Duro atto di accusa del magistrato in pensione che punta il dito su Napolitano
di Lorenzo Baldo
“Su Manca la verità non verrà mai fuori: è un episodio della 'trattativa di Stato', su cui il grande spregiudicato Napolitano si è giocato il tutto per tutto per stendere un velo. Se fosse necessario sarebbero capaci di uccidere di nuovo come hanno fatto con il povero Attilio Manca. Non li sottovalutiamo, son delinquenti non migliori dei mafiosi, solo più ipocriti”. Parole dell'ex sostituto procuratore generale di Messina, Marcello Minasi, affidate ad una delle pagine facebook dedicate al caso del giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Me) trovato morto in circostanze misteriose il 12 febbraio 2004. Un paio di giorni fa è stata la madre di Attilio, Angelina, a pubblicare quelle parole sulla sua bacheca dell'omonimo social network.
Al telefono, l'ex pm (che si è occupato, tra l'altro, dei processi d'appello per l'omicidio di Graziella Campagna e per l'omicidio di Beppe Alfano), conferma senza alcuna remora quanto da lui scritto. E rincara la dose: “L'omicidio di Attilio Manca si inquadra nella strategia di copertura della trattativa Stato-mafia”. La sua analisi parte da lontano. Minasi ricorda con sdegno la gravità del conflitto di attribuzione sollevato da Giorgio Napolitano nei confronti del pool che indaga sulla trattativa per le sue telefonate con Nicola Mancino. E proprio in merito all'ex ministro democristiano Minasi sottolinea l'episodio dell'incontro del primo luglio 1992 - volutamente dimenticato - tra lo stesso Mancino e Paolo Borsellino. Per Minasi, Borsellino sarebbe stato chiamato al Viminale “per diventare un attore della trattativa” ma il magistrato avrebbe immediatamente “rifiutato”. “Napolitano - insiste Minasi - ha cercato di coprire nella maniera più spudorata la segretezza delle sue conversazioni. Quale spiegazione si può dare a tutto questo? Coprire una trattativa che a nessun costo si deve far scoprire”. “Una volta mi chiesero chi fosse stato per me il peggior presidente della Repubblica che abbiamo avuto in Italia. Stavo per rispondere 'Cossiga', poi ci ho ripensato un attimo e ho affermato con convinzione: Napolitano!”.
Si torna quindi a parlare nello specifico del caso del giovane urologo barcellonese. “Ho sempre inquadrato l'assassinio di Attilio Manca come uno degli episodi della trattativa - ribadisce l'ex pg -. Penso che lui sia stato 'adoperato' per operare Provenzano, o per preparare, nell'assoluto segreto, questa operazione”. Secondo Minasi “se si è mosso un Presidente della Repubblica con un conflitto di attribuzione, a maggior ragione c'è chi si muoverà in tutte le maniere possibili per fermare il disvelamento di questo omicidio di Stato”. “A mio avviso - sottolinea di seguito -, a lume di logica e per tutta una serie di indizi presenti, l'assassinio di Manca si configura come uno dei tanti assassinii di Stato e anche mafioso”. Attilio Manca sarebbe stato quindi un testimone scomodo della rete di protezione istituzionale eretta attorno a Provenzano e quindi andava eliminato? Minasi si dice d'accordo con questa ipotesi e aggiunge: “il fatto che Attilio Manca abbia curato Provenzano essendo consapevole della sua identità non basta per condannarlo a morte. Ma se per fare questo è venuto a conoscenza di particolari 'di contorno' sull'organizzazione di quella latitanza, allora, proprio per questa ragione, doveva assolutamente scomparire. Ripeto: Attilio Manca è indubbiamente un testimone di un sistema finalizzato a coprire la latitanza del boss. E in questo sistema vi facevano parte ovviamente elementi istituzionali”.
