conseguenze di un tale errore, anche perché gli amministratori che si sono succeduti, sempre provvisori e precari nei brevi intervalli fra una crisi e l’altra, non sono riusciti, nonostante i tanti anni trascorsi, a colmare una così grave lacuna…..

In occasione della rivolta di Filicudi - maggio 1971 - egli preferì svolgere un’azione direi istituzionale e burocratica, a differenza di alcuni di noi, suoi collaboratori di Giunta, che decisero di restare con la gente di Filicudi fino al momento dell’esodo dall’isola di tutti i suoi abitanti.

Non voglio dire che egli dal Palazzo non abbia fatto la sua parte, forse anche importante e certamente utile. Probabilmente come Sindaco egli non avrebbe potuto o dovuto fare diversamente. Dubito tuttavia che, senza la strenua rivolta popolare, alla quale ci unimmo sin dal primo momento, si sarebbe ottenuta la revoca del provvedimento governativo [che aveva inviato “mafiosi” a vivere nell’isola e la cancellazione delle Eolie dall'elenco dei luoghi da adibire a soggiorno obbligato]. Ed è anche vero che in quella occasione ( e lo notammo nei giorni che seguirono l'arrivo dei filicudesi a Lipari ) egli visse momenti di difficoltà politica e di manifesta impopolarità, come mai prima gli era capitato.

1974: Un'era si va chiudendo

Nel dicembre del 1974 si tenne a Lipari un importante convegno su “Tutela e sviluppo socio-economico delle Eolie”. Si ebbe in quell'occasione la netta sensazione che l'era Vitale stava per concludersi. Egli probabilmente per primo avvertì il mutare dei tempi e l'insorgere di critici atteggiamenti alla sua politica. Puntuale e commovente la sua difesa a sostegno di una gestione amministrativa mai prima di allora messa in discussione. In quell'occasione gli attacchi più spietati ( ma non furono i soli) gli vennero mossi dai rappresentanti di “Italia Nostra”, che ebbe a denunciare, in assenza di uno strumento urbanistico, i danni perpetrati sul territorio. Il riferimento era particolarmente a Vulcano e alla sua selvaggia cementificazione...

Come nelle previsioni, nel giugno del 1975, si conclude la carriera politica di Checchino Vitale, che malinconicamente rientra nel privato dopo circa cinque lustri di indiscusso protagonismo”.

Che cosa aggiungere a questo “ricordo”? La considerazione che Vitale governò in una fase irripetibile della storia del Paese, nel pieno del potere democristiano e della gestione della Cassa del Mezzogiorno che permisero di fare affluire a Lipari risorse notevoli non sempre sapientemente spese a cominciare, come è stato notato, dal problema dei porti che non solo non furono completati ma  i lavori fatti si rivelarono in parte non adeguati con un forte impatto ambientale che incise indelebilmente sull'immagine delle Eolie. Si pensi a Sottomonastero e Marina Corta.



[1] R. De Pasquale, Momenti . Riflessioni e ricordi, Aldo Natoli Editore, Lipari, 1993

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Italia Nostra

La “scoperta” del turismo

 

Primi i francesi di Connaissance du monde

Il turismo arriva nelle Eolie negli anni 50 ed apre subito una prospettiva nuova di sviluppo per rilanciare una economia in crisi[1]. Nel 1949 il vulcanologo Hourun Tazieff aveva proiettato in Francia ed in Belgio alcune riprese filmate delle isole di Stromboli e Vulcano. Fu l’occasione perché l’Associazione parigina “Connaissance du monde”, che andava alla ricerca di località nuove da proporre ai propri soci, prendesse l’iniziativa di organizzare dei tours per i vulcani italiani. Nel programma “croisière des volcans” si era scelta come località di soggiorno Vulcano da dove sarebbero partite escursioni per Stromboli, Lipari e le altre isole. Prima di Vulcano il programma prevedeva la visita al Vesuvio e dopo, quella conclusiva, all’Etna.

Ma dove alloggiare i turisti? Allora l’intera attrezzatura ricettiva dell’arcipelago era formata da tre locande a Lipari, una a Stromboli ed una a Salina. In tutto 35 posti letto. A Vulcano non c’era niente. Era allora una landa attraente ma senza quasi segno di vita.

Si fece un accordo con un abitante dell’isola che aveva del terreno nella zona di Ponente e si costruì un villaggio modesto, con un minimo di attrezzature ma che fin dal primo anno fece registrare un tale successo da stimolarne l’ampliamento ed il miglioramento.

Stesso problema a Stromboli. Ma qui almeno un punto di riferimento c’era: il parroco di San Vincenzo che conosceva  la disponibilità di molte case di chi negli anni e mesi precedenti era partito per l’Australia o per l’America. Non fu facile convincere la gente che a Stromboli c’era ancora possibilità di vita. Dopo l’effervescenza vulcanica degli anni trenta e quaranta la popolazione non pensava che ad emigrare. Molti erano andati già via, gli altri aspettavano la”chiamata” da amici o parenti. Come non fu facile convincere gli abitanti di Panarea, Filicudi, Alicudi e della stessa Salina.

Ogni isola però trovò il suo pioniere che credette nel turismo e si mise ad operare perché il sogno divenisse realtà.

Su Vulcano e Stromboli l'attenzione maggiore

Sicuramente un contributo importante lo dettero anche i film di Rossellini e della Magnani, Stromboli e Vulcano, è la contesa e la polemica professionale- amorosa che si scatenò fra i protagonisti delle due produzioni. Il messaggio che fu trasmesso al mondo era quello di una realtà ancora selvaggia ed incontaminata ricca di colori e di fascino, ma anche di mistero. Un soggiorno al tempo stesso interessante e riposante.

Nel corso degli anni cinquanta e parte degli anni sessanta furono soprattutto Vulcano e Stromboli ad attrarre l’attenzione. Di Vulcano colpivano le fumarole, il mare che bolliva, i faraglioni che sembravano ergersi da profondità notevoli, i cristalli di zolfo. Di Stromboli l’attività vulcanica con gli scoppi pirotecnici che illuminavano la notte, il sordo brontolio del cratere, la sciara del fuoco che si poteva ammirare, durante le eruzioni, dalla barca.

Erano motivi che interessavano ed affascinavano scienziati ed uomini di cultura ma anche il pubblico meno colto alla ricerca di emozioni forti o solo amante della natura. E il tutto immerso in una cornice storica, che una visita irrinunciabile al Museo di Lipari, permetteva di cadenzare.

Dal 1950 al 1958, osserva Carmelo Cavallaro, la corrente turistica – quasi esclusivamente per merito di Connaissance du Monde – era prevalentemente formata da stranieri provenienti dalla Francia, dall’Olanda e dal Belgio. A quel tempo una organizzazione universitaria messinese, la Corda frates, prese l’iniziativa di istituire due villaggi, prima a Vulcano e poi a Stromboli, facendovi affluire numerosi studenti di alcune Università centro- settentrionali e straniere. A Stromboli il Club Alpino istituì un rifugio per i propri soci e l’Istituto di Vulcanologia dell’Università di Catania vi attrezzò una sezione.

Grazie all’attività di queste organizzazioni arrivarono molti giovani. E fu allora che cominciò un’azione di propaganda e di incentivazione di organi provinciali e regionali perché si aprissero esercizi alberghieri.

E così dai tre esercizi esistenti in tutto l’arcipelago nel 1949, già nel 1954 se ne contavano 17, ancora di dimensioni modeste, per un complesso di 81 camere e di 150 posti. Le presenze furono di 11.424 turisti negli alberghi e 5 mila in alloggi privati. Privilegiate in questo flusso furono le isole di Vulcano e di Stromboli segno che questo tipo di turismo era non solo attratto dalla natura ma anche dai fenomeni, in qualche modo eccezionali, che questa proponeva. Lipari invece – essendo più attrezzata – ospitò le comitive in transito. Le altre isole parevano poco coinvolte da questo nuovo fenomeno, salvo Panarea la quale attirava, in particolar modo, gruppetti di lombardi.

La seconda metà degli anni 50 fa registrare, nelle isole, un pur modesto segnale di risveglio sociale trainato dai primi proventi dell’attività turistica, da modelli di vita introdotti dai nuovi frequentatori, dalle erogazioni finanziarie degli emigrati in Australia.

Turismo residenziale e cementificazione

Ma se fino a questo momento il flusso che riguarda le Eolie si delinea come un turismo naturalistico ed in certa misura anche culturale, a partire dal 1962 abbiamo una inversione di tendenza. E’ in quell’anno che prende l’avvio la costruzione di nuovi alberghi ma soprattutto comincia, da parte di forestieri, la domanda di terreni e di ruderi per realizzarvi costruzioni. Le richieste maggiori interessano Vulcano e a Vulcanello e sorgono appunto villette e costruzioni in spregio spesso del paesaggio e dell’ambiente. Si tratta di un processo lento ma inesorabile. Nel 1964 nelle isole si possono contare ben 42 esercizi alberghieri con 461 camere e 885 letti, oltre all’offerta in case private che certo supera il migliaio di posti letto. Si registrano, quell’anno, in alberghi 31.897 presenze di cui 12.216 stranieri, mentre si stimano fra le 7 e le 8 mila le presenze in esercizi extralberghieri.

L’epoca del boom economico e delle prime fortune ostentate da una borghesia rampante è anche quella dell’evidenziarsi dello stress delle metropoli e dei ritmi dell’economia e degli affari per cui diventa di moda la ricerca di un mondo lontano dai soliti circuiti turistici e quindi anche “rifugiarsi” alle Eolie.  Così le isole richiamano sempre più un turismo italiano di tipo residenziale che crea il fenomeno delle residenze secondarie che si diffonde , pur in misura diversa, in tutte le isole.

E’ in questo momento che cessa anche l’attività, per mancanza di sostegno e di agevolazioni, delle organizzazioni che avevano promosso le isole e così il flusso degli stranieri va lentamente diminuendo anche se i vuoti vengono ricoperti, come abbiamo detto, da turisti italiani che risultano invece in crescita.

“Non esistendo alcuno strumento urbanistico – osserva Carmelo Cavallaro – durante il ‘miracolo economico nazionale’, le costruzioni crescono disordinatamente, le localizzazioni degli alberghi avvengono senza alcun criterio di analisi territoriale, e l’urbanizzazione dilagante a Vulcano tocca i limiti non soltanto di saturazione ma anche di pericolo. Ci riferiamo alle villette costruite alle pendici di Forgia Vecchia della Fossa di Vulcano. E così si va avanti nel tempo con una serie di problemi assillanti: dalla mancanza di acqua, alla carenza di trasporti, alla insufficienza ed inefficienza di centri di servizio. Aumentano l’urbanizzazione e il flusso turistico, aumenta vertiginosamente il movimento durante le festività, ma le strutture del territorio restano quelle di una volta”[2].

Nel 1974, lungo questa linea di tendenza, gli esercizi alberghieri erano divenuti 55, le camere 1.047, i posti letto 1.992. Diversi gli impianti sempre destinati alla recezione turistica: vi erano  4 campeggi, l’Ostello della gioventù e 168 affittacamere e appartamenti ammobiliati per complessivi 838 posti letto. In particolare gli alberghi erano così distribuiti: 14 a Lipari, 12 a Vulcano, 11 a Stromboli, 9 a Panarea, 6 a Salina, 2 a Filicudi, 1 ad Alicudi.

Il maggior incremento lo hanno avuto Lipari e Vulcano mentre Alicudi e Filicudi, sono state penalizzate dalle comunicazioni. Stromboli, come Panarea, invece sono state caratterizzate da una rilevante ristrutturazione delle abitazioni esistenti, in particolare quelle abbandonate dalla grande emigrazione, creando un mercato della seconda casa. A Stromboli già nel 1950 tre quarti delle abitazioni risultavano deserte;  a Panarea era l’isola più frequentata da milanesi, torinesi, e veneti e si operava in tutte le case e i ruderi sparsi con adattamenti discutibili.

Vulcano sotto il tiro del cemento

L’isola più colpita dal fenomeno della cementificazione è stata però Vulcano dove il paesaggio, ed in particolar modo il tratto di territorio che va dal porto di Levante a Ponente, ha subito una profonda modificazione. Al vigneto e alla vegetazione tipica si sono sostituite costruzioni che non hanno tenuto conto dell’architettura tradizionale. E ancora peggiore si presentava la situazione di Vulcanello dove non era mai esistito alcun insediamento umano. Ciò che a Vulcano favoriva la speculazione era la concentrazione della proprietà.

L’isola di Salina è rimasta invece un po’ ai margini di questo processo passando dai 41 posti letto del 1956 ai 132 del 1974 con una conservazione quasi totale dei beni naturali e paesistici. Non è mancato però anche a Salina un certo flusso turistico che ha trovato accoglienza presso affittacamere ed appartamenti ammobiliati oltre che un  Ostello della Gioventù, il tutto per complessivi 1500 posti letto circa.

Solo le isole di Alicudi e Filicudi, almeno in questa fase, rimanevano indenni da questa “mercificazione” del suolo.

Nel 1974 nelle isole si sono registrate circa 126 mila presenze in esercizi alberghieri e 181 mila circa in esercizi extralberghieri oltre alle miglia di presenze che sfuggono alla rilevazione statistica.

La presenza degli stranieri negli esercizi alberghieri nel 1974 sono state 24.253 e rappresentano il 20,4% delle presenze globali. Questi provengono dalla Germania ( 37,77%), dalla Svizzera (18,15%), dalla Francia (15,68 %), dagli Stati Uniti (4,48%), dall’Austria ( 3,21%)  e la rimanenza (20,71%) da altri stati.

Ma, è bene sottolinearlo, dopo il 1970 è l’espansione delle residenze secondarie l’elemento caratterizzante dello sviluppo turistico del’arcipelago: nuove villette, case, appartamenti, ristrutturazioni e ampliamenti di case esistenti, ruderi che diventano villette.



[1] Nella stesura di questo paragrafo abbiamo fatto riferimento costante a C. Cavallaro, Evoluzione e prospettive della regione turistica delle Isole Eolie, in “Rassegna di Studi Turistici” anno XI, n. 1-2, 1976, gennaio-giugno , pp. 51-64; v. anche C.Cavallaro, Sistema territoriale arcipelago Eolie, Genova 1987.

[2] C. Cavallaro, Evoluzione e prospettive della regione turistica delle Isole Eolie, in “Rassegna di Studi Turistici” anno XI, n. 1-2, 1976, gennaio-giugno , pag. 54

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Ingrid Bergman

Il contributo di Fabio Famularo alla storia delle Eolie della prima metà del 900

 

1. Due considerazioni preliminari: la storiografia eoliana del 900 ed i materiali di riferimento

Prima di entrare nel merito del libro di Fabio Famularo permettetemi alcune considerazioni preliminari per chi affronta la storia delle Eolie del 900.

Prima considerazione. Una storiografia delle Eolie del 900 si può dire che non esista. E’ il problema che mi sono trovato di fronte quando ho scritto “Navigando nella storia delle Eolie” rischiando di andare oltre le colonne d’ercole del 700 che erano quelle alle quali, di fatto, si era fermato Leopoldo Zagami. Così ho dovuto improvvisare cercando di mettere a fuoco i temi nodali ricorrendo ad una documentazione parziale e carente. I temi, visti a volo d’uccello, sono quelli della crisi dell’agricoltura, delle vicende della pomice e della ricerca di un nuovo modello di sviluppo fondato sul turismo; lo scontro sulla proprietà dei terreni pomici feri; il travaglio di Salina e la sua autonomia amministrativa; le opere pubbliche della modernità ( centrale elettrica, rotabili, collegamenti marittimi); le due guerre mondiali; il fascismo e il confino ma soprattutto, trasversale a questi temi, quello della vita quotidiana della gente di Lipari e delle isole minori. Sul novecento il libro “Navigando” non rappresenta un punto di arrivo storiografico ma soltanto un punto di partenza. Fa il punto sulla documentazione esistente e si augura che sproni  giovani e meno giovani a raccogliere e pubblicare documenti e memorie. Fabio Famularo dà un contributo importante, per certi versi fin’ora unico, alla conoscenza della vita quotidiana soprattutto a Stromboli ed alla seconda guerra mondiale nel nostro arcipelago e questo sia col libretto di cui parliamo oggi “I giorni dwella guerra. Quando i tedeschi sbarcarono a Stromboli” e il primo” …e poi Stromboli”. Invece “Il richiamo silenzioso del vulcano” anche se qui è lì ci sono sprazzi di vita locale, appartiene più al genere romanzo (la storia di Giuliano) e “Raccontami di Stromboli” raccoglie una serie di racconti anche se l’ambientazione è sempre  a Stromboli nella prima metà del secolo scorso.

Seconda considerazione. Sul novecento eoliano i materiali di riferimento sono scarsi e sicuramente insufficienti. E questo proprio a cominciare dalle memorie che offrono uno spaccato immediato della vita quotidiana. Oggi possiamo dire paradossalmente che grazie a Marilena Maffei si sa più dell’immaginario degli eoliani della prima metà del 900 che della loro vita reale. Su questo piano oltre a Fabio Famularo mi sembra di potere segnalare solo Renato De Pasquale e le pagine del Notiziario delle Isole Eolie di Salvatore Saltalamacchia prima e Augusto Merlino poi, Arcipelago di Bartolino Famularo, e gli allegati con cui Pino Paino ha arricchito gli otto volumi sulle Eolie dell’arciduca Luigi Salvatore d’Austria.

Ma con Pino Paino forse siamo più in là dell’ambito delle memorie ed entriamo nella casistica della ricerca/documentazione soprattutto con il libro la “Vera storia di Lipari”. In questo settore oltre ai saggi di Iacolino raccolti in “Gente delle Eolie” e il libro “Strade che vai, memorie che trovi” troviamo “Confinati politici e relegati comuni a Lipari” di Leopoldo Zagami, i volumi ed i saggi di Carmelo Cavallaro, il libro “Mercanti di mare” di Saija e Cervellera su Salina e il saggio di Marcello Saija su “La seconda controversia liparitana” nel secondo quaderno del Museo Archeologico, un saggio di Angelo Raffa su Quaderni di Italia Nostra sulla speculazione nelle Eolie nel secondo dopoguerra, i libri di p. Alfredo Adornato, il saggio di p.Agostino da Giardini su Mons. Re ed infine la preziosa produzione di Pino la Greca di questi anni sulle terme di S. Calogero, l’industria della pomice, il confino e infine le giornate di Filicudi.

Un materiale, in genere, di valore e spessore diverso, non sempre passato ad un severo vaglio critico e carente di un lavoro di inquadramento generale che sappia ricondursi ad una lettura della nostra storia.

2.Fabio Famularo e la vita quotidiana di Stromboli della prima metà del 900

Dopo queste due considerazioni di ordine generale vorrei farne altre due a partire dai libri di Fabio Famularo. Il primo relativo alla vita quotidiana di Stromboli nella prima metà del 900. Il secondo riguardante la seconda guerra mondiale a Stromboli e nelle Eolie.

