di Flora Bonaccorso
«Riprendiamoci la storia» potrebbe essere la parola d’ordine di questo progetto d’eccellenza di studi storiografici che non nasce a Cambridge o a Princeton, bensì in Italia. Difficile spiegare la concatenazione dei fatti, ma il risultato è sorprendente. Un antefatto di rilievo è costituito dall’esperienza della Storia dei Mediterranei, una serie di testi specialistici, di struttura collettanea, usciti nell’arco di alcuni anni sotto la direzione scientifica di Carlo Ruta, il quale ha dato un’impronta precisa al progetto, in direzione di quella che lui ha voluto battezzare «storia disseminata».
Si tratta di un’idea della storia che, mentre tiene a rimarcare una robusta e originale autonomia nell’elaborazione dei paradigmi, interagisce fortemente con alcune tra le più feconde e innovative correnti storiografiche del Novecento e dei primi anni di questo secolo: la Storia totale degli annalisti francesi, da Bloch a Braudel, la Global History, da Immanuel Wallerstein a William H. McNeill, la New Cultural History, fondata a Cambridge da Peter Burke, oltre che con la ricerca antropologica più progressiva, da Claude Lévi-Strauss ad Ernesto de Martino.
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Un altro antefatto importante è costituito dal Manifesto La storia cambi passo che lo storico italiano ha diramato nel settembre 2020, che ha sottolineato la necessità estrema di un rinnovamento della storia lungo tre direttrici: una poderosa messa in discussione delle chiusure occidentaliste ed etnocentriche, ancora influenti e per tanti versi determinanti; l’interazione con i bisogni di conoscenza delle società; la comunicazione e la ricerca costante di un dialogo strategico tra le scienze sociali, in grado di coinvolgere anche le scienze naturali. L’obiettivo è staot raggiunto con pienezza: le tesi sostenute hanno richiamato una larga attenzione e sono state discusse da diverse decine di storici e studiosi di altre scienze di varie aree del Globo. Mancava allora uno strumento operativo e comunicativo per condurre nei modi più adeguati un progetto che, seppure con tante cautele, punta decisamente in alto, ed eccolo arrivato, con la svolta annalistica.
Gli Annali sono dotati di un comitato internazionale di garanti che, con lo stesso Carlo Ruta, schiera nomi tra i più illustri sul piano della ricerca storica mondiale: da Peter Burke, fondatore appunto della New Global History, alla sinologa Pamela Crossley, teorica e tra i massimi esponenti oggi della Global History, dall’archeologo e storico dell’Arte Clemente Marconi, ordinario alla New York University, oltre che alla Statale di Milano, all’egittologo della Sorbona di Parigi Juan Carlos Moreno García. Nella redazione degli Annali lo storico delle civilizzazioni ha imbarcato, con criteri estremamente selettivi, oltre che gli studiosi sopra citati, una cerchia di specialisti di varie discipline scelti tra coloro che più decisamente puntano sull’innovazione e che credono nell’interazione strategica delle scienze. Scrivono per gli Annali, tra gli altri, l’antropologa napoletana Annalisa Di Nuzzo, la linguista storica veronese Simona Marchesini, l’epistemologo e filosofo della mente senese Giuseppe Varnier, lo storico tedesco Michael F. Feldkamp, berlinese, studioso del confronto tra la Chiesa cattolica e la Germania nazista negli anni della Shoah e dell’ultimo conflitto mondiale. Nei due Annali appena usciti, per le Edizioni di storia e studi sociali, risultano inoltre saggi degli storici genovesi Sandra Origone ed Emiliano Beri e di altri autori.
