di Agatha Orrico
“Stamattina ho aperto gli occhi come se non li avessi mai chiusi da 10 anni.
Mi sento diversa da tutti, tremendamente sola in questa violenta tortura che sembra non avere mai fine. Non mi consolano le ingiustizie subite dagli altri, non mi fanno sentire meno sola, anzi aumentano quella terribile sensazione di impotenza e inutilità di noi nel mondo. Mi sento tremendamente sola nella mia incompletezza, strappata, fatta a pezzi, mutilata! È così che vago nel mondo, forse nell’universo perché volo come un fantasma tra i miei sogni fossilizzati e i sentimenti cristallizzati.
Eppure quante immagini di questa vita in questi anni. Mi rivedo, sembra tutto normale. Lavoro, faccio la spesa, mi vesto, combatto, mi difendo, parlo con gli altri, ascolto, chiedo, rispondo, scrivo, sopporto, non mi sopporto, cerco di capire, non capisco, imparo, non imparo, cammino per chilometri, nuoto per chilometri senza arrivare mai.
Per un momento sono precipitata sulla Terra, quando mia figlia, da non so quale spazio lontano, è precipitata pure lei, a soli 10 anni, in tribunale a dire a giudici che decidono delle nostre vite, che vuole la sua mamma, che le manca, “datemi almeno il suo numero di telefono”…
Mi ha riportato al quarto mese in cui lei era nella mia pancia e io, dopo già tanto male subito, non sapevo più se fosse viva e mentre piangevo distrutta distesa sul letto con quel dubbio atroce di averla perduta, ho sentito per la prima volta la sua vita muoversi nella mia.
Allora questo amore esiste, è forte, è come l’ho immaginato, vissuto in tutti questi infiniti e incompleti anni. Esiste. Nonostante tutto, nonostante il tempo, il male, l’indifferenza, la crudele ferocia dell’essere umano.
Non capisco in quale girone dell’inferno siamo capitate e quanto debba ancora durare, per legge, questa non vita. Siamo interrotte da 10 anni. E il tempo passa. Siamo proprietà dello Stato”.
Lei da quel giorno semina e accudisce con amore le piante e i fiori di un magnifico giardino che ha chiamato “il giardino di Arianna”, lo stesso nome che diede a quella bambina che le hanno strappato dalle braccia, dopo che lei aveva denunciato il padre per molestie, quando aveva 18 mesi.
Il padre della bambina, i giudici, i tribunali, gli avvocati, le leggi: tutti sono colpevoli in questa storia che sembra infinita.
Ginevra Amerighi è una persona stimata, fa l’insegnante, è laureata in pedagogia ma in tutti questi anni non ha mai nemmeno potuto fare una telefonata alla figlia.
Ma com’è possibile tutto questo?
Tutto per aver denunciato quell’uomo per maltrattamenti, un uomo benestante e potente che può tutto, non c’è altra spiegazione. Col suo esercito di avvocati complici che si sono aggrappati ad ogni cavillo per costruire attorno alla sua persona un castello di sciocchezze, tra inesistenti disagi psicologici mai provati e farneticanti perizie a giustificare una lontananza lunga 10 anni che sa di vendetta. Sono anni che scrivo di donne violate e ogni volta riaffiora la questione economica, che penalizza chi è in difficoltà creando squilibrio.
Quando ho raggiunto al telefono Ginevra Amerighi – che vive in Sicilia – era il periodo pre Covid. Ginevra si era appartata in un’aula vuota della scuola dove insegna per parlare tranquillamente. Lei, che per i tribunali non sarebbe degna di essere mamma, è idonea a fare la maestra elementare di bambini che hanno l’età di quella figlia che le hanno tolto senza un motivo plausibile. Quale controsenso! Mentre parlavamo, ogni sua frase finiva per essere interrotta dai singhiozzi, come se quel dolore fosse recente, fresco, appena accaduto. E invece è un dolore antico, fuori dal tempo, come una ferita sempre sanguinante e mai disposta a rimarginarsi, perché rimarginarsi vorrebbe dire dimenticare, arrendersi, e arrendersi non si può.
Ho avuto l’impressione che per lei raccontare per l’ennesima volta a me, un’estranea, la sua storia, fosse un modo per alleggerire i pensieri e riaccendere la speranza di comunicare attraverso il mio articolo con quella figlia perduta e tanto amata.
