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Satira e diffamazione, la Cassazione delinea i confini. Fino a che punto può spingersi la satira senza configurare un reato di diffamazione?

Il caso di specie riguardava un individuo condannato per diffamazione per aver distribuito volantini, affisso manifesti e redatto un articolo su un periodico locale, ritenuti offensivi nei confronti del direttore di un'Accademia. L'imputato ricorreva contro la sentenza sostenendo un'erronea applicazione della legge penale e lamentando la mancata riconoscibilità della scriminante del diritto di critica e di satira.

La Cassazione ha ricordato che la giurisprudenza in tema di esimenti connesse all'esercizio della libertà di manifestazione del pensiero è consolidata. Il diritto di critica, di natura congetturale, deve essere bilanciato con i principi costituzionali, mentre l'errore sulla veridicità dei fatti non esclude il dolo richiesto dalla norma.

Una declinazione particolare del diritto di critica è costituito dal diritto di satira. A differenza della cronaca e della critica stessa, la satira è sottratta al parametro della verità, poiché esprime un giudizio ironico mediante il paradosso e la metafora surreale. Tuttavia, anche la satira rimane soggetta al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito.

La Cassazione nella specie ha ritenuto che i giudici del merito non abbiano fatto buon governo dei principi consolidati. L'intento satirico degli scritti era evidente, e non vi era il tentativo mascherato di veicolare informazioni relative a fatti specifici non veritieri idonei a ledere la reputazione della persona offesa. Piuttosto, si voleva censurare la ritenuta compiacenza dell'Accademia e del suo direttore verso le gerarchie ecclesiastiche e criticare la autoreferenzialità dell'ente.

La Suprema Corte ha dunque annullato la sentenza impugnata senza rinvio perché il fatto non costituiva reato, e ha disposto la revoca delle statuizioni civili.

Satira, parametro della verità, limite della continenza, funzionalità delle espressioni rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito.

Diversamente dalla cronaca e dalla stessa critica, la satira è sottratta al parametro della verità, in quanto esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su un fatto, ma, per la giurisprudenza di legittimità, rimane assoggettata al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito.

Conseguentemente, nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall'opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano, anche in questo caso, in un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore e della reputazione del soggetto interessato.

 villaggio stromboli

 

Trasferimento della proprietà di un’area edificabile e inadempimento del contratto

Contratto di vendita - Risoluzione del contratto - Trasferimento della proprietà di un’area edificabile - Obbligo della parte inadempiente - Restituzione delle somme ricevute a titolo di prezzo - Risarcimento del danno sofferto - Criterio di regolarità causale

La risoluzione del contratto comporta, l’obbligo della parte inadempiente di restituire le somme ricevute a titolo di prezzo e di risarcire il danno sofferto.

 

 

Tari per i rifiuti speciali, la Cassazione travalica il dettato normativo
La posizione dei giudici si rivela errata sia sotto il profilo letterale sia ancor più dal lato sistematico

di Luigi Lovecchio

La posizione della Corte di cassazione (tra le ultime, sentenza 5578/2023) sulla applicabilità della quota fissa di Tari a tutte le superfici produttive di rifiuti speciali, che sta innescando l’avvio di una massiccia campagna di controlli da parte dei comuni. si rivela in realtà errata sia sotto il profilo letterale sia ancor più dal lato sistematico.

Niente mantenimento al figlio ventinovenne

«In materia di mantenimento se il figlio è neomaggiorenne e prosegue nell’ordinario percorso di studi superiori o universitari o di specializzazione, già questa circostanza è idonea a fondare il suo diritto al mantenimento; viceversa, per il “figlio adulto” in ragione del principio dell’autoresponsabilità, sarà particolarmente rigorosa la prova a suo carico delle circostanze, oggettive ed esterne, che rendano giustificato il mancato conseguimento di una autonoma collocazione lavorativa.

E’ reato fingere di essere innamorati. Mentire sui sentimenti è truffa: ecco quando.
La Cassazione ha delineato un vero e proprio “reato romantico” che si concretizza allorquando un soggetto finge di provare dei sentimenti per l’altra persona allo scopo di ottenere un vantaggio, che molto spesso è il danaro.

