di Massimo Ristuccia
Dalla rivista AGORA’ N. 46/2013 periodico di cultura siciliana
di Giovanni Re:
Gli Ustasa/ Ustascia di Lipari. Una chicca di storia eoliana.
Salendo al castello di Lipari per l'antico accesso, ci si imbatte in un'edicola sacra dedicata a S. Antonio e non può sfuggire l'iscrizione bilingue che nel «XVI anno dell'Era Fascista» venne apposta in ricordo degli ustascia: è la più evidente testimonianza del passaggio di una strana «colonia» di pseudo-confinati, citata anche da un'autorevole fonte locale: «erano liberi, ospitati al castello, organizzati militarmente sotto il comando di un colonnello che aveva il potere di autorizzare per tempi limitati alcuni dei suoi ad andare fuori dell’isola; essendo cattolici, utilizzarono la chiesa della Madonna della Grazie, al castello, per le celebrazioni liturgiche officiate dal loro cappellano, certo don Vinco»l!.
La vicenda iniziò nel maggio 1929, quando l'Italia concesse asilo al leader degli indipendentisti croati Ante Pavelié, fuggito dopo l'assassinio, per mano serba, di tre deputati croati e dopo il colpo di stato del serbo Re Alessandro proclamatosi dittatore del Regno di Jugoslavia: migliaia di fuorusciti vennero accolti in Belgio, in Ungheria, in Francia, in Germania e nelle Americhe e una parte di essi si arruolò nel movimento Ustafa Hrvatska Revolucionarna Organizacija giurando - pena la morte - obbedienza, riservatezza e fedeltà.
Gli ustascia iniziarono ad addestrarsi militarmente nei campi ungheresi di Janka Puszta e di Nagy Kanisza e, dal 1932, in Italia: le prime 40 reclute - accuratamente selezionate da Pavle Djurié - vennero accasermate, al comando di Andrija Artukovié, in un'azienda agricola alle Piane di Predondo Guai (nel comune montano di Bovegno) e addestrate dal macedone Veliéko Dimitrov Kerin, già membro della Internal. Macedonian Revolutionary Organization. In soli sedici mesi. lo sparuto nucleo iniziale avrebbe decuplicato la propria consistenza e subìto ben quattro
repentini trasferimenti: nel marzo 1933 nel Casermone fuori Borgotaro, tre mesi dopo a Vischetto (frazione di Bardi), nel febbraio 1934 a Oliveto (frazione di Civitella della Chiana) e in luglio in Abruzzo, attendato a San Demetrio ne’ Vestini; il motivo fu la necessità di mantenere celato il gruppo alle spie di Re Alessandro, ogni volta cancellando le tracce lasciate dall'imprudente comportamento degli stessi ustascia che, non disdegnando la vita sociale e le ragazze del posto, facevano in ogni località ben presto saltare le coperture loro fornite (operai bulgari, agricoltori e boscaioli albanesi).
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Dopo il 9 ottobre 1934, però, l'atteggiamento italiano nei confronti degli esuli croati mutò: l'assassinio a Marsiglia di Re Alessandro complicò le cose, specialmente quando emerse che l’attentatore Velicko Kerin - alias Vlado Chernozemski, alias Petr Kalemen - era stato «ospite» dell’Italia, che dovette così faticare non poco perché venisse riconosciuta la propria estraneità nel regicidio!”: Pavelié e il suo diretto collaboratore Eugen Dido Kvaternik vennero arrestati (sarebbero rimasti incarcerati a Torino in attesa del processo, per un anno e mezzo) e gli ustascia «abruzzesi» privati delle armi, spogliati della divisa, tradotti a Civitavecchia e imbarcati sul piroscafo Argentina appositamente noleggiato.
Le ragioni di quest'ultimo trasferimento, quindi, furono sensibilmente diverse da quelle dei trasferimenti precedenti: una sistemazione lontana dal confine slavo, «assolutamente isolata» e, vista la secolare fama di Lipari come luogo di deportazione, anche rassicurante per le diplomazie straniere.
Il 19 novembre 1934 i Liparòti videro perciò centinaia di stranieri - in giacca e cravatta - sbarcare dall'inatteso piroscafo e dirigersi al castello: una pacifica invasione, che si sarebbe però completata solo nelle settimane successive con l'accoglienza in Italia di un centinaio di esuli croati espulsi dal Belgio e dalla Francia; il numero salì così a 507, di cui 477 a Lipari: 306 contadini, 45 artigiani, 40 marinai, 14 studenti universitari e 6 di scuole medie, 21 commercianti, 14 autisti, 13 intellettuali, 8 bambini, 6 donne e 4 ufficiali.
Ospitati nei due edifici del castello fino a un paio d'anni prima destinati ai confinati politici e alle camicie nere, appena giunti a Lipari gli ustascia, con alle spalle due anni di notti passate su pagliericci, espressero piena soddisfazione per la sistemazione loro riservata (le famiglie giunte poi dal Belgio e dalla Francia sarebbero state sistemate in case private fuori dal castello); l'alloggio era gratuito e il governo italiano versava periodicamente all’amministratore della colonia una somma da distribuirsi tra i croati (195 lire mensili a testa) che corrispondeva alla «mazzetta» quotidiana dei confinati politici, ma ciò non impedì ai croati - gente semplice - di confezionarsi e riparare le scarpe (facendo giungere a Lipari un quintale di cuoio e letomaie) odi ordinare le stoffe per confezionarsi i vestiti invernali. Anche la vita sociale, soprattutto dei nuclei famigliari, si svolgeva nella normalità: alcuni bambini croati frequentavano le scuole (il figlio del prof. Brkan nel 1935 prese la licenza d'avviamento), i fedeli partecipavano regolarmente alle funzioni religiose e le famiglie e gli incaricati degli ustascia intrattenevano, ovviamente, quotidiani rapporti commerciali con i Liparòti; a questo proposito non si può non accennare alla richiesta di aumento della mazzetta» avanzata da Budak al ministero nel luglio 1936 per poter far fronte agli ingiustificati rincari che in un solo anno i Liparòti avevano applicato ai generi alimentari (fenomeno peraltro già verificatosi con i confinati politici): pane, olio, pasta, riso e farina erano rincarati del 30-40% e i generi di particolare gradimento al palato croato del 47% (strutto), del 63% (caffè), dell'83% (conserva di pomodori), dell'88% (cavoli) e del 133% (fagioli). E per quattro funerali, la locale ditta di onoranze funebri Orioles aveva emesso un conticino di 6.920,30 lire!
Come avrebbero dovuto esser considerati gli esuli croati di Lipari? Avevano necessità di saperlo gli stessi funzionari incaricati della sorveglianza, a cominciare dal delegato di Ps. di Lipari commissario aggiunto Francesco Pogliese: il ministero dell'interno inizialmente rispose «non come confinati», ma dopo il trattato Roma-Belgrado del 1937 avrebbe dovuto aggiustare il tiro: «come confinati speciali» (le varie autorità continuarono comunque a chiamarli in svariati modi internati, emigrati, stranieri, fuorusciti - non trattandosi in effetti di veri confinati). Per la necessaria «assidua vigilanza» (i croati non potevano lasciare Lipari liberamente. né avere contatti con stranieri o con persone politicamente sospette), Pogliese potè efficacemente avvalersi di un numero di agenti, carabinieri e guardie di finanza di poco superiore a quello ordinario, grazie alla costante minaccia di rimpatrio coatto in caso di incidenti che incombeva sui croati e alla conseguente rigida disciplina interna alla stessa organizzazione ustascia; oggetto di particolare vigilanza del commissario erano, più che altro, gli stranieri che sbarcavano a Lipari e qualche «indigeno» portalettere clandestino (come tale Antonino Freni, arrestato): la posta dei croati era, infatti, intercettata, anche per soddisfare il governo jugoslavo che si era lagnato «pel contenuto di lettere inviate in patria».
Era inevitabile che all’interno di una colonia di centinaia di ustascia, dal futuro incerto e nell'inoperosità da sette anni, emergessero contrasti e divisioni e che queste si manifestassero anche con atti di indisciplina (che il responsabile croato della colonia, lo scrittore e politico Mile Budak, punì con violenze fisiche e psicologiche di cui le autorità italiane vennero a conoscenza solo a posteriori). Durante la carcerazione di Pavelic fu il medico trentenne Branimir Jelié, giunto dagli Usa con l’intento di sostituirlo, a creare scompiglio nella colonia, fino a che non ne venne deciso il trasferimento a Bologna; la sua opera disgregatrice portò all'allontanamento da Lipari anche del prof. Andrea Luetié e del sacerdote della colonia, don Matteo Burié (a Roccella Valdemone e poi a Bologna), ma soprattutto allo spostamento a Canneto, nell'autunno 1935. di 34 «intellettuali intolleranti» capitanati dal prof. Ante Brkan, seguito da quello di 24 ustascia dissidenti «che avevano organizzato il noto movimento al castello». Prima ancora degli intellettuali e dei dissidenti croati, però avevano creato problemi a Budak gli otto ucraini della colonia (membri del movimento nazionalista, si erano uniti alla causa degli ustascia per poter un domani far cessare i soprusi che subiva la colonia ucraina di Serbia): non accettando più la disciplina croata, iniziarono a protestare - due di essi con uno sciopero della fame - così che dopo l'opportuna visita a Lipari nell'aprile 1935 del delegato del movimento ucraino Euhen Onatsky (Jevgen Onackij), tutto il gruppetto fu trasferito a Tortorici; tre di essi sarebbero poi stati trasferiti a Stromboli e, nella primavera del ‘36, a Filicudi perché «invisi alla popolazione locale a causa della loro condotta»: (due ucraini, infatti, generando qualche gelosia di troppo avevano allacciato relazione intima con due strombolane, il cui ardore le avrebbe addirittura spinte a una scappatella a Filicudi), Stromboli. comunque, non restò senza stranieri, perchè ai tre ucraini si sostituirono subito i ventiquattro ustascia «di dubbia fede o indisciplinati» già temporaneamente spostati a Canneto.
Il 12 febbraio 1936 si era concluso il processo agli attentatori di Re Alessandro. I contumaci Pavelié e Kvaternik erano stati condannati alla pena di morte, ma - analogamente a quanto fece la giustizia austriaca per il terzo condannato a morte Ivan Percevié - trattandosi di delitto politico la Corte d'appello di Torino non concesse l'estradizione e dispose per la loro scarcerazione.
Mentre a Pavelic non fu mai consentito di sbarcare a Lipari, Kvaternik vi giunse il 7 luglio riportando un po’ di calma tra i rassicurati croati (l’ultimo fatto eclatante accadde proprio quel giorno: il tentativo di «fuga» da Canneto del prof. Brkan, prontamente riacciuffato dal commissario di P.s.)': calma che però fu messa in crisi dal ritorno a Lipari del prof. Leutié del quale, in agosto, furono decisi la definitiva espulsione dal movimento e il «confinamento» a Mistretta.
A complicare le cose, quell’estate scoppiò anche un'epidemia tra i croati del castello. Non si trattò però della solita liparite che in estate colpiva gli «stranieri» più sensibili, com'era avvenuto in passato ad alcuni confinati e militi: all'alba del 5 agosto era infatti deceduto il quinto ustascia, altri ventisei erano in ospedale, il giorno prima era stata seppellita la quarta vittima e altre tre erano morte nelle due settimane precedenti. La diagnosi del dr. Rodriguez - «che da due mesi lavora non come un medico, ma come un fratello, giorno e notte», annotò Kvaternik - fu di nefrite tifoide; disinfettato il pozzo e arrivata la nave cisterna con l'acqua pulita l’epidemia cessò, come cessarono anche i sospetti tra gli ustascia dovuti al fatto che i deceduti appartenevano tutti al medesimo circondario di Imotsky. | croati manifestarono comunque l'apprezzamento per la sollecitudine degli aiuti e, in particolare, per quella del comm. Pogliese e del podestà Riccardo Rickards.
La gratitudine dei croati liparesi per la mancata estradizione di Pavelic lasciò presto il posto alla diffidenza conseguente al trattato d'amicizia Roma-Belgrado del 25 marzo 1937, che prevedeva da un lato lo scioglimento dell’organizzazione ustascia di Pavelié e, dall’altro, la garanzia che gli esuli che non si erano macchiati di gravi reati potessero rimpatriare senza timore di ritorsione. I capi ustascia vennero perciò allontanati dalla «truppa» liparese (Budak fu trasferito a Salerno, Kvaternik in Molise, Babic a Stigliano, Djurié a Milazzo e Brkan a Messina) e dei 535 croati presenti in Italia, alla fine di agosto 1937 ne erano già rimpatriati 151, seguiti a breve da altri 121. Non tutti i croati che avevano scelto di non rimpatriare mantennero la dovuta disciplina: dopo aver valutato la disponibilità delle altre isole eoliane e aver escluso le colonie africane italiane, «i novantotto più riottosi» vennero trasferiti nelle quattro province sarde - cinque ustascia per comune - e altri trentatre in vari villaggi della provincia di Messina. Alla fine del 1938, quindi, solo 168 croati risultavano ancora a Lipari.
Gli accordi tra l’Italia e la Jugoslavia non provocarono solo qualche atto di indisciplina: da Stigliano, Babit progettò di recarsi a Roma con altri tre ustascia per attentare alla vita del premier jugoslavo Milan Stoijadinovié in visita nel dicembre 1937, ma grazie alla sorveglianza e all’interrogatorio dell’ustascia Marco Raicovic i servizi di sicurezza non si fecero sorprendere: l'ispettore Conti diede così ordine di sottoporre ad arresto preventivo Babié e «tutti i croati con residenza coatta nei comuni di terraferma e della Sardegna» per l'intera durata della permanenza di Stoijadinovié in Italia nonchè di aumentare la vigilanza dei «confinati [sic] di Lipari per impedirne assolutamente l'allontanamento» (passato il pericolo, Babi sarebbe stato trasferito a Lucca). L'indisciplina dei croati più turbolenti si manifestò e venne repressa solo all’interno della colonia o coinvolse anche la popolazione liparese?
La documentazione consultata non ha consentito di formulare una risposta, ma un interessante dato numerico suggerisce che utili informazioni potrebbero trovarsi nell'archivio della ex pretura liparese: infatti il numero medio annuo (364) di fascicoli giudiziari archiviati durante il «periodo croato» (1935-1941) risulta perfettamente sovrapponibile a quello (366) del periodo (1927-1932) di funzionamento della colonia di confino politico (quando il pretore aveva settimanalmente a che fare con quattro o cinque procedimenti a carico dei confinati), mentre il numero medio annuo registrato in assenza sia della colonia di confinati che della colonia dei croati (1920-1926 e 1934) è inferiore alla metà (169). a testimonianza di un possibile - ma tutto da verificare - significativo numero di procedimenti giudiziari coinvolgenti i croati".
La caduta del governo Stoijadinovié e l’aria di guerra riaccesero nei croati più combattivi la speranza dell'indipendenza rinnovando, al contempo, l'interesse italiano nella loro causa; dopo gli ultimi ventinove rimpatri, perciò, i 230 croati ancora in Italia nel 1939 decisero di attendere in Italia i nuovi sviluppi. Il 25 marzo 1941 la Jugoslavia si unì all’Asse, ma due giorni dopo un altro colpo di stato ribaltò la situazione e il 5 aprile il nuovo governo «serbo» firmò un patto di amicizia con l'Unione Sovietica: da Radio Velebit (Radio Firenze) il 4 aprile Pavelié preparò la Croazia all’insurrezione e all’alba del 6 aprile le Potenze dell’Asse diedero inizio all'«Operazione Castigo» che si sarebbe risolta undici giorni dopo con la resa incondizionata della Jugoslavia.
Accompagnati dall'ispettore Conti il 5 maggio 1941 gli ultimi diciassette croati civili poterono così lasciare Lipari, Matera, Potenza, Grosseto e dirigersi a Zagabria «per raggiungere i loro congiunti, già rimpatriati il 12 aprile col Nucleo degli Ustaza»; questi erano stati concentrati, tra il 2 e il 5 aprile, in una caserma di Pistoia, equipaggiati militarmente e vestiti con le divise «già da tempo preparate dalle nostre autorità militari»: ottantasette provenivano dalla Sardegna, una ventina da Campobasso, Catanzaro, Matera, Potenza, Grosseto, Avellino e Chieti, sette da Reggio Calabria e sei da Messina: ma il gruppo più consistente era quello liparese: al comando del graduato più anziano Marko Ivié, i novantacinque ustascia vennero imbarcati per Milazzo il 3 aprile alle ore 15 e scortati sino a Pistoia dal commissario Pogliese. In soli nove giorni - senza possibilità di alcun addestramento - circa 215 ustascia lasciarono il loro «confino», vennero radunati a Pistoia, trasferiti a Trieste e infine, a «Operazione Castigo» pressoché conclusa, con qualche autobus a noleggio accompagnati a Zagabria dall’ispettore Conti e da due funzionari dei servizi segreti italiani; tra le loro fila, anche Pavelic e gli altri capi".
Considerando che non si è trovato riscontro di attriti occorsi tra i croati e i Liparòti, pur non potendo tout court attribuire a questi gli stessi sentimenti espressi dai sardi al momento della partenza dei croati, vale la pena accomiatarsi trascrivendo un passaggio del rapporto del commissario di Ps. Di Sassari: «una scena commovente è avvenuta alla partenza dei croati quando si sono imbarcati a Golfo Aranci diretti a Olbia: sul molo erano a salutarli gli Ufficiali dell'Esercito, l'intera famiglia del Podestà di Olbia, [...] e molti abitanti, oltre al sottoscritto con tutti gli agenti di P.s.; vi è stato un caloroso scambio di fervidi saluti alla voce di Viva l’Italia, Viva il Duce, Viva la Croazia, saluti incessanti con grande sventolio di fazzoletti fino a quando il motopeschereccio è stato perduto di vista».
Rimpatriati tutti i croati e proclamata indipendente la Croazia, anche per l'ispettore Conti giunse così il momento di girare pagina e godersi la pensione: non prima, però, di aver provveduto al ricongiungimento di alcuni ustascia e delle rispettive «metà» italiane, tra cui i «siciliani di Mandanici» Matija Vodopija con Angelina Saitta e Ivan Cerkez con Giovanna Lotti (in dolce attesa).
L'Autore è immensamente grato alla dottoressa archivista Cristina Ragona per la preziosa collaborazione.
Grazie al geom. Aldo Natoli da Stretto Indispensabile del marzo 2002.
di Teresa Venuto
Ecco la tassa “mordi e fuggi”
Qualcuno li chiama turisti ‘mordi e fuggi”: altri con sottile disprezzo li definiscono “pane e formaggio”. Di certo sono gli ospiti di un giorno che puzzano lo stesso, quelli che sbarcano a frotte d'estate vomitati dalle prue dei traghetti di linea oppure dai barconi delle piccole società di navigazione.
Secondo gli eoliani questo tipo di turista serve solo a rimpinguare le casse delle compagnie marittime. Per il resto non caccia il becco di un quattrino per fare acquisti nei negozi di Lipari o di Vulcano; il caffè è “caldo caldo” e ai ristoranti preferisce la colazione a sacco; e le cartacce sono a carico dei contribuenti eoliani. Se poi fanno pure un sacco di confusione per le vie, peggio dei tedeschi di notte a Rimini, ci sono buoni motivi per correre ai ripari applicando un biglietto personalizzato...
Mezzo secolo di paradossi
Mancano porti attrezzati e mezzi di trasporto moderni, la rete idrica è un colabrodo, le fognature sono inconsistenti. Le fonti energetiche alternative sono rimaste sulla carta.
Porti attrezzati, mezzi di trasporto moderni, fognature e impianti di depurazione efficienti, approvvigionamento idrico regolare, impiego di energie alternative. Sono tutti assenti all’appello. Un ritardo pluridecennale.
E il grande libro dei sogni dell’arcipelago eoliano potrebbe arricchirsi di nuovi capitoli, ma il quadro è già deprimente toccando quelli che appaiono i punti cardine di un territorio per sua natura isolato, dalla vocazione turistica, stabilmente popolato nel periodo invernale, sovraffollato in quello estivo.
Lo standard qualitativo dei servizi offerti tanto al cittadino che al turista non è pari all’immagine divulgata dai depliants pubblicitari né all’esigenza di mantenere alta l’immagine di una terra complessivamente promossa a livello mondiale come tesoro collettivo.
Si parte dal paradosso della mancanza, in un’area costituita da sette isole, di porti che possano definirsi tali: ad eccezione del comune di Lipari, dove pure non esiste un porto turistico per la nautica da diporto, e il comune di Santa Marina Salina, nella altre isole porto significa semplicemente banchina per l’attracco dei mezzi di linea che fanno la spola fra isole e terraferma.
Peraltro l’ammodernamento di questi mezzi significherebbe un servizio frequente, celere, economico, in una parola efficiente, appare fondamentale per un corretto sviluppo dell’arcipelago. Se poi tali mezzi di navigazione fossero anche studiati su misura per un impatto ambientale soft, di cui si sente fortemente l’esigenza in un territorio che è al centro di progetti di riserva marina tutelato dal punto di vista paesaggistico, patrimonio dell’Umanità per l’aspetto naturalistico, sarebbe la ciliegina sulla torta.
Ma è anche una fatica a cui pochi credono, se non si interverrà a livello regionale o nazionale, visti i costi che un tale progetto presuppone.
E se per mare non si naviga a gonfie vele, neanche a terra tutto fila liscio. Anzi, sottoterra, dove passa una rete di tubi che fa acqua da tutte le parti.
L'approvvigionamento idrico è tra le voci più inquietanti del Sistema-Eolie, frequentemente dibattuto, appassionatamente analizzato e regolarmente irrisolto. L'entrata in funzione del dissalatore a Lipari ha in qualche modo supplito ai fabbisogni nel periodo invernale, ma quando inizia la stagione balneare l’impianto letteralmente scoppia di lavoro, senza peraltro riuscire a soddisfare le necessità, cui si fa fronte anche con le navi-cisterna, quando il servizio funziona, cioè senza tener conto degli intervalli più o meno lunghi tra la conclusione di un appalto e l’avvio di un altro, quando le condizioni meteomarine lo consentono e con gli inevitabili tempi lunghi di trasporto e scarico.
In questi periodi neri bisogna fare i conti con la danza della pioggia e le cisterne private, radicata tradizione architettonica locale. Peraltro la rete idrica è incompleta, frammentaria e vecchiotta, per cui si va incontro a perdite di liquido e a frequenti interventi di manutenzione che comunque non risolvono il problema.
Non sta affatto meglio la rete fognaria: l’isola di Lipari può contare sul depuratore, che però serve solo l’abitato di Canneto e parzialmente quello di Lipari, ed è peraltro assolutamente impotente di fronte a qualunque aumento delle necessità di smaltimento, cosa che si verifica puntualmente con l’arrivo della bella stagione.
Ma dopo il dissalatore , il diluvio: le altre frazioni dell’isola non sanno neanche cosa significhi rete fognaria; idem nelle altra isole – Vulcano, Stromboli, Panarea, Alicudi, Filicudi, ricadenti nel comune, dove i vecchi pozzi neri sono ancora una realtà capillarmente diffusa.
Un capitolo a parte, per certi versi futurista ma in effetti l’unica svolta intelligente per l’arcipelago, meriterebbe l’impiego di fonti energetiche alternative: come dire che nelle isole del vento e del sole sarebbero proprio questi due elementi, supportati da una corretta tecnologia, a garantire un equilibrio uomo-natura che produca il topo della qualità di vita e perfino dell’autonomia dalla terraferma. Ma è fin troppo evidente come il problema sia destinato a restare semplicemente teorico chissà ancora per quanto: vista l’entità dei costi, lo “sviluppo sostenibile” appare insostenibile.
COSTE D'ITALIA la Sicilia Amilcare Pizzi 1968
E’ frequente su tratti di costa sottoposti per millenni agli stessi agenti atmosferici, alle stesse correnti di ritrovare caratteri morfologici analoghi. Così le isole Eolie, tutte di origine vulcanica, presentano paesaggi piuttosto simili nelle loro varie parti: pianeggianti e dolcemente degradanti in mare e versanti verso nord est, scoscesi quelli verso sud ovest. Sono in fondo le stesse condizioni che possiamo trovare nell'isola d'Elba, all’Argentario, al Circeo, a Capri. Esistono dei tratti comuni al paesaggio mediterraneo, al paesaggio tirrenico, in certi luoghi più esaltati e riconoscibili, in altri più logorati dalle trasformazioni storiche.
Alle Eolie la lettura della natura è immediata anche per il profano, come quasi sempre di fronte a paesaggi vulcanici. Ma anche la storia è individuabile nelle sue tappe principali, forse perchè è una storia al di fuori di quella aulica e retorica. Imponenti i resti del neolitico e dell'età del bronzo che attestano una intensa vitalità dai tempi della prima comparsa dell'uomo nel Mediterraneo fino al VI secolo a.C., quando le Eolie entrano nell'orbita greca.
La popolazione era di marinai e questi avevano accumulato ricchezze talmente grandi da fare delle isole agognata terra di saccheggi. Dai greci ai cartaginesi e a metà del III secolo ai romani: comincia qui la decadenza delle Eolie diventate terra di esilio per i nemici di Roma e dell'Impero. Rifiorirono con i normanni, popolo di navigatori alla ricerca di basi per difendere od espandere i possessi nell'Italia Meridionale.
Poi la loro storia è illuminata solo dagli incendi del pirata Barbarossa che nel 1544 massacra e deporta quasi tutti gli abitanti. È dopo questo saccheggio che si realizza l’ultimo grandioso contributo degli uomini al paesaggio delle isole: le gigantesche mura di Lipari, già per suo conto eccezionale baluardo naturale.
