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Abuso edilizio senza prescrizione
Tar Lazio: non sono previsti termini perentori per la definizione delle istanze di condono

Per l’abuso edilizio non c’è la prescrizione che al massimo potrebbe riguardare il tema di pagamento degli oneri concessori e dell’oblazione. Non sono previsti termini perentori per la definizione delle istanze di condono.

È quanto sottolineano i giudici del Tar di Roma nella sentenza n. 18521/2024 che respinge il ricorso di una persona contro l’ordinanza di demolizione del Comune di Ronciglione per abusi effettuati negli anni 90 e per cui erano state presentate istanze di sanatoria e pagati gli concessori.

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Scatta l’abbandono di animali per il cane lasciato sotto il sole e strozzato dalla catena
L’imputato è stato condannato a cinquemila euro di ammenda e tremila euro in favore dell’Enpa per il reato contravvenzionale dell’articolo 727 del Cp e non per il delitto di maltrattamenti previsto dall’articolo 544

Risponde della contravvenzione prevista dall’articolo 727 del Codice penale il proprietario del cane lasciato alla catena che gli impedisce di muoversi, per l’assenza di moschettoni rotanti determina l’attorcigliamento delle maglie di metallo fino a determinare lo strozzamento dell’animale.

Si tratta di una condotta che può ben comportare il diniego della sospensione condizionale della pena se viene agita in condizioni estreme di sopportazione per l’animale domestico letteralmente abbandonato in ceppi.

La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 38792/2024 - ha respinto tutti i motivi di doglianza dell’uomo condannato a 5.000 euro di ammenda e 3.000 euro da rinfondere alla parte civile costituitasi, cioè all’Ente nazionale per la protezione degl animali.

Il ricorso lamentava l’applicazione di una pena illegale e del mancato riconoscimento della sospensione condizionale visto il suo stato di incensuratezza. In effetti il dispositivo letto in udienza parlava di dieci mesi di reclusione e pagamento di una multa di 300 euro, mentre il reato contravvenzionale punisce la condotta di abbandono di animali alternativamente con l’arresto o con l’ammenda (”Chiunque abbandona animali domestici o che

abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro”). Ma la discrasia tra dispositivo e motivazione ha consentito alla Cassazione di farne una lettura congiunta e a constatare che di fatto la reale condanna elevata contro l’imputato si era attenuta correttamente all’applicazione della pena pecuniaria dell’ammenda. Il motivo è quindi stato respinto.

I giudici di legittimtà hanno poi confermato anche il giudizio negativo sul punto della concessione del beneficio della sospensione condizionale ritenendolo congruamente motivato come espresso in sede di merito. Infatti, non si può negare il carattere di estrema gravità e la prognosi sfavorevole rispetto al rischio di reiterazione del reato da parte dell’imputato che aveva lasciato l’animale domestico esposto senza riparo dal sole e attaccato per giorni alla catena non idonea a garantire il movimento di un cane di grossa taglia.

Il paziente che rifiuta il ricovero libera il medico solo se è informato
La Cassazione esclude la responsabilità della vittima di una diagnosi sbagliata. Va verificato se sono state date compiute indicazioni sullo stato di salute e i rischi

Il rifiuto del ricovero ospedaliero, da parte di un paziente poi deceduto, esclude, di regola, la responsabilità dei sanitari. Non sempre però. Occorre infatti anche indagare se il paziente abbia rifiutato il ricovero sulla base di una corretta informazione circa il proprio stato di salute e i correlati rischi.

Lo ha affermato la Cassazione che, si è occupata del caso di una paziente alla quale, in pronto soccorso, non fu colpevolmente diagnostica un’ischemia...

Investe passante in bici, ladro seriale condannato dal giudice di pace
Hamza El Kamily, 27 marocchino accusato di ben 12 furti avvenuti a Mogliano, è stato condannato per aver centrato un passante in bici

Tra il giugno del 2016 e il gennaio del 2019 si era reso responsabile di ben dodici furti messi a segno nella zona di Mogliano Veneto ai danni dell'hotel "Villa Stucky" (in tre occasioni spariti 1450 euro, 150 e 50 euro da alcuni cassetti vicini al concierge), in un negozio di toelettatura per cani, una cartoleria, da "Pittarosso", in cui aveva trafugato alcune paia di scarpe e in alcuni studi professionali. Il responsabile di questi episodi, un 27enne di origini marocchine e residente a Mogliano, Hamza El Kamily, era stato quindi arrestato su ordinanza di custodia cautelare in carcere firmato dal gip del tribunale di Treviso Piera De Stefani.

Ma le avventure delittuose del marocchino non si erano fermate quì e per questo è stato condannato per lesioni colpose e minaccia ai danni di una persona che aveva investito con la sua bicicletta lungo il sottopasso ferroviario di Mogliano, causandogli la frattura di una costola. Di fronte al giudice di pace di Treviso l'uomo è stato condannato alla pena di mille e quattrocento euro, oltre al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede civile, concedendo una provisionale di 2 mila euro.

L'immigrato, invece che scusarsi con la persona che era stata travolta dalla sua bicicletta, lo aveva reso a male parole. «Io - disse - ti spacco il c..., chiamo i miei amici e ti ammazzo», tentando di gettare la bici addosso alla persona offesa fino all'arrivo dai Carabinieri.