Per parlarsi di truffa sentimentale è necessario fingere e simulare un sentimento affettivo allo scopo di ottenere un proprio vantaggio, sia esso di natura economica, professionale e/o entrambe. Quindi, per poter parlare di un effettivo comportamento ascrivibile al reato di truffa, si deve riscontrare un nesso causale tra l’attuazione di un inganno da parte del truffatore e l’errore della vittima: ossia il fatto che quest’ultima, convinta dalle false prospettazioni presentate dal (presunto) partner, si trova ad effettuare disposizioni patrimoniali che, altrimenti, non avrebbe eseguito.

Nel caso affrontato dalla cassazione, all’imputato era contestato il reato di truffa aggravata per avere con artifizi e raggiri, consistiti nell’avviare una relazione sentimentale con la persona offesa (una donna di molto più grande di lui), nel proporle falsamente l’acquisto in comproprietà di un appartamento (e poi di altro appartamento) consegnandole anche fotografie dello stesso, nel richiederle prestiti proponendole la cointestazione di quote societarie, indotto in errore la vittima circa l’effettivo acquisto dell’immobile e sulla situazione economica della propria società facendosi consegnare ingenti somme di denaro, in tal modo procurandosi un ingiusto profitto con pari danno per la donna.

Affinchè si abbia truffa, dunque, la condotta deve consistere non (solo) nel simulare sentimenti d’amore, ma nel coordinare la menzogna circa i propri sentimenti con ulteriori e specifici elementi idonei, insieme ad essa, ad avvolgere la psiche del soggetto passivo in modo da assumere l’aspetto della verità ed a trarre in errore”.Ed infatti, “in casi del genere la truffa non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo.

Pergotenda sul terrazzo di proprietà. E' lecita?

Il Consiglio di Stato precisa fino a dove l'attività volta a realizzare pergotende è libera e non necessita la richiesta di previe autorizzazioni.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1619 del 27 aprile 2016, ha fornito alcune interessanti precisazioni in merito alla legittimità dell’installazione di una “pergotenda” sul terrazzo di proprietà.

Nel caso esaminato dal Consiglio di Stato, il TAR Lazio, in primo grado, aveva respinto il ricorso proposto da un condomino, il quale aveva chiesto l’annullamento di un provvedimento comunale, che gli aveva imposto la sospensione dei lavori e la successiva rimozione e demolizione della pergotenda installata sul terrazzo di proprietà (si trattava, in particolare, di una struttura caratterizzata da delle tende plastiche scorrevoli su binari, comandate elettricamente, con un elemento frangisole in alluminio), in quanto non era stato richiesto ed ottenuto il relativo permesso di costruire.

Secondo il TAR, infatti, l’installazione della pergotenda rappresentava “una modificazione permanente della sagoma dell’edificio per la cui esecuzione deve ritenersi necessaria la previa acquisizione di apposito permesso di costruire”.

Ritenendo tale sentenza ingiusta, il proprietario dell’immobile proponeva impugnazione dinanzi al Consiglio di Stato, per violazione dell’art. 6 del D.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico sull’edilizia).

Secondo l’appellante, infatti, il TAR non avrebbe “esattamente compreso e valutato la fattispecie concreta della installazione di due pergotende, la quale rientra nell’ambito di operatività dell’articolo 6 del dpr n. 380/2001 (cd. attività edilizia libera), dovendosi in proposito fare riferimento (accertamento omesso dal Tribunale) alla sussistenza di peculiari caratteristiche, quali l’amovibilità delle opere, la loro temporaneità ovvero la loro natura di arredo pertinenziale”.

Secondo il ricorrente, dunque, l’installazione della pergotenda, che rappresenta un’opera temporanea e avente natura di arredo della terrazza, rientra nella “attività edilizia libera”, che non richiede, dunque, nessun titolo abilitativo per essere effettuata, con la conseguenza che risultava illegittimo il provvedimento del Comune che ne imponeva la rimozione.

Rileva il ricorrente, infatti, come il TAR avesse errato nel ritenere “l’opera realizzata assoggettata al preventivo rilascio del permesso di costruire, atteso che, nella specie, non era configurabile un intervento di ristrutturazione edilizia (…) difettando l’indefettibile presupposto della trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”.

Il Consiglio di Stato, tuttavia, rilevava come le pergotende, rappresentando “strutture destinate ad una migliore vivibilità dello spazio esterno dell’unità abitativa (terrazzo)”, devono necessariamente considerarsi “installate non in via occasionale, ma per soddisfare la suddetta esigenza, la quale non è certamente precaria”.

In sostanza, secondo il Consiglio, “le “pergotende” realizzate non si connotano per una temporaneità della loro utilizzazione, ma piuttosto per costituire un “elemento di migliore fruizione dello spazio, stabile e duraturo”.