Il libro di Fabio che contiene il maggior numero di notizie sulla Stromboli della prima metà del 900, è “… e poi Stromboli” pubblicato nel 2008 e che parla della vita avventurosa del nonno dell’autore. Diciamo “grosso modo”che il periodo esaminato prende il via dagli anni 25 quando Gaetano fugge da Lipari e dalla sua famiglia ancora ragazzino e si va a stabilire in quest’isola, fino alla seconda metà degli anni 50 quando, come la maggior parte degli Stromboliani, decide di emigrare a New York e di abbandonare Iddu  che si è rivelato inaffidabile. Ma al contrario di tanti suoi compaesani Gaetano a New York rimane poco, solo due anni, poi, con la moglie Maria decide di fare ritorno al suo vulcano giusto per fare i conti con una realtà profondamente cambiata e con le prime avvisaglie del turismo.  Quella che emerge in queste pagine è’ la Stromboli dove la gente lavora duramente la terra sfruttandone ogni più piccolo fazzoletto, ma anche la Stromboli dei pescatori : persone coraggiose che si avventurano in mare cercando di interpretare l’andamento del tempo, la Stromboli delle feste serali nelle case spesso in competizione fra loro.. E’ la Stromboli della realizzazione di alcune importanti opere come il nuovo cimitero ai lavori del quale partecipa Gaetano, la costruzione della chiesa di San Bartolomeo, ma anche dell’eruzione dell’11 settembre 1930 una delle più drammatiche che rompe il rapporto di fiducia fra il vulcano ed gli abitanti. Tutti gli anni 30 sono anni di forte instabilità del vulcano per cui inizia un lungo periodo di emigrazione che svuota l’isola per la gran parte. Infine la guerra. La seconda guerra mondiale che fa di Stromboli l’isola delle Eolie più militarizzata con militari italiani e tedeschi. Anzi i tedeschi fanno dell’isola un punto strategico per gli avvistamenti in mare.

3. I giorni della guerra a Stromboli

Della Stromboli in guerra Fabio ne parla in una decine di pagine del suo primo libro e poi riprende il tema sviluppandolo nel volumetto “I giorni della guerra. Quando i tedeschi sbarcarono a Stromboli”.

Dico subito che si tratta di un prezioso contributo. Prima di questi due libri ed in particolare dell’ultimo sembrava che la le Eolie avessero guardato la guerra da lontano se non fosse strato per l’affondamento del piroscafo Santamarina il 9 maggio del 1943 nel quale perirono 61 persone e non ci fu famiglia che non fosse toccata dalla tragedia ed il siluramento nel 1942 dell’incrociatore Bolzano della Marina nelle acque di Panarea. Anzi la guerra a Lipari e alle Eolie è stata soprattutto l’affondamento del Santamarina le cui ragioni e motivazioni sono ancora avvolte nel mistero. Nel maggio del 2002 Antonio Brundu , sul periodico “Stretto indispensabile”, ha sostenuto che l’affondamento potesse essere connesso con l’ammaraggio di fortuna di un idrovolante da guerra tedesco, proveniente dall’Africa, colpito da aerei alleati nel laghetto di Lingua (Salina) avvenuto proprio qualche giorno prima. I tedeschi che pare fossero in possesso di importanti documenti dovevano imbarcarsi sul Santamarina proprio il 9 maggio ma all’ultimo minuto ci fu un cambio di programma. Questa novità non venne colta dal controspionaggio inglese e così il sommergibile Unrivalled silurano ugualmente l’innocente piroscafo eoliano carico di inermi passeggeri.

Fabio Famularo ci fa vedere invece che a Stromboli – proprio per la particolare collocazione strategica dell’isola - la guerra fu palpabile e consistette nella presenza di numerosi militari italiani ma soprattutto una guarnigione di soldati tedeschi che si comportarono, non come alleati, ma come un vero e proprio esercito di occupazione.

“Essi giunsero, scrive Fabio, improvvisamente in una mattina di calma piatta, provenienti dalla Calabria a bordo di un grande zatterone nero a due scafi, simile ad un moderno catamarano… Il loro zatterone era attrezzato come un vero e proprio mezzo da sbarco e arrivò direttamente sulla spiaggia senza gettare le ancore. Sembrò un abbordaggio come quello dei racconti dei pirati… I tedeschi si annunciarono con una lunga raffica di mitra che c’impedì di scappare. Un giovane ufficiale ci richiamò sotto bordo e con modi prepotenti ci ordinò di aiutarli a sbarcare le loro cose…”.

Prepotenza  ed arroganza sono il loro modo di presentarsi che vengono in qualche modo contrastati dal coraggio di un maresciallo dei carabinieri sopraggiunto di corsa richiamato dalle raffiche di mitra.

Ma al di là di questa presentazione i tedeschi fanno una vita piuttosto ritirata, chiusi praticamente tutto il giorno nelle loro postazioni e nei loro rifugi dove, a sera bevevano fino ad ubriacarsi. I rapporti con i locali erano scarsi e si limitavano alla ricerca di viveri e soprattutto di vino proponendo degli scambi. Scambi e relazioni che erano fortemente proibiti dal loro comando.                                               

Ma oltre alla presenza dei militari la militarizzazione dell’isola riduce la libertà e le possibilità di lavoro degli abitanti. Obbligo dell’oscuramento, obbligo di rientrare in casa la sera perché vi era il coprifuoco, obbligo di non andare a pescare, mancanza di collegamenti con Lipari e la Sicilia, prima forte riduzione dei rifornimenti e poi la fame quella vera. Poi gli scontri navali nell’area di mare al largo dell’isola, le incursioni  aeree sul mare, il mare pieno di  rottami e di centinaia di cadaveri di soldati italiani, tedeschi, americani, inglesi, bianchi e di colore.

Ed inoltre le azioni di coraggio per procurarsi il cibo per sopravvivere, l’elusione dei controlli per andare a pescare malgrado i divieti, l’escursione a Palermo per raccogliere vettovaglie e quindi la grande solidarietà fra la gente che , pur nella miseria, si aiutava e sosteneva a vicenda, le partenze per la guerra e la gioia dei rientri a casa, la tracotanza dei fascisti che per gli isolani erano il vero nemico più dei tedeschi..

Infine la fuga dei tedeschi e l’arrivo degli americani.       

“ Il primo segno che qualcosa stesse veramente cambiando – scrive Fabio ( pag. 80) -si ebbe un mattino, quando alle prime luci dell’alba fummo svegliati da un forte odore acre di bruciato proveniente da diversi punti dell’isola e vedemmo i tedeschi riunirsi velocemente sulla spiaggia di Ficogrande. In tutta fretta misero in mare i grossi zatteroni con cui erano arrivati e dopo essersi imbarcati, sparirono all’orizzonte verso la Calabria, abbandonando l’isola dopo mesi e mesi di occupazione. Prima della partenza si erano premurati di mettere a ferro e fuoco ciò che avevano realizzato in tutto quel tempo e delle loro strutture non era rimasto più nulla”.

Giudizio sull’occupazione tedesca: pag. 81.: “In tutti quei mesi avevamo imparto a conoscere i soldati tedeschi…”.

L’arrivo degli americani : “…Un mattino sulla linea dell’orizzonte si affacciarono due navi che piano piano facevano rotta verso di noi, fino a quando gettarono l’ancora davanti alla spiaggia di Ficogrande. Tutti gli abitanti, compreso me, non sapendo chi fossero scapparono velocemente su per la montagna cercando di sfuggire ai nuovi invasori. Le due navi battenti bandiera americana, si fermarono ad osservare i nostri movimenti da lontano senza accennare a un imminente sbarco. Questo ci tranquillizzò un po’ ma ben presto capimmo che qualunque fossero state le loro intenzioni, non gli saremmo mai potuti sfuggire: l’isola era troppo piccola e ci avrebbero comunque trovato. Cos’ mi feci coraggio e con due miei amici decidemmo di andargli incontro. Ci recammo sulla spiaggia del prete, dove prendemmo in prestito un gozzo… Una volta arrivati sottobordo, tutti i soldati si affacciarono dalle mura di dritta puntandoci addosso i fucili e subito una voce c’invitò ad avvicinarci lentamente, quindi ci lanciarono una cima senza però farci salire a bordo. Uno dei militari, che parlava con un forte accento palermitano, dall’alto cominciò ad interrogarmi. Mi disse di stare tranquillo, che loro erano soldati americani venuti in pace e che stavano perlustrando tutte le isole  in cerca di soldati tedeschi e di fascisti. Rimasi sorpreso del fatto che l’ufficiale della nave parlasse in siciliano e lui, vedendomi perplesso, mi disse, che era figlio di emigranti di Palermo e che da sempre parlava il nostro dialetto”.

La guerra e i patimenti della guerra erano veramente finiti. Cominciano quelli del dopoguerra  e riprende la strada dell’emigrazione. Ma questo è un altro racconto.

 Un’ultima considerazione. Fabio è uno scrittore nato. Ha lo stile fluido di chi racconta la vita di tutti i giorni non aliena dall’uso di immagini colorite ed anche poetiche. Si capisce subito che la sua vocazione è il romanzo o il racconto con un’attenzione ai dialoghi che ravvivano e sveltiscono il testo. Queste sue doti li manifesta soprattutto ne “Il richiamo silenzioso del vulcano” che, come abbiamo detto, è un vero e proprio romanzo e in “Raccontami Stromboli” che è una raccolta di racconti che hanno come ambiente la sua isola.                                     

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L'arrivo degli americaniDue contributi di Caterina Conti su sua madre

La professoressa Isabella Vainicher Conti a Milazzo: una esperienza... umana

La preside Conti , che aveva insegnato a Barcellona alla fine di quell’anno scolastico riuscì a trasferirsi a Milazzo, con i figli Caterina e Giovanni, con le masserizie a piedi su un carretto.

Arrivò a Milazzo, la vigilia della requisizione della nave che faceva servizio Milazzo- Lipari. La nave avrebbe potuto raggiungere Lipari, ma fu dato ordine diverso al comandante, che fu costretto a lasciare il porto di Milazzo e a spostarsi in altra zona dove la nave fu poi affondata.

La Sig.ra Isabella trovò ospitalità nella casa del nostromo Bartolo Casamento, la cui famiglia l’aveva abbondata perché la zona era ritenuta troppo pericolosa, perché si pensava che la battaglia sarebbe potuta avvenire nella Piana di Milazzo.

Isabella rimase in una Milazzo deserta per un mese con Caterina e Giovanni, mangiando pomodori con il sale e spighe di granturco abbrustolite.

Milazzo, veduta del lungomare prima dell'ultima guerra

A Milazzo, dove tutti erano fuggiti, vi erano soltanto la famiglia Conti, il carcere e i carabinieri, che uno o due volte la settimana andavano a controllare se la famiglia Conti era ancora viva.

Si deve pensare che Milazzo era sottoposta ad una serie di bombardamenti ininterrotti , compresa poi una battaglia navale, perché oltre tutto nel porto vi era ancorata una magnifica nave tedesca.

Durante tutto il periodo precedente all’arrivo degli americani, la famiglia Conti finì con il raccogliere attorno a sé una parte dei 50 reduci che salirono sul motoveliero Rolando per rientrare a Lipari con il vescovo S.E. . Reduci, che via via arrivavano alla spicciolata con le loro sofferenze e le loro tragedie.

Va detto però a questo punto che il primo dei reduci che era arrivato a casa Conti , fu un certo signore di Lipari, al quale Isabella dette subito ospitalità, facendo cedere a Caterina il suo letto.

Il giorno dopo l’arrivo di questo liparoto, eravamo ancora all’inizio del mese, arrivò la notizia che un motoveliero sarebbe venuto da Lipari a prendere i fuggiaschi. Isabella con Caterina e Giovanni e il liparoto, andarono sul porto ad attendere il motoveliero.

Dopo un po’,’ mentre che aspettavano sotto il sole, era estate e l’asfalto bruciava, si sentirono ad un certo punto in lontananza  dei bombardieri in arrivo.

Allora esisteva sul porto un albergo, “La stella d’Italia””, anch’esso abbandonato. Isabella con i bambini e l’amico si rifugiarono nell’ingresso la cui porta spalancata era proprio sulla banchina. Arrivarono i bombardieri e le bombe cadevano fischiando, fitte, dappertutto. Ad un tratto l’amico disse:” “Aspettate un momento che adesso ritorno”,” lasciando lì soli Isabella, Caterina e Giovanni. Dopo avere atteso un po’,’ vedendo che l’amico non ritornava e che le bombe continuavano a cadere, uscimmo da quel rifugio e facendo la piccola stradina, arrivammo sulla strada e cominciammo a correre verso la stazione, tentando di andare verso un posto più sicuro.

Va tenuto presente che faceva un caldo terribile, mamma che era claudicante e zoppicava, e Giovanni che aveva sempre le scarpe rotte, camminando sull’asfalto che bruciava, piangeva. A questo punto mentre correvamo arrivò un giovanissimo marinaio tedesco, che ghermisce Giovanni sotto le ascelle e comincia a correre lungo la strada verso la ferrovia.

Ogni tanto si girava per essere certo che riuscivamo a seguirlo. Quando ritenne, di averci portato abbastanza in salvo, poggiò Giovanni a terra e da lontano ci salutò. Tornammo a casa e vi rimanemmo per circa un mese. Il nostro amico lo ritrovammo sulla banchina di Lipari, quando finalmente ritornammo sulla nostra isola. Mamma che si era inginocchiata per baciare terra, incontrò il signore della storia che, essendo rientrato con il motoveliero un mese prima, aveva avuto pure il coraggio di stendere la mano a mia madre.

Tutto quanto raccontato per voi ragazzi è per dire che il bene - il male, il coraggio- la vigliaccheria , sono indipendenti dal colore della pelle, della razza, della nazionalità.

La Preside Conti e il Museo archeologico

Mia madre, Isabella Conti Eller Vainicher, subito dopo la guerra, ha sentito la necessità di impegnarsi nella salvaguardia e valorizzazione del patrimonio archeologico eoliano custodito sia nella Cura Vescovile, sia presso privati, per scongiurarne la sua dispersione E questo coinvolgendo sia la Soprintendenza alle Antichità di Siracusa, allora diretta dal prof. Bernabò Brea, sia il Vescovo del tempo,  mons. Bernardino Re, ed altre personalità Liparesi.  Fondò, quindi, con la collezione vescovile e quelle di alcuni privati, presso i locali dell’Istituto Tecnico di Lipari un antiquarium, che successivamente rappresentò il primo nucleo espositivi del Museo Archeologico Eoliano presso la sua attuale sede nel Castello di Lipari.

Come documentato dalla copiosa corrispondenza intercorsa - oltre 100 lettere attualmente custodite presso l’archivio di famiglia -  tra i il prof. Bernabò Brea e mia madre, è stata proprio lei ad occuparsi della ricerca di una sede per la realizzazione del Museo Eoliano, del quale fu poi Conservatrice Onoraria, ponendo la sua attenzione nei locali del complesso del Castello di Lipari, affinché questo luogo, per lungo tempo usato come campo di detenzione e di confino, diventasse un luogo di cultura e di riscatto sociale e culturale degli Eoliani.

Tale era la fiducia del prof. BernabòBrea nei confronti di mia madre, che lo stesso, nonostante mia madre non fosse un’archeologa, la incaricò di sorvegliare gli scavi eseguiti da Bottari, dipendente delle Soprintendenza di Siracusa, nella località Portinenti di Lipari.

Dopo anni di oblio sul ruolo avuto da mia madre nella fondazione del Museo di Lipari, soltanto nel 2006, in occasione del centenari della sua nascita, il Museo, allora diretto dal dott. Riccardo Gullo, organizzò una mostra, che è stata inaugurata il 25 marzo presso i locali dell’ex chiesa di S. Caterina e successivamente spostata presso i locali dell’ex Ostello – anch’esso fondato da mia madre -, sulla sua vita e le sue opere.  Ma ebbe vita breve, poiché, dopo tre anni, a seguito del pensionamento del dott. Gullo, la nuova dirigenza del Museo ritenne di doverla smantellare, mettendo da parte la documentazione, riprodotta in copia secondo un criterio espositivo allora molto apprezzato dai fruitori della mostra, che testimoniava l’impegno ed il ruolo avuto da mia madre nella fondazione del Museo di Lipari.

Il manifesto della mostra organizzata dal Museo Archeologico

La mostra, per ciò che concerne l’attività svolta per la creazione del Museo. conteneva la corrispondenza del 1947, relativa all’antiquarium e la documentazione sull’istituzione di un apposito comitato locale, la corrispondenza del 1948, sulla attività archeologica e l’antiquarium, la nomina a Conservatrice onoraria e la corrispondenza del 1950 sull’antiquarium, la corrispondenza del mese di ottobre 1950 e dell’anno 1951, riguardante ancora l’antiquarium, una “nota archeologica” per la pubblicazione in un opuscolo sulle “Isole Eolie”  e notizie del 1954, quando dall’antiquarium nasce il Museo Archeologico Eoliano, con il quale continua la collaborazione di mia madre. Spero che questa parte di storia del Museo non passi definitivamente nell’oblio perché sarebbe una testimonianza di verità che non toglie meriti a nessuno!

Riprende la politica eoliana

 

Casaceli, primo sindaco della Lipari liberata

La vita politica locale riprenderà nel maggio del 1944 quando il colonnello Jeo lascerà Lipari. Durante il periodo del Governatorato le funzioni di Sindaco le aveva svolte il segretario comunale Ugo Sclafani. Partito Jeo il Comitato di Liberazione Nazionale designa come primo sindaco della Lipari liberata l’avv. Francesco Casaceli che svolgerà questo ruolo per più di un anno fino all’ottobre 1945. Casaceli era un moderato ma anche un democratico e fu quello che in pieno fascismo, nel corso di un Consiglio comunale che esprimeva il suo cordoglio per l’on Armando Casalini, deputato fascista, ucciso a Roma con tre colpi di rivoltella, ebbe il coraggio di estendere il cordoglio all’on. Giacomo Matteotti caduto  per mano di sicari fascisti.

A Lipari con la politica si andava risvegliando anche la società, soprattutto i giovani. Nascono così due associazioni studentesche: La “5 esse” a Lipari e la “Giovane Eolia” a Canneto che applicano al loro interno il metodo democratico facendo eleggere i dirigenti dall’assemblea dei soci. Elezioni con liste contrapposte in un clima acceso e vivace. La “5 esse” che era l’acronimo di  “Siamo studenti sempre senza soldi”organizzava manifestazioni culturali, teatrali, ricreative e benefiche che coinvolgevano anche gli adulti. Per qualche tempo uscì anche un giornaletto, “Lipari Nova”, che portava sotto la testata, al posto della periodicità, la dicitura “Esce…quando può”.

1941- Ospedale di Lipari

L’associazione acquistò notorietà in paese per le numerose recite della sua filodrammatica al cinema Eolo. Fu il periodo quello in cui i talenti  teatrali si moltiplicavano – Pino di Giovanni, Armando e Bianca Raffaele, le sorelle Tacchini, Peppuccio Paino, Claudio Natoli, Carmelino Salmieri, Jachino Cullotta -  ed a fianco a quella della “5esse” sorse anche la “Sant’Agatone” promossa da ambienti dell’Azione Cattolica.

Il referendum istituzionale del 1946 che scelse fra monarchia e repubblica assegnò, nelle Eolie, un netto successo alla monarchia confermando che, la gente delle isole e delle campagne, era legata alle tradizioni e non amava i cambiamenti.

Riparte il flusso migratorio

Con l’arrivo della democrazia cadde anche il divieto all’espatrio  che in qualche modo aveva bloccato il flusso migratorio nel periodo fascista. E siccome le prospettiva di lavoro erano sempre minori soprattutto nell’agricoltura che non dava prospettive di sviluppo e di progresso mentre la pesca rimaneva una attività limitata e il lavoro nelle cave di pomice era sempre più duro e comunque, anche perché la ripresa delle esportazioni stentava ad arrivare,  non poteva soddisfare un consistente bisogno di lavoro.

