Il vizio assurdo dell’Occidente, lo strazio della Palestina e il crepuscolo della ragione empatica
Intervista allo storico Carlo Ruta sulle crisi e gli scenari di guerra che stanno scuotendo il mondo contemporaneo
Da studioso della storia, può dire qual è la situazione oggi?
È quella di un morbo che negli ultimi decenni è andato progredendo, ha seminato strage e in questi anni ha accelerato la sua corsa distruttiva. Dopo l’avventura finita male del Vietnam, che ha prodotto diversi milioni di morti civili, e dopo la parentesi della presidenza di Jimmy Carter, una delle più pacifiche nell’America del Novecento, tutto si è rimesso in moto negli anni di Ronald Reagan, quando, fermato il processo di autoanalisi che si era aperto nelle opinioni pubbliche negli anni 60-70, gli Stati Uniti riprendevano politiche estremamente aggressive e belliciste. Il peggio è arrivato però dopo il 1989, quando l’America ispirata dal Pentagono si è convinta di essere ormai il legittimo conduttore e garante dell’intera scena globale. Questo attore geopolitico si è ritrovato allora sempre più pericolosamente esposto, ossessionato, mosso da politiche distruttive e prive di orizzonti oltre che di senso, tanto più dopo l’11 settembre 2001. Si arriva così all’oggi, alle soglie ormai del non ritorno.
Il mese scorso lei ha dato alle stampe un libro che s’intitola «Il precipizio dell’Occidente», e il sottotitolo aggiunge «Dai fuochi di Baghdad alla morte di Gaza». Qual è l’Occidente di cui parla e cos’è il precipizio?
L’Occidente è quello euroatlantico che fa capo appunto alla potenza statunitense. Questo lavoro prende spunto dalla crisi dell’Ucraina e dallo sterminio in Palestina ad opera di Israele e inquadra, evitando ogni orpello retorico, la storia dell’ultimo ventennio. Obiettivo di questo lavoro, diviso tra passato e presente, è quello di documentare i fattori che hanno spinto il sistema occidentale agli orrori di questo tempo. La storia ovviamente, lunga o ‘corta’ che sia, non è mai predittiva, ma fornisce impronte, segnali, sequenze e appigli che, ad una lettura accurata, possono aiutare a comporre tasselli mancanti e tentare riquadramenti di prospettiva. Proprio dai modelli delle guerre di questi decenni, «morali», «democratiche» e «umanitarie», si possono ricavare poi piste e orientamenti.
La storia, lei dice, è orientativa. Dove si sta andando?
La realtà è quella di un mondo confuso che sta dilapidando risorse materiali, intellettuali, morali e civili immense. E questa situazione evoca sempre più il primo Novecento, europeo in particolare, che in poco più di 20 anni, con i morti delle due grandi guerre e quelli di grandi epidemie, carestie e povertà estreme che ne furono conseguenza, portò quasi alla decimazione del genere umano. I contesti sono però mutati e i rischi sono molto più elevati, poiché tutto avviene oggi negli orizzonti di un mondo super armato e nuclearizzato. Terrorizzato anche dalla sua ombra, l’Occidente in crisi si ritrova scopertamente terroristico, mentre non smette di atteggiarsi, quasi misticamente, a difensore di ‘valori supremi’, che contraddice senza ritegno giorno dopo giorno. Tutto questo non può che lasciare sgomenti.
Le cause di tutto ciò sono solo politiche?
Le cause, ovviamente, non sono solo politiche e geopolitiche: a questo punto sono anche antropologiche. Stanno agendo pulsioni profonde, come quelle appunto che hanno contribuito a scatenare i due grandi conflitti del XX secolo. Nei modi d’essere delle politiche e nel loro approccio con la realtà si è aperta una lesione che sta provocando mutamenti radicali, fino a pochi anni fa insospettabili al senso comune. Questa lesione antropologica, già avvistata come pulsione regressiva di morte da Sigmund Freud nel 1915, quando si era nel pieno della guerra in Europa, e dallo stesso psicologo discussa nei primi anni ’30 in un carteggio con Albert Einstein, si esprime da 30 anni a questa parte con una conflittualità sterminatrice. A darne atto sono i milioni di morti civili lasciati dalle invasioni a guida statunitense in varie parti del Globo, senza che nessuno abbia pagato mai il conto. George W. Bush, ad esempio, comandante in capo di guerre risultate immotivate che hanno prodotto vere e proprie ecatombe in Iraq e in Afghanistan, sta vivendo serenamente la sua vecchiaia, senza che nessuna corte penale internazionale gli abbia mai addebitato un crimine di guerra.
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Perché questo accade e non si manifestano aree di dissenso significative?