Avvocati: definire "pezzente" la controparte in aula non è reato

La sentenza in esame riguardava, in particolare, il caso di un imputato condannato in primo grado per aver proferito durante un'udienza di un processo civile, in presenza di più persone, la parola "pezzente" nei confronti della controparte, assente, poi costituita parte civile nel processo penale. Il Tribunale di Gela aveva, dunque, condannato l'imputato per diffamazione, ritenendo che il termine utilizzato fosse offensivo e lesivo della reputazione della parte offesa. Tuttavia, la Corte di cassazione ha ribaltato questa decisione, annullando la condanna senza rinvio perché il fatto non costituisce reato.

Il reato di diffamazione, previsto dall'art. 595 del codice penale, punisce "chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, e' punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a lire diecimila".

Il reato di diffamazione sanziona dunque chi, comunicando con più persone, offende volontariamente la reputazione di un soggetto assente.

Per configurare tale reato, sono essenziali i seguenti requisiti: l'offesa alla reputazione di un'altra persona, l'impossibilità per la vittima di percepire direttamente l'offesa e la presenza di almeno due persone.

In primo luogo, va chiarito che per "reputazione" si intende la stima che gli altri hanno della sfera morale di una persona nell'ambiente in cui vive. Questa stima è protetta dalla legge come interesse del soggetto alla sua conservazione e al rispetto da parte degli altri membri della società.

La condotta tipica del delitto di diffamazione consiste, quindi, nell'atto di comunicare, con qualsiasi mezzo o modalità, ad almeno due persone, un'offesa alla reputazione di un terzo.

È sufficiente che nella condotta dell'agente sussista il dolo generico, in quanto la norma in esame non prevede la necessità di un fine specifico, ma unicamente la consapevolezza e la volontà di arrecare un'offesa e di comunicarla a due o più persone.

La Cassazione, con la sentenza n. 25026 del 2024 (sotto allegata) ha sottolineato che, nel caso di specie, il termine "pezzente" è stato pronunciato nel corso di un'udienza di una controversia civile "in occasione di un non meglio precisato riferimento ad una denuncia per truffa", d'impeto e non in un contesto denigratorio continuativo. L'uso isolato e occasionale del termine non possiede, infatti, la carica offensiva necessaria per configurare il reato di diffamazione.

La Corte ha valutato, dunque, che la parola "pezzente", sebbene possa essere considerata offensiva in alcuni contesti, nel caso specifico non ha compromesso la reputazione della parte offesa nell'ambiente sociale in cui vive.

La valutazione della carica offensiva di un termine, dunque, deve essere contestualizzata e non può prescindere dalle circostanze specifiche in cui esso viene utilizzato.

La sentenza richiama implicitamente il principio della libertà di espressione, sancito dall'art. 21 della Costituzione Italiana riconoscendo che, sebbene la libertà di espressione non sia assoluta e debba essere bilanciata con il diritto alla reputazione, nel caso di specie l'esternazione non ha raggiunto il livello di offensività richiesta per la configurazione del reato di diffamazione

La sentenza n. 25026 del 2024 della Cassazione offre importanti spunti di riflessione per la giurisprudenza futura e per la pratica forense.

La decisione ribadisce l'importanza di valutare il contesto in cui un termine offensivo viene utilizzato. Non ogni espressione potenzialmente offensiva costituisce diffamazione; è necessario considerare le circostanze specifiche, il contesto e l'intenzione dell'autore.

La sentenza evidenzia, altresì, la necessità di bilanciare il diritto alla libertà di espressione con il diritto alla reputazione. Questo bilanciamento deve essere effettuato caso per caso, tenendo conto della gravità dell'offesa e, si ripete, del contesto in cui viene proferita.

La decisione della Cassazione potrebbe costituire un precedente importante per future controversie in materia di diffamazione, soprattutto in contesti giudiziari.

In conclusione, la sentenza n. 25026 della S.C. rappresenta un'importante pronuncia in materia di diffamazione, offrendo chiarimenti sui limiti della libertà di espressione e sulla necessità di un'attenta valutazione delle espressioni offensive e del contesto di riferimento. La decisione sottolinea l'importanza di bilanciare i diritti costituzionali e di considerare le circostanze specifiche di ogni caso, contribuendo così a una giurisprudenza più equilibrata e attenta ai diritti delle parti coinvolte.

Terzo condono edilizio: nessuna deroga sui vincoli di inedificabilità
La Corte di Cassazione ritorna a parlare dei limiti più stringenti della legge n. 326/2003 in materia di abusi commessi in area sottoposta a vincolo

La normativa condonistica, nella sua evoluzione con tre diverse leggi nell’arco di poco meno di vent’anni, ha visto fissare dei limiti sempre più stringenti sulla possibile sanatoria degli abusi edilizi, che differenziano non poco le possibilità offerte dalla legge n. 47/1985 rispetto alla legge n. 326/2003, soprattutto in relazione a illeciti commessi in aree vincolate.

Abusi edilizi in area vincolata: nuovo no della Cassazione alla sanatoria
E, come conferma la sentenza della Corte di Cassazione del 29 dicembre 2023, n. 51632, nel caso di istanze ai sensi del D.L. n. 269/2003, convertito con legge n. 326/2003, nessuna sanatoria può essere concessa per c.d. “abusi maggiori” commessi in area sottoposta a voncolo di inedificabilità senza ammissione di possibili deroghe.

