di Felice D’Ambra
Il Dolore Di Una Madre. Quando, a noi tutti esseri umani ci viene a mancare una persona cara, un amico, un parente, un genitore, proviamo intenso dolore, commozione, ma è niente in confronto al dolore di una madre. La madre, è unica e il suo dolore è unico. Francesco Ciusa, di Nuoro, il capoluogo della provincia barbaricina nuorese, divenne famoso a 26 anni con una statua straordinaria, esposta alla biennale di Venezia, dove prese il primo premio, la “madre dell’ucciso”, una donna rattrappita dal peso degli anni e dall’angoscia del dolore.
E’ una madre silenziosa, dagli occhi belli, che però ormai chiusi da un pianto senza lacrime e dallo sguardo intenso. E’ stata zitta per tutta la vita, ha insegnato più con i silenzi che con le parole. Ha allevato questo figlio e lo ha fatto diventare grande, lo ha atteso quando tornava dalla campagna e ha pregato per lui quando tardava a rientrare .Ma una sera attende invano l’arrivo di quel ragazzo.
Per chi non è nato in Barbagia è difficile capire questo dolore. Che non è solo il dolore di una donna alla quale è stato strappato il bene più prezioso, l’unico per il quale valga la pena di vivere. E’ un dolore storico, antropologico. E’ il dolore di un popolo che vive con una stupefacente rassegnazione il danno e la morte, il dolore e l’oblio. I ritratti migliori di madri li fece Grazia Deledda, scrittrice autodidatta, ma di prima grandezza, capace di suscitare emozioni profonde nei lettori più colti e in quelli più ingenui.
Ed è il dolore di madre – diverso da quello evocato da Ciusa – che viene narrato con incanto in La Madre. Maria Maddalena vive col figlio prete del quale intuisce i turbamenti amorosi per una ragazza. Sa che questa è una relazione impossibile, che gli renderebbe la vita un inferno.Ma sta zitta, non parla, assiste in silenzio.
Non c’è niente di più grande, nell’arte come nella vita, di un legame materno, di quel filo che unisce la madre al suo figlio. Protagonista è Paulo, il Sacerdote della città di Aar, che prende in custodia le anime di un piccolo paesello sui monti. Paulo si innamorerà della giovane Agnese, che vive sola nella grande tenuta lasciatagli dal genitore… Mi fermo qui, è preferibile che leggiate questo accattivante libro “La Madre” di Grazia Deledda.
Una significativa testimonianza diretta, l’ha vivo personalmente da vicino, ogni qualvolta che torno a Lipari. L’esempio del dolore di una madre che dal giorno che perse il figlio, occultando le emozioni personali nell’inespresso, continua il suo pellegrinare tutte le settimane, accompagnata al Camposanto, nella casa eterna dove riposa il figlio, a portare un mazzo di fiori freschi. Per Lei, quel figlio morto, è sempre vivo nel suo cuore di madre, c’è sempre quel legame materno, di quel filo che unisce la madre al suo figlio.
E’ cosa dire di un’altra madre che fino a qualche anno fa, quando era in buone condizioni di salute, si recava al Camposanto di Lipari tutti i santi giorni dell’anno, nessuno escluso, vento o pioggia, caldo o freddo, Ella era lì, vicino alla tomba del proprio figliolo, e tenendosi mano nella mano al marito, mesta e silenziosa, addolorata, dopo la visita , depositato un fiore, se ne tornava a casa. Ora, con grande dolore, Ella non può più andare a trovare il figliolo tanto amato, problemi di salute, alle gambe, alle braccia, non può più sopportare il lungo tragitto che la separa da casa sua alla casa perenne del figlio perduto, quel figlio tanto amato.
Ma ora, giorno dopo giorno, un’ombra quasi solitaria, cammina fra la gente, indifferente, pochi conoscono il suo dramma, quest’uomo ora lascia la moglie a casa in custodia, triste e sconsolata, e da solo, lentamente si avvia verso il Camposanto a deporre assieme al suo,anche il fiore della mamma che non può essere presente per dare il bacio al proprio figliolo perduto tanto tempo fa.
Quando sono a Lipari, lo vedo tornare dal Camposanto, (ormai conosco l’orario) pensoso,triste, intimorito dal traffico, dalla folla chiassosa, che lo intimorisce, nessuno sa chi è, e da dove viene, cammina silenzioso tra la gente, quasi invisibile, innocuo, non disturba nessuno, nessuno lo conosce, nessuno conosce il suo dramma interiore, io mi fermo, quasi ad impedirgli il passo, e lui sorpreso, quasi impaurito, mi guarda, esita, e quando mi riconosce, mi abbraccia come abbraccerebbe quel figlio adorato che non c’è più.