Così riprende  il flusso emigratorio verso le Americhe e verso l’Australia. La gente partiva con le poche cose che si potevano portare nella valigia, richiamati dai parenti che si erano stabiliti nei nuovi continenti . Fra il 1946 e il 1970 sono emigrati dalle Eolie più di 13 mila abitanti cioè una popolazione quasi pari a quella che vi è rimasta e di questi oltre sei mila sono andati all’estero e circa sette mila in Italia[1].Nei primi anni del dopoguerra la media dei partenti fu di almeno di cento al mese.

Queste partenze avevano un risvolto sociale che emergerà in tutta la sua evidenza nel corso degli anni cinquanta. La gente che emigrava svendeva la sua casa  al prezzo del biglietto di viaggio o le lasciava con procure a parenti ed amici confidando in un ritorno che difficilmente si verificava. E così vi è stato un passaggio notevole di proprietà per fabbricati che nel corso degli anni 40 sembravano non avere nessun valore ed invece dieci o vent’anni dopo avranno un valore sempre crescente.

Ma mentre  il Lloyd Triestino e la Flotta Lauro staccavano biglietti per le Americhe e l’Australia a Lipari facevano la prima comparsa le Vespe e le Lambrette, le cucine a gas e le lavatrici, i frigoriferi e le macchine da cucire.

Si ripropone l'autonomia di Canneto

  

Mentre si cerca di dimenticare la guerra e crescono le aspirazioni degli isolani si ripropone il tema dell’autonomia di Canneto sostenuta da un “Comitato per l’autonomia di Canneto” di cui era presidente il  cav. Angelo Ferlazzo. E’ sindaco di Lipari l’avv. Francesco Palamara che è succeduto dopo Casaceli a due commissari prefettizi il dott. Salvatore Carnevale ed il dott. Girolamo l’Acquaniti. Palamara sarà sindaco dal dicembre 1946 al novembre 1948 ed è proprio la fine del 1946 quando viene ripresentato il problema. Il 2 gennaio 1947  i cittadini di Canneto e delle borgate di S.Vincenzo, Culia, Pirrera, Sciaratore, Pomiciazzo, Lami, Castagna, Truffa, Montepilato, Campobianco, Porticello e Acquacalda chiedono con una istanza indirizzata al Prefetto e per conoscenza al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Ministro dell’interno di divenire Comune autonomo: complessivamente 3.694 abitanti. Il Sindaco convoca il Consiglio comunale il 22 dicembre e come era accaduto già nel 1922 il parere espresso è contrario.  Ma la mobilitazione non si ferma lì. Il 5 settembre del 1950 l’on. Antonio Dante presenta un disegno di legge per il riconoscimento del nuovo Comune. All’Assemblea Regionale Siciliana questa volta perché nel frattempo la competenza è passata alla Regione. L’avv. Giovanni Raffale, nello stendere  una memoria storico-giuridica il 18 novembre 1950, per incarico del Comune, su questa vertenza, afferma “si può, con piena tranquillità di coscienza, affermare che tale movimento non trova giustificazione in condizioni di fatto (territoriali od amministrative) di quella frazione, né in particolari interessi sociali ed economici distinti da quelli del capoluogo e dalle restanti frazioni, ma che, malgrado l'orpello del desiderio popolare, in realtà il movimento stesso è stato artificiosamente determinato, e si cerca con ogni mezzo sostenere, per interessi meramente privati, in stridente contrasto con quelli generali dei frazionisti di Canneto, da pochi individui esercenti l'industria della lavorazione ed esportazione della pietra pomice e conducenti la stessa giovandosi, a propri fini, dello sfruttamento esoso degli operai e, nel contempo, della tenace occupazione di zone del demanio comunale pomicifero di Lipari, di appartenenza all'intera collettività degli abitanti del comune di Lipari, donde la pomice viene estratta[2]. E il Sindaco Domenico Cincotta che era succeduto a Palamara, commentando l’iniziativa del progetto di legge aggiunge che questa autonomia  “sarebbe un grave danno per i contribuenti di tutto l’Arcipelago e principalmente per quelli di Canneto che verrebbero tartassati per dare ossigeno all’invocato Comune – che nascerebbe indubbiamente asfittico – e per servire interessi personali e non nell’interesse della cittadinanza”[3].

Emerse allora l’idea del tunnel fra Lipari e Canneto che avrebbe ridotto la distanza a poco più di un chilometro ed avrebbe reso le due cittadine, di fatto, uno il prosieguo dell’altra.

L’idea dell’autonomia la riprenderanno vent’anni dopo nel luglio del 1968 gli abitanti di Vulcano. Anche qui viene stilata una istanza, sottoscritta da 150 abitanti e inviata al Presidente della Regione. Se ne parla per qualche mese ed il 3 novembre si terrà a Lipari nei locali del circolo ACLI un dibattito pubblico. Ma poi, ancora una volta, tutto si sgonfia.

Ora parlare di nuove strade e di nuove opere era sempre più facile visto che il 15 maggio del 1946 veniva approvato lo Statuto della Sicilia come regione autonoma con valenza costituzionale ed il 10 agosto 1950 veniva creata la Cassa del Mezzogiorno, un organismo che si prefiggeva di eseguire un programma di lavori straordinari per superare il distacco del sud dal nord.

Comunque la modernizzazione bussa ormai alle porte e nel 1950 si dà inizio vallo sviluppo della rete telefonica, idrica ed elettrica in tutte le frazioni dell’isola di Lipari mentre i rifornimento idrico di Lipari e Salina viene posto a carico dello Stato. Nel 1951 prende il via il servizio di autobus della Ditta Urso con qualche corsa al giorno per Canneto e Pianoconte mentre il 9 agosto del 1956 si inaugura il servizio aliscafi sulla linea Messina- Reggio Calabria- Giardini.

Intanto anche Lipari cambia faccia. Nel 1954 si apre piazza Monfalcone, la futura Piazza Arciduca d’Austria, con la demolizione di diversi vecchie strutture che ormai rappresentavano solo un ingombro: Ancora qualche anno e verranno demolite le gibbie  e l’austero cancello che introduceva nel viale Vescovile.



[1] A. Raffa, Le trasformazioni dell’ambiente naturale  e sociale nelle isole Eolie, in “Isole minori. Cultura e ambiente. Quaderni di Italia Nostra, n. 18, 1981.

[2] Avv. G. Raffaele, Per l’integrità territoriale del Comune di Lipari. Memoria storico-giuridica, Lipari 1951.

[3] Comune di Lipari, Contro l’autonomia di Canneto, Lipari 1950, p.2; G. Iacolino, Strade che vai…pp,180-181.

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cav. Angelo Ferlazzo. Il sindaco CincottaIl Governatorato inglese

 

Il corso Vittorio Emanuele di Lipari nel primo dopoguerra

Lo sbarco degli inglesi

La guerra era ormai agli sgoccioli. La notte fra il 9 e il 10 luglio 1943 le truppe alleate sbarcano  nei pressi di Gela  e cominciano a dilagare per la Sicilia. Palermo fu occupata il 22 luglio ed il 3 agosto gli americani entrarono a Catania. Il 17 agosto, martedì, capitolò Messina e lo stesso giorno, alle 12 e 30, gli inglesi sbarcarono a Lipari con tre mass ed un cacciatorpediniere  che operava nei dintorni. Scesero a terra ufficiali, marinai ma anche dei siciliani che si erano trasferiti in America da vari anni.

“Alla vigilia dello sbarco – racconta Renato De Pasquale - , ormai ritenuto imminente, ansia e paura si diffusero tra la gente, nella convinzione peraltro che il nemico avrebbe fatto razzìa di tutto. E così furono parecchi coloro che si preoccuparono di nascondere o addirittura sotterrare denaro, preziosi, argento e quant’altro si riteneva opportuno fare scomparire. Ma poi la paura si mostrò infondata. La truppa da sbarco era composta da un capitano e pochi soldati. La popolazione fu semplicemente invitata a denunciare e depositare presso i Carabinieri ogni tipo di arma posseduta. E così in caserma vennero ammassati vecchi fucili, revolver, sciabole. Più cimeli che vere armi”[1].

A dire il vero un’azione di saccheggio ci fu ma fu opera di liparesi che pensavano sia di approfittare della confusione sia di acquisire meriti verso gli occupanti. Non mancarono i fatti folkloristici. Così un maresciallo della polizia salì sulla gip degli inglesi e invitava i locali a festeggiare, mentre  la guardia del semaforo  mise la divisa americana e scese al porto di Lipari ad accogliere i vincitori. Fra la gente che  assisteva ci fu anche chi gridò “Abbasso l’Italia viva l’America”.

Il governo del colonnello Jeo

Il colonnello Jeo giunse il 24 agosto e prese possesso del Municipio assumendo i pieni poteri e governando per circa nove mesi sino al 12 maggio del 1944 quando lasciò l’isola.

Ma ancora prima il 23 agosto egli ebbe a conoscere la determinazione degli eoliani quando un motoveliero ruppe il divieto di navigazione senza autorizzazione e si recò a Milazzo al comando alleato per chiedere i viveri per una popolazione ridotta allo stremo e  sul  bastimento c’erano tutte le autorità dell’arcipelago.

Era stato il signor Salvatore Bonica ad avere l’idea. La gente era affamata ed a Lipari non c’era più niente da mangiare. Andò da mons. Re e chiese il suo aiuto. Bisognava approntare un mezzo di trasporto ed andare direttamente al comando. Non occorsero molte parole per convincere il vescovo che chiamato un giovane seminarista, Alfredo Adornato, per farsi accompagnare, andarono prima dal dott. Ugo Sclafani che era il commissario prefettizio al Comune e poi dal comandante del Rolando, il capitano  Francesco Piluso.

Mons.Salvatore Bernardino Re sul suo mezzo di locomozione abituale

“E se quella pattuglia di inglesi che sono arrivati pochi giorni fa, ci fermano?”, chiese il Piluso.

La missione del Rolando a Milazzo
 

“Isseremo sul pennone del Rolando la bandiera pontificia “ disse il vescovo e fece cenno al Bonica che l’aveva ripiegata in un pacchetto che portava gelosamente sotto il braccio. E così con la bandiera in testa portata dal Bonica e poi il Vescovo, il Commissario, don Adornato e il capitano Piluso il piccolo drappello andò al porto dove era ormeggiato il Rolando. Ed il veliero prese la rotta verso Milazzo con la bandiera sul pennone e sulla tolda disegnato il simbolo della Croce Rossa.

A Milazzo furono accolti con rispetto ma fu anche detto loro che un carico di viveri per le Eolie era già stato disposto e sarebbe arrivato il giorno dopo con le navi che accompagnavano il governatore Jeo. Un viaggio inutile? Assolutamente no. A Milazzo ci sono cinquanta soldati eoliani che da mesi cercano di tornare alle loro isole e non trovano un mezzo di trasporto. Loro interlocutrice si fa una professoressa napoletana che ha sposato un’eoliano e dopo mesi e mesi che non lo vedeva lo ha ritrovato fra questa schiera di reduci dispersi. Una parte di questi reduci aveva fatto come punto di raccolta la casa, dove la professoressa  Conti da un oltre un mese, era stata ospitata dal nostromo Bartolo Casamento, con i figli Caterina e Giovanni. Tra l’altro tra questi reduci, vi era lo straordinario prof. Nicola Monteleone, che aveva con sé il primo antibiotico, la penicillina, che usò per persone che ne avevano bisogno.

La preside Isabella Vainicher Conti in due immagini

 

Due immagini della professoressa Vainicher Conti.

“Eccellenza, - dice la professoressa Conti[2] rivolgendosi a mons. Re – sono cinquanta giovani che non aspettano altro che tornare alle loro famiglie. Se ci fosse posto a bordo…”.

Il posto c’era ed il Vescovo fu ben felice di accoglierli sul Rolando. Saliti a bordo, questi giovani  se ne stavano sul ponte, uno a fianco all'altro, muti, increduli che il calvario era veramente finito. Ed era proprio la professoressa Conti che faceva la spola da uno all'altro rincuorando, esortando.

Il giorno dopo, 24 agosto, poco prima che in Cattedrale si desse inizio alla messa pontificale si sentirono dei colpi di cannone e subito dopo arrivarono con la notizia che una nave inglese stava entrando nel porto. Mons. Re capì subito che si trattava della nave con i viveri e rimandando di un’ora la messa solenne, scese al porto con la gente per accogliere le tanto attese vettovaglie.

“Il periodo del governatorato – a parte alcune assurde carcerazioni di nostri concittadini[3], forse vittime di qualche delazione – pur potendo essere considerato – osserva Renato De Pasquale -  [4]senza infamia e senza lode,  fu sempre un periodo di umiliazione che la sconfitta ci costrinse a subire[5]”.

Un contributo del governatorato: la scuola
 

Comunque alcune cose positive vanno ascritte a questo Governatorato nei pochi mesi che governò. L’aver tracciata la strada Canneto – Acquacalda che era una antica aspirazione e  aver pensato a rimettere ordine nel sistema scolastico eoliano.

Per la scuola, nell’ottobre 1943, il col. Jeo chiede la collaborazione  della professoressa Isabella Eller Vainicher  Conti . Napoletana di famiglia e di nascita, fin dal 1933, dopo che si era sposata con Riccardo Conti, la professoressa si era trasferita a Vulcano dove aveva creato la prima scuola elementare dell’isola, una scuola sussidiaria privata per i figli dei coloni, diretta e sostenuta solo da lei. “ Pensò essa stessa – scrive Giuseppe Iacolino– più tardi ad assicurare organicità a quella scuola e la necessaria continuità nel tempo affrontando la sua prima battaglia con i vertici della Provincia e coi ministeri[6]”.

Fu probabilmente  perché si era reso conto delle grandi doti organizzative e soprattutto della sua forte volontà che il Governatore inglese le chiese  di riorganizzare il sistema scolastico eoliano. Lo studio approfondito della situazione e delle esigenze della popolazione studentesca delle Isole, la portò a richiedere subito la soppressione dell’esistente Scuola di Avviamento Professionale e la creazione di una Scuola Media e di un Istituto Tecnico Commerciale, che lo stesso Governatore istituiva con Decreto A.M.G.O.T[7]. il 1 dicembre del 1943 e l’8 febbraio 1946 ne otteneva la Regificazione come Sezione staccata dell’Istituto “Jaci” di Messina. Nel 1948, poi questo Istituto otterrà la qualifica di Istituto Tecnico Commerciale statale ad indirizzo amministrativo e per Geometri.

Inenarrabili le avventure di quegli anni per ottenere il riconoscimento legale da parte del Governo Italiano al nuovo Istituto. …Con zaino in spalla e mezzi di fortuna – la ricorda don Alfredo Adornato -, traversava il tratto di mare Lipari-Milazzo con barche a remi per 18 ore e per 13-14 volte. Utilizzando i permessi AMGOT faceva anche da corriere ai carabinieri e riusciva ad unirsi anche ai carabinieri per traversare lo stretto di Messina e raggiungere Salerno, sede del Governo provvisorio, quando ancora si combatteva a Cassino”. Viaggiava in terza classe, dormiva su una panchina di legno nelle stazioni, mangiava un panino nelle sale d'aspetto delle stazioni.

“Il Colonnello Jeo , meravigliato di tanto coraggio e di tanta forza d’animo, ebbe a chiederla un giorno :”Ma dove trova la forza e l'energia per superare tante fatiche?” Ed ella riecheggiando la pagina evangelica, rispondeva “..Come fanno gli uccelli del cielo?..” fu la sua risposta. “Se in Italia – concluse il Governatore – molti fossero come lei, ben presto questo paese diventerebbe una grande nazione”[8].


[1] R. De Pasquale,  Il mio tempo, op. cit., pag. 59 e ss.

[2]Isabella Eller Vainicher Conti ha svolto un ruolo fondamentale per lo sviluppo socio-culturale delle Eolie. Nasce a Napoli il 15 gennaio 1906.. Isabella rimane orfana di madre in giovane età ed è colpita dalla poliomelite, passerà molto tempo ingessata, seduta su una poltrona. Da autodidatta consegue il diploma magistrale e in seguito anche la licenza liceale scientifica. Si iscrive alla facoltà di Scienze Naturali dell’Università di Napoli conseguendo la laurea.

Durante una spedizione scientifica universitaria nel 1929 a Vulcano conosce Riccardo Conti che si occupa dell’estrazione dello zolfo e che insieme al fratello Attilio aveva realizzato una teleferica che serviva al trasporto dello zolfo dal cratere.  Si sposeranno il 15 febbraio 1933 e Isabella dopo il matrimonio si trasferisce a Vulcano dove dà vita ad una scuola elementare sussidiaria per i figli dei coloni. Quando chiude la fabbrica di zolfo nel corso degli anni 30, Isabella inizia a insegnare lontano dalle isole mentre il marito è chiamato in guerra e deve partire. Rientra a Lipari alla fine dell’anno scolastico 1942/43 attraverso un viaggio avventuroso nell’agosto del 1943 e poco dopo avrà l’incarico dal Governatore inglese Jeo di riorganizzare le scuole delle Eolie. A partire da quegli anni è impegnata in tante iniziative sociali e culturali per le quali spende la propria esistenza insieme alle cure per la propria famiglia che va crescendo..     

Diventa componente del Consiglio di Amministrazione del Consorzio Provinciale per l’istruzione tecnica, Consigliere comunale di Lipari, creatrice della Sezione per le Isole Eolie del Centro Ecologico Italiano. Nel campo del turismo, nel 1947 fonda la prima “Pro-Eolie” premessa per la istituzione dell’Azienda di Soggiorno e Turismo. Si occupa anche di archeologia ed a questo proposito ”è stata dal 1947 – ha detto di lei Luigi Bernabò Brea - la più attiva e fattiva collaboratrice della Soprintendenza nel complesso di scavi e di ricerche…Per suo esclusivo merito sorse il primo nucleo di un Antiquarium eoliano, della cui conservazione onoraria essa ricevette incarico ufficiale dal Ministero”.

[3] Il 25 settembre furono tratti in arresto perché imputati di propaganda fascista Lino Carnevale, Checchino Vitale, Ninì Fiorentino, Attilio Maggio. In seguito furono arrestati anche l’ing. La Rosa e altri.

[4] Per questo paragrafo oltre a R. De Pasquale, Il mio tempo, op. cit., vedi anche  A. Lo Cascio, Mons. Bernardino Salv. Re, vescovo cappuccino di Lipari, Messina  1977, pag.200-201; A. Adornato, Scritti e discorsi ecc., op. cit., pag 58-65.

[5] R. De Pasquale, Il mio tempo, op. cit., pag. 60.

[6]Giuseppe Iacolino, Gente delle Eolie, Lipari   1994, pag.53.

[7] L'Allied Military Government of Occupied Territories (AMGOT), in italiano Amministrazione militare alleata dei territori occupati, è stato un organo militare deputato all'amministrazione dei territori occupati dagli Alleati durante la seconda guerra mondiale.

 

Il confino politico del fascismo a Lipari con i più importanti oppositori del regime

 

Il governo pensava ad un confino politico 

1913. Raduno di anarchici e coatti al Castello. E' Pentecoste e sta parlando il pastore evangelico Renzi.

Era vero che il Governo pensava a Lipari come luogo di detenzione. Ma non per i delinquenti comuni come era avvenuto per lo più nel passato. Questa volte si aveva in mente un confino tutto politico sulla base del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza che sarà promulgato il 6 novembre 1926[1]. E’ l’articolo 184 che recita: “Possono essere assegnati al confino di polizia, con l’obbligo del lavoro, qualora siano pericolosi alla sicurezza pubblica: 1. gli ammoniti; 2. coloro che abbiano commesso, o manifestato il deliberato proposito di commettere, atti diretti a sovvertire violentemente  gli ordinamenti nazionali, sociali o economici, costituiti nello Stato e menomarne la sicurezza.

