mgiacomantonio1di Michele Giacomantoniobnatale59

A Lipari, nella Parrocchia di S. Pietro è cominciato bene l’anno della Misericordia. Proprio domenica 20 mattina alla Messa delle 9 Mons. Gaetano Sardella ha voluto informare i fedeli di alcuni risultati: è iniziata la raccolta fondi per il rifacimento della facciata della chiesa parrocchiale e si sono avviate tre iniziative caritative (riprende il Banco alimentare, si apre il Socialmarket e si sperimenta una colletta libera di generi alimentari nella settimana di Natale.

Fino ad oggi la raccolta di fondi che sta facendo la prof.ssa Maria Carnevale per il rifacimento della facciata di S. Pietro ha prodotto € 4.300,00: 1.300,00 da offerte consegnate brevi manu a Maria e 3.000,00 da bonifici bancari tutti da 1000,00 € inviati da Maria Astraldi, Rosanna Maggiore, Licia Torina. Come si sa le spese per la pitturazione ed il restauro dell’jnterno della Chiesa ammontanti a 10.000,00 € sono state tutte saldate mentre, proprio stamattina, don Gaetano ha annunziato che i lavori per la facciata inizieranno con l’anno nuovo e termineranno sicuramente in primavera prima del 29 giugno festa di S.Pietro.

Ma don Gaetano ha anche parlato di tre importanti iniziative a favore delle famiglie disagiate realizzate grazie alla Caritas e ad alcuni benefattori.

La prima iniziativa riguarderà la prossima apertura di un Socialmarket, promosso dalla Caritas, nei locali dell’ex Seminario che venderà generi alimentari a  prezzi fortemente scontati.  Per potervi accedere sarà necessario essere iscritti negli elenchi degli indigenti rilasciato dal Comune.   

La seconda iniziativa, sempre ad opera della Caritas e sempre nei locali dell’ex Seminario, è la ripresa del Banco alimentare che era stato momentaneamente sospeso. Sabato 12 dicembre  c’è stata un’altra raccolta al Supermarket di Lipari con i seguenti risultati:

Pasta 514  kg., Riso 44 kg, Latte 252 litri, Salsa in bottiglie 153, Salsa in lattine 86, Zucchero 67 kg., Legumi in busta 59, Legumi in lattine 46, Farina 25 kg., Formaggini 8 scatole, Olio 27 litri, Omogeneizzati 43, Pastina Plasmon 7, Biscotti 224 scatole, Marmellata Nutella 18 barattoli, Tonno/carne il scatola  20 scatole, Succhi di frutta 18, Cioccolattini 20 confezioni, Pannolini 2 confezioni, Caffè 12, Panettoni 34, Varie 6.

La distribuzione avverrà Lunedì 21 dicembre dalle ore 15.30 alle 17.30 fra avevano fatto domanda alla Caritas certificando la situazione di indigenza.

La terza iniziativa si svolgerà dentro la Chiesa di San Pietro nelle giornate di lunedì 21, martedì 22, mercoledì 23, giovedì 24. Nella cappella del Santissimo, prima della Sacrestia dove è allestito il Presepe, saranno a disposizione libera di chi  ne ha bisogno – dalle 9 del mattino sino alla funzione della sera - generi alimentari offerti dalla Spiga d’Oro, dal Supermercato e di quanti vogliano generosamente aggiungersi portando la loro offerta. Per accedervi non c’è bisogno di alcun certificato e non bisogna essere iscritto in elenchi particolari. Ne farà fede la coscienza di ciascuno.

Il successo di questi gesti di solidarietà nell’anno della Misericordia dipenderanno da ciascuno di noi e dall’impegno che soprattutto la terza iniziativa non rimanga una esperienza solo natalizia ma possa, ad esempio, essere legata alla Messa domenicale. Se ogni domenica andando a Messa ciascuno portasse un pensiero, un dono e lo lasciasse nella cappella del Santissimo a disposizione di chi ne ha bisogno allora l’Eucarestia acquisterebbe un significato tutto particolare e la condivisione e la comunione oltre nel mistero sacramentale si esprimerebbe anche in una solidarietà e fraternità visibile. Potrebbe essere questa una delle tante stradelle che porta al nuovo Umanesimo di cui si è parlato a Firenze?

La chiesetta del Pozzo è stata fin dagli inizi, nel 1771, un punto di riferimento per i piccoli artigiani e commercianti e gli strati più umili della popolazione e probabilmente venne creata proprio per questo.