Il caso riguarda il ricorso proposto contro l’ordine di esecuzione per la demolizione di un immobile. Secondo la ricorrente, l’ordine di demolizione andava revocato in quanto:

la giustizia amministrativa aveva deciso in senso favorevole alla condonabilità edilizia dell'opera abusivamente costruita, valorizzando la distinzione tra aree sottoposte a vincoli assoluti di inedificabilità e quelle sottoposte invece a vincoli relativi, mentre il giudice penale ha deciso in senso opposto, disapplicando la concessione edilizia in sanatoria e confermando il relativo ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi;
sarebbe stata erroneamente ritenuta applicabile nella Regione Sicilia la disciplina dettata dall'art. 32 comma 27 della legge n. 326 del 2003, secondo cui la sanatoria edilizia non può essere concessa né sulle aree soggette a vincolo di inedificabilità assoluta, né su quelle soggette a vincoli di inedificabilità relativa, e non invece quella stabilita dall'art. 23 della legge regionale n. 27 del 1985, secondo cui, il condono può essere concesso nelle aree assoggettate a vincoli relativi, previo nulla osta degli enti preposti alla tutela del vincolo;

in Sicilia il divieto di cui all'art. 32 lett. d) della legge n. 326 del 2003, che pone limiti alla sanatoria per i casi di esistenza di vincoli di inedificabilità, deve considerarsi riferito esclusivamente ai vincoli di inedificabilità assoluta e non a quelli relativi, per i quali ben può essere rilasciata la concessione in sanatoria, come avvenuto nel caso di specie;
l'ordine di demolizione ex art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001 deve essere qualificato come pena ad ogni effetto, dovendosi ritenere conseguentemente applicabile il relativo termine di prescrizione quinquennale.

Vincoli di inedificabilità assoluta e relativa: cosa prevede il Terzo Condono Edilizio
Gli ermellini hanno invece confermato la scelta dell’esecuzione della demolizione, in quanto le valutazioni del CGARS non potevano essere condivise: ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett. d) della legge n. 326 del 2003, non sono suscettibili di sanatoria le opere realizzate su immobili soggetti a vincoli che siano stati imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e aree protette nazionali, regionali, qualora istituiti prima dell'esecuzione delle opere, in assenza o in difformità del titolo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.

Rispetto ai condoni precedenti, quello del 2003 prevede che le opere ricadenti in zone vincolate siano suscettibili di sanatoria solo nei casi di interventi edilizi di minore rilevanza, corrispondenti alle tipologie di illecito di cui ai n. 4, 5 e 6 dell'Allegato 1, restando escluse dal condono tutte le ipotesi, come quella in esame, di nuova costruzione realizzata in assenza o totale difformità dal titolo edilizio in area assoggettata a vincolo.

La disciplina nazionale è stata peraltro recepita dalla Regione Sicilia con la legge regionale n. 15/2004, il cui art. 24 richiama il citato art. 32 del D.L. n. 269/2003, convertito dalla legge n. 326/2003, dovendosi tale richiamo ritenersi riferito non solo alle forme, ma anche ai limiti della legislazione nazionale, con la conseguenza che la concessione in sanatoria non può essere rilasciata per interventi di nuova costruzione in aree vincolate, né su quelle soggette a vincoli di inedificabilità relativa, per cui legittimamente è stato ritenuto irrilevante il permesso di costruire in sanatoria rilasciato dal Comune.

L'incostituzionalità della norma siciliana
Inoltre quanto deciso in appello viene supportato dalla sentenza n. 252/2022 della Corte costituzionale con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della legge della Regione Siciliana 29 luglio 2021, n. 19, che a sua volta aveva inserito l'art. 25 bis, costituente norma di interpretazione autentica dell'art. 24 della legge regionale Siciliana n. 15 del 2004, prevedendo che «L'articolo 24 della legge regionale 5 novembre 2004, n. 15 si interpreta nel senso che sono recepiti i termini e le forme di presentazione delle istanze presentate ai sensi dell'articolo 32 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, e pertanto resta ferma l'ammissibilità delle istanze presentate per la regolarizzazione delle opere realizzate nelle aree soggette a vincoli che non comportino inedificabilità assoluta nel rispetto di tutte le altre condizioni prescritte dalla legge vigente. 2. Per la definizione delle pratiche di sanatoria di cui al presente articolo, gli enti competenti rilasciano il nulla osta entro i termini previsti dalla normativa vigente».

Come ha osservato infatti la Consulta, “la disposizione ha carattere innovativo perché - consentendo, con efficacia retroattiva, la sanatoria delle opere realizzate nelle aree soggette a vincoli di inedificabilità relativa - è in evidente contrasto con quanto stabilito dalla disposizione che intende interpretare. Già sulla base della sua portata letterale, infatti, l'art. 24 della legge regionale Siciliana n. 15 del 2004 richiama espressamente l'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, nella sua integralità. Di conseguenza, tale rinvio riguarda non solo i termini e le forme della richiesta di concessione in sanatoria, ma anche i limiti entro i quali questa deve essere rilasciata, tra cui quello previsto dal citato comma 27, lettera d), dell'art. 32, che attribuisce «carattere ostativo alla sanatoria anche in presenza di vincoli che non comportino l'inedificabilità assoluta». Fra questi, ma non solo, come prescrive la citata lettera d), vi sono «i vincoli imposti a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di tali opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici".