Le forme della detenzione sono, grosso modo, quelle che vigevano per i coatti. Si veniva alloggiati al Castello in delle camerate, sotto la rigida sorveglianza della polizia e della milizia fascista. Per i primi anni le camerate dovettero essere quelle stesse dei coatti sistemate in qualche modo soprattutto dopo la sommossa del 1926. Nel 1927 cominciarono i lavori per creare al Castello – fra la vecchia porta di ingresso e la Cattedrale – due grossi, esteticamente orribili casermoni, oggi occupati dal Museo archeologico. I lavori furono completati nel 1930 e i due edifici furono dedicati uno ai militi fascisti e l’altro ai confinati[2].

Al mattino non si poteva abbandonare il Castello prima di aver risposto all’appello ed aver incassato la “mazzetta” come era chiamata la piccola paga giornaliera di dieci lire. Alla sera si doveva rientrare entro le 19 d’inverno e la 21 d’estate. Era permesso circolare liberamente per il paese, non si poteva però superare una ben determinata linea di demarcazione che circondava il centro abitato e che era controllata in continuazione dalla milizia fascista. Il mare era sorvegliato da motoscafi armati di mitragliatrici.

Era anche permesso prendere in affitto un alloggio nell’abitato dentro la cerchia di vigilanza. Ed era questa la scelta che facevano praticamente tutti. “Anche i più poveri – annoterà Emilio Lussu -  si sottopongono ad ogni privazione pur di vivere in una propria cameretta, sia pure squallida…La quasi totalità dei deportati provvede con questa somma [dieci lire] al vitto, l’alloggio, agli abiti, alla luce, all’acqua; l’acqua in estate manca nell’isola, e vi viene portata con navi cisterne. Pochi sono quelli che possono trovare lavoro sul posto:qualche meccanico,elettricista, sarto, calzolaio o muratore. Un centinaio ha ottenuto la facoltà di far vivere con sé moglie e figli: tutti campano sulle dieci lire del capo famiglia[3]”.

Il confinato – racconta Jaurés Busoni – che arrivava veniva munito di carta di permanenza, consistente in un libretto da portare sempre con sé e dove venivano scritti eventuali permessi. I confinati potevano affittare appartamenti o camere dietro permesso rilasciato dal comando di Polizia; rispettando però gli orari di uscita e di ritirata come gli altri. Chi otteneva questo permesso doveva lasciare sempre la porta di casa aperta per permettere alla Polizia di compiere controlli a qualunque ora del giorno e della notte, senza chiedere permessi a nessuno”[4].

All’inizio, sul finire del 1926, sono poche decine, ma nella primavera del 1927 già sono più di 200. Le risse non mancano e le punizioni anche. Fin dai primi mesi vengono denunciati gli  abusi, le provocazioni, le negligenze.

Francesco Fausto Nitti, un modesto impiegato di banca, serio, riservato, desideroso di anonimato, alla morte di Matteotti avverte una forte indignazione morale ed entra in contatto con la vedova Matteotti e il mondo dell’antifascismo. E’ condannato al confino sul finire del 1926 e nel marzo del 1927 giunge a Lipari.

“Sbarcammo nel centro del paese, ove si trova il porto, sotto la massa oscura e imponente del vecchio castello. Condotti alla direzione e subite le solite formalità, fummo lasciati liberi.

Nei primi giorni della mia vita liparese, abitai in una camera d’albergo . Era uno dei tre modestissimi alberghi che Lipari offre ai viaggiatori. Poco dopo lasciai l’albergo ed alloggiai in una vecchia casa del vicolo Sparviero, una viuzza stretta, male acciottolata e quasi sempre sporca…

La mia pena, la mia sofferenza aumentarono ogni giorno: cercavo di occupare il mio tempo, leggevo, studiavo, davo qualche lezione a un gruppo di deportati, bravi operai desiderosi di apprendere. Ma la mia vita era sempre più triste e vuota. Spesso, seduto al mio tavolo, con un libro aperto davanti, mi sforzavo a leggere e non ci riuscivo… Il libro era aperto là, innanzi a me, ma il mio pensiero era lontano, infinitamente lontano, né mi riesciva dominarlo. Esso correva verso una meta agognata, desiderata, sospirata: la libertà[5]

Lipari lè la principale colonia di confine

Nel corso del 1927 Lipari diventa la principale colonia di confino degli oppositori del regime. I confinati diventano cinquecento provenienti da ogni parte d’Italia, di tutti i partiti, di tutte le classi sociali. Personaggi illustri e meno illustri. Saranno confinati a Lipari Domizio Torrigiani gran maestro della massoneria, Ferruccio Parri che presiederà il primo governo della liberazione,lo scrittore Jaurés Busoni, e i protagonisti della fuga Rosselli, Nitti e Lussu. Nella piccola cittadina, nel microcosmo della colonia, si riflettevano tutte le contraddizioni della società italiana, le differenze di classe, i contrasti ideologici, le gelosie regionalistiche ma anche la voglia di discutere, di condividere le esperienze della tavola, della cultura e dell’amicizia[6].

  

A sinistra Domizio Torrigiani e a destra Ferruccio Parri

Vi erano anche agenti provocatori in veste di deportati politici. Si dicevano “fascisti dissidenti”. “Erano individui loschi e pericolosi – scrive Nitti - , pronti a tutto, desiderosi di riguadagnare la stima e la simpatia di quei capi del fascismo che, dopo averli usati nelle peggiori azioni, li avevano gettati come avanzi nelle isole”.Vi erano  circa cinquecento fra carabinieri, agenti di PS, militi fascisti, guardie di finanza ed equipaggi di motoscafi della marina incaricati della sorveglianza costiera.

Per sopravvivere e potere mandare qualcosa alle famiglie rimaste a casa i confinati si industriano come possono. Vi è persino chi fabbrica krapfen e li vende per le strade di Lipari su un improvvisato vassoio appeso al collo.

Il momento più atteso era quello della distribuzione della posta che veniva sottoposta a controllo dalla Questura e, se ritenuta del tutto innocente, le veniva apposto sopra un timbro con scritto “Verificato per censura”. Ma bastava una frase, una parola sospetta che la corrispondenza, in arrivo o in partenza, veniva sequestrata oppure cancellata con china. La distribuzione della posta avveniva al castello presso la caserma della milizia e veniva fatta da un poliziotto. “Con quale animo – commenta Nitti – tutti noi ci recavamo a quella distribuzione! E come tristi scendevamo dal Castello quando non ricevevamo nulla!”.

I confinati erano avidi di notizie,  sia da casa ma anche degli eventi italiani ed internazionali. E siccome dei giornali non si poteva fare conto perché erano tutti asserviti al regime  come unica fonte erano gli stessi deportati politici, “Quelli che giungevano ci portavano le ultime notizie – racconta Nitti – il resoconto degli ultimi avvenimenti, non già deformati dalla censura fascista e falsati dai giornali, ma la verità autentica. In una piccola isola sperduta noi avevamo un vero ufficio di informazioni. Le notizie che ci venivano da ogni parte erano vagliate, confrontate, esaminate”.

“Recarsi a veder giungere il piroscafo – è sempre Nitti che racconta -  era una delle occupazioni nostre più importanti. Era anche un avvenimento, oltre che un’occupazione. Alle 11  circa arrivava l’Adele o l’Etrna: i due piroscafi che a turno facevano il quotidiano viaggio Milazzo- Lipari. Molti di noi erano accalcati agli sbocchi delle strade nella piazzetta del porto. Non potevamo avvicinarci al porto oltre un certo limite, durante le operazioni di sbarco. Ma anche da lontano vedevamo l’arrivo della nave, le barche che si recavano intorno, prima tra le quali quella della polizia con un brigadiere, degli agenti, uno dei carabinieri e due poliziotti. Quegli uomini salivano a bordo del piroscafo per primi, si ponevano presso la scaletta e verificavano le carte di tutti coloro che desideravano scendere”.

I confinati aprono una scuola e una biblioteca

Approfittando del fatto che al confino ci sono diversi uomini di cultura e di ingegno i confinati chiedono il permesso alla direzione ed aprono una scuola ed una biblioteca per i deportati e per i loro figlioli. “Avevamo organizzato – aggiunge Nitti -  corsi di istruzione elementare e secondaria, di lingua inglese, francese, tedesca e spagnola, di storia di matematica, di fisica, di disegno. Il Gran Maestro della Massoneria, Torregiani, aveva accettato di tenere un corso di letteratura italiana, io ebbi un corso di storia. Avevamo un vasto locale, preso in fitto con la contribuzione di tutti, e lo avevamo diviso in classi, facendo costruire da alcuni deportati del mestiere,cattedre, panche, lavagne. Ricordo che la mia classe era composta di circa cinquanta operai pieni di zelo e che facevano molto profitto delle mie lezioni”. Ma l’esperienza dovette cessare perché un confinato, per acquisire meriti presso la direzione della colonia, affermò che la scuola serviva a mascherare la propaganda politica.

Progetti di fuga ed azioni di provocazione da parte di finti deportati si intrecciano e si moltiplicano . Un primo progetto di fuga che doveva avvenire la notte di Natale del 1927 fallisce perché proprio alcune settimana prima  scatta una grande retata dietro denuncia di un agente provocatore che sostiene che a Lipari si stava tramando per fare cadere il regime.

  

Emilio Lussu in alto e Carlo Rosselli sopra.

Si avvicinava – racconta Lussu – il Natale del 1927. La colonia si preparava a celebrare la festa. Erano pronti gli alberi e i doni per i bambini dei nostri compagni. Quando ecco arrivare nella notte , una nave da guerra. Sorpresa generale per il fatto straordinario. Scesero 200 carabinieri, militi, ufficiali, commissari, ispettori e il Procuratore del Re presso il Tribunale Speciale. Duecentocinquanta confinati furono arrestati nella notte e condotti al Castello. Il giorno dopo la città sembrava in stato d’assedio. Gli arrestati furono interrogati il giorno successivo. A notte tarda 200 di essi furono messi in libertà. Solo allora il mistero si chiarì. Si trattava di un ‘complotto’ contro la sicurezza dello Stato miracolosamente sventato. Quattrocento deportati politici, in un’isola così vigilata,  mettevano in pericolo l’autorità dello Stato!. I cinquanta e più indiziati furono  imbarcati, all’indomani, sulla stessa nave da guerra. Squadre di ammanettati, tenuti uniti tra di loro con lunghe catene, sfilarono per la città. Agli altri deportati era vietato assistere alla partenza e avvicinarsi alle banchine. Ma l’ambiente era elettrizzato. Tutti i confinati si ribellarono al divieto e si riversarono sulla banchina. I cordoni armati furono impotenti a respingerli. Era la prima rivolta collettiva contro un ordine superiore. In seguito a questi arresti, furono fatte chiudere le trattorie cooperative che i deportati si erano organizzate per risparmiare sul vitto, i piccoli clubs sportivi. La vita divenne più pesante.

A fine dicembre del 1927 giunge al confino di Lipari un altro ospite illustre: Carlo Rosselli[7]che arrivava con la fama di chi aveva organizzato la fuga di Turati in Francia . La descrizione che egli fa di Lipari in una lettera alla madre  del 31 dicembre è lusinghiera.” Non ci sono possibilità di confronti fra Ustica e Lipari per quanto attiene la vita materiale. Già questa è una cittadina ricca e pulita con due grandi strade lastricate. Si trova di tutto. Quattro farmacie, salumerie ( ce n’è una bellissima e fornitissima), macellerie, orologerie, bazar, negozio di mobili ec. Insomma un vero Eden per chi ricorda Ustica Petrosa[8].

Meno lusinghieri sono gli interrogativi che si pone suoi costumi e la religiosità di questo popolo. “E’ incredibile – scrive in una lettera alla madre il 22 agosto del 1928 – il numero delle feste e conseguenti processioni in questi paesi. Non meno del doppio del normale. Strano che non se ne stufino; giacché sono sempre eguali e soprattutto sono sempre i medesimi a doversi vestire, incolonnare, camminare per ore ed ore. E’ evidente che c’è qualcosa della psiche locale che ci sfugge. Un qualcosa che non è vero profondo sentimento religioso: forse un misto di superstizione, estetismo grossolano, solidarietà paesana, amor di tradizione. Tant’è vero che anche persone evidentemente incredule e miscredenti si guardano bene dal mancare a queste cerimonie ufficiali del clan[9].



[1] Per la redazione di questo paragrafo abbiamo fatto riferimento soprattutto a L. Di Vito e M. Gialdoni, Lipari 1929. Fuga dal confino, Bari, 2009.

[2] G.Iacolino, Strade che vai, op. cit., pag. 174.

[3] Idem, pag.8. Le frasi sono riportate da Emilio Lussu, Memoria di Lipari, in “Archivio sardo del movimento operaio, contadino e autonomistico” quaderno 8/10, 1977.

[4] J. Busoni, Confinati a Lipari, Milano, 1980.

[5] E. Lussu, op. cit.

[6] L. Di Vito e M. Gialdroni, Lipari 1929, op. cit., pag.13.

[7]  Carlo Rosselli. Appena trentenne aveva insegnato economia politica all’Istituto Superiore di Firenze. Aveva aderito al socialismo subito dopo la morte di Matteotti e con Ernesto Rossi aveva creato a Firenze il periodico clandestino “Non mollare”.Aveva organizzato l’espatrio clandestino in Francia del capo del socialismo italiano Filippo Turati.

[8] L. Di Vito e M. Gialdroni, Lipari 1929, op. cit. pag. 67.

[9] Idem, pag.123.

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Carlo Rosselli

La sommossa contro il confino coatto ovvero "i vespri liparesi"

 

L'incauta frase di un commissario di polizia

Non si era dimenticata a Lipari la lunga permanenza della colonia coatta e la preoccupazione di un suo possibile ripristino continuava ad aleggiare nell’isola. Ogni volta che giungeva  un’ autorità sconosciuta e si recava a visitare il Castello ecco immediatamente che la cittadinanza entrava in fibrillazione. Così fu nell’agosto del 1926 quando giunse un questore di pubblica sicurezza che appunto salì al Castello e si mise ad esaminare, afferma un testimone dell’epoca[1], i fabbricati esistenti. Subito si diffuse la voce che si volevano portare dei delinquenti e si disse anche un numero: circa duecento. Per la verità – osserva Paino – era da mesi che il Governo si dava gran da fare a riattare le case del Castello, ma nessuno gli aveva posto pensiero.

Quando la voce prese corpo una delegazione di cittadini si recò dal commissario di Pubblica sicurezza Stagno, ma non riuscirono a parlargli. Migliore fortuna ebbero, il giorno dopo un bel gruppo di donne che non si limitò a chiedere di essere ascoltate, ma inscenò una manifestazione gridando “Non vogliamo i coatti”. Questa volta Stagno non poté fingere che non c’era anche perché quelle dichiaravano che non se ne sarebbero andate via finchè non gli avessero parlato.

Così si fece sulla porta e cercò di rasserenarle. Ma non c’era verso. Queste volevano l’impegno che non ci fossero nuovi ospiti al Castello e Stagno questa garanzia non poteva darla. Così ad un certo punto perse la pazienza ed esclamò:

“Ma perché ce l’avete tanto con i coatti? Certo fra voi ci sono anche figlie di coatti”. La frase cadde un macigno in mezzo alla schiera e subito si fece silenzio. “Chi dissi..chi dissi…”, domandavano quelle che si trovavano più in dietro e non avevano capito bene.[2]L’offesa era così pesante che il gruppo si ritirò. E parlottando fra di loro se ne tornarono ai propri impegni. Ma l’eco dell’insulto non si spense. Passò di negozio in negozio, di casa in casa e nel lavorio del passa parola divenne sempre più pesante ed insultante. “Il commissario ha detto è giusto che vengano i coatti perché a Lipari sono tutti coatti e figli di coatti”.

La sera arrivò silenziosa e tranquilla come era una sera d’agosto in una Lipari che non conosceva ancora il frastuono delle macchine e degli altoparlanti. Serena per le strade ma vivace nelle case . Nella villa dei De Mauro a Diana vi erano riuniti i massoni iscritti alla due Logge; alla Cattedrale vi era riunito il Capitolo al gran completo con l’Amministratore apostolico mons. Ballo con la motivazione che si doveva parlare dell’imminente festa di San Bartolomeo. L’Amministratore disse poche parole poi rimasero tutti in silenzio e  poco dopo arrivò Nunzio Esposito, un uomo che la Chiesa – commenta Paino – se l’era dimenticata da un pezzo, inviato dalle due logge.  Ballo gli andò incontro fraternamente, parlottarono fra loro e poi si abbracciarono congedandosi.

Clero e massoneria si mobilitano

Nella casa di Diana - subito dopo - parlò solo il dottor De Mauro, disse poche parole e poi tutti gli ospiti uscirono alla spicciolata ognuno con un compito ben preciso. Il messaggio da portare in tutte le frazioni era semplice. “All’indomani mattina muniti di tutti gli attrezzi che avevano: pale, picconi, randelli ma non armi da fuoco, dovevano scendere a Lipari ed, al suono delle campane, dare l’assalto al Castello”.

E così sorse la mattina del 19 agosto[3]. Tutte alla stessa ora le campane delle chiese di Lipari suonarono a distesa e da Santa Lucia, dal Vallone, dalla Marina lunga la gente arrivava a flotte ognuno con alla spalla un attrezzo dei campi, gridando “Non siamo coatti e non volgiamo i coatti”. Una massa enorme circondò il Castello ma il Commissario avendo intuito cosa stava succedendo diede ordine di chiudere l’unica entrata e di piantonare la grande porta di diversi quintali mentre lui si trincerava nell’ospedale che era nel vecchio palazzo vescovile accanto alla Cattedrale.  Vi era anche un’altra entrata al Castello, la scalinata che da via Garibaldi porta alla Cattedrale, ma questa era barricata perché il muro che era crollato non era stato ancora riparato. Comunque anche questa via era stata piantonata ed era stata affidata ad un sottufficiale liparese che non capiva cosa stava succedendo.

La gente intanto si era ammassata all’entrata chiusa dal portone e non sapeva che fare. Un giovane di diciassette anni disse che aveva un piano. Gli si fecero intorno alcuni uomini ed alcune donne ed egli spiegò che da quella parte non si poteva fare niente ma bisognava tentare dalla scalinata. Bisognava concentrare lì una parte dei dimostranti e tenerli nascosti per non insospettire le guardie e mentre un gruppetto di donne davano discorso al piantone per distrarlo, lui ed un altro ragazzo, il Belletti, si sarebbero aperti un varco nel vicolo sbarrato ed avrebbero tagliato i fili si ferro che bloccavano l’accesso alla scalinata. Finita l’opera il Belletti  lancia un grido alle donne e mentre il piantone si allontana per vedere chi ha gridato, il varco si apre e prima le donne e poi gli uomini irrompono urlando e prendendo di sorpresa i militari che sembrano sbandati e non capiscono che cosa è successo. I dimostranti corrono subito al portone dell’entrata principale, tagliano i cardini, lo divelgono e lo gettano in mare. Cominciò così la distruzione delle case e casupole che si stavano riadattando per i nuovi relegati.