Per Minasi sussiste inoltre una sorta di parallelismo tra l'omicidio Manca e quello della giovane stiratrice di Villafranca. “Graziella Campagna, inconsapevolmente, attraverso quel biglietto trovato nella tasca della giacca di Gerlando Alberti jr, è venuta a conoscenza di un insieme di frequentazioni anche istituzionali di quest'ultimo. A quel punto, anche se lei non aveva capito, era indispensabile eliminarla. Nel caso di Attilio Manca potrebbe essere successa una cosa analoga. E quindi viene costruita quella simulazione del suicidio in maniera piuttosto rozza: due buchi nel braccio sinistro di un mancino! Non dimentichiamo che tutto questo parte da un territorio, quello di Barcellona Pozzo di Gotto, dove senza ombra di dubbio ci sono personaggi 'disponibili' a realizzare simili azioni. Ora vengono fuori i testimoni che accusano Manca di avere fatto uso di eroina... non mi stupisco, 'loro' troveranno sempre qualcuno disponibile a gettare fango: o per paura, o perchè sotto minaccia, o perché è stato pagato. Il territorio di Barcellona è perfetto per questo tipo di operazioni”. Ed è approfondendo la questione geografica che emerge una particolare amarezza dell'ex magistrato. “Il territorio del messinese - evidenzia Minasi - ha una sua specificità che ho cercato di analizzare negli anni e che poi mi ha indotto a gettare la spugna. Me ne sono andato in pensione a 65 anni (all'epoca si poteva ancora) perchè avevo capito che non c'era niente da fare. A un certo punto la battaglia era diventata inutile: non mi facevano lavorare...”. La città dello Stretto resta sempre sullo sfondo: “A Messina dovevano avvenire in piena tranquillità tutti i traffici possibili e immaginabili. Non a caso Villafranca Tirrena, Barcellona Castroreale erano diventate ricettacoli di latitanti di mafia, 'ndrangheta, camorra. Qui avvenivano i summit, perchè qui c'è un traffico di armi. E' questo il punto”. “Il controllo su tutto ciò che avviene a Messina - sottolinea l'ex pg - è capillare, e se qualche pedina non è al posto giusto la fanno saltare. Se qualcuno rompe i giochi se ne deve andare: o se ne va spontaneamente, o lo fanno andare. Non ammazzano, non hanno bisogno di ammazzare se non in casi limite come quello di Attilio Manca. Penso anche all'omicidio di Matteo Bottari, per il quale non si è saputa e non si saprà mai la verità. Una delle 'voci' che circola è che lui sia sceso nei sotterranei del Policlinico universitario di Messina per controllare un carico di strumentazione che aveva ordinato per il reparto di gastroenterologia, che abbia aperto una di queste casse e abbia trovato invece delle armi. Evidentemente ne avrà parlato con qualcuno e immediatamente si è provveduto a eliminarlo”. “Anche su Beppe Alfano non si saprà mai tutta la verità. Alfano aveva indubbiamente scoperto quel 'sistema di latitanza protetta' che esisteva tra Barcellona, Castroreale, Villafranca, ed è stato ammazzato per questo”.
Il post di Marcello Minasi si concludeva così: “Se fosse necessario sarebbero capaci di uccidere di nuovo come hanno fatto con il povero Attilio Manca. Non li sottovalutiamo, son delinquenti non migliori dei mafiosi, solo più ipocriti”. Ricordo al dott. Minasi che il pentito Carmelo D’Amico ha espressamente parlato della morte di Attilio Manca come di un omicidio mascherato da suicidio, D’Amico ha chiamato in causa mafia, massoneria e servizi segreti. Gli chiedo se quando ha scritto di non sottovalutare chi potrebbe uccidere ancora, si riferiva a questi poteri. “Sì, sono questi - risponde senza tergiversare -. C'è da dire, però, che quando usiamo il termine 'massoneria' lo facciamo in modo improprio. La massoneria è una sorta di trampolino di lancio. L'organizzazione effettiva non è la massoneria storica, è piuttosto una rete fittissima che si avvale anche di un pezzo della massoneria: una massoneria parallela con logge 'deviate' che hanno agganci con quella ufficiale”. Minasi concorda sul fatto che il caso di Attilio Manca rappresenta a tutti gli effetti un mistero tipicamente italiano dove spesso non bastano decenni per arrivare alla verità. “Secondo me non si riuscirà mai ad arrivare alla verità sull'omicidio di Attilio Manca. E' un tipico mistero italiano, un tipico mistero messinese...”. Poi, però, ci ripensa: “Chissà... si può anche incappare in un magistrato coraggioso... Certo, a Viterbo non mi sembra però che la situazione sia rassicurante... E comunque, io ripongo la mia piena fiducia nei due legali della famiglia Manca, Fabio Repici e Antonio Ingroia. Tutta la mia speranza è riposta in loro. Probabilmente è l'unica”.
