di Giuseppe Selvaggiuolo

alessandropajno25082016 SmallL’attività giurisdizionale opera in una realtà sociale fluida e ne costituisce un’espressione. Se di ciò non ha consapevolezza, rischia di diventare autoreferenziale». Alessandro Pajno, magistrato figlio di magistrato, più volte capo di gabinetto di ministri tra cui l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella, da un anno e mezzo presiede il Consiglio di Stato, organo supremo della giustizia amministrativa. La sua ultima relazione si è caratterizzata per un lessico sorprendente: società liquida, diseguaglianze, paura, futuro...  

Qual è la parola chiave?  

«Fiducia. La fiducia è l’elemento più rarefatto della società contemporanea, la crisi investe tutte le istituzioni. La giustizia amministrativa incrocia il rapporto tra potere e società: noi giudichiamo la qualità delle risposte che il potere dà ai cittadini». 

Quali tendenze vede nella società, dalla vostra frontiera? 

«Due spinte contrapposte. Da un lato la globalizzazione, dall’altro un riflesso identitario, l’esigenza di ri-valorizzazione dei confini. Nel contenzioso emergono in modo prepotente. Prima prevaleva quello economico, ora crescono questioni sociali, nuovi diritti . Cambiano le aspettative, cambia il ruolo del giudice». 

Cresce anche l’insofferenza per il ruolo del giudice?  

«Prende aspetti diversi. Frustrazione del cittadino per una giustizia lenta o insoddisfacente e difficoltà di accettare il controllo giurisdizionale. Oggi la critica principale al giudice amministrativo è che si occupa di tutto, dando al cittadino un eccesso di tutela nei confronti del potere pubblico». 

C’è un fondo di verità?  

«Zygmunt Bauman ha definito la società postmoderna società dell’incertezza, in cui una quota di sicurezza è stata scambiata con una quota di libertà. Lo scambio genera paura. Disuguaglianze, precarietà lavorativa e immigrazione l’alimentano. Ciò attribuisce alle corti superiori un compito nuovo: contrastare incertezza e paura». 

Qual è il problema principale?  

«Il groviglio è sempre più intricato, le fonti di diritto si moltiplicano e sovrappongono, territorio e potere si scindono. L’eccesso di regolazione viene usato come illusorio antidoto alla crisi di fiducia. Il diritto è in bilico tra vecchi confini e spazi aperti, con regolazioni globali dettate da regolatori senza territorio. Il giudice deve ricomporre questo iato». 

C’è uno specifico italiano?  

«Due emergenze si scaricano sul giudice. La prima è la legge. O è troppo particolare, come un provvedimento amministrativo, o a maglie troppo larghe, indicando vagamente i fini senza preoccuparsi degli strumenti per realizzarli. A ciò si aggiunge l’ipertrofia normativa». 

La politica, però, addebita al giudice l’eccesso di sentenze controverse e interpretazioni difformi.  

«Si scambia il medico con la malattia. La società è conflittuale, quella italiana oltre il fisiologico. Il conflitto politico su una legge si riproduce allo stesso modo sulla successiva sentenza. In un sistema a legislazione confusa, inevitabilmente il giudice lavora per categorie generali e contribuisce a creare diritto». 

E la seconda emergenza?  

«La pubblica amministrazione. Scarsa qualità, scarsa fiducia in se stessa. Terrorizzata dall’ipotesi di essere chiamata a rispondere della sua azione, chiede che a decidere siano la legge o la sentenza, azzerando la discrezionalità». 

E i giudici, l’emergenza non li riguarda?  

«I giudici devono fare i giudici. Esercitare l’indipendenza: all’interno, contro le chiusure corporative, e all’esterno, contro ogni condizionamento, compreso quello del populismo che chiede di assecondare gli umori del momento. E rifiutare una giurisdizione che si arroga scelte politiche e amministrative: noi controlliamo che il potere agisca nel quadro delle regole, non ci sostituiamo a esso». 

Su quali fronti siete impegnati?  

«La consapevolezza dell’importanza del rapporto tempo-processo e quella delle conseguenze sociali, economiche e politiche delle sentenze». 

Lei insiste sulla stringatezza delle sentenze.  

«Le sentenze sono soluzioni argomentate a casi concreti, non trattati». 

Società liquida, confini mobili tra poteri, paura e incertezza, riflessi identitari. Qual è la minaccia principale allo stato di diritto?  

«Mai come oggi le garanzie nell’accesso al giudice e nel controllo di legalità sono state ampie. Ciò ha prodotto un riflusso: la politica rivendica il suo primato e una parte della società reclama certezze e speditezza delle decisioni, anche se a scapito dei diritti individuali. Dobbiamo evitare che queste giuste esigenze comportino meno garanzie per la persona e il rischio di una deriva autoritaria».(lastampa.it)

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