di Laura Montanari

 

Si sentono sotto tiro: «Prima le Province, adesso noi», dicono con la brutta sensazione di chi vede avvicinarsi un capolinea. «Vogliono farci passare come gli spreconi, è partita la campagna per cancellarci, ma ci difenderemo », ripetono uno dopo l’altro.

Si sono dati appuntamento una settimana fa a Volterra, fra le colline della Toscana, tanto per cominciare a contarsi: 112 sindaci di piccoli Comuni, di borghi di montagna, di paesi sulle isole, di centri sgranati lungo le pianure.

Nomi semiclandestini della geografia come Piteglio (Pistoia), Montieri (Grosseto), Inverno e Monteleone (Pavia), Motta Montecorvino (Foggia), Colleretto Giacosa (Torino), Montegabbione (Terni), Ostrense (Ancona) eccetera, eccetera. Da nord a sud, da est a ovest fioccano le adesioni.

 

Foto ricordo con fascia tricolore davanti al palazzo comunale che è fra i più antichi d’Italia: Palazzo Pretorio, posa della prima pietra anno 1208. Anche le immagini di sfondo sono importanti in certe battaglie, diventano simboli nella giornata dell’Orgoglio comunale come è stato un po’ pomposamente ribattezzato il raduno. Parte da lì la battaglia per dire no «alle fusioni obbligatorie per i Comuni al di sotto dei 5000 abitanti».

Il nemico è una proposta di legge parcheggiata nella commissione affari costituzionali della Camera, primo firmatario Emanuele Lodolini (Pd). «Qui gli schieramenti non contano», mette le mani avanti Sergio Pirozzi, primo cittadino di Amatrice, comune sui monti in provincia di Rieti: 2.648 anime in un territorio di 174 chilometri quadrati.

Pirozzi ha due lavori: fa l’allenatore di calcio «in serie D» e il sindaco. «Per la carica di sindaco ricevo 650 euro netti al mese e non ci vivo. Cosa vogliono tagliare? Cosa pensano di risparmiare? Vengano a vedere cos’è l’Italia vista da qui, dai nostri piccoli comuni ogni volta in lotta perché ci vogliono tagliare il presidio ospedaliero, perché la scuola riduce le classi, la posta chiude uno sportello».

Pirozzi è uno dei fondatori dell’Associazione Comuni dimenticati che ha raccolto circa 150 adesioni sparse per la Penisola, non soltanto dei sindaci che si sentono sotto tiro dalla proposta di legge Lodolini, ma anche di quelli più grandi, come Volterra che di abitanti ne fa 11mila:

 

«Dobbiamo creare un fronte comune, dire che non contano soltanto i numeri e l’ottimizzazione delle risorse — spiega il sindaco Marco Buselli a capo di una lista civica — chi vive nei piccoli centri è già svantaggiato sul fronte dei servizi: se non vogliamo che la gente se ne vada via, serve un cambio di rotta. Servono investimenti, non tagli».

Quello della fuga dai piccoli centri è un problema che va avanti da anni, un flagello. Flavia Loche lo sa bene, è il sindaco di Tonara, un paesino sardo della Barbagia Mandrolisai: «In dieci anni il mio paese ha perso 700 abitanti — racconta — e in cinque tutta questa parte della Barbagia ha visto chiudere una dopo l’altra cinquemila case». Cartelli con la scritta «vendesi» o edifici decrepiti abbandonati uno dopo l’altro.

Il sindaco di Montieri, paese di montagna nel grossetano, per frenare il fenomeno che vede popolarsi il borgo di case decadenti ha provato a inventarsi un progetto: Una casa al prezzo di un caffé:

 

«Sto convincendo chi ha lasciato il paese a vendere gli stabili a un prezzo più basso rispetto al mercato — spiega Nicola Verruzzi, sindaco Pd — abbiamo appena concluso una trattativa per un appartamento di 70 metri quadri in centro venduto a 13mila euro. Il nuovo proprietario si impegna a ristrutturarlo entro tre anni».

Verruzzi non si illude di risolvere con questa operazione la fuga dal paese, ma almeno di richiamare nuovi villeggianti: «L’idea di decidere per legge la fusione dei Comuni al di sotto dei 5.000 abitanti è sbagliata — riprende — noi facciamo già rete con le amministrazioni vicine, per esempio abbiamo la polizia municipale, una sola stazione per gli appalti e altri servizi associati. Su cosa possiamo ancora razionalizzare?».

L’onorevole Emanuele Lodolini, firmatario della proposta di legge è consapevole di aver scatenato le proteste: «La mia voleva essere in un certo modo una provocazione, abbiamo progettato la fusione obbligatoria per i Comuni al di sotto dei 5.000 abitanti per fissare un tetto, ma abbiamo ipotizzato di lasciare due anni di tempo per decidere come e con chi, altrimenti procederanno le Regioni.

Conosciamo — prosegue il deputato — l’importanza dei Comuni nella gestione dei territori e vogliamo rafforzarli, dare loro più risorse e metterli in grado di gestirle meglio. Del resto la fusione è premiata con finanziamenti già nella legge di stabilità». In Italia sono circa 200 i Comuni che sono andati volontariamente in quella direzione.

 

«Nella mia zona tre Comuni si sono fusi, Trecastelli, in provincia di Ancona — riprende Lodolini — e insieme hanno più risorse e sono riusciti persino a ridurre le tasse». Il fatto è che diversi sindaci di piccoli borghi vivono l’obbligo delle fusioni come un’imposizione dall’alto che non tiene conto delle differenze che ci sono sul territorio e in cui anche la geografia fa sempre la sua parte:

«Guardi che se invece della fusione si decidesse per l’unione a me va bene lo stesso», concilia Lodolini. Proprio in quella direzione sembra muoversi l’Anci, l’Associazione nazionale dei Comuni:

«Abbiamo presentato una proposta al governo — spiega il vicepresidente Matteo Ricci — per riorganizzare gli 8mila comuni italiani in 1.500-1.700 Unioni dei Comuni, saranno i sindaci a individuare i bacini omogenei e a mettere insieme almeno tre funzioni. Su quali siano queste funzioni stiamo ancora riflettendo... ».

 

La differenza è che con l’unione restano al loro posto i vari consigli comunali e i sindaci, con la fusione no. «Non è un problema di poltrone, ma di poter governare meglio le città — è il pensiero del sindaco Pirozzi — non posso chiedere a chi abita in un piccolo paese come il mio, Amatrice, che già ha una serie di svantaggi per la scuola dei figli, la sanità, la banda larga, di fare chilometri per andare a fare un certificato.

Bisogna piuttosto detassare le imprese che investono nei piccoli borghi, mantenere i servizi e soprattutto i presidi ospedalieri». Essere piccoli a volte significa faticare a far sentire la propria voce:

«Io ho aderito alla rete dei Comuni dimenticati proprio per questo, per poterci far ascoltare — interviene ancora Flavia Loche il sindaco di Tonara a capo di una lista civica che è un misto di schieramenti, indipendentisti compresi — Io propongo, come ho spiegato a Volterra, di andare verso una fiscalità di diritto, la gente che abita nei piccoli centri deve pagare per i servizi che riceve e che, dalla sanità ai trasporti sono inferiori a quelle dei centri più importanti ».(Repubblica.it)

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