Il mondo «aperto» di cui parlava l’epistemologo Popper che, come Kelsen, Bobbio e altri, raccoglieva gli umori delle autoanalisi di cui si diceva prima, si è in realtà chiuso tragicamente, facendosi catatonico . Gli spazi reali di diritto e di libertà si sono contratti nella sostanza, svuotati da una finzione «democratica» che negli ultimi 20 anni rasenta l’inverosimile. È l’effetto di un potere imperiale, emulo dichiarato dell’antica Roma, ma solo emulo, che si autolegittima da una lato ricorrendo sempre più alla forza militare, dall’altro ad un uso sempre più paradossale della mistificazione, che, cosa del tutto anomala nella storia, oggi arriva a soggiogare anche coloro che ne fanno uso.
Può spiegare?
Superando il metodo Goebbles, secondo cui una falsità ripetuta tante volte finisce con l’essere percepita dalle popolazioni come una verità, i governi occidentali, non ingannano solo le opinioni pubbliche e gli elettori ma, paradossalmente, anche sé stessi. E le conferme sono continue. Per questo autoinganno l’Occidente da due anni riesce a sostenere, armandola, una guerra ‘impossibile’: quella che si combatte in Ucraina. Già perduta sul terreno militare, proprio a causa della cecità politica e geopolitica che l’ha generata, e diventata pericolosamente ibrida, asimmetrica e terroristica, questa guerra, come si usa dire oggi, «per procura», rompe di fatto ogni schema. Per radicalità supera infatti il tradizionale realismo militarista che ha ispirato le politiche più aggressive statunitensi del Novecento. In questi due anni, perfino Henry Kissinger in persona, massimo macchinatore della guerra del Vietnam, ha dovuto spiegare ai governi occidentali la madornalità dei loro errori strategici, ma senza alcun esito. Si è entrati quindi in un vortice di rilanci, tipico del giocatore compulsivo che non sa perdere e proprio per questo accelera il tempo della rovina.
Ma non esistono dei consiglieri pagati proprio per venire in soccorso degli Stati sul piano strategico?
I Think Tank più potenti e referenziati, i «serbatoi di pensiero» di cui si servono gli Stati occidentali, dovrebbero in effetti attivarsi per fornire rimedi ad una crisi di sistema che rischia di diventare incontrollabile, ma essi stessi sono in realtà parte della patologia, politica e antropologica, che dovrebbero curare. Sono diventati infatti gli ispiratori più accaniti della guerra ibrida e delle mistificazioni correnti. Uno dei più influenti di questi centri è ad esempio il britannico International Institute for Strategic Studies, che sostiene tra l’altro l’idea delirante di una Russia pronta ad assaltare l’Europa, riproponendo di fatto in maniera parodistica un topos propagandistico degli imperi coloniali europei del tardo Ottocento e del primissimo Novecento.
Perché questa guerra è emblematica e molto pericolosa per i destini umani?
Lo scenario russo-ucraino è quello di un conflitto territoriale, di un’area di confine contesa, a sfondo quindi nazionalistico, come tanti nella storia contemporanea e in ogni parte del Globo. La via naturale per una soluzione, dopo il fallimento dei protocolli di Minsk del 2014 e dell’anno successivo, sarebbe dovuta essere in primo luogo, per sano buon senso, quella di intensificare la mediazione europea. Tanto più dopo l’eruzione armata del febbraio 2022, l’Unione Europea avrebbe potuto e dovuto dare il meglio di sé, riscoprire addirittura la sua ragion d’essere originaria, di caposaldo della pace nel continente, prefigurata dal Manifesto di Ventotene del 1941 e sostenuta da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e da tutti gli europeisti di quelle stagioni novecentesche. Invece, succube dell’imperialità statunitense, essa si è imbarcata di fatto in uno scontro totale: un folle gioco d’azzardo che rischia di far esplodere il mondo intero. Secondo diversi punti di osservazione indipendenti, l’esito provvisorio di questi due anni di guerra può aver già superato di gran lunga il mezzo milione di morti ucraini e russi, in larga parte giovanissimi, ma il massacro continua e l’UE, senza alcuna remora, si è addirittura impegnata ufficialmente per armare il conflitto per i prossimi quattro anni. E qui la storia si riavvolge tragicamente.
In che senso si riavvolge tragicamente?