Il varco storiografico che Carlo Ruta sta aprendo è ben sintetizzato nella premessa dell’Annale dedicato a Imperi e culture tra terra e mare, in cui si legge tra l’altro: «La storia dei Mediterranei, come il lettore può facilmente rilevare, va oltre se stessa, ricollocandosi in una dimensione aperta. L’Europa, in particolare, finisce di essere il centro-motore del discorso storico e il modello di riferimento, per essere assunta invece come parte vitale, legittima ma non legittimante, di una scena complessiva, in un gioco di prospettive mutevoli, di punti di vista mobili, in grado di porre in discussione fissità, schemi e tassonomie che rischiano l’incongruenza». È tuttavia nell’altro Annale, dedicato a Relazioni linguistiche, viaggi, politiche di dominio e conflitti, che lo storico delle civilizzazioni presenta il proprio manifesto (che sarà diramato nei prossimi giorni) del nuovo disegno annalistico, in cui egli sottolinea tra l’altro: «Occorre partire allora da un dato: il passato, come risorsa cognitiva e orientativa, sociale e comunicativa, può essere interpretato con accuratezza e può essere meglio assimilato dalle comunità civili se liberato, intanto, da schemi e concetti-contenitori che, elaborati soprattutto nell’Ottocento e largamente filtrati attraverso le maglie novecentesche, appaiono ormai tristemente invecchiati. In un’epoca tanto lacerata e difficile da definire come la presente, è importante mettere in guardia dalle concettualizzazioni, a volte anche sentimentali, di mondi antichi produttori di modelli, di età dell’oro paradigmatiche, di “medioevi” cristallizzati e nello stesso tempo dicotomici, tragicamente bui per gli uni e intensamente luminosi per altri, e ancora dall’idea di una modernità arroccata in regioni privilegiate della Terra, destinata a progredire, a distribuire risorse e lumi al resto delle popolazioni e, infine, a migliorare la condizione umana nella sua interezza. Occorre arginare la concezione modernista di un progresso riverberante, che traccia a ben vedere un vero e proprio fossato, tanto ideologico quanto irreale, tra le etnie, le culture e i grandi bacini delle risorse umane, intellettuali, cognitive e morali. Occorre fare i conti allora, giorno dopo giorno, con uno dei mali oscuri più persistenti della storia, che si nutre di pregiudizi, occidentalismi, etnocentrismi e, perché no, anche di mediterraneismi».
Sul documento dello studioso italiano per l’innovazione della conoscenza storica prendono posizione i massimi protagonisti della storia e della cultura mondiale, dal britannico Peter Burke, fondatore della «New cultural history», alla statunitense Pamela Kyle Crossley, capofila e teorica della «Globlal History»
Quella di Carlo Ruta, storico che non ha mai smesso di documentare il ruolo strategico della conoscenza storica nella vita delle società civili contemporanee, è stata un'impresa davvero difficile, tanto più nel pieno delle attuali contingenze pandemiche. Ma con la forza dei suoi argomenti, paradigmatici, lo studioso è riuscito ad aprire varchi importanti di discussione, che hanno superato di gran lunga i confini italiani. Diramato nella prima metà dello scorso settembre, il suo Manifesto, intitolato in maniera esortativa La storia cambi passo, ha richiamato e coinvolto studiosi tra i più eminenti a livello globale, in campo storico, antropologico, archeologico sociologico, filosofico e di altre discipline.
Adesso questa discussione, dipanatasi per un mese e mezzo quasi in sordina, diventa pubblica e fruibile con pienezza perché raccolta in un libro di 220 pagine, intitolato Dibattito sulla storia. Il manifesto di Carlo Ruta e il dibattito in Europa e oltre, appena pubblicato dalle Edizioni di storia e studi sociali. Solo adesso emergono perciò, in maniera sorprendente, le misure di un dibattito intenso, che di certo finirà per accenderne altri, per il valore aggiunto culturale e scientifico, per certi versi perfino spiazzante, che riesce a fornire.
Da vari Paesi e da ambienti di profilo altissimo si è deciso di interagire in sostanza con le argomentazioni del Manifesto, con condivisioni nodali, laddove lo storico italiano parla, ad esempio, di «fenomenologie del pregiudizio» di «mobilità del punto di vista», di «dimensione dell’incerto», di «chiusure iper-identitarie» di nuovi patti tra scienze sociali e naturali e di nuovi incontri tra società e storia. Evidentemente, non scorre in rassegna una storia «calibrata», cattedratica, rinserrata nei gusci ma una storia audace, progressiva, utile e spendibile sul piano civile, come viene sottolineato ampiamente da Carlo Ruta e da altri studiosi intervenuti.