Ingroia: “Se riscontrate sono dichiarazioni-bomba che confermano la nostra pista”
di Lorenzo Baldo
“Poco tempo dopo la morte di Attilio Manca, avvenuta intorno all’anno 2004, incontrai Salvatore Rugolo, fratello di Venerina e cognato di Pippo Gullotti (condannato a 30 anni quale mandante dell'omicidio di Beppe Alfano, ndr). Lo incontrai a Barcellona, presso un bar che fa angolo, situato sul Ponte di Barcellona, collocato vicino alla scuola guida Gangemi. Una volta usciti da quel bar Rugolo mi disse che ce l’aveva a morte con l’avvocato Saro Cattafi perché 'aveva fatto ammazzare' Attilio Manca, suo caro amico. In quell’occasione Rugolo mi disse che un soggetto non meglio precisato, un Generale dei Carabinieri, amico del Cattafi, vicino e collegato agli ambienti della 'Corda Fratres', aveva chiesto a Cattafi di mettere in contatto Provenzano, che aveva bisogno urgente di cure mediche alla prostata, con l’urologo Attilio Manca, cosa che Cattafi aveva fatto”. Rimbalzano forti le dichiarazioni del pentito Carmelo D'Amico rese ad ottobre del 2015. L'ex capo dell’ala militare di Cosa Nostra barcellonese racconta due confidenze raccolte tra il 2004 e il 2006 nelle quali spiccano i Servizi segreti dietro l’omicidio dell’urologo barcellonese Attilio Manca. Queste clamorose rivelazioni sono emerse ieri mattina durante l’udienza davanti al Tribunale del Riesame di Messina. Il collegio presieduto da Antonino Genovese doveva occuparsi del ricorso della Procura generale contro la scarcerazione di Saro Cattafi. Come è noto l'ex avvocato barcellonese era stato condannato in primo grado a 12 anni come capo della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto. Di fatto in appello Cattafi era stato riconosciuto un semplice affiliato, e solo sino all'anno 2000, e la pena gli era stata ridotta a 7 anni di reclusione. Fatto sta che il 4 dicembre 2015 gli stessi giudici della Corte d’Appello ne avevano disposto la scarcerazione.
Cattafi: il regista occulto
“Rugolo non mi specificò se l’urologo Manca era già stato individuato come medico che doveva curare il Provenzano – si legge ancora nei verbali di D'Amico – e il compito del Cattafi era soltanto quello di entrare in contatto con il Manca, o se invece fu lo stesso Cattafi che scelse e individuò il Manca come medico in grado di curare il Provenzano. Rugolo Salvatore ce l’aveva a morte con Cattafi perché, proprio alla luce di quel compito da lui svolto, lo riteneva responsabile della morte di Attilio Manca che riteneva sicuramente essere un omicidio e non certo un caso di overdose. Rugolo non mi disse espressamente che Cattafi aveva partecipato all’omicidio di Manca ma lo riteneva responsabile della sua morte per i motivi che ha sopra detto. Quando Rugolo mi disse queste cose, io ebbi l’impressione che mi stesse chiedendo di eliminare il Cattafi, cosa che era già successa in precedenza, così come ho già detto quando ho parlato di Saro Cattafi) perché ritenuto il responsabile della cattura di Nitto Santapaola”. Per la cronaca, Salvatore Rugolo, medico di base di Barcellona P.G., morì nel 2008 a 59 anni in un incidente stradale.