La pesca tra le isole
Anche le Eolie risentono ormai dello sfruttamento irrazionale delle risorse ittiche a causa dei pescatori di frodo, nonchè della pesca industriale e sportiva, che si svolgono nel nostro paese senza limitazioni di sorta per proteggere il patrimonio faunistico. Ciò nonostante, la natura degli ambienti sottomarini, le correnti e la temperatura favorevole delle acque consentono il sopravvivere di forme inferiori, che a loro volta attirano e alimentano l’ittiofauna stanziale e di passo.
Grazie a tali caratteristiche, negli ambienti marini di questo arcipelago, ancora oggi, tra isola ed isola (canale Lipari - Vulcano, canale Lipari - Salina, canale Lipari-Panarea, canale Panarea-Stromboli) si pratica con un certo successo la pesca notturna del pesce spada con la palamidara. Questa rete, come del resto ormai la maggioranza degli attrezzi da pesca, viene costruita con filo di nylon. La palamidara, lunga dai 600 ai 1.000 metri, alta 25-30 metri, viene calata in mare, all'imbrunire, da capaci barche motorizzate, nel periodo primaverile di aprile-giugno; nella nottata, a seconda delle correnti, essa può essere salpata e ricalata più volte. La rete è sostenuta a galla, nella sua parte superiore, da una corda lunga quanto è lunga la rete stessa e munita di galleggianti, sugheri o palle di vetro o plastica; nella sua parte inferiore un’altra corda, munita di piombi, la tiene tesa verticalmente, così da costituire uno sbarramento nel quale i pesci di passo vanno ad incappare rimanendo imbrigliati tra le maglie (« ammagliati »).
La vegetazione delle Eolie
Le isole Eolie presentano per ciò che riguarda la vegetazione diversità notevoli l’una dall’altra pur essendo tutte di natura vulcanica e molto vicine fra loro. In relazione con la loro abitabilità e possibilità di coltivazione sono soggette a un processo di antropizzazione più o meno accentuato che però ha quasi distrutto in alcune di esse aspetti fondamentali del paesaggio originario.
Il botanico Zodda visitando queste isole venticinque anni dopo il botanico Lojacono, poneva in evidenza la scomparsa estrema rarefazione del leccio, dell’alloro, dell’edera, della palma nana. Lojacono aveva segnalato fra l’altro una compatta presenza del leccio « formante selva, lambire il mare a Canneto nell'Isola di Lipari, su terreni aridissimi vulcanici ». Già ai tempi di Lojacono del resto era diventato rarissimo il Cytisus aeolicus, citiso gigante che Gussone aveva scoperto a Lipari e che oggi pare del tutto scomparso anche a Vulcano. Pare sia del tutto scomparsa anche l’Isoetes duriaei, per lo scomparire dei caratteristici ambienti umidi che la ospitavano. Sembra dunque più facile parlare per le Isole Eolie di paesaggi vegetali scomparsi che dei resti attuali, molto frammentari e impoveriti di vegetazione mediterranea in gran parte di recente introduzione. Boschi e boscaglie spesso assai fitte coprivano queste isole nel passato; erano composte da lecci, da corbezzoli, da eriche, da citisi e da cisti, nonchè dall’endemica Genista ephedroides e da calicotome.
Fra le colture prevale la vite, cui seguono i seminativi e pochi magri pascoli. Va scomparendo la coltivazione dei fichi d'india come tali, ma essi permangono come nota del paesaggio antropizzato. È in qualche progresso l’olivicoltura, mentre è in decadenza l’agrumicoltura. I vini delle Eolie, prodotti specialmente con la famosa « malvasia di Lipari » sono ben noti, come del resto l’uva passolina di Lipari nota anche col nome di « corinto nero ».
Vulcano
Come Stromboli, Vuleano è solo apparentemente di modeste dimensioni (499 metri s.l.m.) In realtà la sua base si trova negli abissi marini e l'intero edifizio è imponente. Gli sposta menti dell'asse eruttivo hanno determinato il costituirsi di tre edifizi successivi dei quali il più recente è Vulcanello (123 metri), all'estremità settentrionale dell’isola, sorto dal mare nel 186 a.C. Del più antico si osservano i resti a M. Saraceno (481 metri) e M. Aria (499 metri), nella parte meridionale dell’isola. Mentre questi due edifizi sono spenti, il terzo, Vulcano o « Fossa Grande », in posizione e quota inter- media (386 metri) è ancora attivo. L’ultima eruzione storica è quella del 1873 (dopo un secolo di quiescenza) le cui fasi durarono fino al 1890. Da allora iniziò un'attività di emissione di vapore che dura tuttora.
A Vulcano si trovano ambienti molto interessanti dal punto di vista biologico dove è possibile studiare aspetti di colonizzazione delle lave, su colate recenti e più antiche. È interessante la presenza del coloquintide segnalata sulle sabbie vulcaniche dell’isola, trattandosi di una cucurbitacea caratteristica delle steppe subtropicali e dell’oriente steppico mediterraneo.
Lipari
Lipari è la maggiore delle Eolie: 37,6 km e oltre 11.000 abitanti. Analoga nel complesso alle altre isole dell’arcipelago presenta una sua specifica caratteristica: l’industria estrattiva della pomice a cui lavora circa un migliaio di addetti, spesso in condizioni disumane nelle strette gallerie profonde decine di metri.
La produzione di quasi 500 mila tonnellate di pomice costituisce il maggior prodotto dell’isola, superando la Malvasia, ottenuta dalla vite coltivata su circa 700 ettari. La povertà dell’agricoltura e il basso valore della pomice hanno impedito anche a Lipari di assicurare un minimo livello di vita alla popolazione: così in questi anni ’60 interi nuclei familiari hanno lasciato l'isola e molte case sono vuote. Queste potrebbero costituire un potenziale valore turistico sia con i già esistenti fitti stagionali, sia incrementando una organi one più vasta di restauri, di servizi collettivi, di gestione pubblica etc.
Il turismo
Il movimento turistico è andato progressivamente crescendo: i dati ufficiali per tutte le Eolie denunciano nel 1966 quasi 10.000 clienti con poco più di 45.000 presenze ma, tenuto conto delle sottovalutazioni effettuate in sede di rilevazione e dell’ospitalità in alloggi privati, non si è lontani dal vero nello stimare in 120.000 le presenze annue nelle Isole: 10 presenze annue in media per ogni unità di popolazione residente, con una spesa che in parte defluisce verso il continente per l’acquisto di beni e servizi, ma che globalmente dovrebbe migliorare il livello di vita delle Isole. A ciò sono da aggiungere gli effetti del turismo escursionistico che richiama verso le Eolie la popolazione della fascia tirrenica della Sicilia e della Calabria collegate durante la stagione estiva da servizi di aliscafi.
Le possibilità turistiche delle Eolie sono notevoli: ma occorre tener presente che esse derivano dalla bellezza naturale di queste isole, dalla purezza dell’aria e dell’acqua, dal valore delle architetture, dei paesi, dei porticcioli.
Un turismo che distruggesse questi valori distruggerebbe sè stesso e sarebbe per l'economia delle Eolie un fugace palliativo a cui subentrerebbe la cronica miseria di sempre.
Salina
La popolazione di Salina (circa 2000 abitanti) vive in gran parte sparsa nei tipici terrazzamenti dell’isola dove si coltiva la vite per la produzione della Malvasia e dell’Uva passa. Anche amministrativamente l’isola non ha un centro unico: S. Marina Salina, Malfa, Leni sono comuni autonomi
Un’economia agricola specializzata ha lasciato in quest'isola una traccia precisa nel paesaggio e nella struttura degli insediamenti. Il livello produttivo molto basso, le difficoltà della monocultura hanno messo in crisi Salina come tutte le zone povere del mondo rurale meridionale e la popolazione è nettamente diminuita negli ultimi decenni.
Filicudi e Alicudi
Tre antichi coni eruttivi (di cui il più alto raggiunge 774 metri s.l.m.) emergendo da fondali di 1000 metri costituiscono il nudo Isolotto di Filicudi.
Oggi lo abitano meno di 300 persone, ma come in tutte le Eolie sono numerose le tracce che testimoniano di una continuità residenziale fin dal 1700 a.C. documentata da interessanti villaggi dell’età del bronzo, iscrizioni e vasi greci, tombe ellenistiche.
Un unico antico cratere il cui punto più alto è 675 metri s.l.m. costituisce l’ancora più piccolo Alicudi. Gli abitanti sono poco più di 200: le tracce preistoriche e storiche testimoniano anche qui che l’isola fu sempre abitata.
La grande ricchezza biologica
Le isole Eolie presentano un notevole interesse dal punto di vista faunistico e botanico lungo tutto il loro sviluppo costiero, ma in alcuni tratti per particolari condizioni ambientali la vita sembra eleggere a preferenza il suo domicilio. Dall’isola di Vulcano dove i fondali di Vulcanello presentano maggiore ricchezza e varietà di specie, alle aree sommerse di Punta Grotticella, e dello scoglio della Imerata, a Punta Castagna di Lipari, alla costa tra Punta Spina e Punta Pirciato di Salina, a Punta Palisi di Panarea, a Stromboli sotto la « Sciara del fuoco », a Punta Petrazza, intorno a Strombolicchio, sotto la Canna e a Perciato di Filicudi. In queste zone forme vegetali ed animali, compresi i pesci, sembrano essersi date convegno si da apparirvi sempre, o stagionalmente, in quantità difficilmente riscontrabili in altre aree.
Panarea
Panarea è la maggiore isola (km. 3,4) di un piccolo arcipelago costituito Basiluzzo, Spinazzola, Lisca Bianca, Dattilo, Bottaro, Lisca Nera nonchè dai cinque scogli di Panarelli e dai quattro scogli detti Formiche. Questi nuclei vulcanici emergono da una unica piattaforma profonda 50 metri che a sua volta si innalza sui fondali di 500 metri: da qui l’ipotesi di un unico antico complesso vulcanico.
La vita su questi scogli deve essere stata in altri tempi molto più abbondante di adesso: tracce preistoriche e romane sono presenti a Basiluzzo (c’era anche una darsena d’epoca romana, attualmente sommersa), greche e romane a Lisca Bianca, mentre dal neolitico alla fine dell’Impero Romano fu abitata Panarea. Qui il villaggio preistorico dell’età del bronzo a Capo Milazzese risalente al XIV secolo a.C. costituisce un documento eccezionale nel quadro degli insediamenti preistorici del Mediterraneo. Oggi Panarea ha meno di 300 abitanti residenti e un notevole movimento di turisti in estate: gli altri scogli sono disabitati.
Un'eruzione di Stromboli
Stromboli è soltanto in apparenza un vulcano di modeste dimensioni (925 m. s.l.m.) in quanto la sua base si trova a oltre 2000 metri di profondità.
L’intero edifizio quasi eguaglia perciò l’apparato etneo.
Grossolanamente di forma piramidale trapezoidale, il vulcano presenta un’attività permanente di lancio di scorie, di lava, di ceneri, pomici e lapilli, emissioni di vapori, ecc. Le cime attuali rappresentano i resti dell’antico cratere; quello attualmente attivo si apre a circa 750 metri in corrispondenza dell’avvallamento tra le due cime, verso Nord. I prodotti eruttati si riversano direttamente nel mare lungo la celebre « Sciara del Fuoco ».
Riportiamo dal Rittmann la descrizione dell'eruzione terminale dello Stromboli del 1930.
«L’11 settembre verso le ore 8,10 il vulcano emise, improvvisamente e senza premonitori, una nuvola scura di ceneri, che si innalzò vorticosamente in ampie volute e causò una pioggia di cenere circoscritta ad una breve zona.
Dopo circa 10 minuti, sembrò che il monte volesse nuovamente calmarsi; la emissione cessò infatti del tutto. Ma alle ore 9,25, inaspettatamente, seguirono a brevi intervalli due esplosioni di incredibile violenza, il cui rombo fu udito a più di 60 km. di distanza.
Sul cratere s’innalzò una nube eruttiva a forma di pino, alta 2,5 km. Blocchi di roccia pesanti 30 tonnellate vennero scagliati a 3 km. di distanza e distrusse parecchie case del villaggio di Ginostra.
Poco tempo prima dell'esplosione la intera isola si sollevò di circa un me-
tro, per poi ricadere bruscamente, provocando un’onda di maremoto alta 2
metri.
Subito dopo le esplosioni, che avevano lanciato in aria soltanto dei blocchi
provenienti dal vecchio “tappo” ostruente il condotto, seguì una fitta pioggia di scorie incandescenti molto ricche di gas che durò 40 minuti; seguirono poi delle ceneri. Le masse incoerenti si ammucchiarono sul pendio superiore in uno strato spesso quasi un metro, che in alcuni punti perdette la sua stabilità scivolando in basso. Le fragili scorie eiettive vennero in tal modo frantumate ed i gas occlusi in esse si liberarono. Si formò così un miscuglio di ceneri e pietre sospese in gas caldi, analogo alle temibili nubi ardenti, che precipitò verso valle come una valanga ardente. Questa valanga, comportandosi come una massa fluida, precipitò per un stretto burrone, fino al mare, con un fronte alto da 8 a 10 m. e con una velocità di 15-20 m/sec. Il volume del materiale franato ammontava a circa 75.000 me.; la temperatura era di almeno 700 °C.
Dopo 40 minuti i getti di materiale incoerente diminuirono e nelle successive 12 ore sgorgarono parecchie colata di lava che fluirono giù per il fianco ripido dello Stromboli fino al mare. L’intera eruzione durò appena 15 ore, ma fu di gran lunga più terrificante di quella avvenuta al Vesuvio nel 1929).
L'unita' 18.11.69.
L'inverno nell'isola di Lipari.
I cavatori di di pomice non fanno notizia — La colonia di quindicimila liparoti in Australia – I pesci grossi – La silicosi dilaga, perché?
…..…….Di tempo libero i cavatori di pomice non ne hanno. Se non lavorano tra la micidiale pomice, emigrano (a migliaia van tutti in Australia, c’è una vera e propria colonia di quindicimila liparoti, più di quanto stiano ancor oggi nella loro terra); se non fuggono, muoiono di atroce morte, soffocati da atroce morte, soffocati dalla silicosi che gli rode lentamente i polmoni.
E’ una storia vecchia, è storia di un secolo di lotte per frenare l’ingordigia dei rapinatori dell’unica vera ricchezza di Lipari (le cave di pomice, appunto) e per difendere in qualche modo la sorte dei cavatori. La rivolta più clamorosa ad una condizione da colonia e da schiavi e dei primi del 900, coincide non a caso con l'esplodere del movimento dei Fasci, porta ad una conquista in certo modo storica e originale nessun padrone potrà più accampare diritti naturali sulle cave cioè praticamente praticamente su ogni centimetro quadrato delle alture protese verso Salina e Panarea; le cave diventano infatti demanio municipale, sarà il comune a concedere a chiunque degli « lndigeni» ne faccia richiesta, e solo a loro — così ordina la speciale legge tuttora in vigore —, il permesso dl estrazione o taglia dietro pagamento di un Interesse sugli utili di estrazione.
Da allora e per molti anni chiunque potrà dunque cavare pomice dai monti: accanto alia figura dell'operaio ancora subordinato all'industriate sorge (e si impone) quella del produttore in proprio, il quale non e necessariamente un professionista del mestiere ma anzi il più delle volte e il bracciante che riempie i vuoti stagionali, il pescatore che non può prendere il mare, il disoccupato che deve sfamare la famiglia.
I ricchi non eran perciò, almeno allora, gli industriali (o piuttosto la gran parte di loro); davvero potenti erano, e son restati praticamente sino a vent'anni fa, gli incettatori della sminuzzata produzione, i commercianti che tenevano gelosamente in pugno i rapporti coi mercati, in Italia e soprattutto all'estero.
Poi tutto cambia, quasi di improvviso. Anche in questo settore e l'avvio dl un sempre più rapido processo di concentrazione: favoriti da un'amministrazione comunale dc che praticamente ha messo in archivio il decreto del '908, i pesci grossi fagocitano i piccoli; esplode — in un rapporto di interdipendenza — il duplice fenomeno del saccheggio indiscriminato delle alture (la progressiva modificazione dell’ororografia dell'isola ne e impressionante testimonianza) e dello sfruttamento della manodopera daccapo ridotta alia subordinazione più totale; da duemila e passa che erano ancora quindici anni fa, il numero dei cavatori si assottiglia sino ai 350 di oggi.
La lotta per il controllo del settore si fa dall’altra parte più accesa man mano che la richiesta della leggerissima pomice diventa più pressante sul mercato. La vogliono in pezzi più grossi – i cosiddetti bastardoni – per farne mole, lastre abrasive, precompressi. La cercano sotto forma di pietrisco - la rasaglia – come granulare per l’edilizia, come isolante o coibente; persino i giapponesi ne acquistano: avete mai notato quei piccoli sacchetti antiumidità che son dentro le confezioni di materiale radio-fonografico? Bene, lì dentro c’è quasi sempre pomice, di Lipari naturalmente. Ne chiedono sempre più soprattutto in polvere, il cosiddetto impalpabile. Una volta era roba di scarto, nessuno la voleva. Oggi questo talco è come l’oro per i fabbricanti di sapone e dentifrici, per l’industria della cosmesi e per quella di precisione.
Pur rimasti in pochi a dominare la piazza, si sbranano per ogni contratto di fornitura abbassando particolarmente i prezzi sino a far raggiungere a questi livelli critici per la stesse sorti della tradizionale attività Iiparota.
Ne approfitta il gruppo diventato più potente grazie ai lauti finanziamenti pubblici, quello della Pumex, per costringere alla resa quasi tutte le imprese superstiti ( è la fine delle firme tradizionali del mercato: dei Ferlazzo, dei Carbone, dei La Cava), per imporre il cartello, per conquistarsi addirittura una specie di autonomia funzionale che abbassa persino l’occupazione indotta esautorando le compagnie portuali.
La situazione giunge al limite della rottura: un serrato, drammatico sciopero costringe due anni fa la Pumex a firmare un impegno per il blocco dei licenziamenti e per la salvaguardia del posto di lavoro e dei diritti maturati dai cavatori che lavoravano nelle Imprese assorbite da quella specie di consorzio fasullo cha fa ora il bello e il cattivo tempo, e contro il quale appunto e ripresa in questi giorni la battaglia operaia.
Una vittoria senza ombre?
Pu una vittoria senz'ombre, quell'accordo? Sino a un certo punto. Quelle che non sono mutate sono le condizioni fondamentali sia dei lavoratori direttamente impegnati nel settore e sia del complesso della popolazione, Non è solo una questione salariale. Anzi la questione più grave e quella sanitaria. Nelle cave si vive e si mangia nella polvere in micron, tossicissima, che ammanta ogni cosa e imbianca gli uomini come grottesche immagini felliniane, rodendone i polmoni. Ma d'estate coi venti e d'inverno con la pioggia, l'impalpabile (sventrate indiscriminatamente le alture, l'estrazione non avviene in galleria, ma all'aperto) mina invisibile gli abitanti delle frazioni e del paese calando nel pozzi d'acqua «potabile», avvelenando l'aria che si respira, ammorbando la terra. Sconvolgenti le conseguenze. Su 350 cavatori. 340 sono silicotici, e così 150 portuali e 500 ex operai. Alia Camera del lavoro il compagno Piccione ha appena completato le pratiche per l'Inca di tre operai tra i 25 e i 27 anni alla loro verde età sono già rottami, silicotici al quaranta per cento.
Stesso stadio del male ha Antonino Rodriguez. Non è mai stato in cava, non abita neppure nella zona della pomice, ha lavorato per trent'anni ai traghetti non adibiti al trasporto del minerale un giorno s'e sentito male. Si temeva la tbc; invece la silicosi aveva aggredito silenziosamente anche lui. Quanti altri liparoti sono nelle condizioni di Rodriguez? Non si sa, si ha paura di saperlo.
E soprattutto non lo vogliono sapere gli industriali, perchè non gliene Importa un accidente; perchè hanno interesse a non applicare i costosi ritrovati (in uso per esempio nelle cave sovietiche, mi dicono) che purgano la lavorazione della pomice rendendola assai meno pericolosa; perchè non si contentano più nemmeno dello stato di fatto che fa di loro i sostanziali padroni e non I semplici gestori delle cave.
Ora vogliono campo libero, in tutto e per tutto. Siccome il comune si è permesso di fare un lieve ritocco alla tangente sulla produzione più vile (non a quella sulle voci più ricche per carità: a bloccare ogni misura del genere ci sta bene attento da tredici anni il governo regionale), ecco la Pumex ingaggiare uno dei più noti — più dc — tra i civilisti reperibili in Sicilia, a battersi come una tigre per ottenere la dichiarazione di Incostituzionalità dalle norme del 1908. Su un fatturato di due miliardi, l'anno scorso hanno versato nelle casse comunali cento milioni. Non vogliono pagare nemmeno quelli, i divoratori dalle montagne di Lipari.
Giorgio Frasca Polara
L'Unità 18-11-1969 pomice
Grazie alla Biblioteca Comunale di Lipari dal notiziario delle isole eolie del settembre 1975, LA COSTRUZIONE DELL’ASTRICU NELLE ISOLE EOLIE, Giorno di Festa e di Divertimenti di Antonio Brundu. E SOCIETA’ MESSINESE DI STORIA PATRIA ARCHIVIO STORICO MESSINESE N. 69. TECNICHE COSTRUTTIVE STORICHE DEL PATRIMONIO EDILIZIO EOLIANO. MARGHERITA PERRICONE ARTURO OLIVA. (Uno stralcio).
“Voglio ricordare con piacere, avendo vissuto e fattone parte, che i Cantori Popolari delle Isole Eolie hanno rappresentato con un Ballo e Canto questa usanza/tradizione”. Grazie per la foto di famiglia riferita all’argomento ad Onofrio Natoli.
Si dimenticano facilmente le abitudini e gli usi del passato specialmente quando riguardino persone di umile condizione.
Nel riportare questi usi del passato, direi recenti, molto meno di un secolo, intendo porre in evidenza quei valori e quei contenuti folklorici ed antropologici che essi esprimono.
Queste usanze del mondo eoliano sono venute sempre meno: rapportarle oggi sulla carta significa ridestare dei ricordi non troppo remoti nei vecchi isolani, ed un tentativo di far conoscere ai giovani usi e costumi che hanno caratterizzato la civiltà delle Eolie.
Le manifestazioni popolari sono scaturite sempre dalla esigenza di rispondere a bisogni e necessità di vario genere (bisogni economici, sociali, culturali, religiosi). II fatto che fosse uso comune, per gli abitanti delle isole, festeggiare la costruzione dell’”astricu” (tetto a terrazza) in una casa nuova, rientra appunto nell’ambito di tali esigenze e necessità.
Questa usanza si svolgeva con vivo interesse ed intensa partecipazione. Sin dal mattino, nell’ultimo giorno di lavoro, cioè quando si doveva “ittàri l’astricu” (gettare o fare il tetto), attorno alla casa venivano posti del pali o delle canne ornati con “muccaturi” (fazzoletti) di svariati colori. I muratori ed i manovali gridavano e cantavano, lieti di essere giunti ormai alla fine della loro fatica.
Ad essi, nell’ultima fase del lavoro, si aggiungevano, per prestare la loro collaborazione, i membri della famiglia, compresi parenti ed amici; infatti tutti si munivano di una “mazzòla” (attrezzo di legno dal fondo piatto e provvisto di manico) ed incominciavano a battere ritmicamente la calce mista a < rapiddu> (lapillo) che era stata posta sul tetto. Le donne, intanto, erano affaccendate in cucina per preparare il pranzo, costituito da diverse specialità e vari tipi di dolci. Era immancabile la presenza del «mastru d'occhiu», il quale confrontava con l'orizzonte del mare il giusto livello del tetto.
Gli uomini che stavano sul tetto, quando da lontano scorgevano le donne che portavano i «cistieddi> (ceste) e i «vacìla di sfinci» (piatti piani grandi e con forma rotonda), per annunziarne la venuta, cominciavano a gridare in coro: "O ca veni, o ch'arriva, o ch'assuma!".
Si sospendeva quindi il lavoro e tutti prendevano posto nel lungo tavolo che era stato preparato nella terrazza (bagghiù).
S’iniziava a mangiare i “maccarruni” di ‘zziti al sugo (in genere si usavano quando c’era un fidanzamento). Il pranzo proseguiva con carne al sugo, o pesce, o stocco bollito con “putrisinu” (prezzemolo) o la zuppa o con patate. Il tutto veniva accompagnato dal vino locale. Se a qualcuno mancava il coltello, batteva un colpo nel piatto; mentre se mancava il cucchiaio due colpi, e tre colpi per la forchetta.
A tavola vi era molta allegria e si scherzava facilmente con tutti, specie col padrone di casa. In alcune “sfinci” ad esempio, si metteva il pepe ardente, ed è facile immaginare le conseguenze.
La sera giungevano altri parenti ed amici, i quali portavano dei regali, consistenti in frutta, dolci, mandorle, noci e frittelle; un dono gradito erano i “viscuttini”, insieme a garofani ed altri fiori.
A questi si offrivano quindi vino e dolci e, se c’erano malvasia e rosolio. Inoltre, spettava al capomastro spartire i doni agli uomini che lo avevano aiutato. Si dava quindi inizio ad una serie inesauribile di balli, ai quali partecipavano giovani e vecchi.
Più comunemente venivano effettuati valzer, mazurka, polka e tarantella. Oltre ai normali strumenti come la fisarmonica, violino, chitarra basso (chitarruni) e mandolino, non mancava il suono vivace e continuo del «tammarieddu». In genere era l'anziana mamma che suonava il tammarieddu, mentre le ragazze cantavano gaiamente, con un ritmo che di continuo si ripeteva. La festa proseguiva sino a tardi.