Quando il canonico Franza, nella seconda metà del 700, comincia a pensare ad una chiesetta in un terreno della sua famiglia in quella che si chiamava “vico del pozzo”, sul greto di un torrente su cui si aprivano orti e, sempre più, anche botteghe di piccoli artigiani ed i carretti di chi vendeva legumi, frutta ed altri generi alimentari, la vera Lipari era ancora nella cinta del Castello, e quelli che vivevano in quella parte, sotto le mura, era la gente più umile.

Due immagini della chiesetta negli anni 40 del 1900.

Era vero che già da un secolo e più,  via via che fra la gente andava diminuendo la paura delle incursione barbaresche e le autorità chiudevano un occhio sul fatto che c’erano disposizioni contro chi costruiva fuori dalle mura, la città andava espandendosi nella parte bassa. Avevano cominciato gli strati sociali più poveri, che non trovavano spazio nella città alta, a costruire le loro case fra il torrente e le mura del Castello, per lo più anguste, di uno o due vani, realizzate con materiale economico e quindi per lo più scadenti, con una piccola cisterna e prive di servizi igienici, con pavimenti sconnessi, di semplice battuto, le une accostate alle altre disegnandolo vicoli strettissimi in terra battuta perennemente sporchi e maleodoranti perché vi si vuotava di tutto persino i pitali con  gli escrementi della notte.

Poi dal Castello cominciarono ad andarsene anche le famiglie borghesi che,  oltre ad un benessere crescente, avvertivano una evoluzione nei gusti e nelle esigenze per cui le abitazioni al Castello erano troppo anguste e, non potendole ampliare, – introducendovi i servizi igienici e i nuovi spazi di convivialità e di rappresentanza - pensarono di costruire nella città bassa. I commercianti e gli armatori scelsero di risiedere nei pressi della marina mentre la nobiltà terriera ed altri borghesi ritennero importante poter disporre, dietro la loro abitazione, di uno spiazzo di terreno da destinare ad orto e a  giardino con un pergolato sotto il quale passeggiare e sostare all’ombra per conversare. E comunque gli uni e gli altri in zone ben distinte da quelle occupate dalla povera gente.

Sorsero così le abitazioni, anche su due piani, nella Marina di San Giovanni proprio di fronte al mare, sul lato destro della salita di S. Giuseppe, lungo il Timparozzo, nella strada di S. Pietro che si chiama oggi via Maurolico, lungo la strada dei Bottài , oggi via Roma, e qualcuna più in su nel vallone Ponte.  La Marina di San Giovanni, che arrivava fin dove oggi c’è il vicolo di Sant’Antonio e con l’omonima chiesetta dominava la spianata e il mare, venne ridotta dalle costruzioni delle famiglie La Rosa, De Pasquale, Carnevale.  Erano abitazioni dai “caratteristici prospetti ad intonaco colorato, spezzati da bianchi rifasci orizzontali, i sobri cornicioni correnti alla sommità, i portali ad arco, di pietra, i balconi, anch’essi di pietra, con ringhiere a ‘petto d’oca’ onde consentire alle donne di affacciarsi agevolmente sulla via nonostante indossassero le ingombranti crinoline a campana (Giuseppe Iacolino)”.

Chi, invece, decise di costruire lungo il torrente lo fece sul versante opposto a quello del Castello con le abitazioni che si aprivano sul verde dell’antica necropoli di Diana.

Piazza San Giovanni

Quindi una Lipari che nasceva  marcatamente polarizzata, segnata dalla distinzione in classi sociali. La Lipari dei poveri nei vicoli intorno al Pozzo, la Lipari borghese ed agiata a partire dalla Marina San Giovanni, su su fino a toccare, ma senza confondersi, con la Lipari dei poveri.

Il pozzo che dava il nome al vicolo, dove il canonico Franza aveva deciso di costruire la sua chiesetta, non era uno di quelli che i più anziani  ricordano ancora ed i più giovani hanno imparato a conoscere nei disegni di Salvatore d’Austria, collocati dinnanzi al cancello del Palazzo Vescovile. Le “gibbie” non c’erano ancora e nemmeno il cancello. Questo pozzo  era una “senia”, come diverse ce n’erano a Lipari, ed infatti il vero nome con cui i liparesi  conoscevano quel vicolo era “u strittu a sena”. “Sena” o “senia”  è un termine che deriva dall’arabo sàniya che significava “ruota idraulica”, pozzo.