Alcuni nomi, allora, per dare un’idea concreta sul tipo di risonanze che ha avuto il Manifesto dello studioso italiano. Tra i partecipanti al dibattito troviamo Peter Burke, storico della Cambridge University e fondatore della «New cultural history», che, con quella annalistica francese, ha segnato una delle maggiori svolte storiografiche del Novecento. Troviamo Pamela Kyle Crossley, storica statunitense della Cina e dell’Asia, oggi capofila e teorica della «Global History»: altra vicenda epica in campo storico, che ha aggiornato alcune mappe delle Annales francesi, aggiungendone di nuove. Troviamo Carlo Sini, tra i massimi filosofi italiani viventi, che ha segnato un punto di confluenza tra fenomenologia, ontologia ed ermeneutica.
Troviamo Jean Guilaine, paletnologo francese i cui studi sul Neolitico e sulla Protostoria da decenni fanno scuola in tutti i continenti. Troviamo, ancora, Clemente Marconi, docente della New York University e dell’Università Statale di Milano, archeologo post-processualista tra i più brillanti oggi a livello internazionale, e che ancora oggi gli States americani contendono all’Italia.
Ed ecco i nomi degli altri partecipanti: Michael F. Feldkamp, storico tedesco di Berlino, esperto di storia delle relazioni fra Santa Sede e Germania e tra i massimi rappresentanti del cattolicesimo in Germania; Sébastien Nadot, storico, esperto di reti sociali e politico francese, dal 2017 deputato all’Assemblea Nazionale, Parigi; Vincenzo Guarrasi, geografo, direttore dell’Istituto di Scienze antropologiche e geografiche e docente di Geografia all’Università degli Studi di Palermo; Giuseppe Varnier, epistemologo italiano, docente di Epistemologia e Philosophy of Mind all’Università di Siena; Alberto Cazzella, paletnologo, docente di Paletnologia e direttore della Scuola di Dottorato in Archeologia della Sapienza Università di
Roma; Giorgio Manzi, biologo, docente di Evoluzione umana e Storia naturale dei primati della Sapienza Università di Roma; Giorgio Chinnici, fisico e scrittore hoepliano; Sandra Origone, storica, docente di Storia medievale e di Storia del Mediterraneo medievale e dell’Oriente bizantino all’Università di Genova; Luigi Loreto, storico, docente di Storia Romana presso la Seconda Università degli Studi di Napoli; Roberto Cipriani, sociologo, docente di Sociologia presso l’Università Roma Tre; Simona Marchesini, linguista, archeologa ed etruscologa italiana; Liborio Dibattista, storico della scienza, docente di Storia della medicina e Filosofia della scienza all’Università degli studi di Bari; Salvatore Perri, economista, docente di Politica economica all’Università della Magna Graecia di Catanzaro e stretto collaboratore dell’analista economico statunitense John Komlos; infine, François Dosse, storico francese proveniente dall’esperienza delle Annales, tra i più acuti interpreti di Foucault, docente emerito Università di Parigi 12 e docente di storia moderna presso l’Institut Universitaire de Formation des Maîtres a Créteil.
Come si spiega allora questo grande ed esteso interesse suscitato? «Credo – spiega Carlo Ruta – di aver interpretato un’esigenza comune, una avvertita necessità di cambiamento. Servono nuove concettualizzazioni e ho cercato di fornire dei contributi in questa direzione, che, evidentemente, non sono caduti nel vuoto, tutt’altro. Avvertivo peraltro già da prima questo interesse, che spero sia il ‘sintomo’ di un mutamento di prospettiva. Le società vivono forti crisi d’identità, rischiano di rifluire nei nichilismi, nelle chiusure iper-identitarie, che hanno infestato un’epoca e che diventano sempre più aggressive.