Quanto alla questione relativa al necessario rilascio del permesso di costruire, per la realizzazione di tali opere, il Consiglio rileva come, ai sensi degli articoli 3 e 10 del dpr n. 380/2001, “sono in primo luogo soggetti al rilascio del permesso di costruire gli interventi di nuova costruzione, categoria nella quale rientrano quelli che realizzano una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio”.

Il Consiglio, tuttavia, ritiene che “la struttura in alluminio anodizzato destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integri tali caratteristiche”, in quanto “l’opera principale non è la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell’unità abitativa”.

La tenda, poi, integrata alla struttura portante, “non vale a configurare una “nuova costruzione”, atteso che essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio”.

Allo stesso modo, non poteva nemmeno parlarsi di intervento di “ristrutturazione edilizia”, dal momento che si può parlare di ristrutturazione solo quando “le opere realizzate abbiano consistenza e rilevanza edilizia, siano cioè tali da poter “trasformare l’organismo edilizio”, condividendo pertanto natura e consistenza degli elementi costitutivi di esso”.

Tuttavia, la presenza nella struttura di alluminio di alcune “lastre di vetro”, faceva si, secondo il Consiglio di Stato, che si dovesse, effettivamente, parlare di “nuova costruzione”, essendo il manufatto idoneo a “determinare una trasformazione urbanistico ed edilizia del territorio”, dal momento che tali elementi in vetro rappresentano delle “vere e proprie tamponature laterali”.

Di conseguenza, secondo il Consiglio di Stato, “l’ordine di demolizione avrebbe (…) dovuto limitarsi alla sola rimozione delle strutture laterali in vetro in uno ai binari (inferiore e superiore) di scorrimento delle stesse, ma non anche dell’intera struttura”.

Alla luce di quanto sopra, il Consiglio di Stato riteneva l’appello proposto, solo parzialmente fondato.

Pertanto, la sentenza del TAR andava riformata, imponendo la demolizione unicamente con riferimento alle “tamponature laterali in vetro e dei binari

GIUSTIZIA & IMPUNITÀ

Tiziano Renzi contro Travaglio, la Cassazione annulla la condanna al direttore del “Fatto”: “Non è stato considerato il diritto di critica”

La prima sezione civile della Corte di Cassazione ha annullato e rinviato in Corte d’appello la sentenza che aveva dato ragione a Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Matteo, nella causa intentata contro il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio per alcune affermazioni fatte nel corso di una puntata di Otto e mezzo nel marzo del 2017 e in particolare sul caso Consip.

Va subito sottolineato che Renzi aveva vinto in primo grado perché la controparte (Travaglio) era “contumace” per mancanza di notifica dell’atto di citazione. La sentenza era stata poi confermata in appello perché a Travaglio era stato impedito di far valere la sua difesa. Non essendosi costituito in primo grado, infatti, il giornalista aveva omesso – secondo la corte – di “invocare l’esimente del diritto di cronaca o critica e, conseguentemente di fornire la prova della veridicità del fatto narrato” ed era troppo tardi per farlo in appello, secondo i giudici.

In quella puntata del marzo 2017 Travaglio aveva risposto a una domanda di Lilli Gruber così: “Se il padre del capo del governo si mette in affari o si interessa di affari che riguardano aziende controllate dal governo, magari a beneficio di imprenditori che finanziano o hanno finanziato il capo del governo, questo non so se sia un reato, questo è un gigantesco conflitto d’interessi“. Parole che per la Corte d’appello erano state “demolitive sul fronte etico, politico e della dignità personale” dei Renzi. Per questo era stato disposto un risarcimento di 50mila euro.

La Cassazione, invece, accogliendo il ricorso degli avvocati Caterina Malavenda e Antonio Sigillò, ha stabilito che “l’esistenza o meno della scriminante del diritto di cronaca o di critica integra una eccezione in senso lato, rilevabile d’ufficio a prescindere dalla specifica e tempestiva allegazione della parte e anche in Appello”. In sostanza i giudici avrebbero dovuto valutare autonomamente se le dichiarazioni di Travaglio “integrassero il legittimo esercizio del diritto o di cronaca”.

Qualche tempo dopo la sentenza di primo grado Renzi aveva festeggiato l’offensiva legale nei confronti del Fatto e di Travaglio dicendo che con quei soldi si sarebbe pagato “almeno tre-quattro rate del mutuo della casa”. “La chiamerò ‘Villa Travaglio’” aveva detto riferendosi alla sua abitazione da oltre un milione.

