di Lanfranco Pace

Sono magri ma non affamati. Sono essenziali. Vanno da un porto all’altro, per colli e valli, con sciolta eleganza. Camminano sghembi, il treno posteriore a destra, il collo a sinistra e la testa ogni tanto rivolta all’indietro, sanno che è da qui che il pericolo può venire. Alcuni sono così meticci che il primo incrocio si è ormai perso nel tempo. Bolbo ha muso da bracco, manto da dalmata, zampe che fanno dieci centimetri al garrese e si porta dietro, dritta e fiera, senza inciampare, una coda di un metro e passa. C’è poi un facsimile di yorkshire ma con le orecchie all’ingiù e un pelo ruvido come quello di un pastore della Brie. Corre dietro solo ai motorini rossi, nessuno sa perché: qualcuno convinto che sia gay lo chiama Alcibiade, qualcun altro Demostene perché abbaia con forza e convinzione. Ma che importa il nome, quando si è “sans papiers”.

Pipito, figlio di un incrocio recente forse tra un golden retriver e un setter, è riconosciuto ufficialmente come leader.
Aveva otto mesi Pipito quando quattro anni fa incontrò una cagnetta di buona famiglia, romana da centro storico ma senza spocchia, appena sbarcata dalla nave. Lei aveva quattro mesi e si affacciava appena alla vita, lui se ne stava sdraiato all’ombra di un ristorante lungo il porto. Da lontano, fu subito passione. Si saltarono al collo, mordicchiandosi le orecchie. Sfrontata lei si sdraiò a pancia in su, con le gambe aperte si prestò al gioco. Lui altrettanto, lei fanciullo e lui fanciulla, polimorfi perversi.
Per l’estate successiva e l’altra ancora furono inseparabili. Se la vedeva in macchina, le correva dietro per un po’, poi spariva per qualche misteriosa scorciatoia in modo da arrivare per primo a casa, evidentemente anche lui provava il grande piacere dell’attesa dell’amata. Passava le notti, fuori dal cancello, sprofondato nell’oblio dell’isola di Filicudi e dei suoi simili.

La prima sera che fu ricevuto in casa, assistette al pasto di lei con compunzione. Generoso e disinteressato, nulla chiese per sé. Quando gli fu acconciata una ciotola a parte, ne prese piccoli bocconi che masticava con studiata lentezza, da vero gentiluomo di Sicilia. Come appagato dal profumo di sesso che si diffondeva nell’aria. Avevano l’età, lei si sarebbe incanaglita volentieri ma la sorte non fu mai dalla loro parte. L’anno successivo era ormai chiaro che lui non si sarebbe più accontentato di sussurri e simulazioni. Così una sera prese Bolbo e gli altri e andò a sgarrare non si sa dove. Lei se ne ebbe a male, non ne volle più sapere, tra le femmine di cane ci sono sempre quelle un po’ così, o tutto o niente.

Quest’inverno arriva un sms,
l’hanno avvelenato, è in fin di vita: una foto lo mostra su un fianco, rantolante, la bava alla bocca. Lei non capisce ma deve aver avvertito il dolore intorno perché improvvisamente emette un lungo e ripetuto guaito, lei che fa rumore solo quando dorme. Ma Pipito gliel’ha fatta, una deliziosa veterinaria lo ha salvato e curato, in inverno lo tiene con sé a Catania, in estate stanno sull’isola. Così a luglio lei l’ha rivisto. Ora ha il pelo lucido e morbido, i fianchi scarni rassegnati all’improvvisa opulenza. Lui pensa ancora di essere sempre quello di un tempo ma non è così. Alle canne e al vento bastardo che a volte c’è e a volte no, preferisce l’aria condizionata. Al cemento e ai sassi, il divano. E alle sgroppate in lungo e in largo, confortevoli passaggi in macchina che non gli mancano ora che è un borghese e sa di pulito. Quando lei lo ha visto è rimasta un po’ sulle sue, ha mosso la coda felice, poi ha scosso la testa e si è girata dall’altra parte. Come quando finisce un amore.(ilfoglio.it)

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