di Lina Paola Costa
Perché la “Festa del papà” non sia uno stereotipo (parte 1).
Una poesia riscoperta
Salvatore Quasimodo (1901-1968), premio Nobel per la Letteratura nel 1959, compose questa poesia in occasione dei novant’anni anni del padre Gaetano.
I versi cantano anche la bellezza della terra siciliana e menzionano la tragedia del 28 dicembre 1908, quando Messina fu distrutta dal terremoto e maremoto. Ai primi di gennaio del 1909 il ferroviere Gaetano Quasimodo (nato nel 1867) ebbe infatti l’incarico di riorganizzare la stazione ferroviaria della città dello Stretto e la famiglia lo seguì, vivendo i primi tempi in un carro merci ferroviario, in quanto la città era stata quasi del tutto rasa al suolo.
Al padre
Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.
La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.
Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
“Baciamu li mani”. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.
Salvatore Quasimodo
Ottomarzo al tempo del Covid
L’Ottomarzo rischia di ridursi a uno stereotipo, un brand linguistico appiattito dalla consuetudine, una barzelletta che racconta come dal giorno dopo ricominci la festa dell’uomo.
E allora in questo tempo di pandemia del virus e delle congetture, forse un modo per rivitalizzare la ricorrenza può essere quello condividere pochi versi, che appaiono attualissimi.
Per esempio, quelli della versatile Gabriella Leto (Roma 1930-2019), nella raccolta “Nostalgia dell’acqua” pubblicata una trentina d’anni fa per i tipi di Einaudi.
Tutto in una strofe, il gioco della rima e dell’allitterazione, dell’anafora e dell’omoteleuto, sia di augurio a chi legge.
Questa che voglio raccontare
non saprei dire che cos’è
non è memoria e non è storia
non è vissuta non è sognata
non è inventata eppure c’è.
Che sia materia di corto fiato
priva di pubblico destinato
non serve dirlo va da sé.
Gabriella Leto