E di certo un nuovo modo di produrre conoscenza storica può avere effetti importanti, direi dirompenti, sulla contemporaneità. Si tratta di ricercare allora nuovi paradigmi, nuovi parametri, nuovi accostamenti alle cose». «Ma – continua lo storico – tutto ciò è possibile a condizione che i saperi storici e sociali siano pronti a ‘rinegoziare’ il rapporto con le società attraverso un ‘patto’ che ne elevi la funzione, in cambio di un rinnovato impegno a mettersi e a mettere in discussione, che porti ad una erogazione più sostenuta sul piano scientifico, ad una ridefinizione dei compiti, che dovrebbe coinvolgere anche le scienze naturali, in una logica di aperture e dialoghi a tutto campo». E aggiunge: «Credo non sia inutile ricordare che nella dimensione discorsiva, di un dialogo incalzante e serrato tra saperi scientifici, si aprivano, con l’esperienza galileiana in modo particolare, gli orizzonti scientifici e culturali della modernità».
di Pino Blasone
La storia in «tempi bui», da Hannah Arendt a Carlo Ruta
Prima ancora che «proposta di un manifesto», la manifestazione di un’esigenza e di un intento innovativi. Espressione, peraltro, di qualche motivata inquietudine, suggerita dai tempi che tutti noi attraversiamo probabilmente non senza ricorrenti perplessità o giustificabili apprensioni. Nell’uso corrente contemporaneo, il verbo «manifestare» è venuto ad assumere il significato di rendere pubblica un’opinione, un’idea, ma pure un sentimento. Di solito, si manifesta a favore di o contro qualcosa o qualcuno. Tuttavia si può anche farlo, lasciando a noi un margine di scelta nell’individuare quel qualcosa o qualcuno, se a favore o piuttosto contro, oppure in una posizione di riflessiva e propedeutica messa in discussione.
Tale è l’impressione che chi qui scrive ha ricavato dalla lettura dello scritto «La storia cambi passo. Proposta di un manifesto per l’innovazione di una scienza» di Carlo Ruta, anche grazie a una ormai assidua consuetudine, e a volte proficua collaborazione, con lo storico in questione. La sua opera pregressa si articola in un quadro interdisciplinare, che spazia dalle scienze sociali all’archeologia, nonché alla filosofia. Essendo quest’ultima il mio campo formativo, possibilmente accompagnato con la critica culturale applicata e la storia comparata delle civiltà, comincio qui volentieri a commentare col citare una menzione che non ritengo accidentale di Hannah Arendt, pensatrice a me cara per più di un aspetto.
Afferma Ruta, infatti, in un capitoletto non a caso intitolato «Superando il confine»: «Riprendendo, in qualche misura, il filo intuitivo di autori come Walter Lippmann e, soprattutto, di Hannah Arendt che si concentrò sul totalitarismo e l’antisemitismo, la ricerca storica potrebbe assumersi il compito, fino ad oggi largamente eluso dalle scienze sociali, di spiegare il quando, il come e il perché il sospetto verso il differente, il distante e l’“alterità” possa tradursi in un pericoloso bisogno comune, conclamato e stratificato.» In effetti la Arendt, pensatrice tedesca di estrazione ebraica, specialmente in «L’umanità in tempi bui», libro storico-biografico del 1968, estendeva il suo discorso ben al di là dell’argomento antisemitismo.
Una difficoltà o incapacità di superare i confini mentali, una volta che il processo globalizzante abbia reso relativamente più facile il superamento di quelli fisici, nell’ambito sia commerciale sia della comunicazione o della migrazione. Questo è il problema attuale, che impedisce all’evoluzione tecnologica di convertirsi in progresso civile effettivo, che può prospettare la falsa soluzione di un ripiegamento su se stessi, anziché l’impegnativa elaborazione di un’apertura culturale adeguata. Un problema, che non può non investire la critica storica, orientandola verso nuovi orizzonti, in quanto basamento di quella ineludibile soggettività la quale presiede alla pur indispensabile ricerca e cernita documentaria. Un doveroso “cambio di passo” nel metodo di indagine, contro ogni pretesa, unilaterale e pietrificata oggettività.