“Sette ore – commenta Pino Paino - durò la distruzione del Castello e quando l’ultimo degli insorti si ritirò, sembrò che fosse passato di nuovo il Barbarossa.Solo che questa volta nessuno piangeva come allora, che anzi era ognuno felice di sentirsi nato”.

All’indomani, navigli di guerra, truppe e rinforzi di polizia giunsero da Messina e Milazzo ponendo l’isola in stato di assedio. Furono operati numerosi arresti e De Mauro fu condotto in catene a Messina. Il fratello Giovanni, capitano dei bersaglieri e presidente degli invalidi e mutilati di guerra, fece inviare un telegramma a D’Annunzio che aveva conosciuto nei lunghi anni di guerra del Carso, chiedendogli giustizia per la sua isola “poeticamente bella”.E alcuni giorni dopo il dott. De Mauro tornò a Lipari in libertà, tra le ovazioni della sua gente che continuò a curare come medico, finché non si trasferì a Messina, dove istituì una clinica che portò per lungo tempo il suo nome[4].



[1] Sulla vicenda abbiamo la fotocopia di una memoria stilata da Belletti Antonino il 10 febbraio del 1989 di anni allora 74 e quindi  11 anni all’epoca degli avvenimenti. Inoltre, sempre sulla vicenda, Pino Paino ha pubblicato una memoria in appendice a L.S. d’Austria, Le isole Lipari, vol.VIII, Parte generale.

[2] La versione che abbiamo deciso di seguire è quella di Pino Paino. Il Belletti né dà una differente. L’episodio del commissario con le donne sarebbe avvenuto al Castello il giorno della sommossa e la risposta di Strano avrebbe scatenato la violenza. Dette quelle parole sarebbe stato “preso come un sacco di patate per buttarlo fra gli scogli sotto il Castello ma l’intervento del medico De Mauro gli salvò la vita. A questo punto cominciò la distruzione”.

[3] Nella memoria di Belletti si dice che fu il 27 agosto il giorno della sommossa.

[4] P.Paino,  Francesco De Mauro e gli altri nei Vespri di Lipari del ’26, in L. S: d’Austria, Le isole Eolie, vol. VIII, op. cit.

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Belletti

I sindaci diventano podestà

 

Una sanatoria per l'occupazione dei terreni alla Recche Rosse

Nel Consiglio dell’11 ottobre 1925 viene portato dal consigliere Giuseppe Ziino il problema dell’occupazione dei terreni alla Rocche Rosse. Si parte dalla denuncia che è in atto una occupazione abusiva a spese del demanio comunale, ma si arriva ad una proposta concreta. Siccome si tratta di un terreno arido ma di possibile edificazione egli propone che la si divida in lotti e la si assegni agli “indigeni che dimostrino di essere tali”, ai mutilati, orfani, vedove e decorati di guerra solo a fini edificatori, evitando che di essi si faccia speculazione. Ed il Consiglio delibera di dare mandato all’ing.Turchio di preparare una planimetria della contrada, di predisporre i lotti e di mettere come vincolo che le costruzioni devono essere realizzate entro due anni dall’assegnazione. Si stabilisce anche un canone enfiteutico annuo di lire 15 per lotto. Saranno escluse dalla concessione le aree di possibile scavo per presenza di pomice di valore commerciale e quelle in prossimità del mare che rimarranno per l’uso civico.

In riferimento a questa iniziativa, nel 1951 l’avv. Giovanni Raffaele[1] scriverà, che l’istituto d'ufficio dal Commissario Regionale per la liquidazione degli usi civici della Sicilia verificò dal 1925 al 1929, “le occupazioni arbitrarie compiute da privati in danno del demanio comunale pomicifero di Lipari nelle contrade S. Gaetano e Grotta delle Mosche facenti parte della località Acquacalda, e nelle località Rocche Castagna, Porticello, Campobianco, Spiaggia Arena, Pietraliscia, Croce, Montepilato, Agliozzo, Rocche Rosse, Due Corna, Cavallo Arena, Serro Chiesuola, Valloni Acquacalda, Chiesa Vecchia di Acquacalda”. Ci furono diverse opposizioni  contro gli atti della verifica da parte di chi era stato incluso “negli elenchi delle occupazioni non legittimabili del demanio comunale pomicifero di Lipari”. Con sentenza del commissario degli usi civici del 21 maggio 1932[2] si ordinava la reintegra “delle zone di demanio arbitrariamente occupate dai privati, facultando il Comune ad immettersene in possesso intra trenta giorni dalla notifica dei provvedimenti, condannando inoltre gli occupatori al pagamento dei frutti indebitamente percepiti e delle spese di giustizia e di verifica, rimandando a separata sede la liquidazione di tali spese e frutti”[3].

Grazie a questa iniziativa, saranno parecchi, i gruppi familiari che  realizzeranno una abitazione e, sul finire del secolo l’amministrazione comunale opererà perché ai possessori di alloggi su terreni gravati da enfiteusi sia data la possibilità di divenire proprietari a pieno titolo. Ma la sentenza del commissario non riguardava solo i modesti “usurpatori” che avevano occupato un pezzo di terreno per farsi la propria abitazione familiare, ma anche grossi proprietari di terreni pomiciferi che avevano usurpato oppure avevano sconfinato, cioè non erano rimasti nei limiti della loro concessione originaria. E sarà proprio questo problema del reintegro dei terreni usurpati dai grossi proprietari, una delle ragioni alla base della riproposta autonomia di Canneto sul finire degli anni 40.

Per la reintegra dei terreni pomiciferi il commissario per gli usi civici inviava a Lipari per gli accertamenti l’ing. Lemmo che sarà autore di una mappa dei terreni pomiciferi, conosciuta come “mappa Lemmo”, che a lungo è stata utilizzata dagli uffici comunali come strumento di individuazione delle varie taglie. 

Fra i proprietari veri che però avevano sconfinato c’era Gaetano Saltalamacchia  di Acquacalda padre del Sindaco Salvatore Saltalamacchia. Per questa ragione il Sindaco dovette dimettersi e, malgrado una commissione di Lipari avesse fatto presente  al prefetto Guerresi che sarebbe stato utile, anche al fine di una composizione della vertenza, nominare commissario prefettizio lo stesso Saltalamacchia, il prefetto non accettò la proposta. Invece sciolse il Consiglio giacché i suoi membri erano, chi più chi meno, imparentati con gli aventi causa, e nominò commissario l’avv. Gaetano Manganaro. Questi compare negli atti del Comune di Lipari a partire dal 24 marzo 1926.

Si propone una rotabile che faccia il giro dell'isola

Salvatore Saltalamacchia tornerà alla guida del Comune il 10 aprile 1927 quando viene nominato Podestà in virtù della legge 4 febbraio 1926 n. 227.

Con la legge del 4 febbraio 1926 n. 237, che fa parte delle cosiddette” leggi fascistissime”, venne istituito il podestà. Dal 21 aprile 1927 al 1945 gli organi democratici dei comuni furono soppressi e tutte le funzioni in precedenza svolte dal sindaco, dalla giunta e dal consiglio comunale furono trasferite ad un podestà, nominato con Regio decreto per cinque anni e in ogni momento revocabile.[4]

Sempre nella seduta dell’11 ottobre e per iniziativa del consigliere Ziino si approva un ordine del giorno che è una perorazione al governo fascista perché si doti l’isola di una rotabile che permetta la “circolazione intera dell’isola” collegando fra loro Lipari, Canneto, Acquacalda, Quattropani, Pianoconte e di nuovo Lipari ed in particolare il suo porto rifugio. E questo sia per esigenze legate allo sviluppo sociale e civile sia per lo sviluppo economico e commerciale.  Questa richiesta diventa tanto più pressante osserva il Consiglio in quanto “il miglioramento encomiabile che sta avverarsi nei servizi marittimi dell’Arcipelago Eolio, apportato dal Governo, non sarebbe in sostanziale armonia con la deficienza di strade che non migliorano ma peggiorano le condizioni interne della principale fra le sette isole liparesi”.

Un sogno questo di una rotabile che percorra tutto il perimetro dell’isola che verrà concretizzata solo negli anni 70. Invece un altro sogno che finalmente viene a compimento è quello di avere la strada centrale di Lipari degna di un vero e proprio corso.

Il 13 aprile del 1925 il Consiglio deliberò l’allineamento fra la casa di Michele Antonucci con quella del dott. Gaetano Fenech eliminando così tutte le porzioni di fabbricato e di terreni eccedenti questa linea. Spariva così ‘u Strittu a Sena che da qualche tempo aveva assunto il nome di via Eolia ma tutti continuavano ad indicarlo col vecchio nome. Passarono sedici mesi dalla delibera ed ora Lipari aveva corso Vittorio Emanuele che da San Pietro correva diritto fino sopra il piano. Un corso con la sua brava pavimentazione a basole ed i marciapiedi con mattoni di cemento[5].



[1] Avv. G. Raffaele, Per l’integrità territoriale del Comune di Lipari. Memoria storico-giuridica, Lipari 1951.

[2] Pubblicata a stampa sul Bollettino degli Usi Civili, anno II, fascicolo V, maggio 1932 pagine 1889 a 1959)

[3] Avv. G. Raffaele, op. cit.

[4] Nei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti il podestà poteva essere affiancato da uno o due vice-podestà (secondo che la popolazione fosse inferiore o superiore a 100.000 abitanti), nominati dal Ministero dell'Interno. Il podestà era inoltre assistito da una consulta municipale, con funzioni consultive, composta da almeno 6 consultori, nominati dal prefetto.

[5] G. Iacololino, Strade che vai, memorie che trovi, op. cit. , pag. 162-163.

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Saltalamacchia podestà

Finalmente l'illuminazione elettrica

 

La proposta di Giuseppe De Luca

Il primo stabilimento della Società Elettrica Liparese

Il 25 maggio del 1925 il Consiglio Comunale approva di prendere in esame il capitolato presentato da Giuseppe De Luca per la “concessione dell’impianto ed esercizio di una centrale termo elettrica per l’illuminazione pubblica e privata nella città di Lipari e frazione di Canneto”con 16 voti favorevoli, quattro contrari ed un astenuto. L’anno precedente il commissario Cesare Ferri sulla base di un progetto di impianto redatto per conto del Comune dall’ingegnere “motricista” Rumore, aveva pubblicato un bando di concorso. Erano giunte al comune tre proposte: del sig. Scanu, del sig. Perrone e del sig. De Luca. Venuta meno la proposta Scanu erano rimaste in discussione le ultime due ed il Consiglio  dopo aver ampiamente discusso era giunto, a maggioranza, alla determinazione di prendere il esame il capitolato presentato da De Luca rigettando quello di Perrone. Inoltre aveva dato mandato all’Amministrazione di apportare, assistita da un tecnico, le modifiche ritenute convenienti agli interessi del Comune dei privati e di concludere le trattative con la ditta De Luca mantenendo invariata la misura del canone che era stata indicata in lire 70 mila annue.

Nella sua richiesta il De Luca aveva sottolineato che questa cifra poteva sembrare esagerata ad una prima considerazione, ma “non è altro che una ristretta risultanza di precisi calcoli, e ciò a causa del rilevante capitale occorrente per l’impianto e del non meno oneroso esercizio. Essa è quindi irriducibile se l’Amministrazione vuol disporre di un impianto elettrico che ne assicuri, in tutti i tempi, un ottimo funzionamento[1]

Il De Luca non chiede al Comune alcuna partecipazione alle spese per la rete di distribuzione pubblica, opere murarie ecc. e garantisce che tutte le spese di esercizio compreso il ricambio delle lampade restano sempre a suo carico.

La concessione, in esclusiva, della durata di trent’anni “a cominciare dal giorno di inizio dell’esercizio” riguarda – dice l’art. 1 - “una centrale termo elettrica con tutte le linee e reti di distribuzione dell’energia elettrica ad alta e bassa tensione, per l’illuminazione pubblica e privata, e per la distribuzione di forza motrice”.

All’art. 4 si prevede che il Comune, senza indennizzo alcuno, concederà “il diritto di occupare gratuitamente il suolo, soprasuolo e sottosuolo comunale delle vie, piazze ed aree comunali in genere, per la distribuzione dell’energia elettrica, a condizione che dopo eseguiti i lavori non resti impedito, né ostacolato il transito ed uso delle suddette aree”.

L’impianto pubblico di illuminazione, è detto all’art. 5, consterà di 282 lampade ad incandescenza a Lipari e di 64 a Canneto. “Complessivamente n. 346 lampade, la ubicazione delle quali  dovrà limitarsi entro il perimetro della città e verrà fissato dalla Amministrazione comunale. Dopo la prima collocazione ogni altro spostamento voluto dal Comune, sarà a carico e spesa dell’Amministrazione e da eseguire sempre dalla società concessionaria. La società usufruirà gratuitamente, per tutta la durata della concessione, di tutto il materiale di illuminazione a petrolio, come bracci, candelabri, ecc; s’intende che tale materiale resterà di proprietà del Comune ed è obbligo della Società di riconsegnarlo allo scadere della concessione. L’orario di accensione e spegnimento delle lampade sarà regolata da apposita tabella che sarà controfirmata dalle parti”.

Per ogni ulteriore lampada installata e per aumento di intensità di quelle esistenti, il canone sarà aumentato di lire 1,50 per kwh.

Il Comune – si dice all’art. 8 – entro i limiti della disponibilità locale di energia elettrica “ha il diritto di chiedere in linea temporanea, in occasioni di feste, fiere ed altre pubbliche riunioni, la illuminazione di quella parte di suolo entro il perimetro della città, che riterrà opportuno previo pagamento, a presentazione di fattura, delle spese d’impianto mentre l’energia sarà pagata” al prezzo di lire 1,50 per kwh.

Un apposito articolo, il 13°. Regolamenta il prezzo dell’energia ai privati. “Il Comune lascia libera la società concessionaria di praticare per la fornitura di energia elettrica e di fora motrice ai privati quei prezzi che più convenienti si renderanno opportuni col variare dei tempi, delle condizioni commerciali del paese e del valore effettivo della lira carta, e ciò per permettere in ogni tempo un adatto andamento che possa assicurare alla società concessionaria un buon funzionamento. Le spese per l’impianto interno resteranno sempre a carico dell’utente, e poiché è interesse comune sia dell’utente, come della società concessionaria, che tutti gli impianti, sia di illuminazione che di distribuzione di fora motrice rispondano a quei requisiti che la tecnica moderna richiede, quest’ultima si riserva il diritto di concedere l’energia solamente a quegli utenti il cui impianto interno è stato è stato eseguito da un elettricista autorizzato dalla società stessa.

Un articolo parla della vigilanza e del controllo da parte delle Guardie municipali sul rispetto delle lampade, dei circuiti e degli apparecchi di proprietà della società “come se fossero di proprietà pubblica”avvertendo tempestivamente la società di ogni inconveniente e guasto.

Nasce la S.E.L.

Bartolo Zagami

Dopo poche settimane viene firmato il contratto con la Società Elettrica Liparese. Soci fondatori erano Gaetano Giuffré, Giuseppe De Luca e Bartolo Zagami.

Col tempo la SEL si sarebbe identificata con il comm. Bartolo Zagami[2].  La decisione di impegnarsi in questa impresa la racconta lui stesso[3] con un simpatico aneddoto. Una casuale gita lo fece tornare a Lipari l’8 Settembre 1922, segnando definitivamente quello che sarebbe stato il suo futuro; infatti, alla sera, durante una partita di carte giocata alla fioca luce di una candela in casa della futura moglie Iolanda Saltalamacchia, che lo aveva colpito per la sua giovane bellezza, scommise che avrebbe portato la luce elettrica in quell’isola così bella ma anche così buia. Naturalmente quelle parole dette così all’improvviso da un giovane sollevarono la ilarità dei presenti; ma la promessa, nata quasi per gioco, si concretizzò nel giro di qualche anno per la grande audacia e la grande volontà del giovane Bartolo. Si trattava di un progetto arduo, anzi pauroso, principalmente per la mancanza di disponibilità economica e il rifiuto categorico del padre che non ebbe fiducia nell’operato del figlio. Ma una sua zia, sorella della madre, accettò spontaneamente di aiutare il giovane nipote che aveva cresciuto e ammirato per le sue doti. Cominciarono per lui anni di duro lavoro, di dubbi, di preoccupazioni, di notti insonni, ma il 26 Settembre 1926, la Società Elettrica Liparese, creata e voluta dal giovane Bartolo, venne inaugurata. Madrina la signorina Iolanda Saltalamacchia, ormai sua fidanzata. Tale complesso, iniziato con un solo motore - oggi immortalato in uno spiazzo di fronte alla nuova centrale elettrica-  venne poi aggiornato e modernizzato negli anni al passo con i tempi. Nel 1963 una nuova Centrale più grande, più moderna fu costruita e oggi ben 13 motori lavorano per fornire la costante richiesta di luce elettrica.

La centrale divenne quindi operativa il 25 settembre 1926 e l’evento ha un riscontro in Consiglio comunale dove il consigliere Giuseppe Ziino nel complimentarsi col Sindaco coglie la coincidenza che la luce elettrica tanto attesa arrivi a Lipari quando “compiesi un anno da che l’Amministrazione Fascista assunse il potere”.



[1] Dal verbale del consiglio comunale del 25 maggio 1925.

[2] Bartolo Zagami nacque ad Alicudi il 12 Gennaio 1900, secondo di cinque figli che ebbero naturalmente destini diversi ma raggiunsero tutti notevoli affermazioni sia nel campo lavorativo che in quello scientifico e politico. Salvatore, primogenito; ingegnere navale, navigò sempre nelle maggiori navi che toccavano i porti dell’Estremo Oriente e dell’America e, proprio quì, durante la guerra del 1940, restò prigioniero di guerra; ma quei lunghi anni gli servirono per incontrare spesso la sorella Carmela che sposatasi molto giovane, viveva a New York con la sua numerosa famiglia.Vittorio, grande studioso, laureatosi in Medicina, divenne docente universitario giovanissimo. Insegnò per oltre 30 anni all’Università di Palermo che, dopo la sua morte, gli dedicò l’Aula Magna; fu autore di oltre 400 pubblicazioni, componente del C.N.R., Presidente della Società Italiana di Biologia Sperimentale, medaglia d’oro del Ministero della P.I., dottore in Farmacia honoris causa. Leopoldo, dirigente dell’Inail, si dedicò alla politica e fu eletto senatore in diverse legislature. Amò intensamente le “sue isole” e, dopo interminabili studi e affannose ricerche storiche, scrisse 4 libri per farne conoscere la loro lunga e importante storia.

L’intera famiglia Zagami si trasferì a Messina nell’Ottobre del 1909, dove tutti i fratelli studiarono sotto la guida dei genitori, in particolare della madre, donna modesta ma dotata di vivissima intelligenza che li spronò sempre a studiare per crearsi un avvenire decoroso. Il passaggio dalla piccola, aspra e silenziosa isola di Alicudi alla città di Messina, benché distrutta dal terremoto del 1908, aprì a tutti i fratelli nuovi orizzonti e una nuova visione della vita: nuovi abitudini, nuove conoscenze, studi più seri e nuovo modo di vivere e socializzare.