E' da notare come in questi atteggiamenti ed in queste forme di divertimento vi sia una notevole esigenza di svago: «Liete» sono le ragazze che partecipano alla < gioia» ed all'allegria degli operai, « liete» sono le madri, anche se, per lo più, restano ferme, in disparte, negli angoli. Tutto ciò era dovuto al fatto che tali manifestazioni scaturivano dal bisogno di evadere dalla monotona vita di tutti i giorni; di vivere una giornata diversa dalle altre; di sentirsi rassicurati e gratificati, necessità alle quali si rispondeva con usanze spensierate e libere, che di breve durata.
Da queste esigenze risulta evidente l’imortanza di un giorno di festa, il bisogno di farla perdurare e quindi di inerirla in un contesto tradizionale. Ed ecco che la tradizione acquista un significato ben preciso: infatti la sua ripetibilità nel tempo, garantisce una forte dosi di rassicurazione di fronte alla minaccia di un futuro che, in quanto ignoto, può alimentare qualsiasi timore. Quindi, simili manifestazioni alleggeriscono le tensioni sociali e interindividuali presenti nell’ambito della comunità.
Il giorno seguente, dopo la festa, il lavoro dell’astricu veniva completato lisciando accuratamente il tetto tramite pietre di mare con forma rotonda chiamate “cuti di mari”.
Nelle isole minori questa manifestazione si svolgeva in maniera un poco diversa, in relazione soprattutto alle condizioni economiche.
Anche qui si alzavano bandiere e muccaturi e si portavano doni detti “vacila di astricu”; in genere si trattava di pasta di vario tipo cotta nell’olio; c’erano poi “ a sfugghiata”, i “sfinci”, i “vastedduzzi”, ed anche pasta “squadata”, fatta con acqua e farina e qualce goccia d’olio, e veniva servita in lunghi piatti (spirlunghi).
I doni venivano portati sempre dalle donne, le quali erano salutate dal padrone di casa con un colpo o più colpi di fucile in aria, a seconda dei «vacila» portati, in modo che tutti sapessero quanto fosse gradito il dono.
Nelle isole più povere come Alicudi, Filicudi e Panarea, non sempre era possibile offrire maccheroni, ma solo pasta fatta in casa, i “tagghiarini», specie di tagliatelle.
Oggi, questa usanza sta scomparendo del tutto. Più che altro, quando si «ietta l'astricu», tutto si esaurisce nel preparare i “vacila di sfinci” che si consumano accompagnati dal vino, malvasia o rosolio.
Anche questa manifestazione, come tante altre, si è andata sempre più affievolendo; ciò è dovuto, sia all'evoluzione interna della cultura eoliana, che come tutte le culture trasforma i suoi valori e i suoi modelli, ne abbandona altri e ne acquisisce di nuovi, sia per influenze esterne, come può essere la cultura del profitto (vedi Lombardi Satriani in Folklore e Profitto») o del turismo di massa, che strumentalizzano, negano, distruggono la cultura folclorica per esigenze ed interessi economici.
E' anche da rilevare che la costruzione della copertura a terrazza di una casa eoliana rappresentava non soltanto il “completamento” del lavoro edificatorio dell' abitazione, ma anche la realizzazione dell'elemento essenziale per la raccolta dell'acqua piovana, l’unica e sola risorsa idrica che rendeva possibile la vita unana nelle Eolie, fino a pochi decenni addietro.
Ringrazio il signor Giovanbattista Saltalamacchia di Malfa per la sua collaborazione.
Antonio Brundu
SOCIETA’ MESSINESE DI STORIA PATRIA ARCHIVIO STORICO MESSINESE N. 69. TECNICHE COSTRUTTIVE STORICHE DEL PATRIMONIO EDILIZIO EOLIANO. MARGHERITA PERRICONE ARTURO OLIVA. (Uno stralcio e immagine figure varie della costruzione).
La composizione dell'impasto per il lastrico, "àttrucu" prevedeva una malta plastica con l'aggiunta di un particolare tipo di inerte, un lapillo vulcanico chiamato "rupiddu" che, data la sua struttura vetrosa, conferiva caratteristiche di idraulicità. L'impasto, amalgamato per tutto il giorno con uno "zappùni, sorta di zappa, prelevato con la "pàla', pala dilegno, e trasportato dentro le "cuòfine", ceste intrecciate difoglie di canne, veniva gettato sullo strato di inerti. Tale strato inizialmente aveva uno spessore di 25-30 cm., e solo 'successivamente, tramite battitura (Fig. 7), veniva ridotto acirca 15-18 cm. Terminata la gettata, un operatore procedeva alla stesura dell'impasto con l'ausilio del" matàffu" (Tav. 8 - Fig. 21), di dimensioni minori di quello utilizzato per il solaio di calpestio (di circa 20 x 30 cm. di dimensioni e di circa 5 cm. di spessore). La battitura del lastrico richiedeva lungo tempo e copiosa manodopera e avveniva con l'ausilio della "mazzola” (porzione di trave lavorata opportunamente in modo da ottenere un fondo piatto ed un manico, (Tav. 9 - Fig. 23). I battitori, 7-8 per un solaio di circa 25 mq., seduti sui "vanchiteddi" (Tav. 9 - Fig. 24), sgabellini costituiti da elementi di legno o di "ferIa" molto leggeri e resistenti, procedevano lentamente secondo direzioni incrociate, sull'intera copertura seguendo il ritmo di battitura (Fig. 8). L'operazione veniva protratta fino alla comparsa d una malta liquida fuoriuscita dalla battitura la quale, spalmata successivamente, determinava l'occlusione delle fessure formatesi a causa del ritiro. A battitura terminata veniva dato un ulteriore strato di latte di calce di maggiore densità che, levigata scrupolosamente dopo due giorni con la già descritta "cùta", assumeva il ruolo di pellicola protettiva (Fig. 9).
…..Un ruolo importante durante la gettata del lastrico, "à ittata i l'àttrucu", era svolto dal "musicante". Utilizzando un mandolino o un "organetto", ossia una fisarmonica, egli aveva il compito, oltreché di alleggerire il lungo lavoro con musica e stornelli, di conferire una maggiore energia al lavoro, mantenendo costante il ritmo di battitura, elemento indispensabile ai fini di una corretta stesura del conglomerato. Anche l'attesa dell'arrivo delle donne con i dolci tradizionali, come cannoli, taralli, "vasteddùzzi' immancabilmente accompagnati dal vino, che diveniva l'elemento inebriante, costituiva un ulteriore stimolo per l'incessante operazione del battuto. E così, all'inarrestabile ritmo di battitura, si frapponevano le voci dei lavoranti: "Ora c'à veni, ora c'àrriva, ora che ciavuru i maccharuna!"……
L'atmosfera di allegria che si veniva a creare durante la lavorazione del battuto del lastrico ed il protrarsi dei festeggiamenti fino a sera, nella casa vicina, con tavole imbandite, canti e danze, manifestavano la conquista della meta raggiunta: il termine della costruzione della casa…
Il Nostro Tempo 24.05.1987 ITINERARI NUOVI PER LESTATE: LE PICCOLE ISOLE ITALIANE DI MARE E DI LAGO Stromboli, sbarcare su un vulcano
di Claudio Marazzini
E il vulcano è vivo, lo si sente rimbombare di continuo, notte e giorno - Ma è la notte il momento più bello, quando ci si arrampica verso la cima e si vede uscire il fuoco, e poi si arriva in vetta: sembra di essere presenti alla creazione del mondo.
Non tutti i paradisi sono lontani. Ne abbiamo anche sotto il naso, in Italia. Per esempio, le nostre piccole isole. E di queste appunto vogliamo parlare: quelle dei mari innanzitutto e poi anche quelle dei laghi, piccole tra le piccole, ma non sempre parenti povere delle loro consorelle marine. Ci sarà materiale per progettare una vacanza, una gita. Oppure, semplicemente, si potrà ricordare, sognare, riflettere sulle risorse del nostro Paese, non sempre e non tutte aggredite da un volgare e brutale turismo di massa.
Stromboli è l'«isola» per eccellenza, situata in una parte del mondo che ha scarsa parentela con il resto dell‘arcipelago delle Eolie. Se con un rapido percorso di aliscafo ti sposti da Stromboli a Lipari, ritrovi la Sicilia, con i suoi aspetti pittoreschi e con la sua storia greca, visibile nei ruderi dell’acropoli antica. A Stromboli, invece i ruderi giganteschi sono solo quelli che il vulcano accumula periodicamente, rovesciando tonnellate di detriti giù dalla Sciara del fuoco. Il fatto è appunto questo: Stromboli, più che un isola, è un vulcano, a cui si sta precariamente aggrappati, e che si sente rimbombare sordamente ma continuamente dal paese. Quel rumore cupo è un monito, perché non ci si dimentichi della sua esistenza, e non si creda di essere in un posto qualunque.
Da sola, la Sciara del fuoco merita una gita a Stromboli, anche se la visita non potrà mai dirsi completa senza la salita alla cima del cono eruttivo. Ma restiamo per ora alla Sciara del fuoco, che è una sorta di gigantesco ripido scivolo, il quale precipita fino al mare partendo dalla bocca eruttiva. Ad ogni esplosione del vulcano (e le esplosioni sono continue, ad intervalli di pochi minuti), i sassi infuocati precipitano giù per la parete.
Di giorno si vede appena un po’ di fumo e qualche nuvoletta, subito è spazzata via dal vento. Ma la sera spettacolo cambia. Si vede il fuoco, in forma di faville incandescenti, come quelle di una stufa od un bracere. Queste scintille rotolano verso il mare, e normalmente, in condizioni di quiete, non ci arrivano. Spariscono prima perché la lava rocciosa, esplosa dalla bocca vulcanica, si raffredda, mentre si ascolta distintamente un rumore di pietre rotolanti. Nelle notti estive, dalla superficie del mare, a ogni botto del vulcano risponde un «ooh!» di meraviglia che sale dalle decine di barche e barchette che si godono lo spettacolo dal mare.
Ma non si può star sotto a guardare. Chi ha energie ed un minimo di curiosità deve salire. C’è un osservatorio, a mezz’ora dall’abitato, a punta Labronzo: di lì si ha già un 'impressione più forte. Chi è allenato a sgroppate sulle Alpi, fa però bene a salir più su. Si va dal mare fino ai 924 metri della cima: tre ore a passo lento e regolare; anche meno, per chi ha voglia di correre (non pochi entusiasti, però, scoppiano prima di arrivare). Si può andare da soli o con la guida. D’estate, file ininterrotte salgono al vulcano, all'imbrunire per cercare le tenebre che rendono meraviglioso lo spettacolo di queste domestiche eruzioni. Il buio coglie i pellegrini in ascesa, e le loro torce elettriche accese, viste dal paese, sembrano una processione verso un santuario lontano.
Quando si arriva, lo spettacolo è mirabile.
Sembra di essere presenti alla creazione del mondo. Immaginate un monte di circa mille metri su di un ‘isola di appena 3 chilometri di diametro. Siete sulla punta aguzza di un cono, tanto che sembra di toccare il cielo, e le ombre del tramonto, i rossi e gli azzurri si confondono, danno il senso di una mancanza di appoggio, come se il «sotto» ed il «sopra» si scambiassero le parti e si passeggiasse su di una mongolfiera.
E poi, annunciato da botti come quelli di un violento temporale estivo, improvvisamente, ad una svolta del sentiero, appare il primo e più grande cratere, che bombarda con regolarità assoluta una vampata di pietre incandescenti rotolanti verso la Sciara del fuoco. Ora la vedete dall’alto, la Sciara: e vi ricordate Omero, che nell'Odissea parla dell'isola Eolia, l’isola che si muove sul mare come una nave, su cui sta il palazzo di Eolo re dei venti: «attorno un gran muro di bronzo la circonda, infrangibile, e lisce muraglie di pietra». Alla luce del tramonto la Sciara è davvero di bronzo, non nera come lava.
Così la vide Ulisse, e così appare ancora oggi dal mare, meravigliosa, come progettata dall’uomo, non frutto di casuale capriccio della natura.
Se andate in cima al vulcano, non avvicinatevi troppo alla bocca da fuoco. Come per le Sirene, la tentazione è forte. Vi parrà di essere attirati da una sorta di laghetto rosso che ribolle. Vi ricorderete di Male bolge e dei diavoli di Dante. Vi troverete a camminare in una sorta di valle di sabbia, un sabbione nerissimo che a poco a poco si confonde con il nero della notte, finché sembra di camminare nel nulla e pestare il cielo nero.
Se vi avvicinate troppo, toccando il suolo, immergendo il dito un centimetro sotto la sabbia, sentirete scottare, ed allora un brivido vi percorrerà la schiena, e scapperete indietro. Ricordate che quel laghetto rosso che ribolle con buffo borbottio può esplodere di colpo, e lanciarvi contro un sasso incandescente micidiale come un proiettile di cannone.
E il mare? Il mare, a Stromboli, è forse l’ultima cosa che conta. La costa precipita troppo immediatamente, come una cupola che scende nel blu subito nero dell’acqua: siete su di un monte di cui voi vedete emergere solo la cima, ma che sotto è grande come l’Etna. E poi, a me è capitato di trovare l’acqua abbastanza sporca, forse perché te fogne scaricano troppo vicino alla costa. Personalmente, odio nuotare nella schiuma saponata, ed a Stromboli era necessario.
Pulita, invece, l’acqua di Strombolicchio, lo scoglio o faraglione di 56 metri di altezza, distante venti minuti di barca a remi, il fratello piccolo di Stromboli.
Non mancate di fare una gita a Ginostra, eccezionale località che sta dalla parte opposta di Stromboli paese, ed a cui si arriva ormai solo per mare. Vi troverete il porto più piccolo del mondo, un bacino di 4 o 5 metri.
Una salita ripidissima vi porta alle case sparse di Ginostra, semiabbandonata, dove qualche vecchio zappetta un orticello, degli asini solitari brucano sotto l’ombra dei fichi, dei forni da pane giacciono abbandonati. Negli anni successivi al '68 questo vero paradiso del silenzio era stato scoperto e curiosamente inquinato da molti gruppettari e rivoluzionari, provenienti anche dalla Germania. Qualcuno ci passò l’inverno, conquistando la fiducia dei pochi locali.
Ancora oggi vi si respira un 'atmosfera strana, che non ammette in questo luogo se non chi accetta un certo anticonformismo. Chi vuole dormire a Ginostra, comunque, si rivolga al signor Lo Schiavo, od alla pensione Petrusa, dove ci si sente come in un rifugio alpino, per quel lieve senso di precarietà tipico di questo posto sperduto: e la sensazione, nell’abbagliante Mediterraneo, è estremamente curiosa.
OGGI 28 APRILE 1949 INGRID E ROSSELLINI FIDANZATI IMPOSSIBILI
(foto: durante una pausa della lavorazione di “Terra di Dio” (titolo che ha sostituito il vecchio “Dopo l’uragano”), tra le macerie del quartiere di pescatori di Piscità. Sono visibili, in piedi la sorella di Rossellini, Marcella, che ha seguito il regista nell’isola, poi la Bergman, il duca di Laurino, aiuto regista, e mrs. Newald, segretaria di Ingrid).
Ingrid Bergman era l’unica di Hollywood immune ai pettegolezzi ma ora l’ondata di dicerie non risparmia più la sua vita privata.
Ingrid Bergman non è più la “mosca bianca” di Hollywood. Dal 1939, cioè dal giorno in cui arrivò nella mecca del cinema per girare Intermezzo con Leslie Howard, fino a poche settimana fa, l’attrice svedese era riuscita a creare intono a sé un alone di riservatezza, che impediva a chiunque di permettersi eccessive confidenze. Pur essendo da tre anni il “numer one” delle attrici mondiali, tutta la stampa pettegola d’oltre Atlantico non era mai riuscita a rivelare un gossip, un qualsiasi pettegolezzo su di lei. Ingrid ha sempre condotto una vita tranquilla, casalinga e ha sempre dimostrato una spiccata antipatia per qualsiasi forma di mondanità e di esibizionismo, nonché per le pose tanto comuni alle grandi dive. Tutti le vogliono bene, la rispettano, l’ammirano, invidiano anzi la sua semplicità, tanto da insinuare che questa semplicità è voluta dall’attrice per darsi un “tipo” differente dalle altre.
In realtà Ingrid si è sempre ribellata energicamente ad ogni intrusione nella sua vita privata. Quando, recentemente, è arrivata a Taormina, dopo uno spaventoso viaggio da Salerno fino all’Etna, contrastato da assalti di ammiratori, manganellate della Celere a Catanzaro, dove l’hanno costretta ad affacciarsi al balcone dell’albergo “moderno” e gridare “Viva Catanzaro”, firma delle lenzuola di una famiglia che l’ha ospitata a Lagronegro, inseguimenti automobilistici, resse e tumulti, si è chiusa nella sua stanza al “San Domenico” e ha pianto per un’ora. Allo sceneggiatore del suo fil Terra di Dio, Gian Paolo Callegari, che si illudeva di consolarla decantandole…. della celebrità, Ingrid rispose: “Amo il mio lavoro mi procura gioie e soddisfazioni, la celebrità non mi interessa invece la felicità sì”.
La sua affettuosa ammirazione per Roberto Rossellini è da alcune settimane turbata dai pettegolezzi della stampa in tutto il mondo , i primi pettegolezzi divennero improvvisamente su di lei dopo trentadue anni di dignitoso sodalizio. Pettegolezzi che Ingrid voleva evitare comunicando alla stampa un mese or sono, con estrema semplicità, la sua decisione di divorziare da dottor Peter Lindstrom per sposare Roberto Rossellini. Senonchè il dottor Lindstrom ha pregato la moglie di attendere il 20 giugno prossimo, alla chiusura delle scuole in America, per dare la notizia, al fine di evitare che la figlia di dieci anni fosse coinvolta e stravolta dall’avvenimento.
Due giorni prima di Pasqua, Ingrid si è recata per poche ore a Taormina in pantaloni grigi e pullover giallo, ed è rimasta, durante tutto il suo breve soggiorno, ai piedi dell’Etna, chiusa nella sua camera in attesa di avere la comunicazione con Los Angeles. Ha parlato con il marito e con la figlia, con i quali mantiene tuttora ottimi rapporti, ma il dottor Lindstrom, a quanto sembra, ha insistito nel chiedere tempo fino al 20 giugno per la comunicazione ufficiale del loro divorzio.
Frattanto Roberto Rossellini ha incaricato il suo avvocato di iniziare in Austria le pratiche di divorzio dalla sua consorte, la signora Marcella De Marchis, figlia di un noto gioielliere, dalla quale il regista ha avuto due bambini: Romolo e Renzino. Romolo è morto pochi anni fa a Barcellona in seguito ad un attacco di appendicite. Aveva dieci anni. Renzino ha ora cinque anni e vive a Roma con la mamma.
Ingrid Bergman sposò dodici anni fa in Svezia il dottor Lindstrom, allora studente in medicina, suo accompagnatore preferito alle rappresentazioni del Royal Dramatic Theatre, che l’attrice svedese frequentava assiduamente. I rapporti coniugali tra Peter e Ingrid sono stati sempre ottimi. Mai una nube ha oscurato il loro mènage. Fino a pochi mesi ors sono, ogni sera, quando Ingrid tornava dagli studios e Peter dall’ospedale di Los Angeles, di cui è medico primario, specialista in malattie del cervello, la famiglia Lindstrom passava le ore più belle nella villetta di Bevery Hills. I due coniugi si raccontavano, in svedese, le vicende della giornata. L’uno era fiero di avere per meglio per mogli una celebre attrice, la quale, una volta fuori dagli studios, si dimenticava di essere una attrice; l’altra era fiera di essere la moglie di uno dei più giovani , apprezzati medici di Los Angeles, col quale, nelle ore libere, usciva per andare a fare commissioni o per andare a ballare.
Una volta Ingrid stette a guardare per otto ore suo marito che eseguiva una difficile operazione di chirurgia cerebrale. Ingrid ricorda inoltre come uno dei periodi più felici della sua vita quello durato due mesi, quattro anni fa, quando, per riposare, raggiunse il marito, che allora esercitava la sua professione in un ospedale del Minnesota. Nessuna sapeva laggiù che era Ingrid Bergman. Aveva raccomandato a Peter di mantenere il segreto. Ingrid faceva la donna di casa, si occupava della bambina, leggeva, circolava indisturbata, spensierata.
Anche a Stromboli Ingrid e Roberto vivono come due persone qualunque. Tra una pausa e l’altra di lavorazione, si appartano, si tengono per mano, Ingrid accompagna Roberto a pesca, trepida per la sua sorte quando si tuffa dalla barca con i fucili; lui le accende la sigaretta, lei si spalma l’olio di cocco sul viso. Sono due fidanzatini qualunque, fidanzatini impossibili, è vero, perché ambedue sono legati da un vincolo matrimoniale che non sarà semplice sciogliere.
Ingrid ama la pace, la solitudine, la tranquillità, detesta la gente chiassosa. E’ di una semplicità e di una docilità sbalorditiva. E’ pronta ad ogni preghiera. Raramente si serve della segretaria e della domestica particolare.
A tavola, se le serve qualcosa, è capace di alzarsi e andarsi a prendere quello che desidera pur di non incomodare nessuno. Per questo sopporta soltanto quegli ammiratori che abbiano tanto misura da non seccarla, da non soffocarla di domande, di richieste di autografi. Detesta i parrucchieri degli studios. Non ha mai avuto un truccatore. Usa pochissimo trucco secondo i suoi criteri.
A Stromboli Ingrid si sente libera da ogni vincolo: pensa positivamente al suo nuovo film e a Roberto Rossellini, e dedica un’ora al giorno allo studio dell’italiano.
IL BIELLESE 12.09.1986
di Marco Burchi
Le spettacolari discese di Dario Ferro sui vulcani italiani
Manca la neve? Sciamo sulla lava!
Gli allenamenti a Bielmonte e Cervinia - In vista a Biella un corso di monosci
Dal freddo al caldo. Deve essere stata questa l'idea che ha mosso il biellese Dario Ferro, già nolo ai nostri lettori per avere sceso con il suo monosci il Gran Paradiso prima e il Monte Bianco bicentenario poi. Ferro ci aveva confidalo di avere in mente qualcosa di nuovo ma non si era sbilancialo, preferiva non vendere la pelle dell’orso prima del tempo. Ila proseguilo per tutta l’estate i suoi allenamenti, ha iniziato a prendere confidenza Bielmonte con i pendìi secchi (cioè privi di neve) si è fatto confezionare dalla ORAI di Ponderano una «camicia» in acciaio inox per il suo monosci Dynaslar ed è partito. Obiettivo: scendere con il monosci i pendii dei quattro principali vulcani Italiani, Stromboli, Vulcano, Vesuvio e Etna. Piccolo particolare Stromboli e Etna sono in attività.
Ferro è partito da Biella il 3 settembre. Il 4 era già alla base del Vesuvio di cui raggiungeva il bordo del cratere parte in funivia e parte a piedi.
“Per la discesa ho impiegalo arca 3/4 d'ora — dice — il terreno era difficile: lava, ghiaia e sassi”. Ferro precisa subito che la tecnica di discesa è identica a quella su neve, aumenta solo il numero di curve «saltale» e varia l'abbigliamento; giacche e duvet lasciano il posto a robuste imbottiture.
Accompagnato da Carlo Antonelli, di Napoli, nelle vesti di sherpa, lo sciatore biellese due giorni dopo sbarcava alle Eolie non senza aver suscitato qualche stupore tra i passeggeri dell'aliscafo.
La discesa di Stromboli è stata più lunga è la più pericolosa.
Sentiamo Ferro: «la salila a piedi ha richiesto tre ore. Ho affrontato la discesa partendo al di sopra della bocca principale del vulcano, dopo un ora di discesa ho raggiunto direttamente la spiaggia e il mare. Ci sono stati momenti di tensione perchè durame la discesa la bocca del vulcano - che è attivo e erutta con frequenza irregolare - ha continualo a sputar fuori gas e lapilli. Ci siamo mantenuti a distanza di sicurezza ma pochi giorni prima un uomo era morto investito da un getto di lava assolutamente imprevedibile. Tornando alla discesa, il terreno era più facile di quello del Vesuvio: lava e sabbia di media difficoltà».
A seguire la discesa oltre a un'altra biellese, Giuliana Guglielmo, e all'amico napoletano c'era anche il gestore di un albergo di Stromboli.
Il giorno dopo, a Vulcano, il «nemico» non i più tanto la terra quanto l'aria. «// vulcano è inattivo ma si è completamente circondati dalle solfatare che rendono l'aria caldissima e maleodorante, quasi irrespirabile. La salita ha richiesto un 'ora la discesa mezz'ora». Nel pomeriggio, tanto per non star fermo, Dario Ferro ha provalo anche l'ebbrezza della discesa su un pendio di pomice adiacente a una cava, già noto ad altri sciatori dell'insolito. «La pomice ha la consistenza e ii colore dei talco. Si scia mollo bene ma occorre poi entrare in mare con sci e allocchi per sbloccare i meccanismi completamente intasati di polvere».
Il tour de force non è finito. Dopo 24 ore Ferro si inerpicato sui pendii dell'Etna; dopo essersi consultalo con le Guide sceglie per la discesa il tratto compreso tra il cratere centrale e quello laterale. «È stata la discesa più tecnica data la pendenza dei terreno che raggiungeva e superava i 35 gradi e la sua consistenza: un misto di terra e lava». Anche qui i borbottii egli sbuffi dell'Etna hanno fatto compagnia al biellese e, particolare... inquietante, dai buchi lasciati dalle punte dei bastoncini uscivano piccole fumarole di vapore.
Rientralo a Biella Dario Ferro sia mettendo a punto nuovi programmi con i suoi allenatori: Edy Angelino della Freesport di Biella e Giovanni Marciandi, maestro di sci a Courmayeur. Perfezionando gli allenamenti già svolti sulle pietraie e i ghiacciai di Cervinia Ferro metterà a punto con Angelino un corso di monosci (sarà il primo in Italia) che si svolgerà a Bielmonte e a Megéve. «A Bielmonte — dice — ho trovalo molta collaborazione. Il signor Orleoni mi ha messo gratuitamente a disposizione quest'estate gli impianti di risalita».