Ha quindi concluso la Corte costituzionale che "non pare condivisibile il diverso avviso del CGARS, adunanza del 31 gennaio 2012, parere n. 291 del 2010, secondo cui, nell'ambito della Regione Siciliana, dovrebbe continuare ad applicarsi la disciplina attuativa del primo condono edilizio, prevista dalla legge n. 47 del 1985, preclusiva della sanatoria solo a fronte di vincoli di inedificabilità assoluta, dovendosi escludere che l'applicabilità del condono edilizio in presenza di vincoli relativi possa rientrare «tra le possibili varianti di senso del testo originario» dell'art. 24 della legge regionale n. 15 del 2004".

Ne consegue che, anche alla luce dell'autorevole intervento della Consulta , non vi è spazio per l'accoglimento delle censure difensive in tema di condonabilità dell'immobile oggetto dell'ordine di demolizione.

L'ordine di demolizione non si prescrive
Per quanto riguarda il decorso del tempo ai fini della operatività dell'ordine di demolizione, ricordano inoltre i giudici di piazza Cavour che in tema di reati concernenti le violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo imposto dal giudice costituisce una sanzione amministrativa che assolve a un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configurando quindi un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, avendo peraltro carattere reale, producendo cioè effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore dell'abuso. Da ciò consegue che, essendo privo di finalità punitive, l'ordine di demolizione non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 della legge n. 689 del 1981, che riguarda solo le sanzioni pecuniarie con finalità punitive.

Opere realizzate entro i 150 metri dalla battigia: il Tar Palermo fa il punto.
Il vincolo di inedificabilità assoluta ex art. 15, lett. a), della L.R. 78/1976 potrebbe subire delle modifiche per due motivi: risulta pendente un disegno di legge (volto ad escludere l’applicazione del vincolo da molte aree);

il C.g.a.r.s. si appresta a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 23 della L.R. 37/1985 e dell’art. 2, comma 3, della L.R. 15/1991.
Le due circostanze appena evidenziate troverebbero applicazione, e produrrebbero degli effetti, solo se:

a) l’Ars approva il disegno di legge; b) la Corte Costituzionale dichiari l’incostituzionalità delle norme in questione. Fino ad allora, il vincolo trova applicazione nei modi e nelle forme tratteggiate dalla giurisprudenza amministrativa siciliana.

Una recentissima sentenza del Tar Palermo (832 del 01.03.2024) contiene la ricostruzione delle norme applicabili e le “soluzioni” interpretative formulate dalla giurisprudenza amministrativa siciliana.

I destinatari del vincolo: P.A. o privati? Con riferimento alla contestata natura precettiva e vincolante dell’art. 15 della legge regionale n. 78 del 1976, va ribadito il consolidato l’orientamento giurisprudenziale (per tutte, TAR Palermo Sez. I 06/03/2015, n. 621; TAR Palermo Sez. II 20/02/2018, n. 420) a mente del quale il divieto di edificazione sancito dall’art. 15, comma 1, lettera a), della legge regionale citata relativamente alla fascia di 150 metri dalla battigia ha come destinatari, in base alle successive leggi regionali 30 aprile 1991, n. 15 (art. 2) e 31 maggio 1994, n. 17 (art. 6), oltre alle amministrazioni comunali in sede di formazione degli strumenti

urbanistici, anche i privati che intendano procedere a lavori di costruzione entro detta fascia di rispetto. Vero è, infatti, che il ripetuto art. 15, comma 1, lett. a), della L.R. n. 78/1976 reca disposizioni da osservare “ai fini della formazione degli strumenti urbanistici generali comunali” e, pertanto, ha per suoi destinatari soltanto i Comuni. Successivamente, tuttavia, è intervenuto l’art. 23, comma 10, della legge regionale n. 37/1985, il quale ha stabilito che restano escluse dalla sanatoria “le costruzioni eseguite in violazione dell’art. 15, lett. a, della l. reg. n. 78/76, ad eccezione di quelle iniziate prima dell’entrata in vigore della stessa legge e le cui strutture essenziali siano state portate a compimento entro il 31 dicembre 1976“.

L’interpretazione autentica del 1991

Osserva il Collegio che la questione se il legislatore regionale abbia inteso, con l’introduzione nell’ordinamento del ridetto art. 23, comma 10, della legge regionale n. 37/1985, rendere i cittadini e non solo l’Amministrazione destinatari della norma è stata definitivamente risolta con l’entrata in vigore dell’art. 2 della L.R. n. 15/91, secondo cui: “Le disposizioni di cui all’art. 15, primo comma, lettere a), d) ed e) della legge regionale 12 giugno 1976 n. 78, devono intendersi direttamente ed immediatamente efficaci anche nei confronti dei privati“.

Sul punto deve essere ribadita, sulla scorta della largamente prevalente giurisprudenza amministrativa siciliana, la natura meramente interpretativa e la conseguente efficacia retroattiva da attribuirsi alla riportata disposizione.

È invero da tempo consolidato, come detto, l’arresto giurisprudenziale secondo cui “Il divieto di edificazione nella fascia di rispetto di 150 metri dalla battigia sancito dall’art. 15 l. reg. Sicilia 12 giugno 1976 n. 78, ha come destinatari, in base alle successive l. reg. Sicilia 30 aprile 1991 n. 15 (art. 2) e 31 maggio 1994 n. 17 (art. 6), non soltanto le amministrazioni comunali in sede di formazione degli strumenti urbanistici, ma anche i privati che intendano procedere a lavori di costruzione entro tale fascia” (cfr. ex multis, C.G.A.R.S., sezione giurisdizionale, 23 luglio 2018, n. 436, C.G.A.R.S., sezione giurisdizionale, 19 marzo 2002, n. 158; T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. III, 20 luglio 2009, n. 1328; Sez. III, 4 gennaio 2008, n. 1; Sez. I, 9 ottobre 2008, n. 1251; Sez. III, 18 aprile 2007, n. 1130; Sez. III, 4 ottobre 2006, n. 2019; Sez. I, 11 novembre 2002, n. 3817; Sez. I, 10 dicembre 2001, n. 1854; 31 gennaio 1995, n. 10).