 

Legittima la sospensione da servizio e stipendio per il comandate dei vigili che non indossa l’uniforme
Per la Corte il livello di responsabilità e visibilità connessa alla specifica posizione occupata dal dipendente giustifica la punizione

di Pietro Alessio Palumbo

Secondo la Corte di cassazione (ordinanza n. 31646/2023) è legittima la sanzione disciplinare, con sospensione da servizio e stipendio, inflitta al comandate dei vigili che non indossa l’uniforme: è in gioco la buona immagine del Comune.

E la sanzione è tanto più pesante se solo lui, proprio il capo, e non anche i suoi sottoposti, si sia rifiutato di indossare la divisa per mesi nonostante la regolare fornitura da parte del municipio.

Parcheggia sulle strisce pedonali … e ottiene il risarcimento del danno

La ricorrente, incinta all’epoca dei fatti, parcheggia l’automobile sulle strisce pedonali e si allontana.

Al ritorno, non trova più la macchina, in quanto un ausiliario del traffico aveva elevato contravvenzione ed aveva chiamato il carro attrezzi.

E però, l’ausiliario in questione era delegato solo per il controllo della sosta nelle apposite “zone blu”.

Da ciò, l’azione giudiziaria, conclusa innanzi al Giudice di Pace di Palermo, con la condanna a favore della ricorrente a 200 euro a titolo di danno da stress (essendo stata privata della vettura).

La sentenza è stata ora confermata dalla Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della difesa di Massimo Bossetti, condannato in via definitiva all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio, annullando con rinvio l’ordinanza del 21 novembre 2022 della Corte di assise di Bergamo che, in sede di esecuzione, aveva negato alla difesa il diritto di accedere ai reperti confiscati per lo svolgimento di indagini difensive in vista dell’eventuale revisione del processo.
Il muratore di Mapello è in carcere dal 14 giugno 2014, decisive le prove del Dna raccolte dopo aver passato al setaccio migliaia di profili genetici degli abitanti dell'area dove è avvenuto il delitto della tredicenne.

Diffamazione, per il giornalismo d’inchiesta vale un criterio di “verità attenuata”

di Francesco Machina Grifeo

Per la Cassazione, ordinanza n. 30522 depositata oggi, per il suo alto valore civile, più che la veridicità della notizia va valutato il rispetto dei doveri deontologici di lealtà e buona fede da parte del giornalisti.

Giudicando un caso di supposta diffamazione a mezzo stampa, la Cassazione traccia un vero e proprio “statuto” del giornalismo d’inchiesta. E lo fa agganciandolo direttamente all’articolo 21 della Costituzione che tutela la libertà di espressione. Il collegamento non è di immediata evidenza ma trova la sua ragione nel “ruolo civile e utile alla vita democratica” del giornalismo investigativo che dunque deve esistere ed essere tutelato anche se non approda ad una verità.

Il suo valore, infatti, spiega la Corte, risiede proprio nella capacità di stimolo nei confronti della collettività, al punto che se ne devono valutare gli esiti “non tanto alla luce dell’attendibilità e della veridicità della notizia, quanto piuttosto dell’avvenuto rispetto da parte del suo autore dei doveri deontologici di lealtà e buona fede».

È la deontologia dunque il vero argine posto dalla Suprema corte ad iniziative diffamatorie o comunque campate in aria che vengono spacciate per inchieste giornalistiche. Alle quali invece, purché ispirate dalla buona fede, viene dato un ampio via libera.

Nel caso specifico la Cassazione ha così ribaltato il giudizio della Corte di appello che aveva condannato il gruppo editoriale Gedi, ed alcuni suoi giornalisti, al risarcimento del danno nei confronti di un comandante dell’aeronautica - qualificato in una serie di articoli come «boiardo dei voli di Stato», «dinosauro della prima Repubblica» , «funzionario dalla tripla vita e dai tripli privilegi» - perchè avrebbe assicurato volo di Stato facili ai politici, con grande spreco di risorse, utilizzando velivoli della Cai riservati ai Servizi segreti (sulla vicenda vi sono state anche delle indagine della Corte dei conti poi finite nel nulla ed una richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di un ministro mai accordata dal Parlamento).