Ultimati gli studi Bartolo frequentò l’Accademia navale di Livorno che lo mise a stretto contatto con un ambiente diverso; ambiente severo che perfezionò la sua formazione e gli aprì nuovi orizzonti. Le crociere con l’Amerigo Vespucci che resteranno sempre vive nei suoi ricordi e nei suoi racconti preferiti, spronarono giornalmente la sua irrequieta fantasia sempre alla ricerca affannosa di crearsi un suo lavoro libero ed individuale e le cui responsabilità di successo o insuccesso sarebbero dipese solo dalle sue capacità e dalle sue future decisioni. Egli sognava di creare qualcosa di suo perciò, quando ultimata l’Accademia, per accontentare il padre aveva vinto un concorso alla dogana, rifiutò decisamente il posto. Questo qualcosa di suo fu appunto la SEL.
La sua grande dedizione al lavoro gli fu pubblicamente riconosciuta nel 1967 dalla CCIAA mediante la consegna del diploma di “ Premiazione per la fedeltà al lavoro e per il progresso economico ed il conferimento del titolo di Commendatore del Lavoro” il 27 Dicembre 1965. Morì a Lipari ormai novantenne.

[3] Dalla nota preparata dalla famiglia in base ai ricordi in occasione della richiesta del Rotary Club di Lipari di dedicare al comm. Bartolo Zagami una strada di Lipari.

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Bartolo Zagami

L'avvento del fascismo e il commissariamento del Comune

 

Max Gubler, Processione a Lipari . Le confraternite

A Roma un "uomo d'ordine" S.E.Mussolino

Il 21 dicembre 1922 il Sindaco informa il Consiglio che trovandosi a Roma per pratiche del Comune fu sorpreso “dagli avvenimenti rivoluzionari dello scorso ottobre che per la fortuna d’Italia si compirono pacificamente e portarono al governo un uomo della fibra imponente e dalla mente lucida e di larghe vedute qual è S. E. Mussolino. Egli ha fede nel puro e immenso patriottismo di Lui e che mercé la sua opera sagace ed illuminata la nostra Italia possa essere ricondotta alle sue antiche grandiose tradizioni. E’ sicuro di interpretare l’animo del paese ed i sentimenti del Consiglio proponendo al Consiglio per acclamazione un voto di fede e di devozione verso un  Uomo che incarna tutte le speranze della Patria nostra[1]. Naturalmente il Consiglio per acclamazione accoglie la proposta del Sindaco.

E’ un uomo moderato Felice Famularo e rifugge dagli eccessi. Mussolini gli piace perché gli appare come un uomo d’ordine ma fu contento quando vide che la “marcia su Roma” aveva avuto uno sbocco pacifico. La figura di Mussolini  viene ad inserirsi nella sua visione a fianco a quella della Patria e della Monarchia.

  

“La popolazione liparese è stata – dirà nel Consiglio del 14 aprile 1923 -  per natura della migliore indole sociale e morale, tenacemente attaccata alla Patria ed alla Monarchia, che ne presiede sapientemente le sorti, ma i malsani contatti, durante la guerra, determinarono anche qui, una certa impulsività ed intolleranza che, pur restando sempre nell’orbita delle leggi, della Patria e della Monarchia, taluni elementi determinavano delle agitazioni, che si è dovuto durare fatica per contenere ed evitare spiacevoli conseguenze. Fu sollevata la quistione operaia, in confronto della lavorazione del “lapillo pomicifero”, che dette luogo a tumultuose manifestazioni, ed il Governo mandò, in un primo tempo, l’ingegnere capo delle miniere di Caltanissetta e poi un Ispettore Generale del Ministero”.

In apertura della seduta del 14 aprile , prima di addentrarsi nelle controdeduzioni alle Risultanze dell’inchiesta Bua, annunzia che ha telegrafato al Ministro della Real Casa perché comunichi a S. Maestà i sentimenti di devozione delle popolazioni eoliane con gli auguri più ferventi per le nozze della Principessa Iolanda e giacchè c’è – inaugurando le sedute ordinarie di primavera – sente anche il bisogno di proporre al Consiglio di inviare “un saluto di affetto e di solidarietà a S.E. il Presidente dei Ministri On. Mussolini, il quale si rende sempre più benemerito per la Nazione per il Suo coraggioso ed immane lavoro di ricostruttore”. Ed anche qui unanimemente il Consiglio approva.

Il Consiglio del 14 aprile è l’ultimo presieduto dal Sindaco Ferlazzo. Nei verbali non abbiamo trovato traccia del perché la sua amministrazione sia stata rimossa. Giuseppe Iacolino, nel suo lavoro sulle strade di Lipari[2], lascia intendere che malgrado il commissariamento e la rimozione, la collaborazione del cav. Ferlazzo al Comune sia continuata operando di concerto con il regio commissario Ferri. Ma di questa tesi non abbiamo trovato riscontro alcuno. A stare ai verbali sembrerebbe che la lunga relazione  del 14 aprile in risposta alle “Risultanze dell’inchiesta” stese dal cav. Bua, non abbia avuto esito positivo.

Gli addebbiti comunicati dal Commissario prefettizio

Il Commissario prefettizio con nota del 3 aprile 1923 aveva comunicato all’Amministrazione dodici addebiti. Alcuni si riferivano a carenze formali: mancata tenuta da parte della segreteria di alcuni registri; irregolare tenuta dei registri delle deliberazioni, mancanza dell’inventario dei beni mobili e immobili del Comune; irregolare tenuta degli archivi e della raccolta delle leggi e dei decreti. Altre sempre di carattere formale apparivano però più consistenti come il ritardato impianto del servizio anagrafico. Ve ne erano però altre ancora di un certo peso e di sostanza come l’accusa di indebita ingerenza all’ingegnere agronomo e consigliere comunale Pietro Amendola in lavori comunali; abuso da parte della Giunta della facoltà di deliberare con i poteri del Consiglio; iscrizione nella parte attiva del bilancio di somme delle quali non si è curata la riscossione falsando così i risultati del bilancio; debiti verso la cassa provinciale scolastica ed i medici condotti; mancata riscossione di diritti di segreteria ed omissioni nell’applicazione della tassa di licenza sulle cave e mancata riscossione della sovrimposta comunale sui terreni e fabbricati; usurpazione del demanio comunale pomici fero ed usurpazione sugli altri demani; irregolare funzionamento dei servizi di igiene, di polizia urbana, di nettezza pubblica e di tutti gli altri servizi municipali; disorganizzazione ed inattività del corpo dei polizia municipale; completo abbandono del cimitero e dell’ospedale.

Da qui la rimozione ed il commissariamento anche se, per dire la verità, il Sindaco rispose puntualmente – in coda alla relazione sull’attività della sua amministrazione - addebito per addebito e spesso con efficacia. Inoltre gran parte degli addebiti ci parevano imputabili  soprattutto alle  precedenti amministrazione prima che a  quella Ferlazzo. Comunque a metà agosto arriva a Lipari il regio commissario Cesare Ferri che vi rimarrà fino al settembre del 1924 quando Lipari tornerà ad avere un Sindaco a seguito delle elezioni  del 22 giugno 1924, il rag. Salvatore Saltalamacchia. Il cav. Ferlazzo sembra essersi ritirato dalla vita amministrativa.

Toccherà al commissario, un giorno di maggio del 1924[3], deliberare la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, “Duce Supremo del Fascismo” , “interpretando i sentimenti purissimi di ammirazione e di fedeltà di questa popolazione verso lo statista che regge oggi con tanta sicurezza le sorti d’Italia”.

Il 14 settembre, quando sarà ripristinato il Consiglio comunale , questo sarà chiamato a testimoniare la sua “fedeltà fascista”. Il Sindaco Saltalamacchia “prima di iniziare i lavori della sessione pervaso da profonda commozione partecipa al Consiglio l’efferato delitto compiuto a Roma da mano assassina in persona dell’on. Armando Casalini[4], del quale ne tesse gli elogi di fascista fervente d’intemerato cittadino, di strenue difensore dei diritti della Classe operaia della quale era apostolo convinto. Formula l’augurio che cessi finalmente nella nostra amata patria la follia dei delitti politici, e nel mentre manda alla cara memoria dell’illustre estinto un deferente saluto avendo avuto occasione di ammirare le peculiari virtù, e la bontà infinita dell’animo suo; propone acché il Consiglio esprima oggi tutto il suo profondo rammarico inviando le proprie condoglianze alla Vedova ed agli orfani derelitti”.

In segno di lutto il Consiglio sospende i lavori per un quarto d’ora. Alla ripresa l’avv. Casaceli, del Partito Popolare, a nome della minoranza, si associa al cordoglio “ e nel mentre depreca tale grave delitto come quello dell’on. Matteotti[5], manda alla memoria degli illustri estinti un deferente saluto con l’augurio che cessi la mania delle basse lotte politiche e la vile persecuzione degli uomini di fede a qualunque partito appartengano per benessere dell’Italia nostra abbisognevole di concordia e di pace”. Anche questa volta il Consiglio, unanimemente si dice nel verbale, si associa.

Come in Italia così anche a Lipari dovevano moltiplicarsi le manifestazioni fasciste, le sfilate concluse al grido di  “Eia Eia Alalà”, l’esclamazione dannunziana assunta poi dal fascismo. E qualche riverbero si ha anche in Consiglio comunale. Così l’11 ottobre 1925 il consigliere Zagami, “per dare una vera sensazione dello spirito fascista liparese” propone di cambiare nome alla piazzetta del Pozzo che era stata intitolata a Giolitti e di dedicarla invece a Mussolini, “nostro grande ed amato duce”. Il consigliere Francesco Paternò propone invece di intitolargli “un’opera più bella e più grande”. Alla fine non si fa niente ma ci si consola concludendo il dibattito con un triplice “Alalà”

Qualche settimana dopo, il 22 novembre, il Consiglio è chiamato a riflettere sulla “turpe congiura di criminali e di folli – così esordisce il Sindaco Saltalamacchia –che cercava di colpire il nostro amato e glorioso Duce nel giorno in cui  tutto il popolo italiano con solenne rito celebrava l’anniversario della Vittoria. I nemici della Patria cercavano colpire a mezzo del vile sicario, non solo il grande genio ma l’Italia tutta per buttarla nel caos di una rivoluzione”.

Il  “vile sicario” era l’on.Tito Zaniboni, uomo mite e tranquillo, decorato per eroico comportamento nella guerra 1915-18, deputato socialista dal 1921 al 1924 e uno dei protagonisti del patto di pacificazione tra socialisti e fascisti nell’agosto del 1921.  Il 4 novembre aveva organizzato con il generale Luigi Capello un attentato contro Benito Mussolini nel quale avrebbe dovuto far fuoco con un fucile di precisione da una finestra dell'albergo Dragoni, di fronte al balcone di palazzo Chigi da cui si sarebbe affacciato il duce. L'attentato fallì in seguito al tradimento di un compagno e di una spia che lo affiancava ; Zaniboni fu arrestato tre ore prima dell'attentato[6].

22 agosto 1926 - Arrivo a Portinente della reliquia di un pezzo di pelle di San Bartolomeo donato a Mons. Paino dal Capitolo di Venezia.

Ma queste cose a Lipari, ma non solo a Lipari, non si sanno. Chi attenta a Mussolini non può essere che un mostro e così il Consiglio che ha seguito in piedi il discorso del Sindaco, “improvvisa – si legge nel verbale – una delirante manifestazione con vivissimi, prolungati e reiterati applausi e grida di “Viva Mussolini! Viva il Duce! Viva il Fascismo!”.

In questo clima viene deciso di aderire all’appello di Mussolini di aprire una sottoscrizione popolare del dollaro per l’estinzione dei debiti di guerra con l’America.  Si vota un contributo a nome del Comune e si costituisce una commissione per la raccolta del dollaro fra la popolazione.

Al voto di solidarietà ed alla sottoscrizione per il dollaro ha concorso anche la minoranza che, conferma il consigliere Bonica, deplora “il misfatto che si voleva compiere contro il Capo del Governo”.

Di rientro da Portinente con la reliquia del Patrono.

L’ordinaria amministrazione di un commissario

Nell’anno in cui Ferri rimase commissario, oltre che alla cittadinanza a Mussolini, provvide anche a prendere decisioni di un certo rilievo per lo sviluppo della comunità liparese come l’istituzione di una farmacia a Canneto che con le borgate viciniori ammontava ora a circa 5 mila abitanti, l’incarico ad una ditta di Palermo a praticare saggi nel terreno per rintracciare acqua potabile, l’erezione di un segnale luminoso sulla secca di Capo Graziano a Filicudi dopo “la sorte toccata alla R.Nave Città di Milano”; l’istituzione di una delegazione per lo stato civile a Ginostra; il riconoscimento di un posto di applicato di segreteria comunale ad un funzionario di stanza a Canneto addetto al controllo e la riscossione della tassa di esportazione della pomice per i piroscafi in partenza da quella frazione; lo sdoppiamento della classe della scuola di Pianoconte che conta 121 alunni con l’affitto di una sede per la seconda aula.

Il 27 febbraio 1924 il commissario conviene che ci sia la necessità assoluta ed urgente di provvedere ad un ospedale che per la sua ampiezza e la disponibilità della strumentazione necessaria sia in linea con le moderne cure sanitarie mentre l’attuale è sprovvisto dei vani necessari, delle apparecchiature indispensabili per operare, e di un sufficiente numero di letti. Sulla base di queste considerazioni il commissario, con i poteri del Consiglio comunale , delibera di contribuire alla spesa occorrente alla costruzione del’ospedale mandamentale in due modi: con il versamento di lire 55 mila che erano dovute dal Comune alla Congregazione di Carità fin dal 1888 quando quest’ultima vendette al Comune medesimo il fabbricato del vecchio ospedale e con la cessione, sempre al Comitato, del terreno acquistato dal Comune per la costruzione del nuovo ospedale. Anche a questo proposito infatti vi era un impegno del Comune con la Congregazione di Carità non mantenuto: quello di costruire nel sito dell’ex Convento dei Minori Osservanti – poi divenuta sede del nuovo municipio -  un nuovo ospedale che sarebbe stato consegnato, una volta ultimato, alla Congregazione.

Il 10 maggio sempre il commissario fa voti al Governo perché si realizzino due pontili, uno a Canneto ed uno ad Acquacalda, per lo sbarco e l’imbarco della posta, dei viaggiatori e delle merci. “Uno sbarco meno pericolo ed incerto di quello attualmente adottato, che è semplicemente primitivo”, cioè consistente nella barca che collega il piroscafo alla spiaggia attraverso una serie di viaggi che in inverno e con le condizioni marine avverse diventa spesso impossibile.

Il 14 marzo il commissario provvede finalmente a chiudere il contenzioso con la ditta Onofrio Russo, appaltatore del basolamento di via Emanuele Carnevale e via Maurolico , lavori ultimati, saldando quando stabilito nella transazione stabilita dalla Commissione arbitrale di Roma; e autorizza il pagamento delle pendenze relative al crollo del muro lungo la scalinata per la Cattedrale del 5 marzo 1915. Il 14 maggio autorizza la redazione del progetto per la rotabile Canneto- Acquacalda; per la strada di accesso al porto rifugio di Pignataro e per la strada Ginostra- San Vincenzo affidandoli  all’Istituto Nazionale opere pubbliche.

Il 2 giugno al Ferri tocca occuparsi del problema delle condotte nelle isole. Nel 1923, ancora Sindaco Ferlazzo era stato disposto che le sette condotte diventassero cinque cioè che ne venissero abolite due. A questa decisione l’Amministrazione si era opposta giudicando le sette condotte – due a Lipari con assistenza anche a Vulcano, una a Canneto ed una per ciascuna isola di Alicudi, Filicudi, Panarea e Stromboli – tutte indispensabili. Ora invece sembra che si sia pervenuto ad un compromesso: le condotte passino da sette a sei venendo abolita quella di Panarea – che comunque pare non avesse più titolare dal 1914 e fosse affidata al medico di Stromboli – e posta quell’isola nelle cure di una condotta di Lipari. In attesa che venga approvato il nuovo capitolato viene esonerato dell’assistenza a Panarea  il medico di Stromboli che per via delle linee marittime non avrebbe più ritorno su Stromboli prima di quattro giorni, e vien incaricato del servizio il dott. Cristoforo Merlino, libero esercente in Lipari, che si è offerto spontaneamente.

La bigata di Lipari (1907)

Anche della fornitura neve e del ghiaccio trasparente a Lipari e Canneto deve occuparsi un commissario. Così il 27 giugno deve provvedere con urgenza al rinnovo dei contratti che scadono il 2 agosto. Chi vince la gara d’appalto dovrà garantire la vendita di neve e ghiaccio trasparente in  magazzini collocati nel centro di Lipari e di Canneto dal 5 luglio al 30 settembre dalle sei del mattino alle 11 di sera e, in casi eccezionali stabiliti dall’autorità municipale, dovrà fare anche servizio notturno.



[1] Verbale del consiglio comunale del 21 dicembre 1922. il nome “Mussolino” compare così nel verbale. E’ difficile dire se si tratta di un errore di Famularo o del segretario comunale.

[2] Strade che vai memorie che trovi, Milazzo 2008, pag. 132

[3] Nel verbale il giorno è lasciato in bianco forse per dimenticanza.

[4] Armando Casalini (Forlì, 1883Roma, 12 settembre 1924) è stato un politico italiano, deputato fascista, esponente delle Corporazioni sindacali. Prima era stato repubblicano,  amico di Pietro Nenni e partecipò alle proteste politiche e sociali del giugno 1914 culminate nella Settimana rossa. Segretario del Partito Repubblicano dal luglio 1916 all’aprile del 1920, dopo la costituzione dei Fasci di combattimento si avvicinò alle posizioni di Mussolini: nel 1922 lasciò il partito fondando l’organizzazione filofascista Unione Mazziniana, e nel 1924, candidato nel cosiddetto listone fascista, fu eletto al Parlamento..Nominato vicesegretario generale delle Corporazioni, fu assassinato in un tram a Roma con tre colpi di rivoltella da un certo Giovanni Corvi, che dichiarò di aver voluto vendicare così la morte di Giacomo Matteotti.

[5] Giancarlo Matteotti, deputato socialista era stato assassinato da sicari fascisti il 10 giugno 1924.

[6] Zaniboni fu condannato per alto tradimento a trent'anni, poi commutati nel confino a Ponza.

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Il Sindaco Saltalamacchia

Canneto vuole l'autonomia

 

I Cannetari sperano in una legge

Canneto nei primi decenni  del '900

A metà del 1922 scoppia per il povero Sindaco Ferlazzo un fulmine a ciel sereno. Canneto vuole l’autonomia. Da tempo questa notizia serpeggiava fra la gente ma a Lipari la si considerava con scetticismo. Era un’idea velleitaria e balzana, si diceva, portata avanti da persone avventurose e fondata su presupposti sbagliati. Ma a Canneto ci si credeva veramente. Erano in molti a non essere soddisfatti di come il Comune amministrava l’isola e poi… c’era chi soffiava sul fuoco.  Il piccolo borgo di cavatori dell’inizio dell’800 era diventata ormai una cittadina di duemila abitanti e si sentivano trascurati. Lipari si apprestava ad essere una cittadina con tre belle strade basolate, Canneto non ne aveva nemmeno una. Via era la via della marina e nient’altro. Dietro di questa le case si andavano assiepando disordinatamente. Si parlava di una via parallela che dovesse sorgere dietro la Chiesa di S. Cristoforo ma i discorsi rimanevano tali. La rotabile andava avanti a passo di lumaca e c’era chi accollava anche questo ai liparesi sostenendo che se ne disinteressavano.