Ferro che è sponsorizzalo, oltre che dalla Dynaslar, dalla ditta biellese «Cerruti 1881» tornerà mollo preso alla neve. Con Marciandi tenterà la discesa della Grande Mote, presso Tignes in Francia.
CINEMA N. 34 DEL 1950
DOPO UNA intensissima campagna di « saturazione », per dirla nel gergo tecnico usato dai commercianti della pellicola, campagna che ha inondato quotidiani e « magazines », rintronato nelle orecchie temprate dei radioascoltatori, abbagliato le pupille di forestieri ed indigeni di Broadway, Stromboli è finalmente apparso sugli schermi di oltre cento cinema cittadini nella notte del 15 febbraio.
La formidabile imbonitura pubblicitaria del « caso » Rossellini-Bergman, culminato in questa gigantesca presentazione dell’ultimo lavoro del regista italiano, aveva provocato grande curiosità e attesa. Le polemiche religiose avevano raggiunto l’acme della virulenza: la «Legione cattolica romana della decenza » aveva annunziato che il film sarebbe stato « accettabile », mentre la Chiesa metodista della Trinità di Lo Angeles aveva rispettosamente pregato Eric Johnston, « zar del cinema », di proibire la visione di qualsiasi film della Bergman, condannando fra l’altro Joan of Arc (« Giovanna d’Arco »), recentemente esaltata dai pulpiti della Chiesa cattolica Un legisla- tore, R. E. Blount, aveva introdotto una mozione per bandire il film dallo stato del Texas, ed il comitato di censura di Memphis, nel Tennessee, aveva ufficialmente decretato l’ostracismo ai lavori della svedese. Molto rumore per nulla.
Stromboli lascia comunque perplessi: la critica cittadina lo considera sommamente banale, debole, inarticolato e privo di convinzione. Tranne un paio di sequenze eccellenti, non si riscontra il polso del regista di Roma, città aperta e Paisà. Si dice che il film sia stato letteralmente tagliato e montato negli studi hollywoodiani della R.K.0., in un'atmosfera di grande mistero. Nella giornata precedente alla rappresentazione, giunse un telegramma di Rossellini, nel quale egli annunziava che il film sarebbe stato presentato in contrasto assoluto alla versione originale da lui realizzata.
A dire il vero, basta ricordare le disavventure di Eisenstein o di Erich von Stroheim, per sostenere che l'odierna disavventura, sulla base di precedenti famosi, può offrire campo alquanto facile per supposizioni più o meno fondate. In- dubbiamente, anche questa volta Hollywood ha cercato di mantenere desta la tensione e la curiosità delle masse sulla coppia Rossellini-Bergman, ricalcando i sistemi usati nell'esaltare la pudica relegazione della Garbo e Stokowsky fra le delizie di Villa Cimbrone nella stupenda quiete.
Le esigenze del Box Office, dopo aver sfruttato recentemente gli amori di Rita Hayworth e Ali Khan, in un binomio di cerone hollywoodiano e feudalismo asiatico, hanno trovato in tale nuovo affare italo-svedese una nuova linfa di idee pubblicitarie. Concludendo, il film è caduto dal punto di vista artistico, ma questo conta poco per i commercianti; le prossime settimane infatti ci diranno se il successo commerciale ha corrisposto alle ambiziose aspettative ed agli sforzi prodigati.
Tra i tanti articoli del tempo che ho trovato sul film Vulcano, ma anche su Stromboli terra di Dio, eccone uno del grande Ennio Flaiano.
Articolo di Ennio Flaiano da rivista Mondo del 18.02.1950.
Nell'ultima scena del film Vulcano, la voce del coro avverte che i fatti narrati sono espressione, citiamo a memoria, dell’eterna vicenda del ‘vulcano che domina l’isola omonima. Le nostre cognizioni di Vulcanologia sono molto sommarie e nemmeno aggiornate, ma non ci sembra che sia il caso di addossare ad un vulcano quasi inattivo la colpa dei fatti piuttosto confusi che succedono nel film diretto da William Dieterle e interpretato da Anna Magnani, Rossano Brazzi e Geraldine Brooks.
Ci sono soggetti e sceneggiature che non possono essere provocati da nessuna forza tellurica ma soltanto dall'euforia, dalla frivolezza che caratterizzano una parte dell'industria cinematografica italiana, convinta di poter ottenere, senza sforzo, curiosi e immediati successi. Vulcano è; tutto sommato, il frutto di certe cronache che tennero sveglio il pubblico nei primi mesi dello scorso anno, ed ha, secondo noi, un solo pregio: quello di indicare i pericoli delle gare fondate sulla pubblicità, che è come dire sulla mancanza di discrezione e di buona fede. Sono troppo note quelle vicende perchè sia il caso di ricordarle: e comunque a ricordarcele verrà presto un terzo film che si chiamerà (ci si vergogna a riferirlo), Vulcanini e Strombolini;
Se ne inizierà presto la lavorazione. Dunque, il cinema può essere arte, industria, commercio, ma, in qualche caso, semplice difetto di idee o di educazione, addirittura pettegolezzo, Non siamo più al film nuovo che indica un genere e viene copiato, siamo già alle parodie, agli scketchs da rivista musicale: ed è inutile chiederci se piaceranno, al pubblico, visto che piacciono a chi li fa.
Abbiamo detto cha i fatti di Vulcano sono confusi: aggiungiamo anche arbitrati e fanno torto all’ispirazione neo-realistica della regia.
Dieterle è riuscito a far diventare falso anche il vulcano, dando letteralmente una mano di rosso alla scena, del resto inutile, dell'eruzione ché conclude la storia. Quello che poteva essere un. Disperato documentario della vita in un’isola abitata da 136 persone, e dominata da vulcano che talvolta brontola, è diventato un, film tortuosamente romantico, con personaggi che sono abbastanza veri per commuoverci (anche se vanno scalzi), né abbastanza verosimili per interessarci (anche se commettono delitti). Probabilmente, Dieterle è stato sedotto, venendo in Italia, dall’idea di ripetere il giuoco che riuscì in Polinesia a Flaherty con Moana e a Murnau con Tabù: descrivere la dura e vergine vita di un’isola.
Ma Flaherty era un sottile e lirico osservatore e Murmau possedeva talento drammatico: il primo aveva letto Rousseau e Stevenson e cercava il buon selvaggio; il secondo conosceva gli studi di Frazer e le conclusioni di Freud sui miti ancestrali e cercava una storia antica come il mondo; mentre Dieterle dà l’impressione di essere sbarcato a Vulcano con una gran voglia di capire subito i “nativi” e con una valigetta piena di romanzi sfogliati a metà. In un’isola dove non era mai stato proiettato un film, egli ha portato proprio dei fatti visti al cinema o al teatro. Per esempio: il personaggio principale del suo racconto è una Anna Cristhie, una prostituta rimpatriata con un foglio di via della questura di Napoli,
Tuttavia, nell’isola che ha lasciato diciotto anni prima per seguire un turpe seduttore, questa donna non troverà buone accoglienze: e si aggiunga che infine, per salvare dalla sua stessa sorte una sorella ingenua, ucciderà un uomo e vorrà uccidersi a sua volta, facilitata in tale impresa dalla tempestiva eruzione del vecchio vulcano.
Il fil ha un ottimo inizio. L’arrivo della prostituta nella povera isola non fa davvero prevedere che tutto il resto affogherà in una salsa romantica. Preoccupato di restare senza il dramma ( e non ce n’era bisogno, in tale drammatico ambiente). Dieterle ha accumulato sull’antagonista più sospetti del necessario. Rossano Brazzi è così, volta a volta, un cercatore di tesori maledetti, un assassino subacqueo e un interessato alla tratta delle bianche; mentre forse sarebbe bastato fargli fare onestamente il palombaro e lasciarlo nelle vicenda come un elemento del paesaggio.
Poiché se il film ha dei buoni momenti (la caccia al pesce spada, la pesca del tonno, il lavoro nella cava di pomice), il merito è principalmente della Natura: ma pochi e brevi brani documentari non possono salvare un film che non aveva nessuna voglia di venire al mondo. Inutile ci sembra parlare dell’interpretazione , se non per quanto riguarda Geraldine Brooks, che con molta abnegazione ha salvato il suo personaggio, se non dall’ingenuità, almeno dal ridicolo.
Fu “Sindaco” delegato a Stromboli 40/primi 50 e forse anche prima.
Nelle foto a sinistra lui con la Bergman, foto tratta da rivista del tempo, a destra Il dottore Renda e Curulli si stringono la mano, Grazie a Ettore Barnao.
sig. Francesco Curulli (Curullo - Cuccurulli - Cuccurullo come scrivono erroneamente in alcune citazioni, credo si tratti di errore di giornalistI ecc. come succede spesso anche con il mio cognome).
Grazie a Ettore Barnao:
Ho conosciuto personalmente il delegato Cav. Francesco Curulli (1874-1954) grandemente apprezzato a Stromboli insieme con tutta la sua famiglia. Curulli era capo-posto del R. Semaforo di Stromboli e incaricato, dal R. Servizio Geodinamico per la Sicilia e le isole adiacenti, di riferire regolarmente sulle manifestazioni dello Stromboli. Alcune sue relazioni sulla attività dello Stromboli durante le disastrose eruzioni del 1919 e del 1930 sono riportate nella letteratura scientifica del tempo.
Francesco Curulli, nato a Gerace (RC) l'8.6.1874: morto a Romano di Lombardia il 13.11.1954.
Infatti rifacendomi a quanto riferisce il sig. Barnao ecco le relazioni da lui fatte, riportate dagli studiosi Platania ed Eredia:
PLATANIA: Il periodo di attività straordinaria iniziatasi allo Stromboli col Febbraio 1919, intensificatasi nell'aprile, culminò la sera del 22 maggio verso le ore 17.45 (t.m. etneo) con una esplosione di violenza eccezionale per quel vulcano. Il sig. Curulli, capo semaforista, incaricato dal R. Servizio Geodinamico per la Sicilia e le isole adiacenti, di riferire regolarmente intorno alle manifestazioni di Stromboli, così descrive il fenomeno, in una sua relazione a questo R. Osservatorio" Il 22 volgente, alle ore 18,47 (ora legale) accompagnata da un vorticoso movimento aereo e da un risucchio delle acque del mare per circa 200 m, ebbe luogo una violentissima eruzione dello Stromboli con detonazione senza precedenti per
intensità, ed emissione di enormi colonne di fumo nero a grosse volute che invase in breve tempo l'isola. Contemporaneamente abbondantissima eruzione di gran quantità di blocchi lavici di eccezionali dimensioni, varianti fra le 30 e 60 tonnellate, lanciati a considerevole altezza, la quale eruzione ha investito tutto l'abitato dell'isola. Altra eruzione susseguente di grosso materiale igneo, scorie, pietre, grosso lapillo, provocava incendi alle falde del monte in parecchi punti, mentre quella dei grossi blocchi incandescenti cagionava la distruzione di otto case, il danneggiamento grave di altre 10 nell'abitato di Stromboli, la distruzione di altre due in borgata Ginostra. Per effetto poi della detonazione violentissima la totalità delle abitazioni del paese ebbe tutti gli infissi e porte scardinate e con violenza sbattute lontano, e rotte a schegge;
tutti i vetri delle finestre rotti per cui le abitazioni sono rimaste aperte, incustodite, le persone anche allo stato di moto furono sbattute con violenza. Seguì quasi contemporaneamente una invasione delle acqua del mare che sommerse per due minuti la spiaggia tutt'intorno capovolgendo e trascinando tutte le barche per circa 300 metri fino ai vigneti adiacenti." Gravi danni nelle circostanti campagne che bruciarono in vari punti per tutta la notte.
A differenza delle precedenti eruzioni che non avevano cagionato che solo danni materiali, nell'attuale si hanno disgraziatamente a lamentare 3 morti e 20 feriti colpiti o seppelliti da enormi massi lavici, altri ustionati più o meno gravemente, alcuni da schegge di porte o vetri e da materiale delle abitazioni crollate. La furia distruttrice è durata circa 2 minuti, con una leggera ripresa l'indomani 23, dalle ore 22.30 alle 4, durante il quale periodo si sono osservate eruzioni di grosse scorie e lapillo, localizzate nella circoscrizione dell'apparato eruttivo; diffusi bagliori dal cratere alla sciara fino al mare, che illuminavano sinistramente il cielo tutto intorno, e davano l'impressione di un colossale incendio nella notte senza luna.
Il 23 in un momento di relativa calma il sottoscritto si è recato in località Punta Labronzo, a circa 200 m dalla SdF, constatando anche in quei pressi l'eruzione del materiale diverso in gran copia, grossi macigni semi interrati, scorie grosse e pietre. Non ho potuto in quel momento osservare il Cratere occultato da emissioni continue di gas. Vi feci ritorno però nel pomeriggio, dalla parte di mare, ed ho potuto fare delle osservazioni in un momento di calma.
EREDIA articolo tratto da IL SECOLO XX 1924
LO STROMBOLI NELLE RECENTI ERUZIONI VULCANICHE
Nel febbraio 1919 si iniziò un periodo di attività straordinaria che culminò culminò la sera del 22 maggio verso le ore 17.45 (t.m. etneo) con una esplosione di violenza eccezionale per quel vulcano. Accompagnata da un vorticoso movimento aereo e da un risucchio della acque del mare per circa 200 metri, ebbe luogo una violentissima eruzione con detonazioni senza precedenti per intensità ed emissione di enormi colonne di fumo nero a grosse volute, che invase in breve tutta l’isola.
Contemporaneamente si ebbe abbondantissima eruzione di gra qualità di blocchi lavici di eccezionali dimensioni, varianti fra le 30 e 60 tonnellate, lanciati come descrisse il signor Curulli, capo semaforista, a considerevole altezza. Altra eruzione susseguente di grosso materiale igneo, scorie, pietre, grosso lapillo, provocava incendi alla falde del monte in parecchi punti, mentre quella dei grossi blocchi incandescenti cagionava la distruzione di parecchie case…
Alcuni giornalisti inviati a Stromboli nel 1949 e 1950 per scrivere sulle riprese del film “Stromboli Terra di Dio” ebbero modo di conoscerlo ed così riporta:
““Diminuisce ogni anno la gente a Stromboli — «E da Reggio o da Napoli volete che la gente venga qui?» — mi dice il sindaco di Stromboli, il sig. Cuccurullo.
E' piccolo, magro: si porta dietro ogni volta che esce la figlia « professoressa ». Egli mi spiegava che prima Stromboli era tutta piena di abitanti: la pesca fruttava molto. Il pesce veniva mandato in Francia, non c'erano le linee di navigazione e grosse barche enormi portavano la gente di Stromboli in continente, dove essa intavolava relazioni commerciali. Il pesce con certi decreti di Crispi non potè più andare in Francia e il commercio finì. La gente fu allora che incominciò a emigrare”.
Diciamo solo a titolo di cronaca
che in altro articolo del 1949 viene così descritto: “è questo incartapecorito Sindaco di Stromboli che fa sfoggio di cravatte americane e di spille d’oro, e che considera gli isolani come i suoi sudditi, guardandoli con una punta di disprezzo”.
un ricordo anonimo di una persona di Stromboli si evince che ai tempi del razionamento del pane faceva particolarità!
Io concluderei dicendo che ognuno può avere dei suoi giudizi personali e con il detto che è sempre attuale “nessuno è perfetto”.
GUIDA delle ISOLE EOLIE ENTE PROVINCIALE PER IL TURISMO MESSINA 1952 DI: Vittorio FAMULARO, Francesco ALLIATA, Luigi BERNABO’ BREA.
FOTOGRAFIE PANARIA FILM-CONNAISSANCE DU MONDE-COSTA-GULLI’.
LA PESCA SUBACQUEA ALLE EOLIE di Francesco ALLIATA
“”La pesca subacquea è un’attività che da alcuni anni interessa un numero sempre maggiori di sportivi.
L’uomo ha preso esempio dagli animali e ha cercato di penetrare nelle sconosciute e misteriose profondità marine munendosi di apparecchi più o meno complessi (che vanno dal semplice occhiale ermetico agli autorespiratori a rigenerazione d’aria) e applicandosi appendici quali pinne di gomma, cinture di piombo e altro, così trasformato, simile ad un leggendario guerriero , ha imbracciato un lungo fucile a molla ed è andato ad affrontare i pesci, dai più piccoli ai più grossi, nel loro stesso elemento.
E nelle profondità marine, al cospetto di un mondo suggestivo e inesplorato, il re della terra ingaggia battaglia cruenta e spesso estenuante (in ogni caso emozionante) con i sudditi del mare. Questi mettono a profitto un’impensata agilità e velocità, numerose caverne e tane in cui trovano riparo e un forte spirito
di conservazione elevato ed esaltato dai continui attacchi a cui sono sottoposti da parte degli altri abitatori marini e soprattutto dall’uomo, eterno nemico.
Non è facile “infilzare” un pesce sott’acqua: ma ciò rende più appassionata questa che è un caccia vera e propria più che una pesca nel senso tradizionale della parola…”
I ragazzi della Panaria Film', che, grazie alle loro riprese subacquee - effettuate con una macchina a 35mm appositamente rielaborata e tanto fiato, non esistendo ancora gli autorespiratori - hanno fatto conoscere per primi uno sport all'epoca decisamente insolito in Italia: la pesca subacquea. Interamente girato nelle isole Eolie, all'epoca ancora mete sconosciute ai turisti, il film ha anche il merito di mostrare per la prima volta il meraviglioso arcipelago consacrato da Rossellini in "Stromboli, terra di Dio" (1949/51) e da Dieterle in "Vulcano" (1949).
ELENCO DI ALCUNI GIORNALI ITALIANI REPERITI DA VARIE FONTI CON ARTICOLI SUL FILM “STROMBOLI”:
devo dire che poi alcuni rivenditori mi hanno inviato gratuitamente ritagli di articoli senza fornirmi la rivista o il giornale da cui tratti.
Come per il film “Vulcano” in alcuni alla fine vi è solo la copertina.
Devo aggiungere che vi sono anche diverse citazioni a come fu accolto il film all’estero, le differenti critiche che ricevette in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti. Proprio per l’edizione “Americana” Stromboli, infatti, negli Stati Uniti esce il 15 febbraio 1950, rimontato dalla Rko, a seguito di tagli ecc. vi fu una grossa polemica con un notevole dissenso da parte di Rossellini che accuso di aver snaturato il film negli Stai Uniti.
LA STAMPA 15.05.1949
La Stampa Giovedì 16 Febbraio 1950
La Stampa Venerdì 17 Febbraio 1950.
MOMENTO SERA 18.02.1950
LA STAMPA 14 MARZO 1950
SETTIMO GIORNO 23 marzo 1950
L'Europeo 26 marzo 1950
IL MONDO L'ISOLA DI ROSSELLINI ENNIO FLAINO 27 MARZO 1950
CINEMA 5 MAGGIO 1949
L'EUROPEO N. 18 DEL 1 MAGGIO 1949
CINEMA 5 MAGGIO 1949
La Domenica del Corriere 28 Maggio 1950
L’EUROPEO 6 AGOSTO 1950
AVANTI di Luigi Fossati. 27.08.1950
Tempo rivista settimanale n° 35 - 2-9 settembre 1950
Omnibus n. 12 del 1950
CINEMA copertina film STROMBOLI 1950
Tempo rivista settimanale - n° 35 - 2-9 settembre 1950
L'UNITA' 16 MARZO 1951
La Fiera Letteraria n. 11 18 marzo 1951 di gian luigi rondi
EPOCA ? manca qualche rigo 24.03.1951
Omnibus 25.03. 1951 di guido aristarco
EPOCA n. 273 del 7 agosto 1955 PER NOI IN ITALIA non c’è più nulla da fare Ingrid Bergman e Roberto Rossellini rivolgono aspre accuse ai produttori italiani.
Il regista andrà a girare in India, l'attrice è in procinto di trasferirsi a Parigi.
Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli.
Bianco e Nero. Dossier Rossellini quando la critica si divise, riporto uno stralcio. luglio settembre 1987.
UN GRANDE LAVORO DI RICERCA. ELENCO ARTICOLI GIORNALI E RIVISTE SUL FILM “VULCANO” in qualche caso solo fotografie il resto trascritti integralmente, compreso Principe Alliata e Panaria Film. Tra l’altro in diversi articoli vi sono anche riferimenti a “Stromboli”, Rossellini e la Bergman ed alcuni articoli o riviste estere/i.
Alcuni degli autori in futuro divennero grandi giornalisti e scrittori come ad es. Ennio Flaiano. Da tutti questi articoli, alla fine, si ha una storia, nei minimi dettagli, del Film dai primi passi, alle riprese, sui produttori, sui protagonisti, all’uscita ecc.
1. OGGI 21 MAGGIO 1949 di Ermanno Contini.
2. GIORNALE DI SICILIA 27 maggio 1949 di Topazia Alliata.
3. L'Ora del Popolo 17.06.1949. (in realtà parla della Magnani e di altri film).
4. OGGI 30 giugno 1949 n.27.
5. L'EUROPEO GIUGNO 1949.
6. La Stampa 27 luglio 1949.
7. AVANTI 6 AGOSTO 1949.
8. L'ILLUSTRAZIONE DEL POPOLO 11.09.1949.
9. Rivista CINEMA del 30 settembre 1949.
10. MON FILM n. 225 1950.
11. La Stampa 2 febbraio 1950.
12. Stampa Sera 5 febbraio 1950.
13. GIORNALE DI SICILIA 09.02.1950.
14. TEMPO 11.02.1950.
15. LA NUOVA STAMPA 11.02.1950.
16. Il Mondo 18.02.1950 Ennio Flaiano.
17. OGGI 23.02.1950 ANGELO SOLMI.
18. CINEMA DEL 28 FEBB 1950.
19. L'operaio italiano quindicinale sindacale 16.10.1950.
20. The Brooklyn Daily Eagle 21 jul 1953.
21. film Vulcano. NUOVE EFFEMERIDI rassegna trimestrale di cultura n. 30 1995.
22. LA STAMPA 18 AGOSTO 1999.
23. FILM BUHNE illustrierte n.1067. (solo immagini).
24. PROGRESS illustrierte1954. (immagini e due riquadri con sunto del film in tedesco).
25. Anna in Vulcano supererà Ingrid?, ritaglio giornale non identificato anno 1949 o 1950.
Resterà un archivio giornalistico molto importante sul film, su i suoi protagonisti, sulla realizzazione ed anche sulle vicende con Rossellini e Bergman.
NUOVE EFFEMERIDI rassegna trimestrale di cultura n. 30 1995.
All'interno della rivista articolo su “I Ragazzi della Panaria” di Rita Cedrini, del 21 marzo 1995. Uno stralcio riguardante in particolare il Circolo Cacciatori Sottomarini.
….Conte Giuseppe Tasca, lei è stato il fondatore del Circolo Siciliano dei Cacciatori Sottomarini che aveva sede a Rinella di Salina. Come è nata l'idea di fondare un circolo per gli amatori della pesca subacquea?
«Sono andato a Vulcano per la prima volta nel 1947 allorchè i miei amici Francesco Alliata, Quintino di Napoli, Pietro Moncada e Renzo Avanzo stavano lì accampati per girare famosi documentari; erano con me Francesco Moncada di Paternò, Rosanna e Fiammetta di Napoli, il capitano britannico Arthur Oliver. Subito mi innamorai delle Eolie.
Qualche settimana dopo, insieme a Topazia e Fosco Maraini, noleggia a Cefalù un motopeschereccio (che era un vero disastro, senza servizi igienici, parecchie cimici, senza invertitore, con l’asse fuori centro che dava una vibrazione continua a tutta la barca) per raggiungere gli amici a Vulcano e conoscere anche le altre isole».
In quanto tempo avete raggiunto le Eolie?
«Abbiamo fatto una prima tappa a Alicudi. Era uno spettacolo fantasmagorico vedere al crepuscolo i colori che cambiavano tra il gioco del tramonto e il buio della notte. Dal ‘47 quanti anni sono passati, eppure è un ricordo vivo: da una parte quell’orribile motopeschereccio con un rumore terribile, dall'altra la bellezza suggestiva delle immagini all'orizzonte che ancora oggi mi dà forte emozione. Nei pochi giorni che ci fermammo mi appassionai alla pesca subacquea.
Ho avuto sempre il pallino dell'organizzazione, tato è vero che avevo fondato, quasi da bambino, un circolo sportivo, il Factotum Club, con sede a casa mia. Erano i ragazzi in gamba e forti; fortissimi erano i San Vincenzo, io ero il più mingherlino. Così nel ’47 nacque in me l’idea di fondare il Club dei Cacciatori sottomarini, che fu, mi pare, il primo Circolo federato di questo nuovo sport. Nella primavera dell’anno successivo cominciò la ricerca della sede che fu abbastanza movimentata e bizzarra.
Avevo, in società con altri, un “vero” motopeschereccio, e questo andammo a Panarea dove incontrammo il dott. Cincotta che sapeva tutto dell’isola. Non trovammo però ciò cercavamo, perché doveva servire anche come albergo noi la casa che avremmo affittato per il Circolo».
Non le andava l’idea di una situazione d'accomodo?
«Non mi andava affatto. Tornammo a Palermo con le pive nel sacco. Pietro Moncada, Ciccio Cupane Junior e io, senza arrenderci, ripartimmo alla ricerca di una casa che ci avevano descritto, che poi trovammo, a Rinella, sull’isola di Salina. Manni Notarbartolo mi disse infatti che era disponibile “la casa dell'americano” — che poi non era affatto americano — e che forse era proprio quello che andavamo cercando. Da Santa Marina di Salina, raggiungemmo Rinella con una barchetta».
Quanto dista Rinella da Santa Marina?
«Con una barca a remi tre quarti d'ora. Saranno cinque-sei miglia. Lì vedemmo una casa bellissima e così ci innamorammo anche della casa».