D'Amico, Nino Rotolo e Attilio Manca
Oltre ai colloqui con Rugolo c’è un'altra confidenza di cui riferisce D’Amico: “Successivamente ho parlato di queste vicende quando sono stato detenuto presso il carcere di Milano-Opera in regime di 41 bis insieme a Rotolo Antonino. Mi confidò che erano stati i Servizi segreti a individuare Attilio Manca come il medico che avrebbe dovuto curare il latitante Provenzano. Rotolo non mi disse chi fosse questo soggetto appartenente ai Servizi ma io capii che si trattava della stessa persona indicatami dal Rugolo, ossia quel Generale dei Carabinieri che ho prima indicato; sicuramente era un soggetto delle istituzioni. Rotolo Antonino, sempre durante la nostra comune detenzione presso il carcere di Milano-Opera, mi disse che Attilio Manca era stato eliminato proprio perché aveva curato Provenzano e che ad uccidere quel medico erano stati i Servizi segreti”.
Il direttore del Sisde e il calabrese dalla faccia brutta
“In quella circostanza – prosegue D'Amico – Rotolo mi aggiunse che di quell’omicidio si era occupato, in particolare un soggetto che egli definì 'u calabrisi'; costui, per come mi disse Rotolo, era un militare appartenente ai Servizi segreti, effettivamente di origine calabrese, che era bravo a far apparire come suicidi quelli che erano a tutti gli effetti degli omicidi. Rotolo Antonino mi fece anche un altro nome coinvolto nell’omicidio di Attilio Manca, in particolare mi parlò del 'Direttore del Sisde', che egli chiamava 'U Diretturi'. Rotolo non mi disse come era stato ammazzato Manca, né mi fece il nome e cognome del 'calabrese' e del 'Direttore del Sisde', né io glielo chiesi espressamente. In questo momento mi sono ricordato che Rotolo, se non ricordo male, indicava il calabrese come 'U Bruttu', ma non so dire il motivo, e che era 'un curnutu', nel senso che era molto bravo a commettere questo tipo di omicidi”. Un velato riferimento all'agente dei Servizi soprannominato “faccia da mostro”?
Antonio Ingroia: “Se riscontrate, sono dichiarazioni-bomba che confermano la nostra pista”
Seppur in attesa di leggere i verbali integrali, il ragionamento dell'avvocato che assiste la famiglia Manca assieme a Fabio Repici è alquanto esplicito: “Si confermano tutte le nostre ricostruzioni e si apre una pista consistente che si muove nel solco della nostra ricostruzione”. Per Ingroia “è curiosa e paradossale la circostanza che queste dichiarazioni vengano fuori all'indomani della notizia della richiesta di rinvio a giudizio nei miei confronti per calunnia per aver detto sostanzialmente le stesse cose che emergono (prospettate da un altro punto di vista) dalle rivelazioni di D'Amico”. “Sono abbastanza sconvolto dal tenore di queste dichiarazioni – sottolinea l'ex pm – che prospettano una realtà ben al di là di quella che noi sospettavamo. Abbiamo sempre pensato che ci fosse una mano dei Servizi segreti, ma dalle dichiarazioni di D'Amico - che vanno ovviamente verificate e riscontrate - emerge addirittura che c'è piuttosto la piena responsabilità dei Servizi nell'esecuzione materiale dell'omicidio Manca. Tutto ciò inquadra quell'omicidio in un contesto ancora più grave, inquietante e ancora più complesso di quanto non lo avevamo ricostruito”. Il legale dei Manca parla appositamente di una conferma della loro “intuizione di fondo” che inquadrava un “depistaggio articolato e raffinato” suddiviso in due aspetti: quello “preventivo” relativo alla “messinscena della scena del delitto”, e quello “successivo” nelle indagini “con la manipolazione e la falsificazione delle prove per allontanare qualsiasi collegamento tra Manca e Provenzano”. “Ho sempre ritenuto impensabile che fosse un depistaggio di sola mafia”, sottolinea Ingroia. Che ribadisce la sua convinzione di aver sempre ritrovato “un forte odore di Servizi”. “Conseguentemente l'omicidio non poteva essere di sola mafia, ma ci doveva essere la stessa mano di quegli apparati” in quanto collegati alla rete di protezione di Provenzano. Che “non era di sola mafia, ma era anche di Servizi”. Una vera e propria “rete di protezione” che serviva a “tenere in piedi la trattativa e garantire attraverso il permanere della latitanza di Provenzano e della sua rete di protezione il perdurare dei garanti della trattativa”. “Provenzano era il garante sul versante mafioso della trattativa e quindi doveva rimanere al sicuro lui con la sua rete di protezione mafiosa e dei Servizi”.