U Strittu a sena nella seconda metà dell’800

Una chiesetta quindi per il popolo e per i poveri era quella a cui pensava il canonico Franza e i poveri, che a Lipari erano tantissimi, erano affidati - più che all’Amministrazione civica ed ai Giurati - al Vescovo ed alla Diocesi che vi provvedevano con i fondi della mensa vescovile che non erano poi moltissimi. Tremila scudi in genere l’anno di cui, desunte tutte le spese,  rimanevano a disposizione solo 1.685 scudi con i quali fare fronte alle esigenze della povera gente ed allo “stato di bisogno della Chiesa”. Le chiese che, tolte pochissime, erano per lo più magazzini angusti con povere suppellettili, e, un clero tanto numeroso quanto ignorante. Infatti, se la borghesia che esprimeva l’amministrazione comunale, non era molto incline al Vescovo ed ai preti perché da sempre era schierata - come aveva dimostrato la “controversia liparitana” -con le autorità di Palermo o Napoli ( a seconda dei tempi), la nobiltà terriera era invece, in genere, molto devota alla Chiesa e , in queste famiglie, vi era sempre un ecclesiastico come non mancavano una o due figlie che prendevano il velo in privato. Soprattutto per le donne, le cosiddette “monache di casa”, la ragione era quella di evitare la frantumazione della proprietà mantenendola concentrata in una ristretta cerchia di eredi, per i maschi che intraprendevano la carriera ecclesiastica vi era anche la propensione ad una promozione sociale per sé e per la propria famiglia e la speranza di potere lucrare una parte delle entrate della mensa vescovile e delle offerte per le messe e le funzioni religiose in genere. E così nelle Eolie si potevano contare  95 sacerdoti, 8 diaconi, 5 suddiaconi, 5 accoliti e due lettori. Venti - venticinque erano i frati che risiedevano nei due conventi dei Minori e dei Cappuccini.

E proprio negli anni in cui il canonico Franza pensava a realizzare una chiesetta per i suoi poveri ed i suoi artigiani il vescovo Platamone portava un suo contributo alla valorizzazione della Lipari dei poveri e degli artigiani, rendendo agibile la residenza di villeggiatura, l’attuale Palazzo Vescovile,  ospitando anche la curia ed il tribunale ecclesiastico giacché  l’antico Palazzo  vicino alla Cattedrale era quasi del tutto crollato. Sopraelevò il primo piano ricavandone sei vani e realizzò un bel vialetto colonnato, ombreggiato da viti che andava verso la via di S. Lucia.

Mons. De Francisco

Il vescovo De Francisco, che successe a Platamone, era cosciente che il futuro di Lipari stava sempre più nella città bassa e quindi autorizzò la costruzione della chiesa della Madonna del Rosario al Pozzo che si affiancava a San Pietro e San Giuseppe. Erano gli anni in cui anche a Lipari, come nel resto della Sicilia, cresceva la consapevolezza degli artigiani e dei piccoli proprietari terrieri che non condividevano l’atteggiamento di gran parte della borghesia di osteggiare il vescovo e la chiesa. E  questa consapevolezza si tradusse nella creazione di una forma di vita associata a carattere religioso.  Ben 104 artigiani si riunirono nella “Congregazione di Nostra Donna del SS.mo Rosario” con riferimento probabilmente alla chiesetta del Pozzo ed il vescovo approvò lo statuto degli “Onorati Artisti della  Nobile e Fedelissima Città di Lipari”.

Ma il successo con gli artigiani e la borghesia più povera e forse anche la volontà del Vescovo di valorizzare le risorse naturali di Vulcano che era un’isola abbandonata, invelenì ancora di più la borghesia tradizionale che reagì con la maldicenza e le calunnie nei confronti di mons. De Francisco come l’accusa infame di fare perire i bambini abbandonati – i cosiddetti projetti – per non dovere provvedere al loro nutrimento. Ma questa volta i signori di Lipari avevano oltrepassato il segno e a difesa del vescovo si schierò lo stesso vicerè di Sicilia minacciando di perseguire penalmente i calunniatori. Ma questa decisa presa di posizione del Regno purtroppo arrivò troppo tardi perché tensione e dispiaceri stroncarono il Prelato. 