Ascoltando Ginevra il dolore è palpabile, come uno strappo lacerante che non trova pace e mai ne troverà finchè questa vicenda non avrà un epilogo e smetterà di galleggiare in un limbo straziante che sa di perdita.
Quel giorno mi disse che era stanca, che aveva tutti contro, ma che non si sarebbe fermata mai. E che se continuava a parlarne lo faceva per Arianna, che un giorno avrebbe dovuto sapere. E’ per questo che condivide una sorta di diario sperando un giorno di poterlo consegnare alla piccola Arianna, da aprire come fosse una scatola zeppa di ricordi. Perché sappia che la mamma esiste, che non l’ha abbandonata e che non ha smesso nemmeno per un giorno di lottare per lei.
Mi si stringe il cuore pensando a Ginevra e alla sua Arianna, perché potranno tenerle lontane ma quella figlia è sua, è di questa madre.
E’ difficile scrivere di questa storia, fa male e non mi riesce di trovare le parole giuste senza andare a toccare nervi scoperti, ecco perchè ho continuato a rimandare, non basta aprire il diario di Ginevra, immergersi nel suo dolore. Lo faccio con la speranza che le parole varchino il recinto della nicchia social e arrivino laddove possano servire a qualcosa.
Leggendo da mesi questa commedia dell’assurdo ho capito che Ginevra Amerighi non ha e non ha mai avuto uno straccio di giustizia. Che le è stata strappata dal grembo una figlia di pochi mesi che ancora stava svezzando, lo stesso cucciolo che lei cercava di tutelare e proteggere da un padre manesco, e che questa ha il sapore amaro di una punizione ingiustificata e incomprensibile che sta scontando da un decennio. Una punizione simile non si riserva nemmeno ai peggiori criminali. Anche alle donne carcerate non si nega una visita, una telefonata, a volte le si concede perfino di tenere i figli in carcere, ma a Ginevra no, questo non è concesso, perché?
Ginevra è vittima di una subdola e malcelata violenza istituzionale. Di un uomo, il padre di Arianna, potente, condannato per lesioni verso la sua compagna e per altri intrallazzi finanziari che lo legano a vicende giudiziarie poco chiare, ma che continua a vivere con la figlia alla quale impedisce di vedere e di sentire la mamma. Questa in-giustizia, questo accanimento, questa violazione di diritti ledono non solo Ginevra, ma anche una bambina che sta crescendo come se fosse orfana di madre.
E allora diciamolo che a separare queste due anime non è stato un destino beffardo ma la volontà e la cattiveria di esseri che di umano non hanno niente!
Scrive Ginevra: “Sono stata madre per qualche mese. Il tempo di produrre, allattare, svezzare e vaccinare la mia bambina. Come un animale, anzi come due animali d’allevamento siamo state trattate io e mia figlia. Separate anche prima del tempo che di solito si dà ai cuccioli di cane.
Arianna, che oggi ha quasi 11 anni, è stata rapita e sequestrata da 10 anni e visto che è stato lo Stato a macchiarsi di questo gravissimo crimine, per questo si protrae così a lungo il sequestro e non c’è riscatto legale che tenga, devo contare solo e solamente nella buona riuscita della ricerca della propria madre da parte di Arianna. Mi sta cercando”.
Ginevra non può continuare a portare da sola il peso di questo sopruso, denunciare un uomo maltrattante non può avere come contraltare perdere i propri figli.
Questo non è un film, è vita vera, nuda e cruda, sempre ammesso che di “vita” di possa parlare. Sappiamo quanto la giustizia sia volubile, spesso ingiusta. E’ una battaglia che tutte noi, madri, donne, sorelle, ma anche uomini e padri che abbiano un minimo di coscienza, abbiamo il dovere di combattere insieme a lei.
Un giorno giustizia verrà fatta, bisogna solo capire quando, e allora sarà il tempo di pagare per tutti questi anni di abbracci negati.
Pretendiamo tutti giustizia per questa grande Donna che, anche se in jeans e maglietta sembra un’adolescente, ha il cuore stanco. Per lei che non si è mai arresa, per la sua sopportazione, per quel suo vivere tra le macerie dei ricordi, per il suo dolore. E per tutte le altre, costrette a combattere nei Tribunali per ottenere quello che dovrebbere essere un diritto sacrosanto e che invece rischia di trasformarsi nell’incubo più spaventoso di tutti.(stayrockforever.it)