Sugli effetti del decorso del tempo

Quanto al tempo decorso dalla commissione dell’abuso è noto il principio affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, secondo cui “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.

La (mancata) configurazione del silenzio assenso

Per altro verso, in presenza del vincolo di inedificabilità assoluta, deve escludersi che possa essersi perfezionato un provvedimento tacito di assenso, posto che la fattispecie del silenzio-assenso presuppone, evidentemente, la regolarità sostanziale dell’istanza e, quindi, la presenza di tutti i requisiti di legge, non potendosi conseguire in via silenziosa quel che risulterebbe precluso attraverso l’adozione di un provvedimento espresso (cfr. ex multis, C.G.A.R.S., n. 256/2011).

Mancato invio del preavviso di rigetto

Inoltre, in virtù della natura vincolata del condono, stante l’assenza di prova, che come si è detto incombe al privato istante, del completamento delle opere entro il 31 dicembre 1976, il diniego di condono non può essere annullato per il mancato invio del preavviso di rigetto dell’istanza, essendo palese che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. in termini T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. II, 26 aprile 2022, n. 1408 “Sull’applicazione dell’art. 21-octies l. n. 241 del 1990, la giurisprudenza dell’epoca era nel senso che « Quanto alla lamentata carenza del preavviso di rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, se ne deve escludere rilevanza ai fini di causa, in quanto, avendo il diniego a oggetto il vaglio di aspetti privi di margini di discrezionalità amministrativa, soccorre in tali casi la disposizione generale di cui all’art. 21-octies, comma 2, della stessa legge n. 241 del 1990, a norma della quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata delle relative determinazioni, sia palese che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato», cfr. Cons. giust. amm. sic., sez. giur, n. 180 del 2011)”).

In sostanza nelle condizioni date – costruzione realizzata entro 150 metri dalla battigia dopo l’entrata in vigore della legge reg. n. 78/1976 – parte ricorrente non avrebbe potuto in nessun caso ottenere un legittimo provvedimento di sanatoria; ed a fronte di tale indiscutibile fatto, evidenziato nel provvedimento impugnato, che, per quanto detto, impedisce la formazione di alcun legittimo affidamento – non può richiedersi all’Amministrazione l’onere di addurre una motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei presupposti sulla cui base l’abuso perpetrato, di carattere permanente, è insanabile (cfr. TAR Palermo Sez. II, 8 febbraio 2022 n. 434).

Il diritto all’abitazione

«il diritto all’abitazione non ha portata tale da rendere illegittimi gli ordini di demolizione degli abusi, non comportando le esigenze abitative il diritto ‘assoluto’ a fruire di un immobile abusivo solo perché casa familiare, non violando quindi l’ordine di demolizione il diritto individuale a vivere nel proprio legittimo domicilio, essendo tale ordine doverosa espressione del diritto della collettività a rimuovere la lesione di un bene o interesse costituzionalmente tutelato e a ripristinare l’equilibrio urbanistico-edilizio violato, costituendo l’ordine di demolizione non una sanzione penale, bensì una misura funzionalmente diretta al ripristino dello status quo ante, la cui non esecuzione è limitata ad ipotesi specificamente individuate dal legislatore (come la c.d. fiscalizzazione ex art. 34 t.u.ed.) (in senso conforme: Cassazione civile, sez. III, 17 gennaio 2020, n. 844)»;

“(…) qualsiasi vincolo urbanistico, ovvero dettato per la tutela di beni di particolare rilievo, determini la compressione di facoltà inerenti al diritto di proprietà; compressione che è da ritenere conforme alla Costituzione, ed in particolare all’art. 117 ed all’art. 42, come è desumibile dalla complessiva lettura e corretta interpretazione dalla Carta Costituzionale.“

In sostanza il Legislatore regionale ha dettato un regime vincolistico dei beni ricadenti in prossimità del mare; e la circostanza che tale regime determini vincoli più intensi rispetto a quelli esistenti nel resto d’Italia è la legittima conseguenza delle attribuzioni spettanti in materia alla Regione Siciliana, che sarebbero evidentemente svuotate di qualsiasi reale contenuto ove non fosse possibile apportare in sede regionale alcuna variazione rispetto alla normativa vigente in campo nazionale.

In altri termini, la legge regionale n. 76/1978 trova fondamento nell’art. 14, comma 1, lett. f) ed n), dello Statuto della Regione Siciliana, che delinea l’ambito di legislazione esclusiva della Regione Siciliana con riguardo alle materie relative all’urbanistica ed alla tutela del paesaggio cui deve ricondursi la disposizione regionale sopraindicata (C.G.A.R.S., sezione giurisdizionale, 28 giugno 2021, n. 622).

D’altra parte, non può non rilevarsi l’indiscutibile particolare valore ambientale che connota le coste della Sicilia, nonché la situazione di degrado in cui versa parte di tali coste. Ed è proprio a fronte di tali emergenze, che non appare irragionevole – ed anzi risulta conforme al canone di buona amministrazione invocato dalla parte ricorrente – la scelta legislativa di assicurare ai terreni limitrofi alle coste della Sicilia una particolare tutela, idonea a garantire la preservazione del loro valore ambientale (cfr. C.G.A.R.S., 5 dicembre 2002, n. 651 e, da ultimo, T.A.R. Palermo, sez. II, 6 dicembre 2022, n. 3501).