“L’attenuazione del canone di verità – si legge nella decisione - si giustifica alla luce del principio costituzionale in materia di diritto alla libera manifestazione del pensiero, quando detto giornalismo indichi motivatamente un «sospetto di illeciti» con il suggerimento di una direzione di indagine agli organi inquirenti o una denuncia di situazioni oscure che richiedono interventi amministrativi o normativi per potere essere chiarite, sempre che riguardino temi sociali di interesse generale, alla condizione che «il sospetto e la denuncia» siano esternati sulla base di elementi obiettivi e rilevanti; infatti, nel giornalismo d’inchiesta il sospetto deve mantenere il proprio carattere «propulsivo e induttivo di approfondimento», essendo autonomo e, di per sé, ontologicamente distinto dalla nozione di attribuzione di un fatto non vero”.

Vengono così parzialmente superati anche i tre caposaldi fissati dalla Cassazione nel lontano 1984 (con la sentenza n. 5259) in materia di libertà di stampa. In essa venivano individuati i tre presupposti in presenza dei quali si può parlare di legittimo esercizio del diritto di cronaca: la verità delle notizie pubblicate, la pertinenza delle stesse e la continenza espressiva. Il giornalismo di inchiesta, spiega la Corte, soggiace per le sue peculiarità, ad una disciplina in parte diversa e meno rigorosa rispetto a quella dettata per la cronaca o la critica giornalistica che sia priva dell’elemento investigativo.

“Invero - prosegue l’ordinanza -, opera una meno rigorosa e, comunque, diversa applicazione del requisito dell’attendibilità della fonte, fermi restando i limiti dell’interesse pubblico alla notizia e del linguaggio continente, ispirato ad una correttezza formale dell’esposizione, occorrendo valutare non tanto l’attendibilità e la veridicità della notizia, che il giornalista investigativo ha direttamente acquisito, quanto piuttosto il rispetto dei doveri deontologici di lealtà e buona fede oltre che la maggiore accuratezza possibile posta dal giornalista nella ricerca delle fonti e della loro attendibilità”.

Non passa dunque una lettura restrittiva della inchiesta giornalistica, affermata dalla Corte d’appello, e limitata alle sole ipotesi in cui il giornalista ricerchi ed utilizzi documenti inediti e/o testimonianze di persone o assista di persona a conversazioni o corrispondenza: soltanto in tali casi potendo dirsi che egli abbia svolto un ruolo attivo nell’indagine «a monte» degli articoli. Si deve, invece, affermare, argomenta il Collegio, che si resta nell’ambito del giornalismo d’inchiesta quando il giornalista operi una valutazione complessiva ed autonoma anche di circostanze note e di pubblico dominio, sottoposte a sua autonoma valutazione critica (quali, nella specie, i bilanci della CAI, la dotazione dei velivoli della CAI, pubblicata sul sito dell’Aeronautica militare, gli incarichi del capitano), nell’ottica dell’indagine o dell’inchiesta giornalistica su fatti di rilievo pubblico.

In definitiva per la Suprema corte va afferma il seguente principio di diritto: «In tema di diffamazione a mezzo stampa, il c.d. giornalismo d’inchiesta ricorre anche quando il giornalista non si limiti alla divulgazione della notizia, come nel giornalismo ordinario di informazione, ma provveda egli stesso alla raccolta autonoma e diretta della notizia, tratta da fonti riservate e non, anche documentali e ufficiali, con un lavoro personale di organizzazione, collegamento e valutazione critica, al fine di informare i cittadini su tematiche di interesse pubblico.

Esso, proprio per il suo ruolo civile e utile alla vita democratica di una collettività, implica la necessità di valutarne gli esiti, non tanto alla luce dell’attendibilità e della veridicità della notizia, quanto piuttosto dell’avvenuto rispetto da parte del suo autore dei doveri deontologici di lealtà e buona fede».

 

Niente multa ad amministratore e condomini per il cattivo uso dei cassonetti della differenziata

di Silvia Pascucci*
La Cassazione si pronuncia sulle sanzioni applicate ai condomini e all'amministratore per la gestione della raccolta differenziata

Sanzioni gestione contenitori raccolta differenziata

Con ordinanza n. 29427/2023 (sotto allegata) la Cassazione si è pronunciata sulle sanzioni applicate ai condomini e all'amministratore che non hanno rispettato gli obblighi di custodire, mantenere e utilizzare correttamente i contenitori per la raccolta differenziata.