C’era una volta un Occidente plurale, diviso al proprio interno, anche verticalmente, ma comunicativo, che dopo le grandi catastrofi del Novecento decideva di rivedere le cose e rivedersi. In quel mondo euro-atlantico si manifestavano anche autoanalisi importanti, spesso sincere e profonde, che venivano sostenute da vasti movimenti d’opinione. In quei decenni avvenivano i processi di decolonizzazione, i negoziati strategici per il disarmo, il sostegno ai movimenti di liberazione, l’impegno degli Stati sui fronti delle disuguaglianze e dei diritti, la crescita di movimenti anti-apartheid e tanto altro. Adesso quell’Occidente che riusciva a mettersi in discussione e ad elaborare addirittura dei sensi di colpa non c’è più. Quello che lo ha sostituito è un sistema cupo e nichilista, immobilizzato dalla morsa delle proprie pulsioni di morte. È lo scenario di oggi, che con pochissime eccezioni non risparmia le opinioni pubbliche e le società civili. Masse di intellettuali si sottomettono e, come avveniva ai tempi del duce e del führer, rinunciano alla loro funzione critica oltre che alla loro dignità. Il mondo scientifico, che potrebbe spendere parole importanti, è andato liquefacendosi in silenzio. L’informazione che più dialogava con i potenti, mantenendo comunque un briciolo di autonomia, si è arruolata in servizio permanente effettivo. Le opinioni pubbliche, stordite dalle manipolazioni a reti unificate, sono infine disorientate.
Come si inscrive in questo scenario quel che avviene nella striscia di Gaza?
Si tratta della prova del nove del degrado in atto, anche antropologico. Questo mondo euro-atlantico, al di là del teatrino delle parti, in realtà molto scoperto, sta sostenendo all’unisono Israele nella distruzione integrale di Gaza, città palestinese di oltre due milioni di abitanti, e di altre città della striscia, come Khan Younis e Rafah. Questo fatto, avvenuto a freddo, si colloca tra i più orrendi in assoluto della storia contemporanea, con diverse decine di migliaia di morti civili già contati in appena 120 giorni, di cui almeno il 40% bambini. Si sta facendo e si farà di tutto, a operazione chiusa, per nascondere l’«arma del delitto» e far dimenticare le atrocità compiute, che contemplano tra altro l’uccisione di poco meno di 150 giornalisti, per lo più arabi, e di numerosi loro familiari: fatto questo senza alcun precedente dal secondo dopoguerra ad oggi. Sono prevedibili improvvise aperture di «dialogo» e perfino proposte di «soluzione», per far dimenticare. Una cosa è però certa: questo sterminio che continua ancora, oltre il siparietto, con l’avallo manifesto degli Stati Uniti e dell’Europa, non potrà più essere cancellato dalla memoria storica del mondo che verrà. Israele e i suoi «civilissimi» complici d’ora in avanti dovranno convivere con questa infamia perenne. Non c’è infatti atto terroristico, per quanto esecrabile possa essere, come quello avvenuto il 7 ottobre 2023, che possa giustificare un simile annientamento di massa, scomposto e demente, frutto anch’esso di una alterazione antropologica oltre che politica, come lo furono, appunto, gli orrori del primo Novecento.
Dalla rivoluzione del Rame alla nascita delle navi assemblate. Il Convegno internazionale di Ragusa e i modelli d’indagine proposti da Carlo Ruta per leggere la nascita della storia più oscura e profonda. Resoconto di una discussione scientifica
La genesi del Convegno internazionale Dall’Uomo del Rame all’Homo Faber tenutosi a Ragusa nei giorni scorsi è chiara, perché tutto parte dagli studi di Carlo Ruta nell’ambito del Laboratorio degli Annali di storia dei mutamenti globali. Si tratta di modelli di ricerca riguardanti le rivoluzioni prodotte dall’utilizzazione del Rame, l’avvento della nave assemblata, la scoperta e la conquista del mare, la nascita della scrittura e la nascita della città storica: modelli di studio che cercano di fornire risposte ad una domanda complessa: quando, come e perché nella vicenda umana irrompe la storia?
Il convegno, aperto da una lunga relazione scientifica di Carlo Ruta, ha rappresentato in questo senso un banco di prova importante, in cui un gran numero di studiosi si è confrontato con l’asse paradigmatico proposto. E gli esiti sono stati produttivi, specie se si considera che hanno partecipato storici e archeologi molto presenti nel dibattito globale, come nei casi della sinologa statunitense Pamela Kyle Crossley, che ha focalizzato punti ancora in ombra della cosiddetta Età del bronzo, e del paletnologo Alberto Cazzella, ordinario alla Sapienza di Roma.
Quest’ultimo, che ha relazionato anche per l’archeologa Giulia Recchia, anch’essa della Sapienza, nel raccogliere le sollecitazioni paradigmatiche di Carlo Ruta, ha rilevato un possibile campo di valutazione della proposta nell’area area mediterranea e vicino-asiatica, attraverso un focus sulle aree cipriote, minoiche e maltesi, che pone in luce gli intrecci tra legno e metalli e i possibili nessi temporali tra la nascita delle navi assemblate e la nascita della scrittura.
