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di Carlo Sini*

Un breve commento all’invito, rivolto da Carlo Ruta alle discipline storiche, di aprirsi, in modo prudente ma anche audace, alla collaborazione interdisciplinare dei saperi. Quindi alla correlativa domanda: perché le scienze naturali dovrebbero scendere a patti con le scienze sociali e la storia? Se la risposta fosse solo un invito a non perdere di vista l’uomo (e non è il caso di questo manifesto, che al riguardo è invece ben articolato e problematizzato), rischieremmo di ritrovarci immersi in un equivoco, come se dire «uomo» fosse una risposta e non invece una domanda e un problema.

Provo a suggerire allora un abito mosso dalla presa di coscienza della situazione reale nella quale questo domandare e rispondere si trova presupposto. Detto in sintesi, l’appello all’uomo è anzitutto il punto di vista di colui che se ne fa promotore: ma chi è costui? Da dove viene la sua presenza, nella strozzatura del suo corpo, nella tradizione della sua cultura e della sua lingua, nei propositi ideali che lo muovono e così via? Il centro di ogni indagine è, come sono solito dire, la questione autobiografica e, correlativamente, la problematicità strutturale del suo esercizio.

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Mi spiego con due esempi: l’epigenetica contemporanea (cfr. C. Sini, C.A. Redi, Lo specchio di Dioniso. Quando un corpo può dirsi umano?, Jaca Book, Milano 2018). «Il contesto sociale nel quale si sviluppa la storia del ciclo vitale degli individui è capace di influenzare molti processi biologici e così il sociale si “incarna” nel biologico e si trasmette da una generazione all’altra […]. La composizione del microbionte umano è associata a fattori quali la dieta, lo stile di vita, l’uso di farmaci e altri aspetti della biografia individuale. Allora la biochimica e l’ecologia collaborano a definire l’olobionte umano» (pp. 18 e 48). Se questo oggi è vero, nel senso e in accordo con i criteri della verifica scientifica, non è però meno vero che ciò che viene asserito relativamente alla biografia individuale non può non riguardare l’individuo concreto che, in base alla sua biografia, è in grado di vedere e di dire quello che appunto sta dicendo, ovviamente determinato dalle condizioni di vita che lo rendono possibile come quell’individuo che è, comprese le sue «teorie» disciplinari e interdisciplinari. Il che significa che l’inter-disciplinarità, certamente preziosa e irrinunciabile, non è tuttavia in grado di cogliere il problema della sua «transdisciplinarità», ovvero il fondamento ultimo del senso delle sue asserzioni, irriducibili ai contenuti di una disciplina o di un plesso di discipline qualsivoglia (inclusa la storia).

Il secondo esempio considera la teoria dell’evoluzione come risultato complesso e irriducibile di fattori sistemici per i quali ogni «forma» vivente accade in una relazione con-costitutiva con ogni altra forma che agisce e si trasforma contemporaneamente in parallelo. Quindi il «tutto», per esempio il tutto dell’evoluzione, non può mai essere visto ed essere detto «dal di fuori». Chi dice, per esempio teorizzando l’evoluzione darwiniana oggi, è all’interno del processo che dice, è una sua conseguenza e un suo prodotto: non deve mai dimenticarlo, per non cadere nei paradossi del non senso e dell’oggettivismo malinteso. Questo è ovviamente da dire anche delle forme culturali che hanno allevato e poi accompagnato Homo sapiens (cfr. C. Sini, T. Pievani, E avvertirono il cielo. La nascita della cultura, ivi, 2020). La visione transdisciplinare del problema del sapere umano, e del senso dei suoi contenuti in cammino, non richiede e non può risolversi grazie a una nuova scienza o super-scienza. «La scienza, per quanto oggi possiamo dire, va bene così, il suo lavoro è quello che deve essere e che è, anche in base ai risultati straordinari che essa consegue. Ciò che deve cambiare è la mentalità e la formazione degli scienziati [storici inclusi], quanto alla comprensione della verità e del senso profondo del loro lavoro; quindi in favore di una nuova cultura integrata e coerente» (pp. 82-3), a cominciare da una nuova concezione della nozione di «verità». La natura di questa operazione e la sua concreta attuazione sono ampiamente sviluppati e chiariti nei due testi, in dialogo con scienze particolari, ai quali si è fatto qui riferimento.

* Carlo Sini, già allievo di Enzo Paci, è filosofo e professore emerito di filosofia teoretica all’Università degli Studi di Milano. Dopo un esordio che lo ha avvicinato al pensiero fenomenologico, è approdato ad un indirizzo di ricerca che lo ha indotto a focalizzare in primo luogo le tematiche del pragmatismo e in particolare la semiotica di Charles Sanders Peirce, per avviare poi una propria riflessione sul rapporto tra semiotica e filosofia ermeneutica. Ha privilegiato quindi il rapporto tra semiotica ed ermeneutica; ha posto in luce le convergenze tra le riflessioni di Peirce e quelle di Heidegger; ha sottolineato inoltre le valenze ontologiche della scrittura e del simbolo. Ha operato nel Collegium Phaenomenologicum di Perugia. È stato componente del direttivo dell’Institut International de Philosophie di Parigi. È socio corrispondente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, dell’Istituto lombardo di scienze e lettere e dell’Archivio Husserl di Lovanio. Ha ricevuto la Croce d’onore di I Classe per la Scienza e l’Arte dallo Stato austriaco. Ha tenuto corsi, seminari e conferenze negli Stati Uniti, in Canada, Argentina, Spagna, Svizzera e altri paesi europei. Ha firmato centinaia di opere scientifiche. Ha collaborato per oltre un decennio con le pagine culturali del «Corriere della Sera», con la Rai e con la Radiotelevisione svizzera.

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