Diritto di proprietà vs tutela del paesaggio

Per altro verso, osserva altresì il Collegio che non può parlarsi di diritti acquisiti dai privati, su cui l’art. 2, comma 3, L.R. n. 15/1991 inciderebbe retroattivamente, con lesione del diritto di proprietà; non può trascurarsi, infatti, che si tratta pur sempre di costruzioni realizzate in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio e per le quali il legislatore ha, ragionevolmente, posto dei limiti alla sanatoria. Si è già avuto modo di affermare “che qualsiasi vincolo urbanistico, ovvero dettato per la tutela di beni di particolare rilievo, determina la compressione di facoltà inerenti al diritto di proprietà; compressione assolutamente conforme alla Costituzione, ed in particolare all’art. 42, come è desumibile dalla complessiva lettura e corretta interpretazione della Carta Costituzionale” (Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 11 febbraio 2022, n. 188).

Corte Europea dei diritti dell’uomo

Quanto alla dedotta violazione dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 1 del protocollo 1 della convenzione EDU, il Collegio reputa che, nel presente giudizio, il richiamo a tali disposizioni e ad alcune pronunzie della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non sia pertinente, a fronte di un valore, l’interesse pubblico alla “effettività” (mediante comminazione di sanzioni) della normativa paesaggistica che deve ritenersi prevalente (Corte Edu, Sez. V, 21 aprile 2016, rn. 46577/15, Ivanova richiamata da C.G.A.R.S., Adunanza delle sezioni riunite del 14 dicembre 2021, n. 205).

Le invocate disposizioni euro-unitarie presuppongono, infatti, l’esistenza di una buona fede soggettiva del privato e di circostanze fondanti un’apparenza di legittimità della costruzione abusiva. Invece, nel caso in questione, nessuno ha mai dubitato, fin dal momento della sua realizzazione, dell’abusività dell’opera, che difatti è stata oggetto di specifica richiesta di condono.

A fronte dell’incontestata abusività del fabbricato realizzato, parte ricorrente prospetta l’esistenza di un affidamento non nella legittimità dell’immobile, ma nella speranza di applicazione di misure di favor per condonarlo, con ciò esulando dall’ambito di protezione – anche il più avanzato – garantito dalla giurisprudenza CEDU (cfr. TAR Palermo, Sez. II, 6 febbraio 2023, n. 358).

 

 


 

 

Esclusa la responsabilità del conducente per l’investimento del pedone quando la condotta di quest’ultimo sia imprevista e imprevedibile. Lo sancisce la Cassazione.

Violazione norme del codice della strada - Investimento pedone - Casi di esclusione della responsabilità per l’investimento di pedone - Condotta della vittima eccezionale e atipica - Condotta inattesa non prevista né prevedibile

È esclusa la responsabilità del conducente che abbia investito un pedone, solo quando la vittima abbia assunto una condotta che, per i suoi caratteri, configuri una vera e propria causa eccezionale, atipica, non prevista né prevedibile

Immobili abusivi, ok agli interventi (a norma di legge) in attesa di condono
È quanto ribadisce il Tar Lazio respingendo il ricorso di un proprietario contro l’ordinanza di demolizione

di Davide Madeddu

Eventuali interventi in immobili su cui sia in corso richiesta di condono in sanatoria, possono avvenire ma solo ne rispetto delle procedure di legge. Con questa motivazione il Tar di Roma, ha respinto il ricorso di alcuni comproprietari di un immobile che avevano impugnato l’ordinanza di demolizione e rimessa in pristino di alcune opere abusive emessa dal dal Comune di Tivoli.

Decreto 231, è possibile sospendere anche una sola autorizzazione
La Cassazione ha chiarito che non è necessario bloccare tutti i nulla osta

La Corte di cassazione traccia i confini tra le sanzioni interdittive comminate all’ente: l’interdizione dall’esercizio dell’attività e la sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito, previste rispettivamente dalle lettere a) e b) dell’articolo 9, comma 2 del Dlgs 231/2001. Con la sentenza 47564 del 27 novembre scorso La Corte ha infatti chiarito che la sospensione o revoca delle autorizzazioni può riguardare anche una sola autorizzazione.

 

Legittimo il contratto conferito dalla giunta al professionista senza la firma del sindaco. 

La proposta allegata alla delibera è valida anche se il primo cittadino non firma la convenzione. 

La proposta del professionista allegata alla delibera approvata dalla giunta presieduta dal sindaco è valida anche se il primo cittadino non firma la convenzione; la Corte di cassazione, con la sentenza n. 32337/2023 del 1° dicembre 2023, ha accolto il ricorso di un professionista nei confronti del Comune.

Abuso d’ufficio escluso senza esercizio di funzione

Punibile solo la condotta espressione dell’attività del pubblico ufficiale

Va escluso l’abuso d’ufficio se la condotta contestata al pubblico ufficiale è stata messa in atto quando non esercitava la sua funzione. L’articolo 323 del Codice penale, infatti, nel prevedere che l’abuso d’ufficio debba essere commesso nello svolgimento delle funzioni o del servizio, circoscrive la punibilità delle condotte abusive realizzate dal pubblico funzionario «nell’ambito della sua attività funzionale, quale espressione dell’attività pubblica a lui affidata».