Ai primi di luglio “l’idea balzana” approda al Parlamento. Una petizione con tante firme, non solo di Canneto ma anche di Lami, Acquacalda, Pirrera,, promossa, si dice da don Felice Sciarrone, uno dei leader del movimento dei lavoratori della pomice e attivista socialista,. era giunta sul tavolo di un deputato, l’on.Giuseppe Toscano, che l’aveva trasformata in disegno di legge per la costituzione a Comune autonomo della frazione di Canneto ed era riuscito a farla mettere in calendario per essere discussa alla Camera. Sciarrone era il promotore e quello che aveva rapporti con Roma ma con lui c’era tutta la classe dirigente di Canneto a cominciare dai sei consiglieri comunali della frazione : Vincenzo d’Ambra, Francesco Carbone, Antonino Portelli, Giovanni Ferlazzo Natoli, Giovanni Raffaele, Antonino Profilio.

Appena saputa la notizia il Sindaco convoca d’urgenza il Consiglio Comunale e l’11 luglio 1922 si tiene la seduta sul tema in prima convocazione.

Quando i consiglieri si ritrovano nella sede di Piazza Mazzini ci si accorge che mancano i consiglieri di Canneto. Una assenza deliberata? Se lo chiedono in molti quel giorno e la cosa sarà oggetto di polemica. I liparesi la prendono come un affronto, come la decisione di non volere nemmeno discutere della questione. I cannetari sosterranno di essere stati in qualche modo raggirati.  Siccome venire da Canneto non era agevole, siccome quasi mai i Consigli si svolgevano in prima convocazione perché quasi sempre mancava il numero legale, si erano informati – Ferlazzo Natoli aveva telefonato all’assessore Saltalamacchia – ed avendo avuto rassicurazioni in questo senso se ne erano restati a casa.

Invece il Consiglio si svolge regolarmente e nessuno giustifica i consiglieri di Canneto. Il Sindaco entra subito nel merito del tema  e  afferma la sua convinzione che la separazione della frazione di Canneto sarebbe  di gravità, sia per Lipari, quanto per lo stesso Canneto “ed ha sempre sperato che gli agitatori, nel momento di consapevolezza, comprendessero la gravità del danno. Il Comune mai nulla ha negato di ciò che è stato richiesto dalla rappresentanza della frazione la quale fino a pochi mesi fa ha collaborato nell’Amministrazione con la massima concordia. I servizi pubblici a Canneto sono identici a quelli di Lipari e procedono in eguale maniera. In ogni occasione, sia in Consiglio Comunale, sia in pubblici comizi, egli ha fatto caldissimo appello alla concordia”[1].

Intenso si sviluppa il dibattito. Scolarici dice che Canneto ha una  numerosa rappresentanza in Consiglio e un assessore nell’Amministrazione, come fa a sostener di essere emarginata? Propone quindi una Commissione con poteri illimitati che si rechi a Roma per sostenere l’integrità del Comune e vanga a questo scopo stanziata una somma in Bilancio.

Palamara sostiene che le conseguenze di una separazione sarebbero gravi per entrambi. Come si applicherebbe la legge sulla pomice qualora fossero due i comuni che dovrebbero applicarla? Il pericolo è che la legge può  divenire inapplicabile. De Mauro considera che  il demanio pomicifero da il diritto di scavazione della pomice a tutti i naturali dell’isola ed ogni lavoratore ha diritto di sfruttare il demanio in ogni sua località senza distinzione di luogo. E questo perché le diverse esigenze commerciali e industriali esigono un lavoro fluttuante per ogni località del demanio in ragione della produttività di esso. E se per tale motivo non è possibile la divisione del demanio pomicifero, d’altro canto è necessario che tutti i lavoratori delle cave lo sfruttino con la maggiore armonia fra di loro.

La posizione contraria del Consiglio Comunale

Alla fine i diversi pareri confluiscono in un ordine del giorno predisposto, dall’avv. Casaceli, che viene votato all’unanimità.

Il Consiglio, tenuta presente la presa in considerazione da parte della Camera dei deputati della proposta presentata dall’on. Giuseppe Toscano per la costituzione in Comune autonomo della borgata Canneto e annesse undici frazioni distaccandole dal Capoluogo di Lipari:

Ritenuto che è canone di diritto pubblico che deve essere di regola conservata l’unità dei Comuni. Che è regola la costituzione di grossi centri.

Che pertanto solo in via di eccezione è permessa l’erezione di borgata o frazione in Comune distinto quando si verifichi il caso di vera e assoluta necessità dimostrata.

Che è savio impedire  l’accrescimento di piccoli Comuni.

Ritenuto che per motivi illegittimi e particolaristici è stata agitata in Canneto l’idea di autonomia;

Ritenuto che di nulla Canneto può lamentarsi, poiché ha avuto riguardi particolari in confronto alle altre frazioni ed ha servizi pubblici non comuni;

Ritenuto che è vicinissimo al Capoluogo ed è a questo allacciato da una rotabile in costruzione, da una mulattiera breve in ottime condizioni e da diverse linee marittime giornaliere;

Considerato che per il terreno pomicifero, posto nella parte nord dell’Isola di Lipari e che rappresenta l’unico cespite di entrata per la finanza del Comune, non è assolutamente possibile una separazione;

Ritenuto che nell’ipotesi malaugurata che si venisse alla separazione della borgata Canneto dal Comune si stabilirebbe un continuo e sanguinoso conflitto tra cittadini e cittadini, che hanno il diritto di esercitare gli usi civici sul demanio comunale pomicifero.

Ritenuto che venendo meno per conseguenza, l’attuale sorveglianza, per il godimento del demanio Comunale pomici fero, sarebbe inapplicabile la legge 5 gennaio 1908 n.10 spingendovi così nella più squallida miseria tutto il gruppo delle isole Eolie;

Ritenuto che il territorio di Canneto  e delle pretese borgate, che ad essa figurano unite, si appartiene a grandissima parte a cittadini liparesi che vogliono l’integrità comunale.

Che a cittadini liparesi si appartiene pure ed in grandissima parte il territorio pomicifero privato; Ritenuto che le undici borgate non esistono come nuclei naturali di popolazione;

Che le medesime sono delle località di campagna  dove si  vegeta, ma non si vive, dove ci son piante e non uomini;

Ritenuto che la proposta costituzione di Canneto a Comune sarebbe di danno grave a Canneto e di danno non meno grave per Lipari e le altre frazioni dipendenti;

Ritenuto che un tale provvedimento sarebbe causa  dissidio profondo, continuo e inconciliabile fra Comune e Comune;

Ritenuto che l’accoglimento della inconsulta richiesta di Canneto sarebbe un delitto gravissimo per Lipari e le Eolie e farebbe perdere ogni fiducia nelle Istituzioni e nei pubblici poteri.

Ritenuto che l’ordine  pubblico è profondamente turbato e il turbamento si rende ancora più grave con effetti non prevedibili.

Per tali motivi ad unanimità di voti

Delibera

1)Opporsi alla separazione di cui nei considerando

2) Far voto al Governo del Re perché si degni provocare dalla Camera il rigetto della proposta di legge dell’on. Giuseppe Toscano;

3)  Nominare una Commissione che si rechi subito a Roma per patrocinare la giusta causa dell’integrità Comunale;

4) Stanziare per la bisogna una adeguata somma in bilancio

5) Comunicare il presente ordine del giorno integralmente agli Onorevoli Ministri competenti, agli onorevoli deputarti della Circoscrizione”.

Il Presidente mette ai voti per alzata e seduta l’ordine del giorno presentato dal Consigliere avv. Casaceli che viene approvato all’unanimità. La Commissione da nominare sarà di nove membri e la votazione viene demandata ad una prossima seduta da tenersi il 15 luglio..

Ed il 15 luglio finalmente sono presenti anche i consiglieri di Canneto, ed è subito polemica. Vincenzo D’Ambra e Francesco Carbone chiedono che venga letto il verbale della seduta precedente, Il Sindaco risponde che il verbale è stato già letto ed approvato alla fine della seduta precedente e siccome c’è un ordine del giorno da svolgere non si può perdere tempo con richieste dilatorie. Se si voleva conoscere cosa si era detto in consiglio il giorno 12 bisogna essere presenti allora o passare dalla segreteria successivamente per prenderne visione.

“Non eravamo presenti – ribatte il consigliere Carbone – perché l’assessore Saltalamacchia telefonò a Cannetto informando che il Consiglio non ci sarebbe stato”.

“Non è vero! – interviene Saltalamacchia – Io ho ricevuto una telefonata del consigliere Ferlazzo Natoli che voleva sapere se il Consiglio si sarebbe tenuto sicuramente. Io mi sono limitato a mio parere ed ho detto che essendo in prima convocazione difficilmente ci sarebbe stato il numero legale”.

La Camera non accoglie la richiesta

Se fossimo stati presenti alla seduta scorsa – esordisce D’Ambra - avremmo aperto il nostro intervento al grido di viva Lipari e l’avremmo chiuso gridando viva Canneto. Se Canneto chiede oggi l’autonomia è perché si è vista trascurata”. Scorto poi in fondo all’aula il Tenente dei Reali Carabinieri, dice che non sa spiegarsene la presenza. Entrando quindi a discutere dell’ordine del giorno afferma che se si vuole mandare a Roma una Commissione che vada pure, ma non a spese del Comune ma a spese proprie.

Dopo D’Ambra parlano anche gli altri consiglieri di Canneto ed affermano che il dissidio sorto fra Lipari e Canneto è insanabile. Canneto manca dei pubblici servizi ed aspira ad un vivere più civile, a Lipari si sperpera il denaro del Comune. L’andata a Roma del Comitato pro integrità sia  a spese dello medesimo, non potendo il bilancio del Comune sopportare tale spesa.

Il Sindaco ribatte che Canneto ha avuto le migliori cure ed è stata la preferita fra tutte le frazioni del Comune. Proprio nel momento più grave della Nazione e del Comune, quando scoppiò la guerra, Lipari non esitò ad appaltare i lavori della rotabile Lipari-Canneto, “i quali per più di metà sono stati eseguiti”. Le mancanze che ora si lamentano non esistevano solo pochi mesi fa quando i consiglieri di Canneto collaboravano col’Amministrazione. Così è stato per l’assessore Portelli che mai ha sollevato lamentele né nella passata amministrazione, né in questa.

“Come si fa ad accusare questa Amministrazione di sperperi – incalza -  se è stata l’’Amministrazione della lesina? Chi volesse, prenda visione dei libri contabili. Dissidio insanabile? Non lo vedo proprio. Ho vissuto gran parte della mia vita a Canneto ed ancora ora vi passo un parte dell’anno. Credo di conoscere i sentimenti della gente di Canneto come conosco quelli di Lipari. Per questo posso dire che quando sarà sorpassato l’attuale eccitamento si tornerà a quella comunione di vita amministrativa che è nella generale aspirazione.

In questi giorni il Presidente  dei Ministri Facta ha sentito il bisogno di chiamare a sé i deputati presentatori di progetti di legge per l’autonomia di Comuni per fare loro intendere tutto il grave danno che ne deriva da nuovi spezzettamenti di Comuni, esortandoli a meditare tutta la gravità finanziaria cui si va incontro.

 Lipari che ha una storia millenaria e deve tutelare con tutte le sue forze l’integrità del Comune.”

“Tutte le volte – insorge Portelli - che in Giunta ho chiesto qualcosa a favore di Canneto mai è stata accolta”.

“E’ inesatto -  ribatte il Sindaco - Una sola volta, Portelli ha fatto una proposta e riguardava lo stanziamento di una somma per la festa di S. Cristoforo. Io osservai che la Regia Commissione di controllo l’avrebbe cassata perché si trattava di una spesa facoltativa. Comunque fu approvata ugualmente e puntualmente la Commissione la cassò”.

A questo punto Portelli chiede che si dia lettura del verbale della seduta precedente ma il Sindaco lo richiama all’ordine del giorno della seduta odierna mentre quel verbale può leggerselo in segreteria. La discussione si arena su questo tema e il Sindaco accusa i consiglieri di Canneto di essere venuti in consiglio per fare ostruzionismo e tagliando ogni ulteriore possibilità di intervento dichiara che si procede alla votazione della Commissione. Nella votazione si astengono i consiglieri di Canneto che riprendono a protestare chiedendo che la commissione si rechi a Roma a proprie spese.

Ma questo punto si passa ad un altro punto all’ordine del giorno.

Nella seduta del 21 dicembre, il Sindaco di ritorno da una missione a Roma dove ha avuto diversi incontri . informa  che “ha ragione di poter rassicurare il Consiglio che essa sarà trattata dal Governo con la massima benevolenza nei riguardi della integrità comunale” ed aggiunge che questo “è un argomento della più grande gravità che ha commosso e tenuto in sospeso gli animi di tutte le popolazioni del Comune.”.

Secondo l’avv. Giovanni Raffaele - che, su incarico del Comune, scriverà nel 1951 una memoria quando si riproporrà la vicenda sul finire degli anni 40 -  la vicenda del 1922 che portò alla proposta di legge Toscano fu provocata “da elementi interessati” che   avrebbero voluto “raddoppiare la tassa di escavazione sul lapillo, prevista dall'art. 1 della Legge 5 gennaio 1908 n. 10, e ciò al fine di impedire praticamente agli operai concessionari di cave l'escavazione del lapillo, mentre un'altra corrente, facente capo ai consiglieri comunali del capoluogo in contrapposto a parte dei consiglieri residenti ed aventi interessi in Canneto, era contraria a tale aumento”.

La vicenda non trovò accoglienza alla Camera e di essa non si parlò più, in quegli anni, in Consiglio comunale. Il tema verrà ripreso, sempre dagli stessi animatori, nel 1946 quando i cannetari verranno a Lipari per dimostrazioni a favore dell’autonomie e si faranno numerosi comizi sull’argomento. Ma anche questa volta, come vedremo, la mobilitazione non avrà successo.(Archivio storico eoliano.iit)



[1] Dal verbale della seduta del Consiglio comunale dell’11 luglio 1922.

 

Gli Ausoni di Liparo e Eolo

I Siculi a Panarea

Passa qualche secolo e sul finire del XV assistiamo ad una novità nelle forme dell'artigianato, puntualmente registrato dalle ceramiche che prendono a somigliare a quelle di culture che si ritrovano in Sicilia dando vita ad una fase che da noi prende il nome di “cultura del Milazzese” perchè l'insediamento più tipico è quello del promontorio del Milazzese nell'isola di Panarea. Della stessa era è quello della Portella nell'isola di Salina. La gente che ha vissuto nelle Eolie fino ad ora appartiene  ad una etnia composita formata da gente locale a cui si sono mischiati, integrandosi, dei greci e probabilmente anche gente venuta dalla Sicilia nei secoli e nei decenni precedenti. Ora invece fanno la loro comparsa i Siculi, che già si erano fatti sentire con sporadiche offensive e che, insieme ad altri aggressori - richiamati dalla floridezza economica dell’arcipelago -avevano determinato l’arroccamento degli insediamenti eoliani su posizioni più protette e difendibili. Ora cercano un insediamento stabile e - visto che Lipari, Salina e Filicudi sono già occupate ed efficacemente presidiate - lo trovano a Panarea proprio sul promontorio del milazzese, una fortezza naturale, dove costruiscono un villaggio che  dovette raggiungere le 40 capanne - di cui ne sono arrivate a noi solo 24 - abitate da circa 150 individui che, nel periodo di maggior sviluppo, dovettero arrivare forse anche a 250. Una volta insediatisi i Siculi andarono via via abbandonando lo spirito aggressivo e svilupparono rapporti pacifici con gli altri abitanti dell’arcipelago finendo col realizzare con essi una cultura omogenea appunto quella detta del “milazzese”.

L'arrivo di Liparo figlio di Ausonio

Questo periodo dura meno di due secoli (1430-1270 a.C.) ed è soppiantato da un altro profondo mutamento, questa volta  provocato da gente che proveniente direttamente dalla penisola italica e probabilmente dalle coste della Campania. Sono gli Ausoni – di cui parla raccogliendo antiche leggende lo storico Diodoro Siculo -  e che la tradizione vuole che fossero guidati dal principe Liparo, figlio di Ausonio, che sarebbe giunto a Lipari cinquant'anni prima di Eolo e quindi verso il 1240 a.C. Liparo avrebbe dato il suo nome all'isola più grande che in precedenza si chiamava Meligunis che vuol dire “generata nel miele”TP[1]PT.

Proprio a proposito di Liparo Pino Paino, nell'opera citata, solleva una suggestiva ipotesi. “La tradizione vuole che egli sia giunto alle Eolie a seguito di una contesa coi fratelli o altri potenti locali, ma non si può escludere che egli sia stato destinato qui a viva forza per soddisfare l'esigenza inderogabile che gli Ausoni avevano di snidare e annientare le bande mercenarie che si erano insediate nelle isole e che terrorizzavano le vicine coste dell'Italia meridionale praticando la tratta degli schiavi per conto delle principali potenze orientali, sia fenice che asio-africane. Se questa tesi – continua Paino – fin qui mai emersa, dovesse apparire plausibile, si spiegherebbe meglio la necessità per gli Ausoni di mettere a sacco e fuoco tutto il territorio insulare fino alla distruzione totale dei villaggi, quando vi arrivarono. Essi, a parer nostro, dovettero trovarsi di fronte ad una strenua resistenza di mercenari e schiavi che qui vivevano stipati e che furono costretti a combattere fino alla morte, pur con diverso animo, ma senza diversa speranza. Non si capisce altrimenti perchè gli Eoli Ippoti o Cavalieri, discendenti dagli Eoli prima maniera e che è ragionato pensare si fossero fusi con gli Ausoni, dovessero infierire su queste terre a loro care. Né è pensabile che causa di tanto eccidio possano essere stati i Micenei. Sia agli uni che agli altri, semmai, premeva solo sottrarle agli invasori assoldati sempre dagli stessi potenti che li tenevano già in scacco e sotto grave minaccia, in Asia Minore e nell'Egeo”.

Eolo,il re dei venti

                                                      

Immagini di Eolo

Comunque quando giunse Eolo a Lipari trovò una situazione non conflittuale. L'Eolo delle Eolie non è l'Eolo Eponimo che abbiamo visto ma un suo nipote o discendente. Un personaggio della mitologia greca, indicato come il re dei venti. L'Eolo della tradizione eoliana - secondo Diodoro Siculo -  arriverebbe a Lipari con delle navi provenienti da Metaponto al tempo della guerra troiana e quindi fra il 1193 ed il 1184 a.C. .  Nel corso delle vicende della sua vita - racconta una delle versioni mitologiche -   Eolo  scappò a occidente, dove raggiunse delle isole che chiamò Eolie, e divenne famoso come consigliere degli dei e domatore di venti. Viveva a Lipari, un'isola galleggiante, insieme ai suoi dodici figli, sei maschi e sei femmine, che si erano sposati fra di loro. Quando Zeus decise di rinchiudere i venti in delle anfore ( o degli otri), perché li riteneva pericolosi se lasciati in libertà, sua moglie Era suggerì di nasconderli in una grotta del mar Tirreno e di affidarne la custodia ad Eolo. Eolo viene anche citato nell’Odissea (libro XTP[2]PT) come il re dei venti che dona ad Ulisse un otre in cuoio che contiene il vento che lo avrebbe riportato nella sua isola natale, Itaca.

Eolo compare anche nell’Eneide di Virgilio (libro ITP[3]PT). Nell'ora della sua morte Eolo, ritenuto troppo prezioso da Zeus, questi lo lascia rendendolo immortale a guardia dei venti in una grotta delle isole Eolie.

Eolo – secondo Diodoro Siculo - sarebbe stato accolto da Liparo come uno della sua gente, che gli avrebbe dato in moglie una propria figlia e quindi il suo regno. Quando Liparo fu avanti negli anni manifestò l'intenzione di tornare in Campania e Eolo gli procurò un vasto territorio vicino a Sorrento, dove si ritirò, regnando fino alla morte nel pieno rispetto delle genti locali.