La vicenda ha preso impulso dalla sentenza n. 4711/2020 emessa dal Tribunale civile di Roma, con cui veniva confermata la sanzione amministrativa applicata a dei condomini e all'amministratore condominiale per violazione delle norme contenute nel Regolamento comunale applicato, recanti la disciplina per la gestione dei rifiuti urbani.

Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso dinanzi la Corte di Cassazione, con cui, tra i vari motivi di impugnazione, veniva contestato l'obbligo di custodia del condominio dei contenitori per i rifiuti condominiali, nonché il fatto che la sanzione era stata applicata sulla base di un'impropria responsabilità oggettiva.

Principio di legalità in tema di sanzioni amministrative

In tema di sanzioni amministrative, l'art. 1 della legge 689/1981, stabilendo che "nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione", introduce anche per tali sanzioni (come avviene per quelli penali) il principio di legalità, che nella specie si esplica attraverso la previsione di una riserva di legge "relativa".

Ciò premesso, l'art. 14, comma 7, del regolamento comunale in esame prevede che gli utenti o l'amministratore del condominio sono obbligati a custodire, mantenere e utilizzare correttamente i contenitori assegnati rispettivamente all'utenza o al condominio con le corrette modalità e in luoghi idonei o in ambienti a ciò destinati.

In ragione del quadro normativo sopra rappresentato, la Suprema Corte ha evidenziato che, il regolamento comunale, in quanto fonte normativa secondaria, ha indebitamente derogato alla riserva di legge "relativa" contenuta all'art. 1, posto che, in base al sistema delle fonti normative, solo una legge di rango primario può introdurre e disciplinare sanzioni di natura amministrative.

La Corte ha dunque affermato che nel caso di specie "la fonte attributiva del potere regolamentare dei Comuni nella materia della gestione dei rifiuti urbani nell'anno di entrata in vigore del regolamento del Comune (in questione) era l'art. 21 del lgs. n. 22 del 1997. Tale norma, tuttavia, non contemplava la possibilità, né direttamente né indirettamente, nell'ambito della raccolta differenziata di cui alla lettera c) di introdurre una sanzione per la violazione dell'obbligo degli utenti o dell'amministratore del condominio di custodire, mantenere e utilizzare con le corrette modalità e in luoghi idonei o in ambienti a ciò destinati i contenitori loro assegnati."

In ragione dei principi generali sopra esplicitati, il Giudice di legittimità ha dunque statuito che l'atto sanzionatorio non trovi copertura legislativa.

Passando all'esame della posizione dell'amministratore condominiale, sanzionato in solido con i condomini con il medesimo atto amministrativo, per aver violato il regolamento comunale in tema di gestione dei rifiuti urbani, la Corte ha rilevato che "l'amministratore condominiale non è responsabile, in via solidale con i singoli condomini, della violazione del regolamento comunale concernente l'irregolare conferimento dei rifiuti all'interno dei contenitori destinati alla raccolta differenziata collocati all'interno di luoghi di proprietà condominiale, potendo egli essere chiamato a rispondere verso terzi esclusivamente per gli atti propri, omissivi e commissivi, non potendosi fondare tale responsabilità neanche sul disposto di cui all'art. 6, della l. n. 689 del 1981, avendo egli la mera gestione dei beni comuni, ma non anche la relativa disponibilità in senso materiale".

In ragione di quanto sopra riferito, il giudice di legittimità ha dunque deciso sul ricorso proposto e, previa disapplicazione del regolamento comunale in esame, limitatamente alle disposizioni sanzionano con una somma di denaro la condotta degli utenti e dell'amministrazione condominiale che non rispettino gli obblighi di custodire, mantenere e utilizzare correttamente i contenitori assegnati, ha cassato la sentenza impugnata senza rinvio, accogliendo le doglianze dei ricorrenti ed annullando gli atti con i quali sono state comminiate le sanzioni contestate.*

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La struttura sanitaria risponde dei danni riportati dagli utenti del servizio

Nel caso di responsabilità ex articolo 2051 c.c. la struttura sanitaria-custode, per esonerarsi da responsabilità, deve provare che il fatto presenti i requisiti dell'autonomia, dell'eccezionalità, dell'imprevedibilità e dell'inevitabilità e che sia, quindi, idoneo ad interrompere il nesso causale tra cosa in custodia e danno e il rapporto di custodia fra il soggetto e la cosa stessa, concretando così gli estremi del caso fortuito. Corte di Appello di Catanzaro con la sentenza del 9 agosto 2023.

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