Di chi era questa casa?
«Era di un certo signor Lopes che aveva fatto la sua fortuna facendo il ciclista in Australia. Aveva vinto un sacco di soldi e con quei soldi si era costruita una bellissima casa, con delle statue sopra. Abbiamo lasciato, come ricordo d otto-nove anni di Circolo aperto, un album di firme dove a
fine anno annotavamo i commenti anche sui lavori che andavamo realizzando».
È un album anche di memorie?
“Di firma con intercalata qualche memoria. Il signor Lopes in principio non voleva sapere di affittarla, perché non aveva bisogno di soldi, stava bene. Della casa se ne serviva come casa d'appoggio per fare i bagni, non per viverci. Per conquistare il signor Lopes e convincerlo ritornammo una seconda volta portando con noi un simpaticissimo nostro amico, Alberto Samonà, meno giovane di noi che aveva una fabbrica di mattoni a Spadafora. Era un trascinatore, ridanciano, simpatico. In poche parole andammo a cena Alberto Samonà, Ciccio Cupane, io e il signor Lopes. Ci sbronzammo tutti compreso il padrone di casa, ma con l'atmosfera che si era creata ce ne andammo a fine serata con la promessa che avremmo avuto la casa in affitto. Tornammo a Rinella, dove dormivamo, cadendo qualche volta sia per l'accidentalità della strada, che era ripida, sia perché eravamo alquanto sbronzi”.
E soprattutto perché all’euforia della gioventù si aggiungeva la gioia per la promessa strappata.
“Si, si. Fu un successone. Abbiamo subito cominciato a costruire un padiglioncino esterno con due locali igienici disegnati da Pippo Caronia, addossati al pozzo. I primi anni l’acqua si tirava dal pozzo con il secchio; poi il Comm. Cini, che era un lontano parente degli Alliata, regalò una pompa a mano. Quando si montò la pompa posammo un serbatoio
sopra i locali igienici con docce che funzionavano benissimo. L'acqua dei lavandini veniva recuperata e riciclata nei bagni per fare economia».
Chi sono stati i soci fondatori?
“Intanto i quattro della Panaria Film e l'ideatore che ero io. Come collaboratori immediati c'erano Gaetano Belmonte e Francecsco Cupane Jr. I ragazzi della Panaria Film, che avevano il loro da fare, sono stati il vero sostegno morale dell'Associazione. Sono stati lo specchietto delle allodole, perché erano conosciuti nel mondo dei cacciatori subacquei”.
Oggi c'è disincanto verso ciò che è bello. E' difficile sentire raccontare le emozioni che suscita lo scenario circostante. Crede che le Isole anche se fortemente mutate nell'aspetto, così “consumate” dal turismo di massa, possano ancora suscitare forti emozioni, e avere la forza suggestiva di allora?
“Certamente. Qualunque oscenità possa commettere l'uomo nulla riuscirà a distruggere lo charme dei luoghi. I faraglioni, i tramonti, la lucentezza del cielo e delle stelle, non potranno diventare preda di alcun investimento. Sono lì, appartengono al fascino che avvolge le Eolie””.
Delle Eolie, quale ricordo è più forte ancora oggi a distanza di tempo: i rapporti con la gente, la maniera di vivere goliardicamente il presente, o i sapori lontani, i profumi della malvasia e dei fichi seccati al sole?
“”Il rapporto con la gente che ci ha ascoltato a braccia aperte, guardandoci subito con simpatia e che ci ha permesso di gustare con gioia quei sapori ormai lontani. Per me che ero il più anziano è stata una grande soddisfazione. Mi piace parlare con la gente, mi piace raccontare, sentire ciò che gli altri ricordano””………………………..
ALMANACCO DEI GRIGIONI 1965 di Aldo Godenzi. Stromboli.
Due cose attirano l’attenzione arrivando a Stromboli. Una palma altissima e solitaria piegata dal vento e un’insegna che a caratteri cubitali annuncia al turista: “Ich verkaufe alles”. Solo più tardi mi accorsi che la spiaggia era fatta da cenere vulcanica e che le case dal tetto piatto e senza finestre formavano un villaggio uguale a quelli dell’Africa del nord. Il fatto poi di aver vissuto alcuni giorni sul vulcano più attivo della terra incominciò a diventare realtà quando le altre impressioni si tramutarono in ricordo.
Il vulcano Stromboli è cosi impressionante, così lontano da ogni immaginazione che non ci si può assuefare al primo istante. Solo più tardi, ordinando i differenti campioni di roccia e osservando le diapositive scattate macchinalmente, quello che era sembrato un sogno divenne realtà... alla quale si unì ben presto la nostalgia, nostalgia di mare azzurro, di case bianche, di rocce nere. nostalgia di un’eterna colonna di fumo bianco che il vento spinge verso est. Nostalgia di eruzioni spettacolari, di boati che fanno agghiacciare il sangue. Stromboli lascia nell’animo l’impronta indelebile di una bellezza selvaggia e primordiale………………………
Le esplosioni accompagnate da getti di magma incandescente, da cupi boati, si susseguono regolarmente ogni mezz'ora. La lava possiede quel grado di fluidità che permette ai gas di sprigionarsi attraverso la bocca e di trascinare con sè il materiale che giace nel cratere. E’ pure probabile che alcune esplosioni avvengono in seguito all’accendersi di una miscela di gas, composta d’aria, metano, idrogeno e monossido di carbonio. Di questo vulcano e di altri, che si comportano in maniera analoga si dice che si trovano in fase “stromboliana”.
Alle quattro del pomeriggio la nostra guida Lorenzo si mette in testa alla comitiva e prende il viottolo che costeggi il mare. Il suo volto è teso, i suoi gesti tradiscono una certa nervosità. Forse nel suo animo si svolge una lotta tra responsabilità, guadagno e superstizione. Egli infatti è responsabile deIla nostra vita. Non solo deve condurci sulla “Montagna” ma deve anche riportarci sani e salvi all'albergo. La somma che gli verrà versala dopo l’ascensione gli permetterà di vivere onestamente. Il lavoro nel piccolo porto non gli permetterebbe di nutrire la famiglia. La superstizione, certo non deve lasciarlo indifferente. Per la maggior parte degli abitanti, il vulcano è la porta dell'inferno, la porta della casa del male. Chissà quante lotte avrà combattuto il nostro Lorenzo prima di diventare guida.
Al vecchio Osservatorio Labronzo si raggiunge il versante nord e si incomincia a salire. Un buon sentiero conduce attraverso un folto canneto che toglie ogni visuale. A 200 m la vegetazione cessa improvvisamente, lasciando vagare libero lo sguardo sulle case bianche allineate sulla riva del mare, verso l’immensità del cielo e delle acque. Poco dopo raggiungiamo il filo di cresta che costeggia la sciara del fuoco. Impressionante è lo sguardo in questa voragine nera, fatta di cenere e di lava, che scende vertiginosa e si inabissa nel mare.
Mentre saliamo guardiamo non senza timore alla nube che, sospinta da un forte vento, sfiora la cresta sulla quale dobbiamo passare. Molte comitive hanno dovuto far ritorno perchè la colonna di fumo era sutura di gas tossici e la nebbia impediva ogni procedere.
Intanto il sole scivola lentamente ma inesorabilmente verso l’orizzonte. Le nubi si fanno di bragia e tingono il mare di riflessi meravigliosi. La notte ci sorprende mentre cauti scendiamo sull’orlo di una cresta che doveva essere certamente la sommità della caldera.
Alle sette abbiamo raggiunto il nostro punto di osservazione. Ci ripariamo alla meglio dietro alcuni spuntoni di lava, mettiamo addosso tutto quello che abbiamo portato con noi, e ci sediamo gli uni vicino agli altri nell’illusione di riscaldarci un poco. Il freddo è infatti insopportabile, Un vento umido soffia a raffiche dal mare e penetra attraverso ogni indumento facendoci rabbrividire. Mai, in nessuna scalata nella catena delle Alpi, in nessuna stagione ho sentito il freddo penetrare lentamente fino alle midolla come sulla cresta dei Vanacori, a 923 metri. Per fortuna, scavando un po’ nella cenere trovai una piccola emanazione di calore tanto da riscaldare almeno una piccola parte del corpo.
La prima operazione fu quella di preparare la macchina fotografica. Così all’oscuro, con le mani intirizzite, non fu cosa facile. Poi montammo la macchine sul trepiede cercando di indovinare la direzione della bocca più attiva, il nostro corpo è immobile, il nostro occhio fisso nell’oscurità, i nostri nervi tesi. I minuti sembrano secoli. Qualcuno racconta del suo caldo salotto a Zurigo, un altro del suo morbido letto a Berna. Il mio amico parla di spaghetti e di malvasia….. un boato cupo e profondo ci toglie la parola, ci mozza il respiro…E’ la terra che trema, è la sua voce possente, inconfondibile che ci giunge dalle sue viscere. Questo è il segno che preannuncia l’eruzione. Passano alcuni minuti interminabili, poi la terra sussulta, vacilla. Un frastuono assordante, formato da sibili, esplosioni boati ci fa rabbrividire. Un getto di lava incandescente viene scaraventato verso l’immensità della notte. Una nube di gas si accende di una luce vivida ed esplode con un fragore infernale illuminando a giorno la sommità del cratere. Poi tutto tace. E’ il silenzio che segue a questo a questo cataclisma sembra ancora più sepolcrale. Quasi nessuno ha azionato il dispositivo di scatto della sua macchina fotografica. I più sono stati come paralizzati da questo fenomeno spettacolare che supera anche l’immaginazione più feconda.
Passati i primi momenti di sgomento si torna a respirare l’aria che ora sa di zolfo. Ora attendiamo una seconda esplosione. Le bocche sulla nostra testa emanano gas che s’incendia ed esplode con sordi boati. Su un piccolo cono oscilla una fiamma da seduta spiritica. Poi un’esplosione di rara violenza ci fa sussultare. Le mani intirizzite afferrano la macchina fotografica….. la terra trema mentre un getto di fuoco sale verso il cielo.
E’ ora di ritornare. La colonna sale lentamente verso la Porta delle Croci. Il lume della lanterna si confonde colle stelle del firmamento. Scendiamo direttamente al villaggio lungo un ripido pendio fatto di cenere. Tutto si muove e la comitiva scende nella massa farinosa affondando fin oltre le caviglie. Io che ho il compito di chiudere la colonna vendo letteralmente soffocato da una nuvola di polvere nera che penetra ogni dove. Il lume delle lanterne, la luce rossastra delle esplosioni vulcaniche e la tenue luce delle stelle rischiarano questa scena che non si può descrivere. Così sarà la fine del mondo, quando gli elementi della natura si scateneranno colla più inaudita violenza.
A mezzanotte sediamo davanti ad un piatto di spaghetti. I più hanno ritrovato la loro loquacità, altri non sanno ancora ordinare nella memoria il susseguirsi degli eventi nelle ultime ore. Lorenzo ci ha lasciati col cuore gonfio e una lacrima negli occhi. La “Montagna” è stata clemente. Non si sa mai – diceva – accomiatandosi – un’esplosione violenta potrebbe spazzare via il margine della caldera e quanti vi siedono sopra.
La notte seguente ci imbarchiamo sulla nave Lipari che punta verso Napoli. Il mare è calmo, solo il rumore dei motori ci dice che viaggiamo. Le acque e il cielo si sono uniti in un unico corpo impenetrabile. Solo lontano, sospeso nell’oscurità, Stromboli, il vulcano più attivo della terra si diverte a scolpire nel nulla i suoi geroglifici di fuoco.
https://www.pgi.ch/it/almanacco-del-grigioni-italiano
L’«Almanacco del Grigioni Italiano» è edito dalla Pgi sin dalla sua fondazione nel 1918. È la pubblicazione storica del Sodalizio con la maggiore diffusione: l’«Almanacco» viene infatti distribuito a tutti i fuochi grigionitaliani e conta oltre 400 abbonati nel resto della Svizzera, per una tiratura complessiva di circa 8'000 copie.
Ormai da cent'anni l’«Almanacco» è e resta la pubblicazione più importante della Pgi, non solo per i suoi «numeri» ma anche per la sua funzione di coesione e di creazione della identità grigionitaliana.
Il Cantone dei Grigioni (tedesco Kanton Graubünden; romancio Chantun Grischun o Cantung Grischung; lombardo Cantun Grisgiun; alemanno Kanton Graubünde o Kanton Graubündä; francese: Canton des Grisons; francoprovenzale: Quenton des Gresons) è uno dei 26 cantoni della Svizzera. È il più esteso e orientale, oltre a essere l'unico cantone trilingue[2], con italiano, romancio e tedesco come lingue ufficiali.
Il Cantone dei Grigioni (tedesco Kanton Graubünden; romancio Chantun Grischun o Cantung Grischung; lombardo Canton Grisgion; alemanno Kanton Graubünde o Kanton Graubündä; francese: Canton des Grisons; francoprovenzale: Quenton des Gresons) è uno dei 26 cantoni della Svizzera. È il più esteso e orientale, oltre a essere l'unico cantone trilingue[2], con italiano, romancio e tedesco come lingue ufficiali.
Geologia e morfologia della Val Poschiavo
Godenzi, Aldo;
Aspetti geologici e morfologici della Svizzera italiana by Aldo Godenzi
Ricerche sulla morfologia glaciale e geomorfogenesi nella regione fra il Gruppo del Bernina e la Valle dell'Adda con particolare riguardo alla Valle di Poschiavo. Tesi, etc. [With plates, including maps and charts.] by Aldo Godenzi( Book )
1 edition published in 1957 in English and held by 2 WorldCat member libraries worldwide
Ricerche sulla geomorfogenesi delle Alpi Retiche Meridionali by Aldo Godenzi( Book )
2 editions published in 1970 in Italian and held by 2 WorldCat member libraries worldwide
Geologia e morfologia della Val Poschiavo by Aldo Godenzi( Book )
3 editions published in 1955 in Italian and held by 2 WorldCat member libraries worldwide
Die Seen des Val di Campo by Aldo Godenzi( )
1 edition published in 2000 in German and held by 1 WorldCat member library worldwide
Il massiccio bregagliotto by Aldo Godenzi( )
1 edition published in 1961 in Italian and held by 1 WorldCat member library worldwide
Anche in Australia è stato celebrato il Patrono San Bartolomeo...
GIUSEPPE IACOLINO Il culto del Protettore San Bartolomeo nelle Isole Eolie I LUOGHI I SEGNI LE MEMORIE ALDO NATOLI EDITORE LIPARI
La Cattedrale di Lipari sotto il titolo di San Bartolomeo
Dopo il crollo dell'Impero romano d'Occidente (a. 476) si avvertirono in Sicilia i pericoli delle incursioni vandaliche e l'oppressione degli Ostrogoti. Pertanto i Liparéi, ormai cristianizzati, ritennero prudente rinserrarsi nel circuito della Città Alta e di trasferire nel cuore stesso dell’abitato la residenza episcopale.
La nuova Cattedrale — di dimensioni assai ridotte e per nulla paragonabili a quelle della chiesa attuale — si impiantò nel sito stesso in cui, in età classica, credibilmente si ergeva un tempietto pagano. Essa venne distrutta nell’838 allorché le Eolie, insieme con l’intera Sicilia, divennero possedimento islamico.
Dopo circa duecentocinquant’anni di vuoto storico, l'abate Ambrogio e i suoi Benedettini, inviati qui dal «liberatore» Ruggero I il Normanno, gettarono le premesse della ricolonizzazione del territorio e della rifondazione della Città di Lipari e, sempre nel sito centrale del Castello edificarono la chiesa abaziale con l’attiguo monastero. La chiesa abaziale, intitolata a S. Bartolomeo, divenne Cattedrale nel 1131 con la promozione a vescovo del secondo abate Giovanni di Pérgana.
Giovanni ingrandì la chiesa (a navata unica) e anche il monastero che
si sviluppò attorno al chiostro (il primo chiostro latino-normanno di Sicilia) dei cui quattro originari ambulacri ne sono avanzati tre recentemente riportati alla luce.
Ulteriori ampliamenti la Cattedrale subì tra il 1450 e il 1515. E, completata che fu con un artistico soffitto di legname a capriate, venne incendiata dai Turchi nel 1544.
Ricostruita nella seconda metà del Cinquecento e conclusa con una magnifica volta a botte, risultò alta e oblunga, per cui ai fianchi trovarono sviluppo varie cappelle; per le cappelle del lato destro furono utilizzati e perimetrati con muri taluni spazii d’intercolunnio dell’ambulacro Nord del chiostro.
Per la nostra Cattedrale il secolo XVII segnò un’epoca di radicali innovazioni e nelle strutture e nelle ornamentazioni: gli affreschi della volta, raffiguranti scene bibliche, rimontano agli anni attorno al 1700; nel 1728 vennero eseguiti la statua d’argento del Protettore e il relativo altare ligneo; fra il 1755 e la fine del secolo venne innalzato il campanile, e nel 1772 la Cattedrale fu ingrandita delle due navatelle laterali, una delle quali (quella di destra) comportò la demolizione di un intero settore del chiostro benedettino.
Anche il prospetto di pietra paglierina vesuviana fu messo in opera intorno al 1772 e venne a dare un nuovo senso di armonica compattezza all’insieme architettonico dll Duomo. Nell’ultimo decennio del secolo simpose prepotentemente, nella Cattedrale, la policromia del marmo, e di marmo furono rivestiti gli altari che vennero altresì sormontati dalle belle tele di Antonio Mercurio.
Nel 1859 un fulmine fece crollare il timpano della facciata e un paio di campate della volta. L’intervento di ripristino fu immediato ed ebbe termine nel 1861. Le pitture scomparse non sono state sino ad oggi reintegrate.
Da sempre la Cattedrale di San Bartolomeo di Lipari assolse il ruolo di chiesa parrocchiale unica con giurisdizione su tutto il comprensorio dell’Arcipelago. Ma mons. Angelo Paino (1909-1921) volle snellire l’azione pastorale delle tante chiese vicarie o sacramentali e, sollecitato il decreto governativo del 28 ottobre del 1910, istituì nella Diocesi le prime sedici parrocchie autonome, compresa quella della stessa Cattedrale.
Pienamente immersa, per lunghi secoli, e svettante nel mezzo del groviglio di case dell’antico tessuto urbano, la Cattedrale fu testimone della vita religiosa e civile della gente isolana. Ed è per tal motivo che i fedeli ordinariamente la chiamano ’ Citàti, perché essa, la Cattedrale, è sintesi altamente rappresentativa di una Città che non è più, e nel contempo rimane centro propulsore di quella straordinaria forza aggregante che lega tutti i figli delle Eolie, i vicini e i lontani.
Foto storica, grazie a Iacono Donatella, senza data pesci spada a Canneto.
Prima parte del testo tratto da:
T.C.I. LE VIE D’ITALIA LA PESCA DEL PESCE-SPADA NELLO STRETTO DI MESSINA. 1919.
Uno dei prodotti più squisiti nei nostri mari è, senza dubbio, il pesce spada, degno «delle mense più raffinate. Sebbene abbastanza diffuso anche altrove esso, come è detto nel cenno che fa della sua interessante pesca la Guida di Sicilia del T. C. I., costituisce un prodotto particolarmente importante, e gradito, delle acque dello Stretto di Messina.
Lippure è raro il trovare sulle mense questo boccone prelibato più a nord di Roma: colpa della nostra imperfetta rete ferroviaria e dei mediocri mezzi di trasporto nostri, soprattutto della scarsità dei vagoni frigoriferi, che soli possono permettere di far giungere il pesce a grandi distanze.
Ed è questo un non piccolo danno, tra i grandissimi che derivano da tale stato di cose; ma è lecito sperare che possa via via attenuarsi.
La gola che, trai vari peccati mortali, è certamente uno dei più benemeriti nei riguardi del commercio, faciliterà certo un giorno o l’altro anche la diffusione di questo prodotto, degno dei più raffinati gourmets nostrali o stranieri non meno di tanti altri «frutti di mare » o di terra, che una avveduta pubblicità e la rapidità dei trasporti faceva viaggiare prima della guerra, e farà viaggiare appena superato questo primo faticoso periodo postbellico, per tutti i mercati di Europa.
È l'industria del pesce-spada, ora relativamente ristretta e primitiva, potrà espandersi, organizzarsi meglio e contribuire in buona misura al benessere delle popolazioni calabro-sicule.
Nell'attesa che anche questo buon prodotto nostro sia messo in valore come si merita, non saranno sgraditi ai nostri lettori alcuni cenni su questa pesca così sportiva e curiosa, che rimonta con le sue tradizioni ai bei giorni della Magna Grecia.
ll pesce-spada (Niphias gladius) è uno de' pesci più grossi del nostro mare. Ad un anno pesa dai 25 ni go chilogrammi, a due da 80 a 150. Raggiunge talora anche i 250. È di colore violaceo oscuro sul dorso, bianchiccio con riflessi argentei all'addome. Porta una lunga spada sul muso, donde gli venne il nome. Forse per lo stesso motivo i genovesi lo chiamano imperatore e per motivi analoghi fu detto altre volte milite, galeota galeotto. Misura, adulto, in lunghezza da 2 a 3 metri dall'estremo della spada all'estremo della coda. Se ne son visti anche di maggiore lunghezza, La spada, depressa, tagliente e dentellata ai lati, è lunga la terza parte dell'intero animale. Ha il corpo fusiforme, la testa a cuneo è l'iride verdastra.
Porta sei pinne, delle quali la maggiore sul dorso presso il capo.
Si nutre di pesci delicati, preferendo nei nostri mari le seppie, i calamari e le anguille, che uccide con la spada e trangugia volgendosi supino. Merita poco o nulla il nome di mostro fiero e battagliero, che gli davano gli antichi, e non attacca che per difendersi.
La sua carne è di un bel bianco roseo, diversa per consistenza, gusto è sapore a seconda delle varie parti del corpo: nell’insieme, però, è tutta deliziosa, salubre e nutritiva. Giovio lo paragona allo storione. Ateneo ed Archistrato lo chiamavano cibo divino, e Cartesio lo ritiene rimedio eccellente a molte malattie.
Vive in vari punti del Mediterraneo sulle coste d’Italia, di Provenza e di Spagna. Si mostra anche presso il Capo di Buona Speranza ed altrove nei mari australi. In nessun punto, però, è così frequente come nel Canale di Messina, ed in quel lembo del mar Tirreno, che raccoglie o scarica, con laa montante o la scendente del Canale, le sue acque nel Jonio. Per sei mesi dell’anno, da ottobre a marzo, par che dorma nel fondo del mare: si trattiene rasente il suolo, sia perché le acque a quella profondità sono più calde, sia perché vi trova agevolmente di che nutrirsi. Nei primi giorni di aprile sale a galla e si dirige verso le coste principalmente del golfo di Patti, dalla baia di Milazzo, di Gioia Tauro, Palmi, Bagnara e Scilla, e girando, secondo la corrente ed il vento che predominano ed il bisogno di esca, risiede per tre mesi in quelle acque facendosi spesso vedere alla superficie. In giugno va in fregola. Si appaiano maschio e femmina e vanno sempre insieme. Indi la femmina depone più volte le uova, che divengono indi a poco pesciolini che vagano per quelle acque fino ad ottobre, epoca in cui spariscono dalla superficie per ritornare a galla in aprile.
I pesci adulti, dal 15 giugno in poi, entrano nello Stretto, e si dirigono verso la costa di Sicilia; spesso a paio e qualche volta anche a tre, una femmina e due maschi, e ciò accade quando uno di questi ultimi, a compensarsi della perdita della propria compagna, si fa a corteggiare quella dell’altro……
La pesca si fa sulle coste calabre da Palmi a Scilla di notte con le reti, e da Palmi al Capo Coda delle Volpi di giorno con la traffinera, specie di fiocina, in aprile, maggio e giugno; in Sicilia in luglio ed agosto, di notte con la rete da S. Teresa a Gazzi, di giorno con la traffinera dal Salvatore dei Greci al Capo Peloro. Si pesca pure, ma raramente, nelle acque delle Lipari, e fin presso Tropea in Calabria, e incappa nelle tonnare.
La palamadara, che serve per la pesca, è una rete di canape ben ritorto e solidamente legato agli angoli delle maglie.
Le reti sono d’ordinario Iunghe 800 metri, larghe 16 ed intessute a maglice di 17 centimetri. Tese in mare scendono a varie profondità secondo le esigenze della pesca. La rete è scortata sul posto designato da una solida barca con albero, vela e timone e otto rematori.
Giunti sul posto prefisso, e scelto il momento opportuno, si getta in mare il segnale, un grosso gruppo di sugheri di circa un metro quadrato, con una campana collocata in modo da mandare il suo squillo ad ogni piccolo movimento delle onde. A questo segnale si attacca un capo della corda superiore, da cui pende la rete e l’altro capo ad altro segnale parimenti fornito di campana
La corda superiore tesa tra’ due segnali è inanellata in una serie di piccoli sugheri e galleggia; la corda inferiore, invece, è guarnita di piccoli piombi, sicchè la rete si tende da sè e forma una vasta parete verticale che sbarra la via al pesce.
Questo, nuotando, infila il lungo rostro dentro una maglia. Però, urtando indi a poco col capo la rete, sente l'ostacolo e cerca mutar strada. Però, volgendosi, infilza la ‘spada in altra maglia e poi in una terza, in una quarta, tanto che più si volge più si avviluppa, anche con la coda e con le lunghe pinne, resta preso e muore attaccato alle reti.
La pesca con la traffinera è una vera caccia. Ci vuole molta destrezza e gagliardia per esercitarla, ed è così dilettevole che, non di rado, vi han preso gusto e passione anche principi e guerrieri illustri. La storia racconta che Don Giovanni D'Austria, trovandosi nel 1571 in attesa della flotta, che poi debellò, nella giornata del 7 ottobre, la potenza turca a Lepanto, volle: anch'egli istruirsi in questo nobile esercizio, e vi si applicò così che, in breve, divenne uno dei più bravi lanciatori, tanto che una volta uccise sei pesci-spada di sua mano. Gli accadde, anzi, che un pesce-spada ferito, ma non rassegnato a morire, si avventò contro la barca e la perforò da banda a banda. Il Principe mandò a suo padre, Carlo V, la spada di questo pesce, segno dello scansato pericolo.