Ma al di là delle calunnie comunque qualcosa stava cambiando nel Regno  nei confronti dei privilegi ecclesiastici e quindi anche circa le pretese dei vescovi di Lipari sulla proprietà delle isole. L’illuminismo del secolo ma forse anche la lezione riformatrice di Maria Teresa d’Austria, suocera del re, spingevano verso una secolarizzazione dell’amministrazione statale. Probabilmente a Lipari, le velenosità di alcuni nobili e borghesi nei confronti dei vescovi, si alimentava a questo clima e secondo una consuetudine, che si trascina fino ai nostri giorni, non avendo questi il coraggio e gli argomenti per esprimersi a viso aperto, ricorrevano alle calunnie e all’anonimato.

E questo malgrado di fronte ai terremoti ed ai disastri naturali, come avvenne proprio nel 1771, la gente tornava a cercare protezione nella religione ed  organizzava  grandi processioni penitenziali con in testa il clero, i frati ed il magistrato, l’immagine dell’Addolorata, la reliquia di S. Bartolomeo e poi ancora le immagini di S. Agatone e S.Calogero e dietro tutto il popolo.

Mons. Coppola

Ma questa fede che ha bisogno di vivere il pericolo per ravvivarsi, non può soddisfare un vescovo come Coppola che giunge a Lipari nel 1779 quando la chiesa del Pozzo opera già da alcuni anni ed è diventata il punto di incontro degli artigiani e commercianti che si stringono intorno alla Chiesa. Subito ai suoi occhi emergono due esigenze urgenti: la formazione del clero che è per lo più ignorante e la condizione delle donne relegate a svolgere in famiglia un ruolo servile e fuori, sulle strade, la più sfrontata prostituzione.

Ed è proprio per dedicarlo alle donne che mette mano alla costruzione, vicino al Palazzo vescovile del Borgo, di “un magnifico edificio”, realizzato in tre elevazioni, per tre distinte categorie di ospiti: le orfane, le donne che volontariamente “vogliono ritirarsi dal cattivo costume” e che venivano allora chiamate “repentite” cioè’ “ree pentite” e le vere e proprie educande. Ma c’erano anche problemi immediati come quello dell’acqua e ad uno studioso di agricoltura come era mons. Coppola, non potevano bastare le processioni per implorare la pioggia e per questo “ordinò la costruzione di tre ampie e profonde gisterne; due  avanti la gran porta del palazzo; l’altra innanzi la Chiesa del Rosario”.

Infine, ancora un tocco e il nuovo centro storico di Lipari sarà disegnato. Infatti nel 1782,  trasferì nel borgo, “nel recinto del Vescovile Palazzo”, il “Seminario delle Lettere” che i suoi predecessori avevano istituito sul Castello. Costruì cinque aule a piano terra – proprio di fronte al conservatorio delle donne - ed in esse fece altrettanti seminari di insegnamento aperti al pubblico.

Con l’arrivo a Lipari della colonia dei coatti che occupa il Castello negli ultimi decenni del ‘700 anche gli ultimi abitanti Liparesi lo abbandonano e scendono nella città bassa che diventa a pieno titolo la città di Lipari.

Una delle immagini più antiche del corso. Siamo nell’ultimo decennio del 1800.

Ora la Lipari moderna può dirsi delineata con al centro il Pozzo e la sua chiesetta che rimaneva sempre la chiesa della gente più umile ma forse ora un po’ meno marginale e polarizzata perché con lo sviluppo dell’agricoltura e dei commerci andava proponendosi una classe media che faceva da ponte fra la borghesia e il popolino . Così la Lipari delle attività commerciali ed artigiane era venuta sviluppandosi nei quartieri intorno alla Marina di S.Giovanni che, da qualche tempo, aveva preso il nome di Piazza del Commercio, la salita che dalla Marina arrivava al Timparozzo, quindi la strada di Santo Pietro – l’attuale via Maurolico – e quindi la strada del Pozzo venendo a collegarsi ed in qualche modo ad integrare la Lipari dei poveri.

Lungo l’attuale Marina lunga che allora si chiamava  Marina San Nicolò, le poche casupole di pescatori che vi erano all’inizio del secolo con le loro barche tirate a secco dinnanzi, erano venute aumentando di numero ed in fondo, un po’ distaccata dal resto, vi era sempre la chiesetta di San Francesco di Paola che verrà poi rinominata Maria SS.di Porto Salvo con a fianco l’ospedale di San Bartolomeo per soli uomini che aveva voluto il facoltoso commerciante don Bartolomeo Russo morto nel 1712.