Con queste motivazioni, depositate ieri (sentenza 40428) la Corte di Cassazione, il 22 giugno scorso, ha annullato senza rinvio la condanna per abuso d’ufficio di Raffaele Marra, ex capo del Dipartimento risorse umane del Comune di Roma e già ufficiale della Guardia di Finanza, perché il fatto non sussiste.

L’accusa era di non essersi astenuto in occasione della nomina del fratello, di competenza del Sindaco, al vertice della Direzione turismo del Campidoglio. Per la Suprema corte la segnalazione del fratello, da parte dell’imputato, in una riunione informale, era avvenuta al di fuori dello svolgimento delle funzioni facendo, valere solo la propria influenza politica nell’amministrazione capitolina.

Il Rup può firmare la decisione a contrarre solo se coincide con il responsabile del servizio

di Stefano Usai

La puntualizzazione del ministero delle Infrastrutture in risposta alla richiesta di chiarimento di una stazione appaltante

Con il recente parere n. 2077/2023, l’ufficio di supporto del Ministero dell’Infrastrutture risponde a un quesito, a ben valutare, effettivamente rilevante sulla questione della firma della determina a contrarre (che contiene la decisione a contrarre) dopo il nuovo Codice dei contratti.
Premessa
È noto che con il nuovo impianto normativo gli estensori hanno adeguato la figura del Rup in termini di responsabile unico del progetto e non del “procedimento”. Ragionamento che prende atto del fatto che l’attività contrattuale sostanzia una serie non di sub-procedimenti ma autentici procedimenti amministrativi.

In particolare, i procedimenti amministrativi in parola riguardano le fasi della programmazione, della progettazione, dell’affidamento e la fase civilistica dell’esecuzione.

Pertanto, il Rup non è (o non è solo) un responsabile di procedimento ma un soggetto che ha la responsabilità di una pluralità di procedimenti e quindi della realizzazione dell’intero intervento/progetto.

Nella nuova configurazione giuridica, inoltre, acclarata la complessità e l’intensità dell’attività contrattuale, l’articolo 15, comma 4 del nuovo codice consente alle stazioni appaltanti «ferma restando l’unicità del Rup» di adottare specifici modelli organizzativi in cui prevedere dei responsabili di fase, uno per la fase amministrativa dell’affidamento e uno per le fasi tecniche della programmazione, progettazione ed esecuzione del contratto.

Rimane fermo, evidentemente, il coordinamento unitario del Rup per evitare il pericolo di una sostanziale irresponsabilità.

Non a caso, il periodo che chiude il comma precisa che in caso di nomina di uno o dei due responsabili di fase «le relative responsabilità sono ripartite in base ai compiti svolti in ciascuna fase, ferme restando le funzioni di supervisione, indirizzo e coordinamento del Rup».

La questione principale da cui trae spunto il quesito riguarda però le nuove competenze assegnate al Rup con l’allegato I. 2 «Attività del Rup».

In particolare l’articolo 6 dell’allegato in parola, comma 2 lett. g) puntualizza, a differenza del passato (linee guida Anac n. 3) che il Rup «decide i sistemi di affidamento dei lavori, servizi e forniture».

Gli estensori, quindi, hanno ampliato il semplice potere istruttorio del Rup prevedendo un potere decisorio. Tale previsione pone un evidente problema nel caso in cui, però, il Rup non coincida con l’apicale responsabile del servizio titolare del potere di spesa.

Da qui il quesito appunto se il Rup deve firmare la determina a contrarre.

Il riscontro
L’ufficio di supporto chiarisce, condivisibilmente, che in realtà nulla cambia rispetto alla classica ripartizione delle competenze che emerge dalla legge 241/90 ed in specie nell’articolo 6, comma 1, lett. e) in cui si chiarisce che il responsabile del procedimento adotta il provvedimento finale solo se ne ha le competenze, in difetto, si limita a predisporre la proposta per il proprio responsabile del servizio.

L’affermazione potrebbe sembra contraddittoria rispetto alla decisione di configurare il Rup non più in termini di “semplice” responsabile di procedimento, ma in realtà appare corretta. Appare corretta stante il fatto che la determina a contrarre, che contiene la decisione a contrarre, consente di adottare la prenotazione di impegno di spesa ovvero di fissare un vincolo provvisorio sullo stanziamento assegnato che costituisce classica competenza del titolare del potere di spesa e quindi del dirigente/responsabile del servizio.

Nel parere inoltre si legge che «la distinzione terminologica tra “determina a contrarre” e “decisione di contrarre” sottenda importanti implicazioni. Infatti, se la determinazione a contrarre costituiva l’atto con cui si manifestava all’esterno la volontà dell’amministrazione di aggiudicare una commessa, la decisione di contrarre, invece, evoca una più netta responsabilità del soggetto che decide il sistema di affidamento».

Questo, però, nella sostanza non muta la prospettiva visto che, semplicemente, «con la decisione di contrarre, il soggetto competente – titolare del potere di spesa – oltre a esternare la volontà della stazione appaltante, individua le modalità attraverso cui deve avvenire l’affidamento».

Ciò sta a significare che nel caso di un Rup non responsabile del servizio/dirigente, il suo apporto, pur qualificato, rimane comunque a livello istruttorio visto che la decisione ultima compete comunque al soggetto competente a firmare la decisione a contrarre.