Molto rigorosi anche altri contributi che si sono snodati nell’arco dei due giorni, come quello del linguista Michele Longo dell’Università di Palermo, che ha raccolto anche lui la sollecitazione lanciata dallo storico per proporre un possibile impegno interdisciplinare. Lo studioso palermitano ha ravvisato in particolare alcune convergenze tra la prospettiva tracciata da Carlo Ruta sulla derivazione storica della scrittura dalle tecniche del legno nautico assemblato e l’esame dei processi linguistici nel mondo preistorico e protostorico in corso d’opera presso l’Ateneo di Palermo e in ambiti interuniversitari.
Esaustive e utili al dibattito sono state inoltre due panoramiche dei processi tecnologici tra preistoria e storia. È quel che hanno proposto l’archeologo Claudio Giardino, che ha tracciato un quadro generale delle prime tecnologie minerarie e metallurgiche, e Corrado Fianchino, storico delle tecnologie, che ha focalizzato l’uso edilizio della pietra in età preistorica e storica, con un focus particolare sulle architetture del tolos. In questo orizzonte di ricerca si collocano, ancora, gli interventi di Umberto Tecchiati, archeologo all’Università Statale di Milano, che fa un focus sull’Italia neolitica e preistorica, dell’egittologo del CNRS Juan-Carlos Moreno García, che apre un proprio percorso paradigmatico sulle agricolture del Nilo in età dinastica, e dell’archeologo Clemente Marconi della Statale di Milano e della New York University.
Altri contributi, che diversificano la prospettiva, sono venuti dall’epistemologo Giuseppe Varnier dell'Università di Siena, dallo storico della modernità Emiliano Beri dell’Università di Genova, dalla studiosa di design Loredana Di Lucchio della Sapienza di Roma, da Francesco Aleo, teologo alla Facoltà Teologica di Palermo, e ancora, dal medievista Marco Leonardi dell’ateneo catanese, dalla storica del mondo bizantino Sandra Origone, dall’antropologa Annalisa Di Nuzzo della Benincasa di Napoli e dalla studiosa di estetica Maristella Trombetta. Il palinsesto del dibattito è stato animato infine dalle interazioni con studiosi, docenti e studenti arrivati spontaneamente da diverse parti d’Italia per seguire i lavori.
«L’obiettivo – osserva il direttore scientifico Carlo Ruta – era quello di un confronto mirato, indotto da studi recenti, sulle tecnologie e i modelli cognitivi che resero possibile il passaggio dalla preistoria alla storia. E la discussione ha avuto esiti brillanti, anche se ha presentato qualche problema». Spiega meglio lo storico: «Una parte cospicua degli studiosi presenti si è confrontata con le tematiche proposte, e lo ha fatto con rigore scientifico. Diversi relatori, pur molto preparati, hanno invece tenuto meno conto dell’asse paradigmatico del convegno, rischiando di spostarlo.
Ma questo slittamento, ovviamente, non c’è stato, non è stato perciò compromesso lo spessore di questo momento di studio, avvenuto sotto l’egida dell’Università degli Studi di Milano, dell’Università di Siena, dell’Università degli Studi di Genova, del Laboratorio di storia Marittima e Navale dell’ateneo genovese, del Centre National de la recherche scientifique di Francia e ovviamente del Laboratorio degli Annali di storia». Allargando la prospettiva, aggiunge Carlo Ruta: «Il senso del lavoro che va facendosi sta nella determinazione a praticare la scienza, produrla, trasmetterla negli spazi e, soprattutto nel tempo, a innovare quindi e a liberare il campo da tutto quel che ostruisce il cammino della conoscenza. In questo senso si può parlare di un impegno strategico, cui tengo moltissimo. Si tratta di preservare la durata delle discussioni prodotte, dei materiali, dei dati, delle fonti.
Lo scopo è di garantire una memoria resistente del lavoro che va svolgendosi. Per questo motivo, i convegni sono trascritti, catalogati e conservati anche in digitale, resi fruibili e consultabili quindi negli archivi del Laboratorio e degli Enti scientifici italiani ed esteri che cooperano: tutto ciò in conformità con i diritti di conoscenza che vanno riconosciuti alle comunità di studio, alle cittadinanze e alle generazioni presenti e future».
Quando si andrà allora al 4° Convegno internazionale e quale ne sarà l’argomento? «È previsto – spiega la coordinatrice organizzativa del Laboratorio – nella seconda metà di dicembre 2023, ancora in partenariato con istituzioni scientifiche e didattiche nazionali ed estere, ma sul tema insistono alcune riserve da parte del direttore scientifico, che saranno sciolte entro le prossime settimane. Solo allora si potrà comunicare perciò il tema prescelto».