Il Piano del Pozzo cominciava, ora,  a registrare una vivacità pittoresca con le botteghe artigiane – stagnari, fabbri, falegnami, tintori, barbieri, sarti, calzolai -, le bottegucce dei piccoli commercianti, le taverne numerose anche se sudice. E poi, fin dalle prime ore del mattino, il vocio dei rumori di facchini e di carrette che con secchie e barilotti venivano ad attingere acqua alle gibbie.

Già intono agli anni 30 la Piana del Pozzo, malgrado si trattasse di un greto limaccioso ed accidentato, andava assumendo una precisa caratteristica con alcuni edifici pubblici importanti. Vi era, nell’arco di un centinaio di metri o poco più, la Chiesetta del Rosario con di fronte l’ospedale dell’Annunciata; più avanti, in direzione della chiesa di San Pietro, le due gibbie con dietro le scuole vescovili da un lato e dall’altro in grande fabbricato del Conservatorio con all’angolo la cappella dell’Addolorata; sullo sfondo l’edificio del Palazzo vescovile.

La separazione della Strada del Pozzo dalle scuole e dal conservatorio femminile che si trovavano ai lati dell’attuale viale mons. Bernardino Re, con un muro orlato ed un grande cancello di ferro avverrà intorno al 1840 per volontà del vescovo Proto.

Fu per la trasformazione dell’abitato e lo sviluppo della città bassa che la chiesa di S.Pietro, il 4 giugno del 1808 divenne chiesa sacramentale e chiesa filiale della Cattedrale come lo era già quella di S. Giuseppe.

 

----La Chiesa italiana ha avviato a Firenze dal 9 al 13 novembre una grande riflessione a partire dalla Evangeli gaudium su "In Gesù Cristo il nuovo umanesimo". E venerdì 13 novembre, non si era ancora spento l'eco dei canti, delle preghiere e degli applausi nelle sale e nelle basiliche di Firenze "abitate" dai delegati del V° Convegno nazionale che l'orrore sconvolgeva Parigi provocando oltre un centinaio di morti, ed un clima di guerra che dalla Francia tende a diffondersi a tutto il mondo. Il messaggio della Chiesa italiana assume così un'enfasi particolare sottolineando l'urgenza di promuovere un nuovo patto sociale fra gli uomini ed i popoli che garantisca convivenza, pace, cooperazione per una vita buona e per lo sviluppo.
A Firenze, l'Arcidiocesi di Messina vi ha partecipato con otto delegati e fra questi Mons. La Piana ha voluto inserire anche me come eoliano.
Così Mons. Gaetano Sardella mi ha chiesto di avviare il prossimo venerdì 4 dicembre, nella Chiesa Parrocchiale di San Pietro, alle 19 circa, dopo la Messa delle 18, una riflessione su questo importante avvenimento a cui hanno preso parte tutte le Diocesi italiane e che ha visto Papa Francesco svolgere, da par suo, il ruolo di primo protagonista.
Che cos'è un umanesimo? E' una cultura, un modo di rapportarsi alla realtà, di vivere il mondo è la storia. Ed un umanesimo cristiano? Quando una cultura ed un modo di vivere si ispirano o sono ispirati, per buona parte, dal cristianesimo, almeno in filoni significativi, si usa parlare di umanesimo cristiano. Nei secoli abbiamo avuto diversi umanesimi che sono stati definiti cristiani a cominciare da quello che si incarnò in Firenze soprattutto nei primi secoli del II millennio a cui il Convegno si è richiamato più volte. Ma promuovere oggi, in una società frantumata e liquida, un umanesimo che abbia i caratteri di un progetto anche approssimato e delineato per grandi linee, è realistico?
E soprattutto in Sicilia, dove i caratteri di frantumazione si mescolano a sacche di tradizioni arcaiche, la crescita di un nuovo umanesimo, più che come un disegno organico non deve configurarsi piuttosto come una grande molteplicità di esperienze che crescano dal basso, incarnino amore verso gli altri e solidarietà, costruendo reti che tendono ad allargarsi ed ampliarsi affiancando e sostituendo le vecchie pratiche ed esperienze sociali, umane e religiose stanche e ormai sterili? Ed è possibile realizzare questo in tutti i campi? Nelle esperienze di vita civile, politica, familiare, artistica? E nella vita religiosa? Non è forse anche, e soprattutto, la Chiesa chiamata in causa perché il proporsi di nuove esperienze in campo religioso, alimentate dalla fede, possono rappresentare l'anima ed il cuore di questo nuovo umanesimo?
Ecco di questo vorrei parlare venerdì sera con quanti vorranno avviare una riflessione, in comune, a partire da questi interrogativi. Dialogare per cambiare. Non un cambiamento repentino che non è pensabile, ma un cambiamento reale, radicato e costante, portato avanti con audacia e, come dice Papa Francesco, con umiltà, disinteresse e gioia.