Dopo il clamore mediatico, si apre quindi un possibile fronte giudiziario. “Stamattina – spiega l'avv. Ingroia – ho preso contatti con il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone – che mi diceva di non conoscere queste dichiarazioni –, e con il procuratore di Messina, Guido Lo Forte, anticipando una nostra richiesta di acquisizione di questi verbali. Resta paradossale che queste dichiarazioni non siano mai venute a conoscenza della procura di Roma e che non siano state messe a disposizione della famiglia Manca, così come della Procura di Viterbo”. Certo è che Carmelo D'Amico ha riferito per la prima volta queste confidenze dopo i 180 giorni concessi ai collaboratori di giustizia per legge. Non ne aveva fatto cenno nemmeno questa estate al processo d'Appello nei confronti di Cattafi. Per Ingroia “è comprensibile che un pentito, di fronte ad uno scenario così terribile, nel quale si danno degli elementi che possono consentire di risalire all'identificazione di alti funzionari (si parla di generali dei Carabinieri e di un direttore del Sisde), non se la senta di dire certe cose in dibattimento. E' successo altre volte, con collaboratori anche più importanti, non possiamo meravigliarci. E' evidente che questo comporterà dei problemi nella valutazione dell'attendibilità delle sue dichiarazioni, ci saranno le solite polemiche sulle cosiddette 'dichiazioni a rate' dei pentiti. Il problema della possibile inutilizzabilità riguarda le dichiarazioni rese in fase di indagini preliminari e non le dichiarazioni rese a dibattimento. Verrebbe quindi meno il problema se D'Amico, in una pubblica udienza, venisse a ripeterle. Trovare i riscontri alle sue affermazioni è quello che conta”.
L'ultima speranza di una madre
Al telefono la voce di Angelina Manca si incrina per l'emozione. Piange silenziosamente questa donna indomita che da 12 anni, assieme a suo marito Gino e a suo figlio Luca, continua a pretendere la verità sulla morte del suo primogenito. “Speriamo che non venga insabbiato un'altra volta”, sospira sfinita. Ma poi si fa forza: “stavolta, però, penso sia difficile che possano insabbiare... Credo che per la mafia sia arrivato il momento di parlare di Attilio... C'è qualcosa nella mafia che sta cambiando, è come se volesse che emerga l'omicidio di Attilio”. “Quando ho avuto la notizia delle dichiarazioni di D'Amico non sapevo se piangere o se essere contenta perchè questo ridava dignità ad Attilio. Erano da poco passate le dieci di ieri sera quando mi ha telefonato l'avvocato Repici, io ero già a letto perchè mi sentivo poco bene, ma mi sono subito alzata. E' stata un'emozione indescrivibile... In questi anni ho pianto poco per la morte di Attilio, per il dolore che avevo dentro... Ieri invece è stato come un pianto liberatorio, finalmente riuscivo a restituire dignità a mio figlio. Io e Gino siamo stati tutta la notte svegli a parlare, è stato come se avessimo rivisto tutto quello che avevamo detto dall'inizio: i Servizi segreti, il depistaggio, l'ultima telefonata fatta scomparire dai tabulati, quello che ci aveva detto Vittorio Coppolino una settimana dopo la morte di Attilio sulla possibilità che nostro figlio avesse potuto visitare Provenzano quando ancora nessuno sapeva della sua operazione...”. Angelina si ferma un attimo e prende fiato: “l'omicidio di mio figlio si poteva risolvere subito e invece è stato affossato dalle istituzioni. Ma ora non è più come prima, qualcosa da oggi è cambiato”.