Per l'esercizio di questa pesca occorrono delle vedette o degli speculatori che, siti in punti eminenti, avvertono da lontano, anche sott'acqua, il pesce; e poi, uno o due battelli, spinti rapidamente da vigorosi rematori, per portare il lanciatore ove il bisogno lo richiede, fintanto che questo non pianta il suo formidabile dardo nel corpo dell'animale. Il ferro, che è uncinato, resta nella bestia che fugge, e l’asta, per contraccolpo, salta in mare: ma freccia ed asta restano entrambe legate ad una fune che si molla dietro al fuggitivo, finchè, stanco od esamine, Viene ritirato e gettato nel battello.
Per eseguire questa pesca si armano ogni anno, nella riviera del Ringo, dal Salvatore dei Greci alla punta del Faro, ventun poste o stazioni. Ciascuna consta di due feluche e di quattro battelli, qualche volta cinque.
Ognuna agisce per sè e nel suo esclusivo interesse, ma son tutte soggette a regole e consuetudini, rigorosamente osservate.
La prima regola si è che le poste devono, per turno, cambiare di stazione, facendo in maniera che la prima di oggi sia la seconda di domani, poi la terza e così via via.
Una seconda è questa; la posta che avvisa per prima di avere scoperto il pesce, anche se più vicino alle altre poste, è la sola che ha il diritto d'inseguirlo.
Ogni posta consiste, dunque, in due feluche dalle 10 alle 16 tonnellate ciascuna e quattro battelli addetti due per feluca. Alcune stazioni ne hanno anche un quinto per le comunicazioni con la rada. Dei quattro battelli, due portano a prua ciascuno un lanciatore, nel mezzo sopra un alberetto detto garriere, un esploratore, e cinque rematori, dei quali tre al centro sul medesimo panco vogano in avanti per imprimere il moto al battello, gli altri due dalla parte di poppa vogano in modo da dare la direzione.
Agli altri due battelli, con due o quattro pescatori, viene affidata la corda col pesce-spada ferito, I quattro battelli stanno presso alle feluche, pronti a scoccare come saette dalla vedetta che sta in cima all’antenna della feluca. Ciascuna feluca porta infatti nel mezzo un'antenna o albero, alto non meno di 20 metri e bene assicurato con forti funi.
Una scala di corda con piuoli di legno, distanti 50 centimetri l'uno dall'altro, corre in senso verticale e parallelo all’antenna; con quella il pescatore sale in cima all’antenna e vi rimane quattro ore di seguito.
Quest'uomo prende il nome di antenniere, e deve essere di vista così acuta da potere avvistare il pesce a considerevole distanza, anche se a 3 o 4 metri sott'acqua, anche se il mare è increspato ed il cielo coperto di nubi. Deve essere anche forte e resistente, dovendo restare sotto la cocente sferza del sole di luglio ed agosto, senza speranza di essere rilevato che dopo 4 ore di guardia e senza altro refrigerio che un sorso d’acqua, riscaldata essa pure dai raggi del sole, essendogii proibito di prender cibo.
La vedetta, poi, che sta sull'alberetto piantato nel centro del battello che porta a prua il lanciatore, si chiama foriere o foliere. L'alberetto si chiama garriere; è alto 5 metti circa, e ad un metro quasi dalla cima ha un bottone circolare di legno su cui salta e si mette in piedi o a cavalcioni il foriere, che deve, secondo i cenni dell'antenniere, scoprire a sua volta il pesce ed indicarlo al lanciatore del battello detto ontro o luntro.
Appena l’antenniere scopre il pesce, dà il segno convenuto e lo continua a ripetere, stendendo la destra verso la direzione del pesce sinchè il foriere non avrà a sua volta Visto il pesce è non lo avrà indicato al lanciatore, che sta fermo, dritto ed immobile al suo posto, fino a quando non ha a tiro il pesce e non gli avventa il colpo, gridando « Viva S. Marco benedetto !».
Il grido con cui l’antenniere avverte i suoi compagni è il seguente: va susu.... va, se il pesce prende verso il Faro; va jusu.., verso oriente, ve ‘nterra va... va se il pesce prende per terra.
Fino a pochi anti addietro questi stessi segni si davano in lingua greca. Qualche dotto delle vecchie cronache immaginò che così si facesse perchè il pesce si dilettasse si lasciasse attrarre dall'armonia del greco!
Il volgo, più scaltro, diceva invece, che si parlasse in greco per non essere intesi dal pesce e non prendesse la fuga. In realtà quel greco altro non attestava che l'origine achea dei pescatori ed i tempi remotissimi in cui la pesca venne inventata.
Grazie al geom. Aldo Natoli da ARCIPELAGOIN del marzo-aprile-maggio 2004: “ Gli animali vivi non puzzano” – Un’asina a bordo del “Santa Marina”.
Di GIUSEPPE IACOLINO
Sessantacinque anni fa, nel gennaio del 1940, XVIII dell’era fascista.
Il canonico don Giovanni Barresi era uno di quelli che dividevano il loro tempo tra i comodi della città e la salubrità della campagna. Lui tra Lipari e Quattropani. Una cavalcatura gli era indispensabile considerando che i collegamenti stradali altro non erano allora che sentieri da capre, stretti ed impervii.
Dovendo sostituire la propria asina, ormai avanti negli anni, ne acquistò una a Salina, dal parroco di Rinella don Giovanni Favaloro il quale si premurò di spediglierla con vapore postale Santa Marina sullo scalo di Acquacalda. A quel tempo Acquacalda era il porto di Quattropani.
Arrivata che fu la bestiola il can. Barresi la tastò ben bene e si accorse che non era di suo gradimento e che, tutto sommato, non rispondeva agli accordi convenuti, cosichè col successivo giro del postale la respinse al mittente, non senza prima aver fatto intervenire sul posto i Carabinieri, il Vice Brigadiere della Regia Guardia di Finanza e il medico condotto che trovò l’animale “in ottimissime condizioni””.
E giacchè si trattava di merce non deperibile, il Barresi fece porre le spese di spedizione a carico del destinatario don Favaloro.
A sua volta il parroco di Rinella, sceso alla banchina, notò che “la bestia era ridotta a mal partito; e rifiutò il ritiro. Né intese pagare le L. 29,90 del nolo. Così l’agente marittimo di Rinella rimase con una scopertura di cassa di L. 29,90 e con una bestia da accudire con “spese giornaliere di mantenimento e custodia che superano certamente le lire sette”.
Queste cose scrive il Cappadona, il 4 di gennaio, all’agente di Acquacalda (e p.c. alla “Eolia” Anonima di Navigazione in Messina) pregandolo di “….recuperare dal sac. Barresi le L. 29,90 dato che il nolo doveva essere pagato prima”, cioè all’imbarco, nell’agenzia di Acquacalda.
Ma l’agente di Acquacalda (che forse era un tal Rodriquez) mette i punti sugli “i” appellandosi al regolamento merci e facendo il distinguo tra merci e non deperibili (per le quali il nolo poteva esser pagato indifferentemente dal mittente e dal destinatario) e per le merci deperibili era d’obbligo pagare in anticipo. Sta ora a vedere se l’asina è da considerarsi merce deperibile o no.
Una questione sottile che il Rodriquez scioglie al collega di Rinella in questi termini: l’asina non è merce deperibile, ma animale vivo, e, “come voi sapete, gli animali vivi non puzzano; e non puzzando non sono soggetti a deterioramento”.
Quanto alla validità dell’argomentazione non ci sentiamo di esprimere il nostro parere.
Ma gustiamocela tutta per intero la requisitoria del Rodriquez.
Acquacalda 7 gennaio 1940. All’Agenzia “EOLIA” di Rinella E p.c. alla Direzione di Messina.
In pronto riscontro alla Vs/ del 4 c.m. di cui abbiamo preso buona nota del suo contenuto e vi comunichiamo quanto appresso.
Abbiamo interrogato il Can. Barresi il quale ci fa rilevare che il vero proprietario dell’asina è costì il Parroco Favaloro, il quale gli aveva venduto l’asina a certe condizioni e che per cui il Barresi si trova nel suo diritto di aver provveduto alla restituzione; quindi ci fa inoltre rilevare che è inopportuno il procedimento del Favaloro e che per conseguenza non intende rispondere di niente, né intende accettare nella maniera più assoluta l’eventuale restituzione.
Per quanto riguardano le condizioni dell’animale come Voi dite, Vi facciamo notare che da qui è partita in ottime condizioni, ed imbarcata e messa a bordo con tutte le cautele alla presenza dei Reali Carabinieri e del V. Brigadiere della R.G. di Finanza, ed è stata giudicata in ottimissime condizioni da questo medico condotto.
Evidentemente se la bestia come Voi dite, si trova in condizioni poco discrete, ciò fa supporre che se eventualmente così fosse è dovuto alla poca cura di codesto personale nell’operare lo sbarco di bordo a terra.
Per quanto poi riguarda lo incasso del nolo prima, Vi facciamo notare che il regolamento merci tratta di merci deperibili e non di animali vivi, poiché come voi sapete gli animali vivi non puzzano, e non puzzando non sono soggetti a deterioramento, accrediteremo quindi a Vs/ debito quanto è gravato in polizza alla Società.
Per tutto il resto stando così le cose non abbiamo nulla da suggerirvi, vi regolerete quindi secondo quanto vi suggerisce il regolamento.
Sempre a Vs/ disposizione e ben distintamente vi salutiamo.
L’agente
A quanto pare, le cose si erano messe male e la patata bollente restò in mano al povero Cappadona di Rinella, guardando in prospettiva, vedeva che la situazione si sarebbe ulteriormente aggravata. Intanto scrive: “L’animale è in cattive condizioni, e non possiamo rispondere della vita della bestia ridotta com’è a mal partito…., e se rimarrà qui a lungo difficilmente potranno, dalla vendita, ricavarsi le spese”.
Quali siano stati gli sviluppi di questo gioco a quattro – due preti e due agenti marittimi – non c’è dato sapere, perché a questo punto i documenti tacciono. O, meglio, non esistono per niente.
Grazie al Geom. Aldo Natoli, con la speranza di non aver sbagliato il riferimento al numero.
Da ARCIPELAGOIN MARZO APRILE MAGGIO 1995
Il gruppo delle ragazze di pallavolo liparesi, ci manda una lettera che volentieri pubblichiamo:
” forse anche per le ragazze di Lipari esiste la possibilità di praticare uno Sport.
Grazie infatti allo Snoopy club, da un paio di mesi una ventina di giovanissime ha intrapreso una serie di allenamenti per potere partecipare al prossimo campionato primaverile di pallavolo.
A sinistra: La squadra di Snoopy Club. In piedi: Alessandra Cerquetti, Lucia D'Albora, Zino Nunzia, Rosaria Corda.
Sedute: Enrica Carnevale, Maria Arena, Isabella Cullotta, Marilena Merlino.
A destra: Marilena Merlino alzatrice della squadra (foto singola).
Michele Giacomantonio il sindaco di quasi due legislature e personaggio di grande cultura.
Un ricordo tra quanto ha fatto negli anni sia in ambito culturale e amministrativo:
Grazie al Geom. Aldo Natoli da ARCIPELAGOIN del Giugno/Luglio 1994. Michele Giacomoantonio eletto sindaco di Lipari.
CON 719 VOTI DI SCARTO SU MICHELE FUSCO SI AGGIUDICA IL BALLOTTAGGIO
Michele Giacomantonio eletto Sindaco di Lipari
PER IL PRIMO CITTADINO TURISMO + PARTECIPAZIONE POSSONO FAR DECOLLARE IL COMUNE VERSO UNO SVILUPPO ECONOMICO SOCIALE CULTURALE E MORALE.
La lunga maratona per l’elezione del Sindaco nel comune di Lipari si è conclusa. La poltrona di primo cittadino è stata conquistata da Michele Giacomoantonio con 3530 voti su 6591 votanti nella seconda tornata elettorale del 26 Giugno che lo vedeva opposto al candidato del Polo della Libertà Michele Fusco, ribaltando così il risultato che nelle elezioni del 12 Giugno lo vedeva secondo (2.204 voti) dopo Fusco (2.357 voti) e primo rispetto all’escluso Mariano Bruno (2.100 voti).
Michele Giacomantonio nasce a Lipari il 31 ottobre 1940 e qui vive fino al settembre 1951 quando la sua famiglia si trasferisce a Pavia. A Lipari tornerà sempre per le vacanze estive e natalizie e con una frequenza maggiore nell’ultimo quinquennio impegnato in attività culturali, sociali, giornalistiche e — a partire dal giugno 1991 — anche amministrative. Laureato in economia e commercio, giornalista pubblicista, ha insegnato, ha lavorato nell’editoria e dal 1971 fa parte del gruppo dirigente nazionale delle Acli occupandosi, nel tempo, dei problemi del lavoro, del Centro Studi, dell'editoria aclista, della direzione del settimanale e della rivista di cultura, dell’emarginazione, dell’organizzazione ed infine del Centro istituzioni nazionale del quale conserva la carica di vicepresidente. Giacomoantonio nelle Acli è stato presidente provinciale di Pavia, vicepresidente della Lombardia, segretario nazionale dal 1975 e infine vicepresidente nazionale. Carica da cui si è dimesso per candidarsi alle ultime elezioni politiche per la Camera, nel collegio Milazzo-Lipari.
Ha collaborato e collabora a diverse riviste culturali e politiche ed ha svolto una intensa attività saggistica soprattutto nel capo dell’etica sociale, del sottosviluppo meridionale, della programmazione, della storia e del movimento cattolico.
A Lipari bisogna ricordare il suo impegno in diverse iniziative del Centro Studi e delle ACLI, la sua esperienza di Consigliere comunale e la travagliata vicenda di capogruppo della DC, la fondazione del mensile “QuestEolie” di cui è il direttore.
La situazione del Comune di Lipari è veramente disastrosa. L’eredità che Giacomoantonio raccoglie non è certamente confortante. I debiti dell’ente accertati superano i cinque miliardi. La spazzatura ha invaso tutte le strade dell’isola. L’acqua scarseggia. Gli approdi vacillano I servizi sono penalizzati. Insomma la poltrona conquistata è certamente “rovente”. Siamo però convinti che la capacità, la buona volontà, l’esperienza e soprattutto le doti di mediatore, indispensabili per domare e convivere con la realtà consiliare, consentiranno a Michele Giacomoantonio di ridare al nuovo splendore alle nostre bistrattate isole. Abbiamo rivolto al nuovo Sindaco, già al lavoro sin dal primo giorno dell’insediamento, alcune domande.
D. Può riassumere per i nostri lettori la parte più concreta del programma con il quale ritiene che il nostro Comune possa decollare verso uno sviluppo economico, sociale, culturale e morale?
R. Si potrebbe rispondere, amando il paradosso: turismo più partecipazione. La partecipazione è indubbiamente il motore dello sviluppo civile e morale e vuole dire; trasparenza, dare rappresentanza alle isole ed alle frazioni, dialogo continuo con l’elettorato, mantenere vivo ed aperto il movimento di base “Una Speranza per le Eolie”. Se la partecipazione si vivacizza e si approfondisce anche le azioni di rilevo più immediatamente economico e sociale assumono uno smalto diverso. Ed a questo proposito bisogna dire che va riaffermata la centralità del turismo senza dimenticare la pomice, la pesca l’agricoltura e l’artigianato. Il turismo è il nodo principale. Occorre compiere a questo proposito un salto di qualità rispetto al passato: ricercare tenacemente il prolungamento della stagione (con il termalismo, il turismo culturale, i meeting…), indirizzare e coordinare l’azione degli operatori economici e turistici sulla base di un programma comune, curare la promozione della nostra immagine a scala nazionale e internazionale. Bisogna pensare ad una grande operazione di marketing per il “prodotto Eolie”…
D. Quali provvedimenti urgenti intende assumere per affrontare l’«emergenza estiva?
R. Questa «emergenza» consiste soprattutto in cinque problemi nettezza urbana, traffico, rifornimento idrico, attracchi portuali, locali per le scuole nelle isole. Poi ve ne è un sesto che rappresenta in qualche modo la premessa: la macchina amministrativa. Certo nessuno può aspettarsi già questa estate soluzioni originali. La giunta si insedia il 6 di luglio, in piena stagione turistica e può solo pensare di tamponare. Non bisogna inoltre dimenticare che il Comune deve assumere sempre più i caratteri di una azienda sociale che sappia coniugare efficienza e solidarietà ma procede comunque con la prassi della pubblica amministrazione. Ogni acquisto, ogni locazione, ogni assunzione anche temporanea deve passare per una precisa, spesso complessa e a volte lunga trafila di adempimenti. Stiamo cercando di usare la nostra migliore fantasia per essere tempestivi senza incorrere in alcuna irregolarità, soprattutto nel campo delle nettezza urbana dove finalmente sono indette molte gare d'appalto ma i tempi per effettuarle ci portano inesorabilmente oltre la stagione estiva. Bisognerà ridurre all’essenziale il ricorso alle ordinanze e avviare con il Coreco un rapporto più diretto rivendicando il diritto ad essere ascoltati sulle nostre deliberazioni. Comunque rimane indispensabile la collaborazione del Consiglio comunale……………………….
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Da Giuseppe Iacolino ACQUACALDA DI LIPARI IL TERRITORIO LA COMUNITA’ UMANA LA CHIESA UN DISPERATO TENTATIVO DI PRESERVARNE LE MEMORIE:
…………… Poi ci fu la storica svolta dei sindaci scelti direttamente dalla consultazione popolare e garantiti di una stabilità quadriennale; e così Michele Giacomantonio — eletto il 7 luglio del 1994, confermato, con referendum, nel 1996, e rieletto per un secondo mandato il 24 maggio del 1998 — ebbe modi, mezzi e possibilità di inserire nel suo vasto programma decisivi interventi a favore di Acquacalda.
A far convergere l'attenzione di Giacomantonio su Acquacalda e a far chiarire e maturare i suoi propositi, di certo contribuirono due straordinari eventi: uno drammatico, piuttosto remoto, del 1978, l’altro tragico e più recente, verificatosi nel 1993 quando Giacomantonio era consigliere comunale e direttore — nonchè fondatore — del mensile Quest’Eolie……….
Giacomantonio ribadisce sintetizzandolo, il suo pensiero:
“L’opera di riqualificazione più significativa e complessa è quella studiata per Acquacalda. Qui non si tratta solo di emancipare questa borgata trasformandola da borgo minerario in cittadina del turismo, ma anche di creare due grandi attrazioni come il Laboratorio di ecologia marina e Campus Universitario, e il Museo della Pomice. La scommessa è di fare di Acquacalda un polo di attrazione della cittadina di Lipari, permettendo zione riequilibratore della cittadina di Lipari, permettendo così uno sviluppo equamente distribuito sull’intero territorio dell’isola, rompendo il centralismo liparese, che tende ad assommare, nel proprio abitato, tutti i centri di interesse, costringendo gli altri centri urbani a divenire perfiferia o dormitori”……………………………………..
Vorrei anche ricordare quando si torna a parlare di una ipotetica riapertura delle terme di San Calogero uno studio fatto per conto dell’allora amministrazione comunale di Lipari negli anni 1997-1998, dalla società CHEMGEO s.a.s..Nell’estate del 1997 per conto della ditta “CHEMGEO s.a.s.” di Pisa, lo studio Geologico Ambientale “CROCETTI” ha partecipato allo “Studio geologico dell’area limitrofa ai Bagni Termali di S. Calogero, Isola di Lipari (ME)”. Nel 1998 vi furono indagini dell’Università di Napoli Federico II.
I risultati di questi studio furono illustrati e pubblicati dall’allora sindaco Dott. Giacomantonio.
Segnalo questo libro."La Maga e il velo. incantesimi, riti e poteri del mondo eoliano" di Maffei Macrina Marilena
Un libro sulla medicina tradizionale e sulla magia che inizia raccontando le storie di vita di 3 donne eoliane: la maga più famosa dell’arcipelago del novecento, una donna posseduta dal dio Eolo e una donna affatturata. Storie del passato che ci raccontano modi di vita trascorsi.
Grazie alla Biblioteca comunale di Lipari dal numero del Notiziario delle isole Eolie del maggio 1965.
Santina Giambò vincitrice del “CONCORSO VERITAS”
In una atmosfera di entusiasmo si è svolta a Roma, presso l'Auditorium a palazzo Pio, l'annuale premiazione finale del concorso Veritas.
L'iniziativa promossa dal C.E.N.A.C. (Centro di attività catechistiche) che chiama ogni anno gli studenti delle scuole superiori a concorrere presentando uno studio approfondito su una delle verità proposte dalle fede cattolica, ha riservato nel suo turno, uno speciale riconoscimento alla a Santina Giambò da Canneto studentessa presso il Collegio “S. Anna” di Messina.
La tesi presentata dalla Signorina Giambò conteneva 50 cartelle dattiloscritte contenenti uno studio ampliamente documentato ed approfondito sul tema: La virtù teologale della fede.
Alla tesi della Sig.na Giambò la Commissione arcivescovile di Messina, oltre al viaggio gratis a Roma offerto a tutti i vincitori, ha conferito pieni voti e lode, attribuendo nel tempo stesso, su tutti i concorrenti della diocesi la speciale borsa di studio posta in palio.
La cerimonia della premiazione, che assume ogni anno carattere di particolare solennità, si è svolta a Roma alla presenza di massime autorità religiose e di rappresentanti del Ministero della Pubblica Istruzione. Presenti i Signori Cardinali Pizzardo Traglia e Lercaro.
La speciale udienza del S. Padre con l’augusta parola di elogio e di incoraggiamento congiunta alla benedizione apostolica ha così felicemente coronato il gaudio spirituale dei fortunati 850 vincitori del concorso nazionale “Veritas”.
Per la Sig.na Santina Giambò, alle più vive felicitazioni della Parrocchia di S. Cristoforo in Canneto siamo lieti aggiungere quelle del Notiziario Eoliano.
Cesarino Gualino seguì il marito confinato a Lipari passando le giornate, tra l’altro dipingendo paesaggi eoliani, case ecc.
Stralcio da L’ARTE DELLE DONNE NELL’ITALIA DEL NOVECENTO a cura di Laura Iamurri e Sabina Spinazzè.
Il 26 gennaio 1931, dopa sette giorni di carcere, un processo durato dieci minuti e una condanna a cinque anni di confino per aver recato “grave nocumento” all’economia italiana, Riccardo Gualino parte per l’isola di Lipari. Cesarina, dalla sera dell’arresto riesce a imballare alcuni mobili, considerati oggetti personali, i suoi e altri quadri, i ritrat¬ti di Casorati, alcuni Fattori, la chiesa di Utrillo e molti li¬bri, prima che i sigilli rendano, definitivamente, le case di Cereseto, Sestri e Torino immagini della memoria,
Cesarina raggiunge Riccardo a Lipari un mese dopo, nella casa tra gli orti. Arreda le piccole stanze, cucendo le fodere dei divani (i mobili erano del parroco) e soprattutto attaccando alle pareti, con un nastrino azzurro senza corni¬ci, i suoi quadri, mentre Riccardo scrive quattro libri che sono già di ricordi, Non più cartoncini ma spesse tavole che aggiungono memoria ad altre memorie. Gli ulivi e il grano di Lipari, la fortezza-carcere sul mare, il suo volto sereno, le case…
EPOCA 21 GIUGNO 1964 EOLIE LE LEGGENDARIE ISOLE DELLE SIRENE. foto di Giac Casale testi di Guido Gerosa.
I 117 chilometri quadrati delle Isole Eolie racchiudono un sogno millenario: dalla più remota antichità queste sette gemme del mare (Lipari, Vulcano, Stromboli, Panarea, Salina, Filicudi, Alicudi, incastonate a nord-est della Sicilia nel purissimo azzurro del Mediterraneo, sono la terra del mito. Qui, forse, Ulisse invocò una tregua alle sue peregrinazioni senza fine, rifugiandosi presso Eolo dio dei venti, in un’isola “cui tutta un muro d’infrangibil rame – e una liscia circonda eccelsa rupe”.
Il paesaggio vi appare veramente omerico: le monumentali masse grigieparlano di un mondo perduto, quando queste pietre erano squassate dalla furia dei vulcani e le pareti a picco strapiombavano sul mare ruggente e le caverne misteriose erano popolate da mostri. Cos’ Virgilio immaginò “Lipari aspra dai sassi fumanti”.
Ma questa terra, ieri come oggi, accanto alle smisurate ombre del mito esprimeva la luminosa serenità dei grandi spazi mediterranei. Queste isole erano la superba dimora degli dei, di Eolo e di Vulcano: e, secondo la leggenda, le anime del dei morti, nel compiere il viaggio senza ritorno, passavano accanto ad esse, per capitarvi un’ultima volta il fulgore della natura, mentre di scoglio in scoglio, nella luce abbagliante, si levano sulle acque le voci incantatrici delle divine Sirene.
Giac Casale è nato a New York il 1° dicembre 1926.
Fotografo e regista, è laureato in storia dell’arte alla Wesleyan University, Connecticut e in Cinematografia alla U.C.L.A. California. Prima pittore, negli anni ‘50 si appassiona alla fotografia, “un’arte più attuale, tutta da scoprire”.
Giac è cresciuto professionalmente nella sua città fotografando per le famose riviste come LIFE, LOOK, Vogue e Harper’s Bazaar e per le grandi agenzie che hanno rivoluzionato la comunicazione pubblicitaria negli anni ‘60. Con Anna Marina, sua moglie veneziana e “bellissima modella preferita” (da ragazza lei ha lavorato con Orson Wells) nel 1963 si sono trasferiti a Milano. Hanno quattro figli e 7 nipoti, una famiglia d’artisti fra cui la cantante e compositrice Rossana Casale.