  

A sinistra, Papa Francesco esce dal Battistero di San Giovanni a Firenze. A destra, una immagine della notte di terrore a Parigi

La Chiesa italiana ha avviato a Firenze dal 9 al 13 novembre una grande riflessione a partire dalla Evangeli gaudium su “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. E venerdì 13 novembre, non si era ancora spento l’eco dei canti, delle preghiere e degli applausi nelle sale e nelle basiliche di Firenze “abitate” dai delegati del V° Convegno nazionale  che l’orrore sconvolgeva Parigi provocando oltre 200 morti fra vittime e terroristi, ed un clima di guerra che dalla Francia rende a diffondersi a tutto il mondo. Il messaggio della Chiesa italiana assume così un‘enfasi particolare sottolineando  l’urgenza di promuovere un nuovo patto sociale fra gli uomini ed i popoli che promuova convivenza, pace, cooperazione per una vita buona e lo sviluppo.

Che cos'è un umanesimo? E' una cultura, un modo di rapportarsi alla realtà, di vivere il mondo è la storia. Ed un umanesimo cristiano? Quando una cultura ed un modo di vivere si ispirano o sono ispirati, per buona parte, dal cristianesimo, almeno in filoni significativi, si usa parlare di umanesimo cristiano. Nei secoli  abbiamo avuto diversi umanesimi che sono stati definiti cristiani a cominciare da quello che si incarnò in Firenze soprattutto nei primi secoli del II millennio a cui il Convegno si è richiamato più volte. Ma promuovere oggi, in una società frantumata e liquida, un umanesimo  che abbia i caratteri di un progetto anche approssimato e delineato per grandi linee, mi sembra difficile se non impossibile.

Soprattutto in Sicilia dove i caratteri di frantumazione si mescolano a sacche di tradizioni arcaiche, la crescita di un nuovo umanesimo mi sembra che debba configurarsi non come un disegno organico ma piuttosto come una grande molteplicità di esperienze che crescano dal basso, incarnano amore verso gli altri e solidarietà costruendo reti che tendono ad allargarsi ed ampliarsi affiancando e sostituendo le vecchie pratiche ed esperienze sociali, umane e religiose stanche e ormai sterili. Questo vale in tutti i campi: nelle esperienze di vita  civile, politica, familiare, artistica ed anche religiosa. Anche e soprattutto la Chiesa è chiamata in causa perché il proporsi di nuove esperienze in campo religioso, alimentate dalla fede, possono rappresentare l’anima ed il cuore di questo nuovo umanesimo.

Così penso – si tratta solo delle suggestioni a cui chiunque più aggiungerne altre magari più incisive e significative - ad una eucaristia domenicale che non sia solo precetto ma soprattutto sorgente  di esperienze di carità e misericordia che partendo dalla preghiera dei fedeli si rivolge a quanti sono angustiati dal bisogno o vivono addirittura nella miseria. Esperienze di carità e di misericordia nel campo delle donazioni (alimenti, vestiario. ..)  ma anche in quelle del lavoro, della convivenza familiare, della sanità ecc. Penso a parrocchie che sappiano affiancare alle processioni e alle novene momenti di condivisione e confronto su problemi nodali  - il lavoro, la famiglia, l'immigrazione, la pace,...-  coinvolgendo i non praticanti ed anche chi si sente lontano dalla religione e dall’annuncio cristiano sapendo articolare e distinguere, senza necessariamente separare, momenti di ricerca e confronto sociale con momenti di preghiera, espressioni liturgiche,  celebrazioni. 

Non un cambiamento repentino ma reale e costante portato avanti con audacia e, come dice il Papa, con umiltà, disinteresse e gioia.