Una nuova grave crisi

Che gli Ausoni come gli Eoli , come lo saranno i Cnidi che giungeranno alle Eolie  in seguito, siano gente di origine greca, non vi è alcuna certezza. Si sa che venivano dalla Campania e che raggiunsero le Eolie in forze perchè riuscirono a smantellare tutti i presidi preesistenti, lasciando tracce evidenti di incendi nelle rovine. Con loro arrivo le isole minori caddero nell’abbandono ed in generale la vita nell’arcipelago subì un imbarbarimento che durò per parecchi decenni, tutta la fase detta dell’Ausonio I. Solo con l’Ausonio II - e cioè con una successiva invasioni di altri popoli della stessa origine ma culturalmente più evoluti - emergono segni di una civiltà più progredita dì “ una popolazione numerosa doveva addensarsi nella ristretta superficie della ben munita acropoli“TP[4]PT.. Comunque sia, il dominio degli Ausoni si prolunga – fra distruzioni violentissime degli insediamenti e ricostruzioni – fino a quella decisiva collocata fra la fine del X e gli inizi del IX secolo a. C..Dopo  l'acropoli di Lipari rimarrà per secoli deserta e l‘arcipelago senza storia.

Quali sono le ragioni di queste distruzioni? E' assai probabile – osserva Bernabò Brea – che la violenta distruzione che ha segnato la fine dell'insediamento ausonio, e dopo la quale la città non era stata più ricostruita, sia da attribuire ad una coalizione delle genti abitanti sulla costa tirrenica della penisola, per i quali la pirateria liparese poteva essere estremamente molesta TP[5]PT. Se questa ipotesi risponde a realtà vorrebbe dire che la pacificazione garantita da Liparo prima ed Eolo poi, non funzionava più.

Quando arriveranno i Cnidi nel VI secolo a. C. troveranno nell'isola – sempre secondo Diodoro Siculo - solo cinquecento abitanti dei 1600 che ve n‘erano nel l‘850 a.C.. Abitanti che si dicevano discendenti da Eolo. Con i Cnidi usciamo dalla archeologia ed entriamo nella storia delle Eolie. (Archivio storico eoliano.it)

 


TP[1]PT             L.Bernabò Brea, M.Cavalier, Meligunis Lipara, vol VIII, parte II, Alessandro Pagliara ,”Fonti per la storia dell'arcipelago eoliano in età greca”, Palermo, 1995. Il nome Meligunis risalirebbe  a Callimaco. Complessa la traduzione che secondo alcuni potrebbe significare “protettrici di messi” e secondo altri “generata nel miele”. Secondo l'autore  anche il più recente toponimo Lipara, potrebbe non riferirsi a Liparo ma potrebbe essere tradotto con “pingue”, ubertoso”, “luminoso”,  mostrando così una qualche correlazione semantica col toponimo più antico. Ma c'è anche chi mette in guardia affermando che il toponimo Meligunis potrebbe essere un'invenzione ellenistica ( A. Pagliara, Meligunis-Lipara. Nota di toponomastica eoliana, “Kokalos”, 38, 1992, pagg. £03-318.

TP[2]PT             “Giungemmo nell’Eolia, ove il diletto

                Agli immortali dei d’Ippota figlio,

                Eolo, abitava in isola natante,

                Cui tutta un muro d’infrangibil rame

                E una liscia circonda eccelsa rupe.

                Dodici, sei d’un sesso e sei dell’altro,

                Gli nacquero figli in casa; ed ei congiunse

                Per nodo maritale suore e fratelli

                Che avean degli anni il più bel fior sul volto…

                … Ma come, giunta del partir mio l’ora,

                Parole io mossi ad impetrar licenza,

                Ei, non che dissentir, del mio viaggio

                Pensier si tolse e cura, e della pelle

                Di bue novenne appresentommi un otre,

                Che imprigionava i tempestosi venti:

                Poiché de’ venti dispensier supremo

                Fu da Giove nomato; ed a sua voglia

                Stringer lor puote, o rallentare il freno”. (Libro X 1-9. 25-33)

TP[3]PT             “Ciò fra suo cor la dea fremendo ancora,
giunse in Eòlia, di procelle e d'àustri
e de le furie lor patria feconda.
Eolo è suo re, ch'ivi in un antro immenso
le sonore tempeste e i tempestosi
vènti, sí com'è d'uopo, affrena e regge.
Eglino impetuosi e ribellanti
tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremito,
che ne trema la terra e n'urla il monte.
Ed ei lor sopra, realmente adorno
di corona e di scettro, in alto assiso,
l'ira e gl'impeti lor mitiga e molce.”
(Libro I, 88-99)

TP[4]PT             L. Bernabò Brea e M. Cavalier, Le Isole Eolie- Vulcanologia Archeologia, Ragusi Editore 1992

TP[5]PT          Meligunis Lipara, vol. IX, Parte I l'Acropoli, pag.27

La prima colonizzazione delle Eolie

 

Chi furono i primi eoliani?

Chi erano i primi eoliani, da dove provenivano? La scoperta della capanna di Rinicedda, come vedremo, fa ritenere che fossero popoli che provenivano dall’Italia meridionale, ma che, per decidere di visitare le Eolie, viste le difficoltà delle comunicazioni marine, dovevano aver sostato per qualche tempo sulle coste tirreniche della Sicilia, a Milazzo o a Patti o in una località intermedia. Le difficoltà delle comunicazioni marine nascevano dalle imbarcazioni rudimentali che allora potevano costruirsi. Infatti non esistevano né asce, né seghe per trasformare i tronchi degli alberi in tavole, né esisteva la pece per rendere stagne le giunture dei legni e quindi le imbarcazioni o erano tronchi scavati, o zattere di tronchi tenuti insieme con pioli di legno, pezzetti di fune e malta e creta, sospinti da vele di stuoie o da remi formati di tronchetti d’albero con inserite cortecce robuste da formare una sorta di pagajaTP[3]PT.

Ed è dalla costa tirrenica che vedevano stagliarsi proprio di fronte le isole che durante la notte dovevano illuminare il cielo con i loro frequenti fenomeni vulcanici. Questi popoli provenienti dalle coste della Calabria e forse anche della Campania, che avevano già avuto qualche difficoltà a traversare lo Stretto di Messina, dovettero indugiare parecchio prima di avventurarsi verso queste terre che distanti almeno venti miglia, pretendevano un impegno maggiore di quello fino allora sperimentato. Inoltre la turbolenza degli elementi, i sordi boati, le eruzioni, i fumi, l’acre odore di zolfo portato dai venti non erano certi fattori che invogliavano all’esplorazione. Per questo prima, con tutta probabilità, fu una staffetta mandata in avanscoperta che traversò il mare e approdò a Lipari. La ricognizione dovette durare diverse settimane, il tempo necessario a scoprire che se il porto di Lipari era il luogo più opportuno per sbarcare e tirare a secco il loro naviglio, le risorse maggiori però si trovavano dall’altra parte dell’isola dove c’era la creta, l’acqua e soprattutto l’ossidiana: questa pietra splendente che forse non avevano mai visto prima ma della quale compresero immediatamente l’importanza e l’utilità. E forse fu proprio nel corso di questa missione esplorativa che scoprirono Salina, isola più tranquilla, con un approdo più protetto a Rinella dalle intemperie marine, disposto proprio di fronte a Quattropani, a un’oretta di tragitto a remi e forse meno se si trovava una brezza favorevole alla vela.

Fin all’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso non c’era alcun dubbio che la prima immigrazione si fosse stabilita sugli altipiani di Castellano Vecchio, come dimostravano molti ritrovamenti. Qui infatti – come ha fatto osservare Pino PainoTP[4]PT , - trovano terreni fertili ed anche abbastanza protetti da improvvise incursioni dal mare, vi erano, nelle vicinanze, due sorgenti ( Madoro e il Bagno Secco) ed in oltre erano vicini alla colata di Pomicizzo dove vi era la pietra che aveva attirato la loro attenzione. Inoltre a poche centinaia di metri vi era la cava del Caolino che forniva materia per le ceramiche. Infine non dovette essere senza importanza il fatto che questa località si trovasse abbastanza distante dai vulcani attivi dell'isola che erano allora Monte Sant'Angelo e la Chirica.

Disegno della capanna trovata a Rinicedda

Disegno raffigurante la capanna di Rinicedda

                         

Castellaro vecchio

 

Poi, la sorpresa. Nel 1989 a Salina, in località Rinicedda nei pressi di Rinella, vengono ritrovati prima dei cocci di ceramiche di impasto bruno-nerastro , identici a quelli trovati a Castellaro Vecchio, poi addirittura una capanna, intatta nel basamento, l’unica ritrovata nell’arcipelago, simile ad altre rinvenute nell’Italia meridionale. Allora i primi uomini si sono insediati innanzitutto a Lipari - Castellaro Vecchio o a Salina -Rinicedda? E perchè prima a Rinicedda se qui sembra che fra le loro attività principali ci fosse quella di lavorare l’ossidiana di Lipari e forse anche la creta del Caolino? Non potrebbe essere il contrario, come si è sempre ritenuto e, una volta stabilitisi a Lipari, una parte della spedizione decise, dopo qualche tempo, di colonizzare anche Salina? A meno che la scelta di insediarsi a Rinicedda non fosse dovuta al fatto che l’isola di Salina la si riteneva più sicura dal rischio sismico visto che a Lipari in quel tempo le eruzioni vulcaniche - anche se abbastanza distanti da Castellaro -dovevano essere piuttosto frequenti. Così, in un primo tempo la stazione di vita e di lavoro divenne Rinicedda ed a Lipari si veniva solo, attraverso il canale che separa Rinella da Acquacalda, per prelevare la materia prima da lavorare. Poi, in un secondo momento, avendo acquisito più familiarità con i fenomeni vulcanici, si scelse anche di insediarsi al Castellaro.

Abbiamo cercato di immaginarci come potrebbe essere avvenuta, in un giorno di settemila anni fa, la scoperta delle Eolie.

“Era molto tempo che lui d i suoi amici guardavano quelle isole là in fondo, sull’orizzonte. Le isole del tuono e del fuoco le chiamavano perché giungevano, portati dal vento, rombi fortissimi e la notte brillavano come mille fuochi accesi. Erano il regno dei demoni, qualcuno diceva e molti ci credevano. Ma lui no e nemmeno i suoi amici. Così avevano iniziato a discutere come andarci e quando andarci. Non era solo spirito di avventura. Volevano vedere com’erano quelle terre, se erano grandi, se c’era acqua e soprattutto se c’erano pietre dure e forti. Le pietre erano un materiale importante per vivere. Ma bisognava aspettare la stagione più calda quando i venti si calmavano e con essi il mare, anche se qui, di questo,i non si poteva essere mai certi. Anche nella stagione del bel tempo scoppiavano forti mareggiate.

La zattera era già pronta, l’avevano costruita da tempo e con essa avevano fatto molti viaggi lungo la costa. Avevano raggiunto la punta che si protendeva verso le isole ma si erano accorti che una volta giunti lì il cammino era ancora lungo. Ma in sei remando ad un certo ritmo se non in un giorno, sicuramente in due ce l’avrebbero fatta.

E così un mattino di grande calma nel cielo e nel mare partirono. Partirono prima che sorgesse il sole e trovarono una buona corrente che lì aiutò nella traversata. Quando il sole cominciò a calare erano già in vista dell’isola più vicina, quella che aveva una grande bocca che brontolava in continuazione e dalla quale uscivano fumi e vapori. Anzi tutta l’isola emanava fumi e vapori. Avevano già deciso che non sarebbe stata quella la loro meta. Loro erano coraggiosi ma perché sfidare la fortuna? Così quando raggiunsero l’isola le passarono a fianco in uno stretto canale che la divideva da un’isola vicina, più grande, ma anch’essa con tante bocche di fuoco. Proprio una di queste si levava alla loro destra e il percorso fra le due bocche non fu piacevole.

Vogarono tutta la notte fra boati e bagliori infuocati. In alcuni punti, lungo la costa, persino il mare bolliva e per quanto fossero coraggiosi il loro cuore si era ristretto e batteva forte come se volesse schizzare dal petto. Ma poi erano giunte le luci del giorno e, con esse, era tornata la forza ed il coraggio. Ma era bene che non ci si fermasse nemmeno a quest’isola, era meglio che si puntasse alla terza che si scorgeva più in fondo. Anche lì c’erano le bocche di fuoco ma non sembravano tanto impetuose e poi l’isola era più verde, c’erano alberi e piante e forse avrebbero trovato anche dell’acqua.

I compagni erano stremati ma furono d’accordo. Era lui il capo e quello che diceva era quasi sempre giusto. Così arrivarono ad una spiaggetta e poterono tirare a secco la zattera. Poi si gettarono sulla sabbia per riposare. Passarono nell’isola diversi giorni perché lui il capo voleva conoscere, vedere tutto, capire. C’era acqua dolce e anche frutta per mangiare. C’era anche della selvaggina da cacciare. Ma lui, il capo, guardava sempre l’isola di fronte che gli pareva la più grande e la più misteriosa.

Ed un mattino misero la zattera di nuovo in mare e vogarono verso la costa di fronte. Non fu difficile ed anche qui, tirata la zattera a riva, decisero di vistare l’isola.

  • Saliamo in cima al monte, disse lui il capo, così possiamo avere una visione di tutto.

Ed infatti in cima c’era un pianoro da cui si poteva scorgere tutto l’orizzonte. L’isola che avevano lasciato, la prima che avevano incontrato e poi, molto più lontano, altre isole che sembravano più piccole ma tutte con la loro bocca di fuoco ed il loro pennacchio di fumo.

  • Questa mi sembra l’isola più importante, il centro. - disse ancora lui, il capo – Non ce ne andremo di qui se non l’avremo tutta visitata. Ora riposiamoci e poi, in cammino.

E fu così che camminando ed osservando, tutto con grande, curiosità giunsero ad una collina di pietre bianche in mezzo alle quali ve n’erano di nere che brillavano al sole. Fecero l’ultimo tratto di corsa. Di che si trattava? Non avevano mai visto nulla di simile. Con circospezione ne presero una e videro che era pesante ma limpida come l’acqua che quasi ci si poteva specchiare. Provarono a vedere se fosse anche forte e resistente. E dopo averci pestato sopra con un’altra pietra più grossa, la prima andò in frantumi e produsse mille schegge. Schegge taglienti come nessuna pietra lo era.

- Questa è una grande scoperta, disse lui il capo, dobbiamo tornare la villaggio sulla costa e parlarne agli altri. Con questa pietra si possono fare armi per cacciare, armi per difenderci, si possono tagliare i frutti della terra, si può incidere il legno, e tante altre cose. Ma non bisogna diffondere troppo la voce. Bisogna dirlo solo ai capi e prepararci a trasferirci su quest’isola con le donne ed i bambini. Si, qui si può vivere. E se fa troppo paura abitare su quest’isola potremmo vivere su quella di fronte e venire qui di tanto in tanto a raccogliere le pietre nere per lavorarle”.

Pressa a poco così dovette realizzarsi la prima colonizzazione delle Eolie grazie a un gruppo di giovani ardimentosi che riuscirono a convincere gli altri membri della loro tribù aa abbandonare la costa, fare la traversata e stabilirsi nelle isole.

Dovranno passare più di mille anni perchè si possano registrare dei nuovi arrivi di gente portatrice di tradizioni artigianali diverse e soprattutto di diverse tecniche nella lavorazione della ceramica forse richiamate dalle grandi potenzialità dell'Ossidiana e dalla possibilità di commerciarla. Ed anche se IacolinoTP[5]PT ci invita alla prudenza quando si parla di “via dell’ossidiana” vista le difficoltà di intraprendere lunghi viaggi con le imbarcazioni possibili, in qualche modo un certo commercio dovette svilupparsi.

E che questi nuovi arrivati fossero particolarmente interessati alla commercializzazione lo dimostra la scelta delle nuove ubicazioni. Così nei primi secoli del IV millennio a.C. si possono riscontrare i primi insediamenti sulla rocca di Lipari. Le abitazioni sorgono si in prossimità del mare ma su una fortezza naturale che rivela come, a fianco di una attenzione alle comunicazioni ed ai collegamenti via mare, permanessero problemi in ordine alla sicurezza.

Ruderi di villaggi preistorici al castello

Da dove vengono questi popoli? Le ceramiche da loro prodotte rivelano interessanti consonanze con le popolazioni al di là dell'Adriatico (Dalmazia e Grecia) le quali dovettero aggiungersi a quelle che già abitavano al Castellaro vecchio. Si può pensare così che si andasse consolidando una economia fondata sulla lavorazione dell'ossidiana, oltre che sulla coltivazione dei campi e, come abbiamo detto, sul commercio di questo preziosissimo minerale. I rapporti probabilmente non andarono oltre ai rapporti con commercianti della costa tirrenica e dell’Italia meridionale, ma da commerciante a commerciante, essa si diffuse al di là della Sicilia e dell'Italia meridionale. Infatti l’ossidiana di Lipari è stata ritrovata in Liguria, nella Francia meridionale, e soprattutto in Dalmazia. Fu l'interesse per l'ossidiana che insieme con le relazioni commerciali aprì la strada a nuove immigrazioni visto che i giacimenti di Lipari erano sempre più rinomati.L'insediamento sulla rocca di Lipari, grazie anche agli scambi ed alle relazioni pacifiche, col passare dei secoli non solo andò prosperando ma acquistò sicurezza tanto che le abitazioni cominciarono ad espandersi oltre la fortezza, nella pianura circostante della contrada Diana. Ancora qualche secolo e nella seconda metà del IV millennio ritroviamo “un vastissimo insediamento, uno dei più vasti e popolosi del Mediterraneo centro-occidentale, che vive e prospera appunto sull'industria e l'esportazione dell'ossidiana”TP[6]PT . Inoltre villaggi sorgono anche nell'entroterra: di Lipari a Pianoconte, Mulino a vento, Spataredda...Mentre a Salina oltre che a Rinicedda, sorgeva un villaggio intorno al 3000 a.C. a Serro Brigadiere alle spalle di Santa Marina, e poi uno a Serro dell’Acqua.

Fino a quando prospera questo commercio dell'ossidiana, e cioè fino a quando non cominceranno a fondersi i metalli, le Eolie vivranno una condizione di prosperità e di crescita. La gente, oltre che l'isola di Lipari, popolerà tutte le altre isole, Vulcano esclusa e la fabbricazione delle ceramiche rivelerà sempre nuove tecniche di lavorazione e di colorazione a testimonianza che le relazioni e quindi la contaminazione culturale è intensa e proficua.(Archivio Storico Eoliano.it)


TP[1]PT Madeleine Cavalier, isole Eolie, Archeologia e storia fino all'età normanna, in “Atlante dei beni etno-antropologi eoliani, a cura di Sergio Todesco, Regione Siciliana, Assessorato dei beni culturali ed ambientali e della P.I., p.17.

TP[2]PT http://www.cainapoli.it/site2/mus_ossi.htm

TP[3]PT G. Iacolino, Raccontare Salina, vol. I, Palermo, 2009., pag.28.. H.W. Van Loon, Storia della navigazione - dal 50000 a.C. ai nostri giorni, Milano, 1936, ‘ag.46.

TP[4]PT “La vera storia di Lipari”, Messina, 1996

TP[5]PT G. Iacolino, Raccontare Salina, vol.I, pag. 28-29

TP[6]PT M. Cavalier, idem, pag.18.

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