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di  Giampiero Rossi

Aveva una vetrina in piazza Cordusio e vendeva articoli da regalo. Poi l'affitto insostenibile e la precarietà, fino alla coda al «Pane quotidiano» per un pasto

Anche oggi si è mescolata alla babele di lingue, fragilità, ruvidità, rassegnazioni e furbizie che ogni mattina si mette in coda per un pacco viveri. Non lo fa tutti i giorni ma è comunque una presenza assidua, conosciuta dai volontari e anche dai dirigenti dell’Opera Pia «Pane quotidiano», che offre cibo a chiunque si presenti ai cancelli. «Giusy e basta», si presenta, e accetta di raccontarsi per non dispiacere ai volontari che gliel’hanno proposto e perché è consapevole che la sua storia non merita di rimanere tra pochi. «Si deve sapere che una persona che ha sempre lavorato, arriva alla pensione in queste condizioni».

Classe 1947, nativa di Lipari, Eolie, Sicilia, ma parlata assolutamente milanese come tanti immigrati bambini. A Milano è arrivata quando aveva 3 anni, in pieno boom economico. Non sa dire neanche lei se da quel treno, finalmente fermo sotto le arcate della Stazione centrale, è scesa in braccio a papà o mamma passando dalla porta o se invece, come raccontano le immagini di allora, anche lei è stata trasferita da un abbraccio all’altro attraverso un finestrino nella calca di valigie di cartone. Però ricorda quando iniziò a lavorare: 11 dicembre 1969, un giorno prima della mostruosa esplosione in piazza Fontana.

È la tipica figlia di quell’immigrazione e di quella città, che dava opportunità e prospettive a tutti. E lei, tra i nebbioni e le luci di piazza Duomo — dove la dattilografa della pubblicità luminosa della carta carbone Kores ripeteva i suoi gesti all’infinito — ha trovato la sua vita, l’ha potuta costruire fino a mettersi in proprio, altra cosa molto ambrosiana: titolare di un negozio. Ma mica una bottega di periferia, no: una vetrina nientemeno che in piazza Cordusio, il salotto delle banche con vista su maschio del Castello Sforzesco e sulla guglia della Madonnina.

«Vendevo articoli da regalo» racconta modificando inconsapevolmente sguardo, timbro di voce e postura. Sembra di vederla dietro il suo bancone di piccola imprenditrice abituata a incrociare uomini incravattati e frettolosi che non chiedevano lo sconto e signore ingioiellate che dedicavano tanto tempo alla scelta del regalo e che lo sconto alla fine lo chiedevano. Fuori da quel negozio c’era Milano. E che Milano: «Salutavo tutti i giorni Giorgio Strehler, perché il suo teatro era proprio lì di fronte, e parlavo con sua moglie Andrea Jonasson, eravamo come vicine di casa, e c’era Renato De Carmine, l’attore, gran bell’uomo...». Erano anni belli, per lei e per Milano.

Poi racconta di quando si è ritrovata il conto corrente bloccato «perché era la banca di Michele Sindona». Le cose cambiano. «L’affitto del negozio continuava ad aumentare e non ci stavo più dentro» e allora la decisione di rimettersi in gioco nel mondo che cambiava: «Sono stata co.co.co, co.co.pro. e tutta quella roba lì, con il risultato che oggi mi ritrovo con una pensione da poco più di 600 euro. Mi dica lei come si fa a vivere a Milano con 600 euro? E meno male che mi è rimasta la casa».

Così anche lei viene al «Pane quotidiano» a riempire le borse con quel che c’è: oggi, per esempio, pasta, pane, frutta, formaggio magro, tiramisù confezionato, tutta roba donata da aziende o privati, che a conti fatti consente di limare le spese alimentari di 150-200 euro al mese. Sono i calcoli che, nella stessa coda di Giusy, fanno anche il pensionato Giovanni — che invece l’accento pugliese non l’ha perso affatto — e la giovane sarta ucraina Ludmila, in fuga dalla guerra con i suoi due splendidi bambini, la mamma dello Sri Lanka, casalinga per badare al figlio disabile, e le centinaia di persone che vengono da altri mondi, non sanno chi erano Strelher e Sindona ma conoscono l’indirizzo del «Pane quotidiano».(corsera.it)

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