---Il Ferragosto, giornata centrale delle vacanze estive, rappresenta per i cristiani anche una festività importante: quella che celebra l'assunzione in cielo della Vergine Maria. A Lipari, in particolare, l'Assunta è ricordata nella frazione di Serra dove c'è una chiesetta a Lei dedicata, affidata alle cure degli abitanti del luogo che gli sono molto affezionati ed ogni anno la festeggiano con in maniera solenne con Messe, processione, giochi d'artificio. Ancora ai primi degli anni 50, quando a sera usciva la processione della Madonna nelle campagne si accendevano i falò (pamparine) con l'erba secca ed i rami accumulati nei mesi precedenti ed era uno spettacolo commovente il vedere la statua procedere salutata da decine e forse centinaia di luci alimentate con fede dai contadini e villeggianti.
Ma torniamo all'Assunzione di Maria. Dice il Concilio Vaticano II che "l'Immacolata Vergine, preservata immune da ogni colpa originale, finito il corso della sua vita, fu assunta alla celeste gloria in anima e corpo e dal Signore esaltata quale regina dell'universo, perché fosse più pienamente conforme al Figlio suo, Signore dei dominanti e vincitore del peccato e della morte'. ('Lumen gentium', 59). Così l'Assunta è primizia della Chiesa celeste e segno di consolazione e di sicura speranza per la chiesa pellegrina. Il dogma dell'Assunzione - solennemente definita dal papa Pio XII il 1º novembre 1950, Anno Santo, con la Costituzione apostolica Munificentissimus Deus - si intreccia con la tradizione della 'dormitio Virginis'. Dormitio Virginis e Assunzione, in Oriente e in Occidente, sono fra le più antiche feste mariane.
La tradizione dei Padri della Chiesa
Il primo scritto attendibile che narra dell'Assunzione di Maria Vergine in Cielo, come la Tradizione fino ad allora aveva tramandato oralmente, reca la firma del Vescovo san Gregorio di Tours ( 538 ca.- 594), storico e agiografo gallo-romano (lo stesso che parla dell'arrivo a Lipari delle reliquie di S. Bartolomeo e della costruzione a lui dedicata di un grande tempio): «Infine, quando la beata Vergine – scrive S: Gregorio -, avendo completato il corso della sua esistenza terrena, stava per essere chiamata da questo mondo, tutti gli apostoli, provenienti dalle loro differenti regioni, si riunirono nella sua casa. Quando sentirono che essa stava per lasciare il mondo, vegliarono insieme con lei. Ma ecco che il Signore Gesù venne con i suoi angeli e, presa la sua anima, la consegnò all'arcangelo Michele e si allontanò. All'alba gli apostoli sollevarono il suo corpo su un giaciglio, lo deposero su un sepolcro e lo custodirono, in attesa della venuta del Signore. Ed ecco che per la seconda volta il Signore si presentò a loro, ordinò che il sacro corpo fosse preso e portato in Paradiso».
Il Dottore della Chiesa san Giovanni Damasceno (676 ca.- 749) scriverà: «Era conveniente che colei che nel parto aveva conservato integra la sua verginità conservasse integro da corruzione il suo corpo dopo la morte. Era conveniente che colei che aveva portato nel seno il Creatore fatto bambino abitasse nella dimora divina. Era conveniente che la Sposa di Dio entrasse nella casa celeste. Era conveniente che colei che aveva visto il proprio figlio sulla Croce, ricevendo nel corpo il dolore che le era stato risparmiato nel parto, lo contemplasse seduto alla destra del Padre. Era conveniente che la Madre di Dio possedesse ciò che le era dovuto a motivo di suo figlio e che fosse onorata da tutte le creature quale Madre e schiava di Dio».
La Madre di Dio, che era stata risparmiata dalla corruzione del peccato originale, fu risparmiata dalla corruzione del suo corpo immacolato, Colei che aveva ospitato il Verbo doveva entrare nel Regno dei Cieli con il suo corpo glorioso.
San Germano di Costantinopoli (635 ca.-733), considerato il vertice della mariologia patristica, è in favore dell'Assunzione e per tre principali ragioni: pone sulla bocca di Gesù queste parole: «Vieni di buon grado presso colui che è stato da te generato. Con dovere di figlio io voglio rallegrarti; voglio ripagare la dimora nel seno materno, il soldo dell'allattamento, il compenso dell'educazione; voglio dare la certezza al tuo cuore. O Madre, tu che mi hai avuto come figlio unigenito, scegli piuttosto di abitare con me». Altra ragione è data dalla totale purezza e integrità di Maria. Terzo: il ruolo di intercessione e di mediazione che la Vergine è chiamata a svolgere davanti al Figlio in favore degli uomini.
