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Dettagli...

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di Francesco Biancheri*

Le botteghe di un tempo ricordo  che erano davvero tante, distribuite in maggior parte lungo il Corso, “U Puzzu” detto tra noi. Non erano però contenitori e dispensatori anonimi ed asettici di mercanzie. Ciascuna aveva la sua caratteristica e vivevano ciascuno di vita propria. Una vita che rifletteva il carattere di chi ne era “putiario”. Proviamo a fare un girotontPuzzu e dintorni e non me ne vogliano male se dimentico qualcuno, il tempo passa e nel baule dei ricordi le carte tendono a sbiadire. Incomincio da San Pietro, dove il Corso ha inizio. La c'era il negozio di alimentari di Lagoteta. Era una bottega tenuta da una signora anziana (ma io ero piccolo ed a quella età la percezione dei “grandi” era diversa).

La porta di ingresso era di legno e vetro come una porta di casa, all'interno vecchi scaffali contenevo poca mercanzia. Tuttavia in quel negozio si respirava, non chiedetemi perché, un aria “francese”. Forse perché la signora era sempre curata nell'aspetto come quei personaggi che comparivano nella serie televisiva del Commissario Maigret che allora spopolava in televisione. Piu avanti c'era la bottega della Capitti, molto anni 50, con la sua porta grande in vetro e formica e l'interno spazioso e moderno. Era sosta obbligata per l'acquisto del “Wafers Saiwa” che credo lei sola avesse.

Avanzando verso il Corso, la bottega “du Campagnuolu” un lungo corridoio con due entrate. I banconi del pane e quello con l'affettatrice e la bilancia in lunga fila. Il negozio era pieno di sacchi di legumi, verdure e frutta di ogni tipo che venivano dalle nostre campagne. Antinsegnano del “kilometro zero”, u putiaru lavorava insieme alla moglie ed a un figlio. Lo ricordo sempre con la camicia a quadretti e con un aria perennemente dinoccolata, non lo frequentavamo molto se non per le verdure, dato che la frutta la compravamo “supa a lapa”, almeno quella che non producevamo nel nostro giardino.

Di fronte c'era a “putia” da Giuffrè. Era una signora, che si avvaleva nel suo lavoro di un aiutante con occhio offeso. Caratteristica di questa “putia” era la prolissa spiegazione merceologica che la “putiara” dedicava all'acquisto fatto da ogni singolo cliente, per cui si sapeva quando si entrava ma mai quando si usciva. Faccio un esempio: entravi ad acquistare una scatola di tonno “A” lo portavi o “bancuni e a putiara” ti spiegava che con quello ci potevi fare le insalate, ma non i ripieni, che per i ripieni dovevi comprare la scatola di tonno “B”, ma se per caso dovevi metterlo sulla pizza, allora era meglio il tonno “C” .

Alla fine sfinito accettavi una lista della spesa che non ti apparteneva. Il negozio, rigorosamente dotato di posti a sedere, lo si poteva paragonare al circolo di un dopolavoro, dove alla fine non ricordavi più cosa eri entrato a fare. Più avanti c'era a Putia di “Zuoppi”, non me ne vogliano i discendenti, ma in quel tempo così lontano il cognome stava sulle carte di identità, per il resto si andava avanti per nomignoli e soprannomi. Niente di offensivo e dispregiativo. La “putia di Zuoppi” era, nella mia memoria di bambino una specie di antro stretto e buio dove merce indistinguibile veniva posta in vendita da 3 sorelle vestite con un grembiule di un indecifrabile colore grigio, tipo tuta di Star Treke, a cui in inverno si aggiungeva uno scialle in maglia fatta a mano di colore azzurro.

In quella bottega ero attratto da un espositore posto all'esterno, in vetro ed alluminio che conteneva il pane, in particolare la “scalidda ca giggiolena” per la quale andavo, e tuttora, sono ghiotto specie nella versione appena sfornata e farcita di mortadella. Continuando a percorrere “u Puzzu” verso “Suttamunistieri” c’era a “Putia” di Malara , gestita da due sorelle, magre-magre e ieratiche come canonici della Cattedrale. Anche la bottega era ieratica , tutto disposto in ordine perfetto, tutto quasi asettico, considerando l'aria da suck che caratterizzava quelle degli altri loro colleghi.