Altrove, nel breve capitolo «Contemporaneità e storia», Ruta stigmatizza una tendenza degenerativa, nel già preconizzato – a suo tempo, dal sociologo canadese Marshall McLuhan – ‘villaggio globale’: «Il mondo della comunicazione, sempre più condizionato dal digitale e dai social, produce inoltre fenomenologie di vario segno, con effetti ancora contraddittori, di orizzontalità attive da un lato, che nei primi anni di questo secolo hanno fatto immaginare una crescita delle buone pratiche di democrazia, e di condotte manipolatorie dall’altro, che rischiano di disorientare le opinioni pubbliche, ostacolandone il travaglio critico, con l’esito anche di rendere più difficili i percorsi conoscitivi, attraverso la fabbricazione del falso».
Tali pratiche manipolatorie, tese all’occultamento della verità ovvero alla «fabbricazione del falso», sono ciò contro cui uno storico aggiornato e accorto dovrebbe mettere in guardia. Operazione non sempre facile, dal momento che quelle condotte mirano a compiacere diffuse pulsioni regressive, o ad approfittare di paure sovente irrazionali. In questi casi, la lezione memoriale storica viene spesso alterata, o semplicemente rimossa e negata. Non di rado quel camuffamento, che è invalso l’uso approssimativo di chiamare «negazionismo», viene spacciato a sua volta per storicismo tutt’al più ipercritico. Lo storico critico si trova, pertanto, a doversi misurare con chi pretende di usare le sue stesse armi, in maniera tendenziosa e simulata. Nel migliore dei casi, lo scopo perseguito è un omologante nichilismo.
Le insidie dell’informazione sono comunque un terreno su cui lo storico dovrebbe aver imparato a destreggiarsi da tempo, ivi inclusi il giornalismo televisivo o la stampa periodica a carattere sensazionalista. La conclamata bidirezionalità del messaggio tramite Internet non fa grande eccezione, poiché anche la disinformazione intenzionale ha appreso tecniche calibrate in base alla mutata realtà. Quindi, lo storico dovrebbe essere fornito di pari o maggiore scaltrezza, beninteso «astuzia della ragione» di hegeliana memoria. E di un minimo di immaginazione, che differenzi la storia dalle altre scienze, per le quali in linea di massima l’oggettività può fare a meno della componente umana inevitabilmente, talora imprevedibilmente soggettiva.
Ecco, dunque, perché Carlo Ruta così conclude, non senza qualche azzardo funzionale a suscitare un dibattito: «la storia può costituire allora una utile sponda orientativa, di tipo anche morale. Si dirà che già la poesia, la prosa letteraria, la musica, il cinema, il teatro e tutte le altre arti assolvono un tale compito, ma, diversamente da tali espressioni della creatività umana, la storia condivide con le altre discipline sociali e con le scienze naturali la ricerca delle cause, un accostamento alle cose e, ancora, delle logiche di fondo che possono convergere su un coeso orizzonte di scambi e interazioni, senza pregiudizio per le diversità e l’autonomia dei saperi».
In altri termini, già nel 1966 in «Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane», il filosofo francese Michel Foucault rilevava come difficilmente la storia, convenzionalmente intesa come prevalente narrazione «événementielle», possa prescindere dal contesto della storia della cultura in cui essa si è sviluppata e con cui ha interagito. Dialetticamente, le strutture materiali possono sì determinare quelle ideali in seno a una società, ma è pur vero che in genere queste ultime «sovrastrutture» esercitano un effetto retroattivo sulle prime, tornando a condizionarle e modificarle. Nessun vecchio idealismo in senso hegeliano, insomma, ma nemmeno materialismo meccanicistico o, in particolare al giorno d’oggi, economicistico.
*Storico e critico culturale