Non so fingere, e cerco di trattenere le lacrime per la commozione, ma è più forte di me, lui fa finta di non accorgersene ed io per alleggerire la tensione, gli chiedo di raccontarmi uno dei suoi versi, che lui ha scritto, il verso che descrive la nostalgica lontananza dell’emigrante liparoto, distante dal paese e dagli affetti familiari. Mia madre, dal 1999 al marzo del 2005, perse il suo primo figlio adorato “Aurelio”, a seguire, la nuora Stefanina, la moglie di Aurelio, la figlia Giovanna, il marito di lei, Pietro, la Nuora Franca, moglie di mio fratello Nino che vivevano a Taormina, dopo ancora i generi: Ciccio Imbruglia, marito di Felicia e Nino Ziino, marito di Angelina e il fratello Bartolo morto in Australia.
In questi pochi anni, mia madre ebbe sette dolorosi perdite, per Lei erano tutti figli, e il fratello non lo vedeva da molti anni. Lei se ne stava lì, seduta fuori, come usava fare le sere d’estate davanti alla porta di casa, la casa di Vico Volpe dove tutti noi figli siamo nati e cresciuti. Avevo salutato mia mamma il 16 dicembre del 2004, mi trovavo a Lipari , ero tornato per la seconda volta quell’anno. Il giorno della mia partenza,
Lei era di sopra, non scendeva quasi più. Salii di sopra, Ella stava seduta sulla sua poltrona davanti alla porta finestra del balcone, spesso la sentivo cantare: son tutte belle le mamme del mondo…mi resi conto, forse anche Lei notando la mia tristezza anche se mi sforzavo a non manifestarlo, e quando io accarezzandola, le chiesi, chi ero io, sollevando un dolcissimo sguardo e guardandomi negli occhi umidi e con un lieve sorriso come sapeva fare Lei, accarezzandomi la testa mi rispose: “u figghiu mia sì”.
Un pianto ininterrotto mi assalì e abbracciandola per l’ultima volta, scappai via. In questo momento che sto scrivendo, il mio viso è bagnato dalle lacrime che scorrono. Dopo 25 giorni, mia madre, all’età di 89 anni, il 10 gennaio del 2005, se né andò in silenzio, in punta di piedi, senza disturbare. Questo stesso dolore di madre, la stessa espressione di sofferenza, l’ho rivissuto nel viso della mamma di Elisabetta, il viso di una donna distrutta dal dolore per l’atroce sofferenza della figlia che per mesi Ella ha assistito giorno dopo giorno e anche di notte soprattutto in questi ultimi trenta giorni.
Pur avendo saputo dai medici che non c’erano più speranze, Lei, non ha mai perso la speranza, Lei ha sperato veramente in un miracolo, un miracolo che non si è avverato e ha dovuto ricredersi e accettare la dura e cruda realtà della morte. Elisabetta, è deceduta fra le sue braccia, tra le braccia della sua la mamma, l’unica ad averla adorata, che non l’ha mai abbandonata un attimo, l’unica ad aver sentito l’ultimo suo respiro. Elisabetta si è assopita per sempre nel lungo sonno nella notte del 1 agosto 2009. La madre, abbracciandosela come la pietà di Michelangelo, è scoppiata in un pianto inesauribile.
“La madre” di Francesco Ciusa, lo scultore nuorese, descrive: < si è seduta sulle ceneri del suo focolare, e non s’è mossa più: le ginocchia alzate al petto, le braccia intorno alle ginocchia, il busto eretto, la testa alta; ma , indimenticabilmente, la bocca chiusa, come sigillata, che tirava a sé tutte le fibre del viso, convogliando sulle labbra sottili tutta la raggiera delle rughe: e gli occhi che guardano immobili il dolore e il mistero. >
Per tutte le madri, che hanno sofferto e che soffrono ancora per l’atroce perdita dei propri figli e solo loro sanno cosa significhi il dolore di madre. “La scultura della madre dell’ucciso, di Francesco Ciusa, che vinse il primo premio della Biennale di Venezia ed il cui originale in bronzo si trova oggi esposto alla Galleria di Arte Moderna di Roma” . Una copia si trova nella Chiesetta San Carlo di Nuoro.