Altre botteghe invece vendevano prodotti “non food” come quella di Berzi, piena all'inverosimile di materie plastiche, permeata di un forte odore di plastiche, appunto, che si avvertiva anche da lontano. Era l'epoca in cui i manufatti in “Moplen”  che si consideravano la frontiera dei nuovi utensili, e, da bagnarola o “rinali” c'era la corsa ad accaparrarsi questi prodotti avveniristici. So anche di qualcuno che ha rinunciato ad antiche porcellane per servizi di piatti “Moplen”. Per fortuna in casa abbiamo resistito al richiamo di queste sirene…Le calzature si potevano invece acquistare “nto negoziu di “Pappici”. La merce era in prevalenza esposta fuori dal negozio che era gestito da una signora con aria molto riservata.

Da Granata invece, vicino alla farmacia del Dott. Silvestro vendeva prevalentemente granaglie. Era gestita dalla anziana signora a cui dava una mano saltuariamanente la figlia, maestra elementare, che ricordo come una giovane donna distinta, alla guida di una Fiat 600, vettura trasversale a tutte le maestre del tempo, da Giuseppina Costa alla maestra Falanga. Se torniamo rapidamente verso San Pietro, c'era la bottega del vinaio Carnevale. A “putia” contrastava con i titolari. Il luogo non era altro che un magazzino senza neppure pavimento, con le botti e le damigiane allineate lungo i muri con poca luce...

Una specie di antro del Minotauro, mentre i gestori me li ricordo sempre eleganti e gentili. Gestivano quello spaccio con la signorilità con cui avrebbero potuto gestire la pregiata enoteca di una grande città. “Supa u timparuozzu” c'era “a Putia  da Nannina”. Bancone in formica e zinco, damigiane “ca pinoccia” sopra il punto di mescita. Due cose ricordo, La signora “Nannina” giunonica e con le labbra pittate da un marcato rossetto e le “pinocce” delle damigiane con un rubinetto rosso all'interno di uno sportellino metallico dello stesso colore. A quella età cosa non avrei dato per portarmi a casa una damigiana dallo sportellino rosso... D’estate vendeva anche il ghiaccio. A Sant'Anna ricordo la piccola cartoleria Amendola, odorosa di carte antiche, negozietto dove trovavo la mia penna preferita la “Lyretta” che molti anni dopo ho ritrovato con commozione alla Libreria Feltrinelli di Largo Argentina, a Roma, ed un particolare tipo di penna Bic a scatto laterale, ritrovata anch'essa tanti anni dopo in vendita ad Amsterdam. Un tuffo al cuore.

C'erano poi le “chianche” dei macellai, che a me un pò mettevano soggezione. “I chianchieri con i loro grembiuli eternamente insanguinati, quarti di bue che entravano ed uscivano dai frigo, “cuinigghi scurciati” ed altre amenità, non invogliavano la mia permanenza in quei luoghi. Devo questo anche alle minacce che ricevevo in casa a motivo delle mie malefatte “ti scuorciu cumu un cunigghiu”, oppure “cu niervu ti dugnu”. Oggi un genitore che pronuncia frasi cosi sarebbe stato indagato dalle Magistrature Superiori, la prole sottratta alla patria potestà, affidata ad una casa famiglia e posta in cura presso un noto psico pedagogista.