Nella sua lunga carriera, 60 anni, ha ottenuto i più importanti premi e riconoscimenti internazionali fra cui il GRAN PRIX KODAK, un “LEONE” a Cannes, i premi europei EUROBEST, EPICA, e il PREMIO ALLA FOTOGRAFIA dall’Art Directors Club italiana, Per tre anni, dal ’94 al ’96, Giac ha ricevuto il PREMIO AFIP PER LA RICERCA (per “I FUOCHI”, per ”STORIES OF GOLD”e per “JAZZ”) e al New York Festivals ’93 il GRAND AWARD, primo premio a livello mondiale alla fotografia.
Alcuni articoli sul relitto “maledetto” della secca di Capistello. ll Subacqueo Marzo 1979
La Nave di Capistello di Sandro Picozzi
Ci risiamo. Un’altra volta è accaduto che un istituto di ricerca straniero si sia appropriato di un’occasione di studio giacente nelle nostre acque territoriali.
Un’altra volta, una delle tantissime da quando esiste la ricerca archeologica subacquea, il nostro Meridione è stato teatro prima di spogli e ruberie, poi di interventi scientifici ad opera di istituti stranieri.
Parlo del famoso relitto di Capistello, universalmente noto come “il relitto della Secca” (la secca di Capistello, appunto). Dove si sono immersi decine di subacquei italiani e stranieri e che è passato alle cronache, anche quelle giudiziarie, per la morte improvvisa di due ricercatori tedeschi. Al largo delle Isole Eolie, ad oltre sessantacinque metri di fondo, una nave del II secolo a.C. colma di anfore e piatti di ceramica a vernice nera aveva picchiato sulla scarpata sommersa ed aveva rovesciato il proprio carico verso il blu più profondo: ottanta, novanta e perfino novantacinque metri. Le prime notizie certe del relitto vennero fornite dai soliti clandestini locali alla metà degli anni sessanta e già allora appare importantissima la scoperta, soprattutto a motivo del carico, così composito e così ben rappresentativo di una particolare produzione greco-italica della ceramica.
Le prime immersioni si rilevano subito assai difficoltose e la Soprintendenza della Sicilia Occidentale, diretta dal prof. Bernabò Brea, peraltro meritevole per iniziative diversa da questa, preferisce apporre un generico divieto di immersioni, che darà qualche frutto. Ma che localizzerà in modo irreparabile il relitto. Cominciano i sequestri in massa di beni archeologici provenienti dal relitto. Tanto che ora la maggior parte dei reperti è sicuramente quella di provenienza furtiva, recuperata dalla Guardia di Finanza o dalla Benemerita.
Nel 1969 pensano di risolvere ogni cosa gli archeologi dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma, i quali, affiancati da alcuni ricercatori locali, conducono una campagna di studio e di sommario rilievo del relitto, La Secca compie le due prime vittime. I profesori Schlaeger e Graf, utilizzando il congegno allora assai di moda e chiamato “acquastop”, subiscono un grave incidente alle apparecchiature e ci lasciano la pelle. Non si è mai accertato quale dei due abbia avuto per primo l’incidente. Forse è stato Schlaeger a subire il blocco del proprio erogatore o lo sventramento di uno dei due tubi corrugati del monostadio, all’attacco con la scatola di erogazione. Forse è stato lui che nell’affannosa ricerca di aria e, bisogna dirlo, un po’ inesperto ed appesantito dagli anni, ha strappato di bocca l’erogatore al compagno ed assistente. Ugo Graf lasciando la vita propria e quella del suo collaboratore sul relitto. La stampa dà immediatamente grande rilievo all’avvenimento ed enfatizza i toni del dramma senza dire quello che è soprattutto importante: e cioè che due professori patentati abbiano voluto scendere di persona a verificare lo stato delle cose, ritenendo che questo fosse l’unico modo di portare a compimento un lavoro scientifico. Anche Lamboglia, oltre cinque anni dopo e polemizzando con me dalle colonne di questa rivista, osservò che male avevano fatto i due ricercatori tedeschi, dal momento che ben altro è il compito dell’archeologo. Fatto sta che la morte dei due tedeschi fa nascere una leggenda sul relitto ma non serve di ammonimento ai clandestini. Un altro ci rimette la pelle un anno dopo. E’ un milanese e viene ritrovato dal noto sub locale Oddo a quasi novanta metri di fondale con due anfore piene di fango legate alla vita ed un solo autorespiratore ormai vuoto. Il relitto della secca diventa così il Relitto Maledetto ed altro non potevano sperare i predoni locali. Dalle acque di Capistello e dalla sua scarpata tentatrice si terranno lontani i subacquei forestieri e, soprattutto, la Soprintendeza avrà una buona scusa per tenere lontani i ricercatori italiani, i quali intervenendo tempestivamente, avrebbero ridotto di molto l’incidenza negativa dei danni arrecati dai clandestini.
Ma le storie di mare, anche le più terribili, finiscono quasi sempre bene. Anche questa a modo suo ha un finale rosa, anche se per noi italiani è un finale giallo.
Nel 1977 gli americani dell’AINA – American Institute of Nautical Archeology con sede nel College Station del Texas, ottengono l’autorizzazione per lo scavo sdubacqueo e riportano in superficie trentatrè (così poche ne sono rimaste) anfore greco-italiche recanti bolli con indicazioni in lingua greca, e numerosi frammenti di altri vasi. Vengono recuperati anche numerosi frammenti di ceramica a vernice nera con le caratteristiche impressioni a palmette e viene raggiunta perfino la chiglia del relitto, che è stata conservata da uno spesso strato di sabbia e fango accumulatosi ai piedi della scarpata sommersa. Un sintetico reportage sulle ricerche è pubblicato in lingua inglese sulla rivista Nautical Archeology, mentre il materiale è stato pubblicato su una rivista scientifica tedesca, in lingua tedesca, da un noto studioso teutonico, H. Blanck.
Mi si obietterà che la cultura non ha frontiere e che dunque i beni culturali del nostro Paese devono essere a disposizione degli studiosi di tutto il mondo. Ciò che non è chiaro perchè mai una Soprintendenza dello Stato Italiano abbia un così spiccato rapporto preferenziale con commissioni di studio e gruppi di ricerca esteri da lasciare sconcertati. Mi si obbietterà ancora che solo gli Americani, noti esploratori degli spazi siderali, sono in grado di esprimere una tecnologia sufficientemente alta per consentire il buon fine di ricerche così pericolose e difficili.
E qui arriviamo al finale del giallo della storia di mare relativa al Relitto Maledetto. L’istituto di ricerca texano ha richiesto mezzi e uomini alla SSOS e cioè alla società italiana Sub Sea Oil Service di Milano, il cui responsabile tecnico è noto a tutti i subacquei italiani: si tratta di Victor De Sanctis. Ebbene, i sub della SSOS hanno lavorato per 157 ore complessive. , durante l’estate del 1977, dopo che, nell’estate dell’anno precedente, avevano portato a compimento un’indagine sul relitto, sempre di concerto con l’istituto americano e sotto la direzione del grande Katzev. Va fatto rilevare che gli operatori subacquei erano italiani e sono stati scelti proprio per l’altissimo grado di qualificazione tecnica raggiunto in anni ed anni di lavoro specialistico per immersioni e lavori a quote fino a 240 metri.
In sostanza, anche i supertecnici americani sono stati obbligati, probabilmente anche per motivi di economicità dovendo lavorare in acque italiane, a servirsi di una compagnia di lavoro di alto subacqueo italiana, che ha consentito lo svolgimento di un lavoro di alto fondale con miscele. La nave appoggio era dotata di una campana batiscopica, chiamata Robertina, da dove gli archeologi americani per loro stessa ammissione si sono limitati a seguire i lavori ed a prendere delle fotografie. Il prof. Bernabò Brea, che ha assistito allo svolgimento delle due campagne e che ha dato qualche delucidazione storica ed archeologica al team italo-americano, era perfettamente a conoscenza del fatto che una compagnia italiana sarebbe stata in grado di effettuare i lavori di ricerca e scavo, anche se guidata da archeologi italiani, che nella specie ed alla presenza di così grandi profondità, avrebbero potuto starsene senza vergogna (una volta tanto) nella campana. Peraltro, occorre pure segnalare il fatto che gli americani hanno scelto, per le foto sul relitto, una comunissima quadrettatura di tubi rigidi ed una macchina fotografica con flash non elettronico sistemata su un trespolo metallico.
Del rilievo generale è stata pubblicata solo la riproduzione che anche noi pubblichiamo, senza tuttavia evidenziare le caratteristiche grafiche della restituzione in folio. In più di quanto sarebbe logico immaginare, gli americani hanno utilizzato un sottomarino del tipo P51 equipaggiato con una telecamera con obbiettivo a grandangolo, nonché circuito interno di restituzione delle riprese televisive, meglio noto come “videotape”. Proprio le riprese effettuate dal sottomarino hanno rappresentato, a mio modo di vedere, la vera novità ed il documento probabilmente più importante dell’intera operazione. Si è infatti dimostrato una volta di più che la campana batiscopica non è adatta alla ricerca archeologica, anche quando essa sia un ordigno particolarmente perfezionato, come è la Robertina. Tanto la scarsa capacità di campo visivo degli oblò, quanto la difficoltà di spostamento in senso normale al piano del fondo della campana, reso oltretutto pericolosissimo in condizioni di mare improvvisamente cattive, ne sconsigliano l’uso, almeno quando è possibile sostituire la campana o con un sottomarino o con una presenza fisica dell’archeologo sul posto. Non si creda che solo gli americani dispongono di un mezzo così importante come il P51.
Già nel 1972 Zoboli ed altri corallari della sua specie criticavano l’uso di un piccolo batiscafo per la ricerca “sicura” del corallo. Il sottomarino era stato armato da una società di ricerca dell’oro rosso e si era impegnato, con scarso profitto per la verità, in tutta la Sardegna settentrionale. Anche quell’attrezzatura era dotabile di telecamere e videotape.
A parte le polemiche, che ritengo siano doverose di fronte a fatti di questo genere, rimangono alcuni risultati scientifici ottenuti dall’Ente americano di indubitabile valore. Intorno alle imbarcazioni sono stati rinvenuti numerosi ceppi di ancore di piombo e uno di ferro, che sono stati studiati anche da Kapitan, altro conoscitore (straniero pure lui) della acque siciliane. Dal fasciame della chiglia sono stati recuperati alcuni chiodi di rame e di ferro, la cui lunghezza massima è di quindi centimetri ed il cui stato di conservazione può assumersi buono. Delle trentatrè anfore “bollate” la maggior parte è intatta e numerose sono quelle ancora sigillate con un tappo di pece. Cosa contenevano? L’analisi dei materiali organici contenuti è ancora da completare, ma dalla prima relazione sembra che le anfore riportate alla superficie contenessero tracce di olive e di uva.
Gli americani dell’AINA ci danno anche delle importanti indicazioni sui modi e sulle tecniche per continuare i lavori, nel caso beninteso che non siano loro stessi, magari con un nuovo “agreement” col la SSOS, a condurli e ci indicano gli studi conclusi su argomenti analoghi, con cui confrontare per esempio i dati relativi alla imbarcazione: Capistello (Owen) e Filicudi (Kapitan). E gli italiani? Per i ricercatori di tutto il mondo esiste soltanto Lamboglia e le sue pubblicazioni sulle anfore e sulla ceramica campana. Neppure un nome di italiani figura tra gli osservatori di tecniche costruttive di imbarcazioni antiche e neppure uno figura tra quelli di tecnici di rilevamento di giacimenti archeologici sommersi. La storia del relitto di Capistello è sotto questo punto di vista esemplare. Dopo essere stati depositari di beni archeologici di prima importanza, i rappresentanti della nostra cultura nel Meridione, hanno prima impedito che altri italiani scendessero per eseguire quei lavori che erano in grado di fare ed hanno poi consentito che un fantomatico istituto straniero si prendesse il patrocinio ed il merito scientifico di quegli stessi lavori. Poco conta che in acqua siano andati i supertecnici della italiana SSOS e poco conta che senza di loro e senza la loro apparecchiatura il lavoro non sarebbe ma stato portato a compimento: tanto la firma in calce alla pubblicazione non è quella di uno studioso italiano. La storia che abbiamo raccontato ci spinge, purtroppo, ad una amara considerazione. L’Italia è ancora un Paese in cui hanno cittadinanza le gelosie tra studioso e studioso a tutto vantaggio dell’attività di colonizzazione culturale di altri e potenti Paesi. Nel Mediterraneo altri Paesi sono colonizzati al pari del nostro: la Turchia, la Grecia, il libano e saltuariamente i Paesi dell’Africa settentrionale. Poco colonizzata è la Spagna e per niente lo è la Francia. In Francia non danno permessi ad istituti di ricerca stranieri di fare indagini archeologiche nelle acque territoriali, né consentono che il materiale relativo a studi e ricerche effettuate in Francia venga pubblicato in lingua diversa dal francese. Da noi non è così, ma forse i responsabili dell’amministrazione della nostra cultura preferiscono che gli italiani siano indotti a studiare il francese, l’inglese, il tedesco e lo svedese. L’archeologo potrebbe essere una buona occasione.
L'OSSERVATORE ROMANO - DELLA DOMENICA N 15 DEL 11.04.1971.
QUESTA visione romantica della archeologia, fa fede lo slancio con cui il dott. Helmut Schläger, vicedirettore deiristituto, dopo avere — negli anni 1962-1968 — studiato e scavato in terra a Paestum, a Solimto, a S, Maria in Anglona, a Metaponto, a Segesta e in varie altre località antiche d’Italia, volle incominciare a scendere nel fondali sottomarini per tentare di tirar fuori, dalle coltri di fango, di alghe e di muschi, i resti di strutture edilizie « classiche » sommerse e i relitti delle navi romane perdute. L’archeologia subacquea era davvero affascinante e l’attività ad essa relativa non poteva non comparire negli annali del celebre e storico Istituto, in cui generazioni di esperti s’erano trasmessi l’uno all’altro la fiamma dell’amore per gli studi dell’antichità.
Dopo varie immersioni effettuate nell’antico porto di Lilibèo (Marsala), il sub Schläger si recò in Turchia ove, dal settembre al novembre del 1968 eseguì im¬mersioni, a scopo scientifico, nell’antico porto di Phaselìs.
Tornato in Italia, nel giugno del 1969 si recò a Lipari. Era una splendida estate. Insieme a Udo Graf, suo assistente, egli prese a compiere numerose immersioni per l’esame subacqueo di un antico relitto affondato, a 60 m. di profondità, nei pressi dell’isola, con un carico di ceramica del III sec. a.C. Una volta completato tale esame, sarebbe tornato di nuovo a Segesta e a Metaponto, ove era atteso per ulteriori ricerche e studi. Ma il 9 luglio accadde la tragedia: Schläger e Graf, immersisi per un’ennesima volta, non risalirono più in superficie. La morte li aveva ghermiti entrambi presso quel relitto, in seguito al difettosofunzionamento degli apparecchi di respirazione.
La SCOMPARSA dei due studiosi fu certo una dura perdita, ma il Deutsche Archäologisches Institut era abituato alle prove.
Ne parla anche NUOVE EFFEMERIDI n. 46 1999 Archeologia Subacquea, di cui una foto: lipari enzo sole ezio marasà e helmut schlaeger 1969.
Ne parlò anche un articolo della domenica del corriere del 7 ottobre del 1969 di cuna foto: un gruppo di anfore.
Ne parlò AMERICAN INSTITUTE OF NAUTICAL ARCHEOLOGY di cui immagine: la secca di capistellao 1977.
Ne parlò anche ARCHEOLOGIA SOTTOMARINA ALLE ISOLE EOLIE MENSUN BOUND PUNGITOPO 1992 di cui immagine della pag. 39 del libro.
Ne parlò il prof. LUIGI BERNABO' BREA in BOLLETTINO D'ARTE GUERRA DEL MARE INTORNO ALLE ISOLE EOLIE NELL'ULTIMO VENTENNIO 1985 di cui un piccolo ritaglio di una pagina.
Grazie a Istituto Storico della Resistenza in Toscana (isrt@istoresistenzatoscana.it)
1. corrispondenza tra Ester Parri e Miriam Roselli, rispettive consorti di Ferruccio Parri e di Carlo Rosselli, cartolina ed. cappa datata 8 giugno 1929, Lipari sbarcadero e Monte Rosa.
2. cartolina datata 7 settembre 1928 spedita da Lipari da Carlo Roselli a Giorgina Zabban, foto Alberto Albergo edizioni Filippo Belletti, veduta generale del castello e del paese.
Salina stava per diventare porto turistico (1970). TEMPO N. 22 30 MAGGIO 1970. DUE PORTI ALL’ORIZZONTE
di Enzo Catania e Mauro De Mauro – foto di Livio Fioroni
Dove metteremo le nostre barche? Abbiamo ottomila chilometri di coste, ma non più di dieci soni i porticcioli turistici veramente funzionanti. Tutta colpa, si poterebbe dire, dell’incremento della nautica da diporto, che nell’ultimo decennio ha visto un autentico “boom”, al quale, in effetti, non ha fatto riscontro un’ incremento analogo nell’organizzazione infrastrutturale, organizzativa, assistenziale e ricettiva.
E così i pochi porticcioli esistenti sono anche intasati! Spesso non si trova un posto nemmeno a pagarlo a peso d’oro. In alcune località, s’è persino instaurata la cosiddetta “mafia dei porticcioli” che, a sua discrezione, “taglieggia” con tariffe esose i diportisti in transito. In altre località, i veri padroni si identificano nei “vitelloni” della flotta pigra” in coloro cioè che, trovato un attracco non lo mollano più per paura di perderlo e tengono il loro ingombrante yacht a galleggiare proprio come un vitellone. Intanto i turisti si rifugiano in massa sulle coste slave e francesi, dove è già sorto o è in via di costruzione un porticciolo ogni 15 chilometri.
I più preoccupati restano i proprietari delle mini barche, dei piccoli cabinati e delle barche a vela, di tutto coloro insomma che da anni continuano a incrementare il fenomeno della nautica popolare.
Gino Gervasoni, vice presidente dell’UNCINA (Unione cantieri industrie nautiche ed affini) ha lanciato il suo SOS: “O i sassi in mare o le industrie in mare”. Il che significa: o ci mettiamo davvero a costruire questi benedetti porticcioli turistici, oppure prima o poi le industrie nautiche andranno a gambe per aria, poiché la gente non comprerà più, non sapendo che farsene d’una barca ferma nel box di Milano, di Roma, di Torino.
Costruire dunque: di chi il compito: Stato e privati si palleggiano le responsabilità. Il primo dice: nessuno nega la drammaticità del momento, però com’è possibile pensare di risolvere il problema dei porticcioli turistici, se prima non si risolve quello dei grandi porti commerciali, che attraversano una crisi non meno consistente? Gli altri aggiungono: lo Stato pensi dunque ai porti commerciali e dia a noi il permesso di costruire i porticcioli turisitici.
Raffaele Cusmai, direttore generale del Naviglio presso il ministero della Marina mercantile, in una “storica” seduta dell’11 dicembre 68 ha ribattuto: “ Lo Stato è pronto ad aprire un fattivo dialogo di collaborazione. Purtroppo mi risulta che attualmente, in giacenza presso i Ministeri, non si trovano domande di costruzione inoltrate da gruppi privati. Si facciano avanti. Saranno bene accolti!”.
Il suo appello è stato raccolto. I due esempi più sintomatici riguardano le isole Eolie e Rapallo. L’arcipelago ha quasi surclassato Taormina come polo turistico. Alberghi, ristoranti e ritrovi sorgono come funghi, sullo scenario d’un paesaggio incantevole, tanto selvaggio quanto affascinante. Le Belle Arti, l’Ente Provinciale del Turismo di Messina e l’Azienda autonoma di Soggiorno locale devono farsi in quattro per salvaguardare le attrattive maturali dell’avanzare indiscriminato del piccone, del bulldozer e del cemento. Le presenze turistiche aumentano di anno in anno. L’86 per cento, così dice una recente statistica, arriva dal Nord
Per la maggior parte si tratta di pescatori subacquei i quali preferiscono le Eolie per i fondali puliti, per le acque non ancora contaminate dagli scarichi industriali e per la ricchezza della fauna ittica. La fama di Lipari, di Vulcano e di Panarea, autentici paradisi terrestri della cernia gigante, si è ormai diffusa in tutto il mondo: il suo richiamo è talmente irresistibile che gli americani organizzavano voli “charter”, arrivando in aereo sino a Napoli, a Palermo, a Messina e a Reggio Calabria, raggiungendo poi l’arcipelago in aliscafo.
Un’èquipe svizzera di studiosi di turismo internazionale ha calcolato che le Eolie potrebbero triplicare le presenze attuali, diventando la “più colossale attrazione paesistica del mediterraneo”, se efficienti approdi riuscissero ad evadere le pressanti richieste d’attracco. Ora la situazione non è certo incoraggiante. Il porticciolo di Lipari riesce a stento a disbrigare il normale traffico quotidiano imperniato sulle navi ed i battelli di linea e sui traghetti adibiti al trasporto delle mercanzie necessarie ai fabbisogni di tutto l’arcipelago. E’ vero che i diportisti possono attraccare al molo di Pignataro; però è anche vero che la disponibilità è irrisoria, non certo pari alle esigenze del turismo diportistico di massa.
Vulcano è in una posizione difficile: infatti mentre le barche restano efficientemente riparate dai venti del nord, sono sempre alla mercè di quelli del sud. Teoricamente l’isola più privilegiata è Salina, poco toccata dall’incremento turistico, i cui abitanti traggono i loro proventi dalla pesca, dalla coltivazione del cappero e dall’uva malvasia. Essa dispone infatti d’un porto naturale formato da un laghetto e delimitato per quattro quinti da una sottile striscia di terra chiamata per la sua caratteristica “Lingua di salina”.
Ebbene: proprio in questo laghetto il costruttore di motoscafi Carlo Riva intende costruire un porto artificiale, ampliando la ricettività sino a consentire il ricovero contemporaneo di un minimo di 200 imbarcazioni sino a un massimo di 600. Riva ha già affidato la progettazione del porticciolo e del suo entroterra a uno studio urbanistico-commerciale di Messina.
Nei giorni scorsi, durante una seduta del consiglio comunale di Salina, un avvocato, Carmelo Brandoni, a nome di Riva ha esposto e sottoposto a discussione il progetto. Più che un dibattito, si è avuto un vero e proprio dialogo tra persone che sembravano volere la stessa cosa: da una parte gli industriali che intendono valorizzare col loro intervento una precisa zona, dall’altra gli abitanti di Salina, gli amministratori e gli esperti delle Belle Arti.
Si è appreso così che le aree interessate potranno essere pagate 1500 lire al metro quadrato, anche in contanti (la cifra potrà essere ancora discussa), che gli eventuali accordi di vendita saranno legati all’approvazione del progetto da parte di tutti gli enti interessati (cioè: Belle Arti, demanio marittimo, ministero del Turismo, Assessorato regionale all’urbanistica e allo sviluppo economico) e , questo è l’importante, che il progetto prevede oltre alla costruzione del porticciolo anche tutte le strutture ricettive indispensabili, dal “boat service” alle gru di servizio, ai posti di rifornimento del carburante e dei lubrificanti.
Il quadro che ha fatto del progetto Carmelo Brandoni è naturalmente dei più allettanti: “Non vogliamo affatto deturpare il paesaggio. Vogliamo solo fare del buon turismo, portare un ulteriore incremento delle isole Eolie, innestandoci nell’habitat, nell’ambiente genuino che è, a nostro avviso, la principale attrattiva turistica dell’isola. Modificarlo? Siamo i primi a guardarcene bene!”.
Ora s’aspetta l’esito. Se le trattative dirette, a tu per tu, per la vendita dei vari spezzoni di terreno, dovessero concludersi favorevolmente, nel giro d’un paio d’anni le Isole Eolie avranno proprio a Salina il loro porto turistico.
”L’Italia, come fondali non ha nulla da invidiare né alla Francia, né alla Jugoslavia, dice Riva. Basterà quindi sollecitare la nascita d’una fitta catena di approdi, per calamitare l’interesse di tutto il turismo internazionale in transito, con grandi vantaggi per la economia nazionale. Purtroppo le lungaggini burocratiche sono esasperanti e spesso fanno anche la voglia di insistere in iniziative del genere…”.
LE VIE D’ITALIA 1955 Torri costiere lungo il basso Tirreno
Sono rimaste a ricordare nove secoli di lotta sostenuta dai paesi
rivieraschi contro la pirateria .
Torri cilindriche e quadrangolari, integre o diroccate, isolate o circondate da costruzioni minori come il pastore dal gregge, spesso adibite agli usi più diversi, sorgono ancora qua e là lungo le coste dell’Italia Meridionale, soprattutto sul Basso Tirreno. Sono rimaste a narrare gli ultimi nove secoli (dal IX al XVIII circa) della lotta sostenuta dai paesi rivieraschi contro la pirateria, piaga del Mediterraneo fin dai primi tempi della- navigazione e che influì profondamente sulla vita costiera. Di due specie erano le torri: d’allarme e di difesa.
Le prime sono le più antiche: cilindriche, alte, sottili, senza ornamenti e con rare piccole aperture verso l’alto. A quel tempo il monopolio della pirateria l’avevano i Saraceni e le torri dovevano segnalarne l’arrivo con fuochi, il cui numero e modo di succedersi stava a indicare i vari casi: assalto, incendio, battaglia, ecc. Nelle notti serene — giacche i pirati, per la leggerezza dei loro legni eran costretti a scegliere stagioni propizie e a chiedere complicità alle tenebre — dalle torri cilindriche delle località rivierasche si accendevano i grandi falò che l’uno all’altro si rispondevano. Colli e rive fiammeggiavano e le popolazioni fuggivano nei boschi, nelle caverne, sui monti; e spesso quegli improvvisi fuochi accesi dalle scolte insonni, avvertendo che le città erano deste e preparate, consigliavano i pirati a cambiar rotta.
