di Fabio Famularo
...Stromboli e i giorni della guerra...
Erano stati anni molto difficili e con enorme fatica ci stavamo mettendo alle spalle la grande eruzione del 1930 che aveva cambiato la vita a molti di noi.
Da quell’11 di settembre nulla era stato più lo stesso, il sentimento forte e invisibile che da sempre ci teneva legati al vulcano era cambiato.
Ci sentivamo traditi o forse eravamo solo stanchi di doverlo temere dopo averlo profondamente amato.
Da sempre, fin dal nostro primo giorno di vita, eravamo uniti a lui proprio come un figlio con i suoi genitori, lo rispettavamo ma non ci faceva paura.
Col tempo, avevamo imparato a interpretare i suoi segni e i suoi umori, talvolta forti e distruttivi, altre volte dolci ed amichevoli.
Tutti noi volgevamo il primo sguardo del mattino a lui, nell’attesa di capire che giorno sarebbe stato. Dal fumo che si sprigionava dai crateri riuscivamo a capire la direzione del vento e dal colore di quelle alte colonne di vapore prevedevamo il tempo.
Il vulcano ci consigliava di andare per mare o di restare a lavorare la terra e noi ci fidavamo senza mai dubitare dei suoi segni.
La notte ci consegnavamo a lui con grande fiducia nella speranza che non mettesse a ferro e a fuoco l’isola con la sua ira.
Quando andavo a dormire, mia madre mi raccomandava di tenere una lampada a petrolio ai piedi del letto e si preoccupava che la porta d’ingresso fosse sempre libera da impedimenti affinché nella notte, in caso di eruzione, potessimo scappare.
Eravamo da sempre gelosi della nostra terra e ne custodivamo i segreti come se fossero sacri, ma eravamo felici per tutte quelle persone che se ne innamoravano e assieme a loro condividevamo lo stesso sentimento.
I marinai che passavano a largo dell’isola non potevano fare a meno di osservarlo e rallentavano la loro corsa, sperando che facesse presto buio per poterlo ammirare.
Era un’entità viva e presente, faceva parte della nostra vita ed eravamo convinti che con i suoi segni comunicasse con noi. I boati che facevano tremare le porte, le nuvole di vapore bianco che dipingevano di rosso il cielo al tramonto, la coltre di cenere che ricopriva i tetti e si posava sulle foglie delle vigne, i lapilli infuocati che cadevano come pioggia dall’alto della montagna, erano la voce che negli anni avevamo imparato a conoscere e a interpretare.
Racconto tratto dal libro: "I giorni della guerra, quando i tedeschi sbarcarono a Stromboli"
Nostra nuova pubblicazione, un libro dedicato a Stromboli e alla sua gente che racconta la storia della realizzazione del film "Stromboli terra di Dio" di Roberto Rossellini e con Ingrid Bergman.
NUOVA PUBBLICAZIONE PER LA CASA EDITRICE “STROMBOLIBRI”
“AMARSI A STROMBOLI” di Fabio Famularo.
Nella primavera del 1949, Roberto Rosselini, uno dei più importanti registi dell'epoca, giunge sulla piccola isola di Stromboli per girare un film che ha come protagonista la famosa e bellissima attrice Ingrid Bergman.
Sulla loro storia d'amore scandalosa e appassionata, molto si è detto e scritto, ma come hanno vissuto gli abitanti dell'isola quell'esperienza?
Rossellini, con la sua troupe e tutto il personale al seguito, porterà sull'isola, provata dalla guerra e dall'emigrazione, una ventata di ottimismo e di allegria.
Le riprese del film metteranno in moto un piccolo universo in cui tutti prenderanno parte, diventando protagonisti nella sua realizzazione.
La gente ripopola strade e spiagge, fino a poco tempo prima quasi deserte.
Le case sono illuminate fino a tarda notte e le fisarmoniche ricominciano a suonare, soprattutto serenate d'amore.
"Amarsi a Stromboli" racconta di quei giorni, dell'incredulità seguita dall'entusiasmo degli strombolani, della fatica, delle lunghe riprese. Racconta di amori che sbocciano all'ombra del vulcano, ma anche dell'amore che rifiorisce nel cuore degli abitanti, amore verso la propria terra, le proprie radici, le proprie tradizioni.