Ma allora per fortuna tutto questo non avveniva. Sapevo benissimo che nessuno mi avrebbe mai scorticato e queste minacce servivano anzi ad affinare il sistema difensivo – elusivo, molto utile anche negli anni della maturità. Ciò che mi colpiva nelle “chianche” era il sistema di peso della carne. Non c'erano le bilance elettroniche ma delle rosse Berkel con un cruscotto enorme e tondo. Il “chianchiere” lanciava letteralmente la carne sul piatto della bilancia, l'ago roteava alla velocità della luce e sentenziava con voce che non ammetteva repliche “un chilu, bon pisu “. Devo dire che per la carne non ho mai avuto attrazione, come alimento, fatto salvo per le “fettine svizzere” o hamburger “a sasizza cu finuocchiu” , tutte da cuocere rigorosamente “nto cufuni e u capuliatu” con il quale “si facianu i pruppetta cu sucu o u pruppettuni, puru i badduottuli, ma chisti ultime un mi piacianu tantu assà”. 

In macelleria sia andava a compare la carne solo quando arrivava e veniva macellato “u voi i Filicudi” di solito alla macelleria di Leone. A casa l'annuncio della disponibilità di carne filicudara veniva enfatizzato come un evento imperdibile e l'acquisto della bistecca era d'obbligo. A me la bistecca non piaceva, meno che mai la cotoletta, ed anche se ero ben lungi dalla mia conversione alla dieta vegana, il rifiuto di cibarmi della bistecca filicudara provocava in casa le minacce di cui sopra .Ed il loop si chiude…

Ovviamente c'erano anche diverse pescherie, dove il pesce veniva “vanniatu” ( bandito ) al grido di “vivu vivu”, senza amplificazione, con decibel degni di un concerto rock, anche quando l'acquirente si trovava ad un metro dal “vanniaturi”. C'erano tante altre botteghe, c'erano gli artigiani: calzolai, sarti, venditori di stoffe a metro...Non erano asettici luoghi di cessione di beni e servizi, ma istituzioni sociali, dove si andava a parlare, a sfogarsi, ad incontrare altre persone ed il tutto contribuiva in modo chiassoso e colorato a rendere vivo il paese tutto l'anno, perché non chiudevano mai e cosi la sensazione di essere parte di un tessuto sociale vivo aiutava a superare l'inevitabile senso di isolamento che sopratto in inverno assale gli abitanti di questi scogli. Le botteghe del tempo avevano delle caratteristiche comuni.

Gran parte delle derrate erano esposte davanti al negozio, lungo il marciapiede. La tecnologia condivisa era la grande affettatrice rossa e la bilancia dello stesso colore, quasi sempre di marca “Berkel”. I legumi in sacchi, ogni sacco corredato di sassola per riempire il “beco” o sacchetto di carta, che insieme al “cartoccio” che era un ingegnoso modo di dare il “package” per formaggio grattugiato o caffè macinato, costituivano gli involucri che venivano portati via “ nta retina da spisa” o in capienti borse in similpelle. Tornando a casa non si riempiva un sacco di rifiuti in plastiche solo per avere acquistato “na mela nnu Campagnuolo o nni Lucchisi nta scinnuta a Marina, per esempio. Chi legge queste righe, ora che in una giornata si fa il giro del mondo , non può comprendere appieno ma è bene che sappia .

Le nostre isole erano lontane mille miglia dal resto del mondo, il gap socio culturale era elevatissino, la scolarizzazione media a livello di istruzione elementare. Chi terminava le secondarie veniva considerato “u prifussuri” e rarissimi erano i laureati. La televisione in casa era un bene raro, c'erano i giornali si e per fortuna, il cinema. Pochi i luoghi di aggregazione se si eccettuano i bar e non tutti. I contatti sociali con l'esterno si svolgevano soprattutto in estate con l'arrivo di quei pochi turisti che stava incominciando a visitare le Eolie. L'inverno, vi posso assicurare era molto lungo. Forse per questo, tutte quelle botteghe chiassose e colorate facevano sentire, al di la delle loro funzioni commerciali , un senso di vitalità sociale che contribuiva a sentirsi ancor di più compagni di viaggio. Certamente meglio di questo tempo presente con tanti negozi stagionali , chiusi i quali il paese sprofonda in un lungo letargo.

*Emigrante di Lungo Corso

L’intervista del Notiziario al dr. Francesco Biancheri, l’emigrante eoliano di alte vedute e sentimenti. La nota

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