Ma non sempre i fuochi evitavano gli sbarchi, nè la fuga i saccheggi. Così si cominciarono a costruire torri difensive, non più cilindriche, ma quadrate, più adatte allo scopo. Dapprima furono poche e abbandonate all’iniziativa di privati o di singole comunità e solo per proteggere i luoghi dove era più facile lo sbarco. Col tempo però si moltiplicarono, finche al principio del XVI secolo, sotto la crescente minaccia dei Turchi e dei’’ Barbareschi”, i Viceré di Napoli ne ordinarono la costruzione su larga scala e secondo un programma ben definito, in modo che tutte le coste del vicereame spagnolo ne fossero munite.
I Barbareschi erano un accozzaglia di gente diversa: schiavi fuggiti al remo delle galere militari e mercantili, perseguitati per reati comuni, disertori. Dei loro capi, astuti e crudeli avidi e senza scrupoli, sono passati alla storia Kair ed din (Ariadeno detto il Barbarossa), ammiraglio di Solimano, e Dragut, suo luogotenente. he loro flotte erano protette dagli stati dell’Africa mediterranea e assoldate non solo dai Turchi, che se ne valse perfino la Francia. Per questo si sogliono, anche troppo sottilmente, distinguere dai pirati, le cui scorrerie non avevano alcun aspetto politico.
I Viceré di Napoli ordinarono dunque la costruzione di torri su vasta scala e, poiché si era ormai nell’epoca delle armi da fuoco, ne dettarono le caratteristiche più opportune, he torri avrebbero avuto una pianta quadrata di 10 metri di lato e un’altezza di 20, con muraglie spesse 3-4 metri, e scarpate all’esterno, dal cordone in già; tutt’intorno, caditoie, porta sopra il cordone e ponte levatoio. All’interno, tre piani, col soffitto a volta e congiunti da una scaletta interna: al primo i magazzini, al secondo gli alloggi, al terzo l’artiglieria, ha quale consisteva in una colubrina, due petriere e altri pezzi minuti: la colubrina era una lunga bombarda; le petriere catapulte atte a lanciar pietre, montate su una piccola piazzala; i pezzi minuti colubrinelle o manesche, sul tipo delle colubrine ma più piccole e facilmente spostabili.
Le torri erano scarpate fino al cordone, perchè seguendo i princìpi di Leonardo da Vinci e di Giorgio Martini, fino al cordone la muraglia era fatta a sghembo, per deviare il proiettile; ma siccome questo tipo di costruzione poteva facilitare l’assalto, questo era evitato appunto dal fatto che il tratto obliquo fosse scarpato.
Non è da credere che queste disposizioni per la costruzione delle torri siano state rispettate alla lettera; qualche variazione ci fu, dovuta alla presenza o meno sul luogo di particolari materiali edilizi e alla qualità del terreno su cui doveva sorgere la torre. Intervenne ancora a modificare le costruzioni l’iniziativa di privati, che per vedere difesa sollecitamente la costa, anticiparono o donarono i mezzi per costruire; talvolta il gusto locale portò modifiche, tanto è vero che qualche torre rotonda, ben diversa però dalle antiche, fu costruita ancora.
Ma è certo che l’ultimo trentennio del Cinquecento fu tempo di baldoria per gli appaltatori o « partitati » che ne fecero di crude e di cotte, secondo gli usi del tempo, tanto che più di un crollo fu dovuto a difetto di costruzione.
In ogni modo molte di queste torri quadrate resistettero. E ben 359 se ne contavano ancora quando il 21 febbraio 1827 (l’epoca della pirateria
era, o sembrava, ormai tramontata) un regio decreto disciplinò l’uso delle torri, cedendone una parte alle amministrazioni dello Stato, e specialmente ai Ministeri delle poste e della guerra, ai corpi della finanza, o a privati che le acquistarono per trasformarle in civili abitazioni.
Lo scopo della difesa contro i corsari non esisteva più; ma le torri servirono ancora a qualchecosa, e soprattutto alla repressione del contrabbando e come cordone sanitario contro la peste.
Vogliamo ora metterci in viaggio e rintracciare e segnalare qualcuna delle torri esistenti, per esempio, da Terracina fino a Policastro?
Fino a Sperlonga, ove sorge ancora una bella torre, pochi segni di difesa; abbandonato o quasi era stato quel tratto di costa nella prima metà del Cinquecento. E ciò rese possibile nel luglio del 1534 l’incursione corsara a Fondi. Sembra che il gran Solimano, imperatore dei Turchi, si fosse invaghito, o per sentito dire o per averne visto il ritratto, della feudataria del luogo, donna Giulia Gonzaga vedova di Vespasiano Colonna e avesse dato al suo ammiraglio Ariadeno Barbarossa l’incarico di rapirla.
Il corsaro, al comando di ottanta galere, già aveva saccheggiato i lidi della Calabria e sera gettato su Procida.
Donna Giulia fu avvertita che i corsari saccheggiavano Sperlonga e si dirigevano a Fondi e fuggì su un velocissimo cavallo, senza neppur vestirsi, « all’incamisa » dice un cronista, e si nascose, con il piccolo seguito, in sotterranee grotte, ove stette morta di freddo e di fame un
giorno e una notte. Intanto Sperlonga veniva arsa, arsa e saccheggiata Fondi e per l’ira della preda sfuggitagli il Barbarossa depredò, trucidò e fece scempio degli abitanti.
Alla foce del Garigliano sta la torre che nel tempo delle incursioni saracene Pandolfo Capodiferro, principe di Capua, fece elevare coi materiali raccolti tra le rovine della romana « Minturnum ». È una gran torre con barbacani, dall’aspetto monumentale.
I Saraceni, padroni della Sicilia e d’un vasto impero, risalivano non solo il Garigliano ma, in barche, il Tevere stesso, entrando a piedi o a cavallo nel territorio laziale, varcando il Teverone, per depredare la Sabina. « Corron la terra come locuste — scriveva il papa Giovanni Vili — e a narrare i guasti loro sarebbero mestieri tante lingue, quante foglie hanno gli alberi dei nostri paesi » e in altra del settembre 876 « ...tra non guari, verranno ad assalirci in Roma, poiché stanno armando cento legni e quindici navi da traghettare cavalli ».
Tanto non osarono mai i Barbareschi che si limitarono a farsi qua e là piccoli approdi e nascondigli; e infatti le torri alle foci dei fiumi servirono dal Cinque al Settecento soprattutto a impedire che i corsari si rifornissero d’acqua dolce.
Nel Golfo di Napoli le torri sono presenti, più che nella costruzione, nei toponimi: come Torre del Greco, che prese nome da una torre probabilmente sveva, la turris octava di Federico lI e Torre Annunziata, nata intorno a una torre e a una cappella.
Non mancano però anche anche le torri, come a Massa Lubrense, cittadina che fu detta appunto per le sue molte costruzioni difensive, « la turrita ». Infatti, dopo la terribile incursione del 1558 si iniziò il progetto e nel 1567 la costruzione di otto regie torri difensive, oltre quelle di cui si provvidero molte case. Le regie esistono ancora tutte, alcune dirute, altre modificate. Al tempo dei francesi ( 1807) alcune servirono d’alloggio ai soldati del presidio, e appartennero poi all’Orfanotrofio militare.
Altre torri si trovano sulle isole, a Capri e a Ischia. Celebre il Torrione a Torio d’ischia, una delle sette costruzioni elevate nel Cinquecento, « de particolari citadini ben munite d’armi, ne le quali si ponno salvare le gente quando è correria de Turchi ». All’estremità meridionale del golfo, sulla Punta della Campanella, sorge la Torre Minerva, la cui costruzione fu ordinata da Roberto d’Angiò con lettera del 18 novembre 1334, quando si accertò che una grotta del promontorio era ritrovo e sosta di pirati.
Entriamo ora nel golfo di Salerno, dove non v’è località, anche minuscola, che non conservi una sua torre perchè, data la natura impervia della costiera, ciascuna località era pressoché isolata, senza comunicazioni via terra e senza possibilità di sfogo verso l’interno [la splendida strada costiera che oggi le unisce era ancora ben lontana dalla sua realizzazione).
Tre torri sorgono a Positano: del Fumilio (trasformata in villino), di Trosita e della Sponda; una è a Vettica maggiore, una a Vettica minore, anch’essa ridotta a villa. Quella di Conca dei Marini fu per un certo tempo un cimitero, dove le bare venivano calate dall’alto, con le funi: un cimitero posto in un luogo d’incanto, sopra una piccola cala, che par fatta di lapislazzoli.
Dell’antica repubblica d’Amalfi è rimasta, stagliata netta nel cielo, cupa e solitaria, sulla piccola altura del Monte Aureo, la torre cilindrica di Ziro o di Ciro, detta anche « del buon tempo », restaurata, come è consacrato nelle lapidi, nel 1292, 1305, 1335, 1490. In essa si narra che fosse uccisa Giovanna d'Aragona, duchessa d’Amalfi, rea di avere, vedova a vent’anni, sposato il suo maggiordomo. Ricorderemo che questa storia sentimentale e tragica diede origine a « El mayordomo de la duquesa de Amalfi » di Lope de Vega.
Ad Amalfi era anche la torre di Santa Sofia, sui ruderi della quale fu dapprima innalzato un monastero francescano, cui furono particolarmente devoti angioini e durazzeschi; e divenne poi l’Hôtel Luna; anche questa torre riallaccia l’Italia, terra di ispirazione e riposo ai poeti, alla letteratura mondiale, perchè, in una camera dell’albergo, Enrico Ibsen scrisse « Casa di bambola ». Di fronte allo stesso albergo è la torre dei Piccolomini. Ad Atrani è una bella torre, a pianta quadrata, detta del Tumolo o di S. Francesco; a guardia del lido di Praria, spazzato nella recente alluvione con le sue barche e le sue reti dal torrente di fango, sta un’altra torre. Numerose torri rimangono di quelle costruite intorno a Maiori per difendere l’accesso alla valle di Tramonti e intorno a Vietri per chiudere la valle di Cava de’ Tirreni, uniche vie possibile per invadere, dal Golfo di Salerno, la piana del Sarno.
A sud di Salerno, torri e avanzi dì torri sono alle foci dei piccoli fiumi, alcuni dei quali a carattere torrentizio, una sul Seie, una presso Paestum, a cui fanno da sfondo le solenni rovine di quei templi dorici.
Da Agropoli a Policastro, che furono particolarmente battute dalle incursioni, diciotto torri erano state progettate nel 1566 e diciotto appunto ne segna ben chiaramente una carta del Principato Citeriore di circa un secolo fa; esse son tutte segnalate nei documenti dell’Archivio di Stato di Napoli, e fan parte di quelle censite. Alcune sono dirute, altre conservate alla meglio.
Ecco verso Castellabate la torre di Velia accanto al luogo dove sorgeva la greca Elea; ecco le torri d’Ogliastro, di Pagliarolo, di S. Marco; ecco, raggiunta attraverso boschetti sempre verdi d’olivi, la torre d’isola, sopra uno scoglio e quelle di Zancale e dell’Olivo, tutti luoghi anch’essi visitati più volte dal Barbarossa. Dire il nome di tutte sarebbe ormai troppo lungo; e qui, sulla costa del montuoso e pittoresco Cilento poniamo termine al nostro viaggio.
Dal golfo di Policastro s’inizia la costa lucana e seguono le altre, più ricche di ruderi che di torri.
GINA ALGRANATI.
Da ARCHITETTURE EOLIANE di Giuseppe Lo Cascio. Uno stralcio su torre in contrada Mendolita
Merita di essere visitata poi, in contrada Mendolita, pressocchè inalterata, una delle tante torri di avvistamento e protezione realizzate a difesa delle scorrerie dei pirati, verso la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, e che vennero codificate con estrema precisione dall'architetto Camillo Camilliani nella sua “Descrittione delle marine del regno di Sicilia, così delle torri fatte, e dove di nuove convenga farsene...” del 1584.
Anziché alle tante torri di avvistamento che sorgevano lungo le coste, di proprietà demaniale, dette anche “di deputatione”, che venivano realizzate in posizione predominante in modo da avere comodo campo visivo su ampie estensioni di mare, tale torre appartiene certamente a quel gruppo di torri che sorgevano in prossimità di trappeti, tonnare, vasti magazzini, e che proprio per la loro immediata vicinanza con l'oggetto da difendere, non avevano finalità diverse dalla difesa immediata della “robba”, e non quindi fini di generale utilità.
Il loro periodo di costruzione, come quello delle altre torri di proprietà demaniale, va comunque sino al primo trentennio del 1600, poi il fervore costruttivo viene a cessare, pur non mancando di sottoporre spesso a consolidamenti questi importanti elementi del sistema difensivo delle nostre coste.
Di questa torre in particolare, brevi note ed un abbastanza preciso disegno vengono riportati nella pubblicazione su Lipari di Luigi Salvatore d'Austria, che riporta peraltro l’esistenza di un’altra torre, questa in località Zinzolo, detta “a turri i don Turiddu Marraffa”.
L'architettura di questa, conosciuta invece come “a turri d'a Mennulita”, pur non rispondendo fedelmente a tutti i canoni classici catalogati dal Camilliani, ne riprende e rispetta tuttavia le principali caratteristiche, quali la pianta a base quadrata, lo sviluppo articolato su più elevazioni (la base, il piano operativo, la terrazza), il “pedamento”, o leggera scarpata a ringrossare la struttura delle prime elevazioni.
AI vano del piano seminterrato, sì accede dal fronte di levante, ed al di sotto di questo vano (come prescritto da una “ordinazione” del 1595), si ha una piccola cisterna, del tipo a campana.
AI vano della prima elevazione, la base, si accede dal fronte di ponente, verso il territorio interno come dai dettami del Camilliani, per evitare eventuali bombardamenti dal mare da parte di eventuali assalitori, o che questi ne impedissero comunque con facilità l’accesso e l’uscita dei difensori.
Ai vani della seconda e terza elevazione, il piano operativo, si accedeva mediante scale retrattili.
La parte superiore del fabbricato, al di sopra del pedamento, ha spigoli piombanti, e la muratura prosegue al di sopra del piano-terrazza, coronata poi da una merlatura di tipo ghibellino.
Si hanno cinque merli sul fronte-sud (e si suppone ve ne fossero altrettanti su quello nord, crollato) e quattro invece su quelli est ed ovest.
Su tre fronti si avevano, al piano-terrazza, vaste aperture ad arco a tutto sesto, con uno spesso parapetto ed al di sotto di questi, dei mensoloni in pietra sagomata, facenti parte del sistema difensivo della torre.
Sul quarto fronte, proprio al di sopra dell'apertura della prima elevazione, si ha (sempre all'altezza della terrazza) una “caditoia” o “piombatolo”, classico elemento dell’antico sistema di difesa piombante.
È questo un piccolo corpo aggettante, che Luigi Salvatore d'Austria definisce genericamente “postazione di lancio”, che poggia su tre mensoloni in pietra, chiuso dai lati e vuoto nella sua parte inferiore, in modo da consentire la caduta, o “piombata”, di armi ed oggetti da difesa proprio dinanzi l'apertura dell'ingresso.
A questa architettura, sono annesse al piano terreno, due pinnate ed altri piccoli magazzini, oltre ad un’ampia stalla, e che certo costituivano l'oggetto primario da difendere.
AVVENTURA A LIPARI (1961) di VICTOR A . DE S A N C T IS 1 parte
Le riprese di "Avventura a Lipari" iniziarono il 26 luglio dello scorso anno e terminarono in brevissimo tempo grazie alla valida collaborazione di tutti i soci del Club Mediterranée ospiti in quel villaggio.
Tra di loro De Sanctis scelse anche il protagonista della vicenda narrata nella pellicola.
Come misi piede a terra sulla banchina del porto la mia prima preoccupazione fu quella di contare i bagagli. Avevo compiuto i l viaggio da solo, con la vettura carica fino all'inverosimile, e a velocità piuttosto sostenuta. Nei pressi di Terracina avevo anche evitato, per miracolo, un investimento. Insomma, ero riuscito ad arrivare sano e salvo con i miei 21 colli da Torino e sarebbe stato davvero imperdonabile, proprio ora, perderne qualcuno nelle manovre di carico e scarico.
« ... 19... 20... 21 ». C'erano tutti. Tirai un respiro di sollievo. Ma non c'era nessuno del Village ad attendermi, e questo complicava un po' le cose.
« Al clubbe volesse andare? Lasciasse fare a noiantri! », un ragazzotto dalla pelle scura si era avvicinato con un capace battello e una muta di picciotti al rimorchio. Come diedi a vedere di essere d'accordo sul trasferimento via mare, i ragazzi, si precipitarono sui bagagli per l'imbarco. In un amen le due cineprese subacquee, le due macchine per esterni, i due autorespiratori, il magnetofono, le macchine fotografiche, i riflettori solari, i treppiedi, le cassette della pellicola, i sacchi delle mute e le custodie dei fucili, tutto fu sistemato sulla "Concetta madre", insieme con la lampada di illuminazione subacquea e la valigia degli effetti personali.
L'avventura di Lipari incominciava.
« Questo — mi disse Alex Stroinowsky, capo del Village — è Jakie Masson, capo istruttore. A lui ti potrai rivolgere per tutto quello che ti servirà sui battelli, .«sopra e sott'acqua ». I l tipo che mi stava davanti era un giovanotto solido, occhi azzurri, volto sorridente ed aperto, incorniciato da una caratteristica barbetta a collare. Lo avrei avuto come collaboratore per quasi un mese. "Barbarossa" a sua volta cominciò a presentarmi gli altri istruttori del club: Bernard Baes di Nizza, Pierrick Parlonar, un bretone modesto e taciturno, Claude Ferrari, un altro Claude e infine un ragazzo inglese, di cui non ricordo il nome. In quel momento rumorosi saluti si levarono dal ponte del “Vittorio Veneto", uno dei due grossi battelli adibiti alle sortite subacquee del club:
Marc e Annette Jasinsky mi chiamavano a gran voce un tipo piccoletto, mi corse incontro: era René Thierry della televisione belga e da quel momento mio stretto collaboratore alla realizzazione del film "Avventura a Lipari".
Sul pontone, grondante di acqua, era intanto salita Virginie la "prima attrice" della vicenda che avremmo filmato. Buona sommozzatrice, l'amico Bob Lombaert me ne aveva scritto da Bruxelles. Ora Ia sua alta figura d'indossatrice mi stava dinanzi, i capelli fradici incollati alla nuca, sulle guance, sul collo.
« Quest'oggi stesso — dissi alla piccola troupe riunita — cominceremo i sopraluoghi e la sceneggiatura ». Erano le 12 del mattino del 24 luglio. Mare e cielo apparivano di un azzurro intenso, il tempo era decisamente al buono stabile, tutto lasciava presumere che avremmo potuto svolgere un buon lavoro.
Il mattino del giorno 26 cominciarono le riprese. Bisogna riconoscere che il cinema moderno ha, tra i suoi vantaggi, quello di una straordinaria rapidità dì preparazione. Due soli giorni erano bastati per sviluppare la sceneggiatura del soggettino che mi ero portato dietro. Thierry e Marc mi erano stati di valido aiuto, per la scenografia vera e propria il primo, per i sopraluoghi il secondo.
Ci dividemmo i compiti amichevolmente. Discussioni piuttosto vivaci suscitò invece la scelta di colui che sarebbe stato il protagonista maschile del film. Tutti erano naturalmente d'accordo che . avrebbe dovuto essere un buon subacqueo: ma chi scegliere nel ricco campionario a disposizione? L'importante decisione venne presa durante n pranzo. Un po' di eccitazione regnava tra i G.M. presenti e specialmente fra gli istruttori. Personalmente, mi sarebbe andato bene uno qualunque di quei signori, ma alla fine prevalse l'idea. René, e la scelta cadde su Pierrick, solido giovanotto di taglia media, che meglio di tanti altri avrebbe potuto identificarsi col reale protagonista di una vicenda del genere.
Non avrei dovuto pentirmi della scelta. Il mattino del 26, ripeto, eravamo già in acqua per girare le sequenze sulla scuola d'immersione. La faccenda cominciò con una arrabbiatura. Ero appena sceso in acqua dalla "Stella Immacolata", il battello che doveva servirci come base durante le riprese, quando vidi René e Marc, in piedi sopra un prato di posidonie sette metri più sotto, che se ne stavano giocando allegramente alla palla ovale. Fin qui nulla di straordinario se non fosse stato per il pallone che era rappresentato dalla grossa lampada Galeazzi dentro alla quale erano sistemate le batterie di accumulatori.
I miei gesti dovettero essere di una incisività che non lasciava adito ad equivoci, se i due credettero opportuno risalire immediatamente a galla per sorbirsi, a mo' di aperitivo, una serie nutrita di epiteti, sotto la divertita attenzione della gente di bordo.
Questa gente, che era poi costituita dai membri del club, dimostrava una grande simpatia per il nostro lavoro, e ci diede la più efficace collaborazione, almeno nei primi giorni.
In particolare il testo di cui all’immagine trattasi di un taccuino inedito, quello di una crociera alle Isole Eolie (Aspara), dal 13 al31 luglio 1967. Questo taccuino è riprodotto in facsimile. È integrato da una bibliografia selettiva per gli anni dal 1983 al 1985 e da note bibliografiche. Notizie sull’autore:
Una vita di poeta e diplomatico. Dai Caraibi al Mediterraneo, passando per l'Asia e l'America, Alexis Leger di Saint-John Perse (1887- 1975) ha raccolto nel corso della sua vita - ad eccezione degli anni diplomatici - Un'opera essenziale della poesia francese del XX secolo, acclamata 1960 dal Premio Nobel per la Letteratura. Figlio delle isole, à cresciuto con le sue tre sorelle in Guadalupa. La perdita del regno dell'infanzia con l'arrivo della famiglia in Francia, i suoi incontri con Francis Jammes poi Paul Claudel cosi come la scomparsa di suo padre, lo incoraggiano a cercare la fuga allo stesso tempo attraverso la scrittura e la stabilità di una carriera all'estero. Affari. Dopo un notevole inizio nella scrittura poetica (Anabasis, scritta in Cina nel 1917), abbandono la poesia e preferì la carriera diplomatica. Destituito dall'incarico chiave di Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri nel 1940 da Paul Reynaud, privato dei suoi diritti dal governo di Vichy, andà in esilio negli Stati Uniti dove scrisse le sue più grandi poesie:
Exile, Vents, Amers- e non ritorno in Francia fino al 1957 e si stabili in Provenza, sulla penisola di Giens dove mori nel 1975. IL suo lavoro, come la sua esistenza, si pone sotto il segno del nomadismo e dello stupore di fronte al mondo, agli elementi e alla natura. Ha quattro cicli: Indie Occidental, Asia, America, Provenza. Questi luoghi portano scoperte, avventure ma anche solitudine ed esilio, fonti di creazione. Composta da materiali selezionati, la poesia mondiale di Saint-John Perse collega continenti e conoscenze attraverso un linguaggio sorprendente. Per lui "più che una modalità di conoscenza, la poesia à innanzitutto uno stile di vita — e di vita integrale”. La Fondazione Saint-John Perse riunisce ora il suo patrimonio letterario e politico nella Biblioteca. Notizie sull’opera:
Saint-John Perse Premio Nobel per la letteratura nel 1960, visitò le Isole Eolie nel 1967 con lo yacht “”aspara”” dal 13 al 31 luglio, compilando un diario del viaggio. Quinta crociera nel Mediterraneo sullo yacht Aspara: tra Italia, Sardegna e Sicilia, alle Isole Eolie o Lipari, con ancoraggio davanti alle isole Panarea, Stromboli, Lipari e Vulcano, non lontano da “la Pietralunga” e dagli altri aghi basaltici delle “Bocche di Vulcano”; navigazione lenta, molto ravvicinata, intorno alle isole Salina, Filicudi e Alicudi, per l'osservazione della loro struttura vulcanica e delle loro curiosità geologiche: pietre vetrificate, colate di ossidiana rossa, fumarole latenti e cinture di insidie basaltiche; lo Stromboli costeggia due volte all'imbrunire, per meglio seguire, alla luce dei suoi anfratti fiammeggianti, le colate laviche e le rocce incandescenti precipitano in mare. Rientro lungo la costa italiana, con tappe a Napoli, Capri, Ischia e Ponza. Aspara uno yacht a motore, un ex incrociatore della marina inglese, gestito da un intero equipaggio. Anche C. Thiébaut ci illumina sull'identità dei compagni di crociera del Legers: tra loro Raoul Malard, il proprietario della barca, un ricchissimo industriale Nord che condusse una vita brillante a Parigi sotto l'occupazione; la sua compagna Jacqueline, ex Miss Francia; Marta di Fels, vecchia amica del poeta, che sarà stata secondo le sue stesse parole "la donna" della sua vita". Con la Contessa di Fels, i Malard e gli ospiti occasionali come Lord Warwick (alias Michael Brook, attore Hollywood) e sua moglie, tutto un entourage elegante e ricco che viene menzionato, la cui azienda apprezza Alexis Leger...
Oltre a questa presentazione, l'edizione speciale di Souffle de Perse contiene iconografie poco conosciute al pubblico (foto di passeggeri a bordo dell'Aspara, foto della barca), documenti in formato appendice (carta delle Isole Eolie, estratti dalla Guida Blu, dove lo scrittore ha disegnato interi brani, testo delle canzoni Napoletani da lui citati) e numerosi indici che permettono al lettore di farlo sfoglia il quaderno secondo le sue curiosità (e quelle del poeta) o studiarlo sistematicamente da un aspetto o dall'altro.