STROMBOLIBRI IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DEL LIBRO…
…FINALMENTE STROMBOLI…
Ben presto, il sole lasciò spazio alle stelle e alla notte che ci avvolse in un attimo e che in mezzo a quel mare sconfinato, sembrava ancora più buia. Solo lo sbuffare dello Stromboli di tanto in tanto, illuminava il cammino indicandoci la rotta.
Un miscuglio di sensazioni ed emozioni animavano ancor più il mio cuore che batteva forte.
Quando arrivammo a Panarea, a notte fonda, le poche luci facevano intravedere le piccole case che popolavano il paese. Ci fermammo un attimo, senza gettare le ancore e senza che nessun membro dell’equipaggio potesse accorgersene.
Da lontano vidi la piccola lanterna di una barchetta a remi che ci veniva incontro. Il capitano mi lanciò un fischio invitandomi a salire in plancia, poi mi consegnò un pacchetto con delle medicine per il medico dell’isola e mi ordinò di consegnarlo allo stesso quando si fosse trovato sottobordo.
Feci come mi chiese e una volta che il pacchetto fu consegnato e la barca lontana dalle mura, feci un gesto al comandante che pian piano girò la prua verso la rotta.
Da lì a poco doppiammo gli isolotti di Lisca Bianca e di Basiluzzo, quindi ci ritrovammo ben presto in mare aperto.
In lontananza avvistai le prime luci di Stromboli, anche se in realtà erano quelle di Ginostra: un piccolo paesino sotto il vulcano di cui non conoscevo l’esistenza.
Passai il resto della notte a fissarle fino a quando le prime luci dell’alba cominciarono a svelarmi i contorni della mia nuova realtà.
I raggi ancora deboli del sole illuminarono a giorno l’isola. La doppiammo dal lato sud, quello esposto allo Scirocco e il leggero Maestrale, che ci aveva accompagnato per tutta la notte increspando la superficie del mare, improvvisamente sparì.
Il mio sguardo fu subito rapito dalla cima della montagna, dove i crateri emettevano un fumo bianco e grigio, misto di vapore e cenere, che a ritmo quasi costante veniva lanciato in cielo con forza.
Il comandante mi si avvicinò dapprima senza parlare, vedendomi estasiato o forse confuso, preferì che facessi mio quel momento senza che lui interferisse poi, cominciò a darmi dei ragguagli su tutto ciò che stavo vedendo, con dovizia di particolari.
Passammo per Punta Lena: un piccolo villaggio di cinque o sei case di agricoltori, di cui mi colpirono la sabbia della spiaggia nerissima e la vegetazione di canneti che fitta lambiva il mare e l’ordine di centinaia di terrazzamenti che contenevano il terreno quasi fino alle pendici del vulcano.
A perdita d’occhio capperi, ulivi, fichi e fichi d’india, dominavano la terra che baciata dal sole sembrava ardere formando quella nebbiolina di vapore che, durante i giorni di gran caldo, offusca le immagini.
Alcune piccole barche si dirigevano in quella direzione mentre altre persone, visibili come dei puntini, sembravano seguirle lungo la riva o inerpicati sulle alte rocce di un irto sentiero che li conduceva al piccolo villaggio.
Subito dopo ci apparve Forgia Vecchia: una lingua di sabbia tra due alti costoni che dalla cima della montagna arrivava fino al mare.
“E’ qui che una volta il vulcano riversava la lava durante le sue eruzioni, ma questo non accade chissà da quante migliaia di anni. Adesso tutto avviene dal lato nord dell’isola” disse il comandante.
Le casette bianche cominciarono a comparire sempre più numerose e con esse la gente dell’isola e le barche lungo le spiagge.
Sotto il vulcano ogni cosa sembrava piccolissima e seguendo con lo sguardo il paese visibile da sud, una chiesa, con il suo alto campanile, mi colpì più di ogni altra cosa. Mi colpì inoltre, sulla linea dell’orizzonte, uno scoglio merlettato, maestoso, che affiorava dal mare come se qualcuno lo avesse adagiato lì per poter essere ammirato.
Racconto tratto da libro: “…e poi Stromboli” di Fabio Famularo