Leggiamo ancora nel suo scritto dell'Omelia I sulla Dormizione, che attinge a sua volta da San Giovanni Arcivescovo di Tessalonica ( tra il 610 e il 649 ca.) e da un testo di quest'ultimo, che descrive dettagliatamente le origini della festa dell'Assunzione, dato certo nella Chiesa Orientale dei primi secoli: «Essendo umano (il tuo corpo) si è trasformato per adattarsi alla suprema vita dell'immortalità; tuttavia è rimasto integro e gloriosissimo, dotato di perfetta vitalità e non soggetto al sonno (della morte), proprio perché non era possibile che fosse posseduto da un sepolcro, compagno della morte, quel vaso che conteneva Dio e quel tempio vivente della divinità santissima dell'Unigenito».
Poi prosegue: «Tu, secondo ciò che è stato scritto, sei bella e il tuo corpo verginale è tutto santo, tutto casto, tutto abitazione di Dio: perciò è anche estraneo al dissolvimento in polvere. Infatti, come un figlio cerca e desidera la propria madre, e la madre ama vivere con il figlio, così fu giusto che anche tu, che possedevi un cuore colmo di amore materno verso il Figlio tuo e Dio, ritornassi a lui; e fu anche del tutto conveniente che a sua volta Dio, il quale nei tuoi riguardi aveva quel sentimento d'amore che si prova per una madre, ti rendesse partecipe della sua comunanza di vita con se stesso».
Restano incorrotti molti corpi di Santi (manifestazioni scientificamente inspiegabili) e come sarebbe stata possibile la dissoluzione in polvere della Corredentrice che ha contribuito, rendendo possibile l'Incarnazione, a liberare l'uomo dalla rovina della morte?
( tratto liberamente da www.santiebeati.it testo di Cristina Siccardi).
Il Transitus Virginis o Dormitio Mariae
È un documento che presenta gli ultimi istanti della vita terrena di Maria e si preoccupa di far presagire al lettore che nel caso di Maria il corpo non subì gli effetti della decomposizione del sepolcro, ma fu portato in cielo.
Datazione
Il testo più antico (parzialmente conservato in greco e più completamente in etiopico) è attribuito ad un certo Leucio, discepolo di S. Giovanni.
La composizione nella forma attuale risale al IV-V secolo. Ma in esso «sono state conservate notizie e forme letterarie giudeo-cristiane, più evidenti nel codice Vaticano greco 1892, che autorizzano l'ipotesi di un archetipo risalente ai secoli II-III» [2]. Lo studioso B. Bagatti che ha approfondito molto questo documento in rapporto anche alle scoperte archeologiche, afferma che esso nella sua redazione primitiva «va riportato ad un periodo assai anteriore al IV secolo» [3].
Armonia con l'archeologia
Ciò che colpisce molto in questo documento è la sorprendente coincidenza dei dati offerti dalle scoperte archeologiche con quelli da esso trasmessi : le tre camere sepolcrali messe in luce dagli scavi corrispondono alle tre camere descritte nella versione siriana del documento.
Questo documento non ha avuto troppa fortuna presso i Padri dei primi quattro secoli perché proveniente dalla chiesa giudeo-cristiana che aveva una vita ed una attività separata da quella dei cristiani di origine pagana. Non va dimenticato che la Chiesa giudeo-cristiana fu considerata scismatica nei primi secoli della Chiesa [4].
Importanza
Il messaggio fondamentale dello scritto pseudoepigrafico risalente al II-III secolo (ora perduto, ma sostanzialmente presente nei codici del IV-V sec. doveva essere questo: il corpo di Maria Vergine Madre del Signore non si decompose, ma seguì la sorte di quello di suo Figlio.
Se questa ipotesi di studio corrisponde al reale svolgimento dei fatti, allora possiamo concludere che la fede della Chiesa nell'Assunzione corporea di Maria al cielo rientra in una tradizione ininterrotta e viva anche se l'evento è avvolto nel velo del mistero.

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[1] Per questo delicato ed interessante tipo di letteratura protocristiana pseudo-epigrafica, cf B. BAGATTI, Le due redazioni del "Transitus Mariae", in «Marianum» 32 (1970), 279-287; E. PERETTO, o.c., 112-113.
[2] Cf. A. WENGER, L'Assomption de la T. S. Vierge dans la tradition byzantine, du VIe au Xe siècle, études et documents, p. 209-241 ; B. BAGATTI, S. Pietro nella "Dormitio Mariae", in «Bibbia e Oriente» 13 (1971), 42-49.
[3] B. BAGATTI, Le due redazioni del "Transitus Mariae", o.c., 287.
[4] Un'ottima sintesi di tutta questa interessante ipotesi si trova in G. BESUTTI, Ricerche storiche sull'Assunzione di Maria, in «Riparazione Mariana» 1978/4, 5-6.

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