Il parere, quindi, si chiude con la puntualizzazione che «nel caso in cui il RUP non sia al contempo dirigente/responsabile del servizio titolare del potere di spesa, la decisione di contrarre resta di competenza del soggetto titolare del predetto potere».

Abuso d'ufficio, no a revoca sentenza per abolitio criminis se il pubblico ufficiale fa proprio l'interesse del terzo

di Paola Rossi

La precedente condotta di turbata libertà degli incanti e la seguente partecipazione all'assegnazione della gara dimostrano il reato

L'aver partecipato all'aggiudicazione dell'appalto il cui bando era stato concordato dal pubblico ufficiale con l'effettivo aggiudicatario integra il reato di abuso d'ufficio in quanto viene fatto proprio l'interesse del privato da parte di chi è tenuto a un comportamento imparziale. La violazione non viene meno in tal caso neanche alla luce della riforma del reato di abuso d'ufficio e ciò impedisce di chiedere la revoca della sentenza che ha prosciolto l'imputato per raggiunta prescrizione.

Furto nella cabina al mare punito più severamente: è privata dimora
La condizione è che il casotto non sia accessibile a tutti e ci siano degli arredi

di Patrizia Maciocchi

Scattano le pene più severe per il furto nella cabina al mare. Il casotto va, infatti, considerato una privata dimora se l’accesso è precluso al pubblico e ci sono degli arredi.

La Cassazione respinge così il ricorso del mariuolo che contestava la condanna per il più grave reato di furto in abitazione, previsto dall’articolo 624-bis del codice penale che lo punisce con la reclusione da quattro a sette anni, a fronte della pena da sei mesi a tre anni per il furto semplice.

Naturalmente l’ipotesi più grave non scatta se la cabina è aperta a tutti i clienti dello stabilimento, come nel caso di uno spogliatoio o del locale per la doccia, ma solo se il capanno può considerarsi “privato” perché chi lo detiene può esercitare il diritto di renderlo off limit a terzi.

Edilizia: il vincolo cimiteriale
segnalazione del Prof. Avv.

di Enrico Michetti 

La Sesta Sezione del Consiglio di Stato con sentenza depositata in data 10 marzo 2023 in ordine al vincolo cimiteriale ha osservato che “L’art. 338 del R.D. n. 1265/1934 stabilisce, al comma 1, il divieto “di costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”. All’ultimo comma, come sostituito dall’art. 28 della L. n. 166/2002, in vigore dal 3 agosto 2002, la norma prosegue affermando che “All'interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali all'utilizzo dell'edificio stesso, tra cui l'ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento e i cambi di destinazione d'uso, oltre a quelli previsti dalle lettere a), b), c) e d) del primo comma dell'articolo 31 della legge 5 agosto 1978, n. 457”.

Questa ultima norma, come noto, definiva gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistenti: nessuno, tra gli interventi edilizi previsti dall’art. 31 della L. n. 457/78, contemplava esplicitamente la demolizione e ricostruzione. Va rilevato, in particolare, che l’art. 31, lett. d), definitiva interventi di “ristrutturazione edilizia “quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.

Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”: tale norma è stata interpretata dalla giurisprudenza nel senso che “la nozione di ristrutturazione edilizia, comprende anche gli interventi consistenti nella demolizione e successiva ricostruzione di un fabbricato, purché tale ricostruzione sia fedele, cioè dia luogo ad un immobile identico al preesistente per tipologia edilizia, sagoma e volumi, dovendo essere altrimenti l’intervento qualificato come di nuova costruzione (Consiglio di Stato; Sez. IV, 9 luglio 2010, n. 4462; Sez. IV, 5 ottobre 2010 n. 7310; Sez. IV, sentenza 10 agosto 2011, n. 4765, Sez. IV, sentenza 4 giugno 2013, n. 3056; di recente, con riferimento sempre al periodo di vigenza della legge 457 del 1978, Sez. II, 18 maggio 2020, n. 3153).” (Cons. Stato, Sez. II, n. 721 del 2 febbraio 2022).

Con l’entrata in vigore del D.P.R. n. 380/2001 l’art. 3, comma 1, lett. d) ha sostanzialmente recepito tale principio, includendo tra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli “consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”, in tal modo facendo rientrare nella categoria della ristrutturazione edilizia anche la ricostruzione del fabbricato “fedele” nella volumetria e nella sagoma, non necessariamente anche nella tipologia.

E’ stato solo con le modifiche introdotte dal D.L. n. 69/2013 che è venuto meno l’obbligo di conservare la sagoma dell’edificio preesistente, negli interventi di ristrutturazione edilizia attuati attraverso la demolizione di un fabbricato preesistente e la ricostruzione.

Si deve ancora precisare che l’art. 338 , u.c., del R.D. n. 1265/1934, laddove allude a interventi di “ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento”, evidentemente si riferisce agli interventi di ampliamento all’esterno della sagoma di un fabbricato che viene conservato, interventi che l’art. 3, comma 1, lett. e.1.) del D.P.R. n. 38072001 classifica quali interventi di nuova costruzione: questa tipologia di ampliamento suppone che il fabbricato oggetto di ampliamento non venga demolito. In presenza di un intervento di demolizione seguito da ricostruzione occorre valutare se sussistano le ulteriori condizioni necessarie per poterlo qualificare quale ristrutturazione edilizia: diversamente l’intervento deve qualificarsi quale nuova costruzione, che impegna una volumetria pari a quella dell’intero nuovo edificio, e non solo quella dell’eventuale volumetria maggiore rispetto a quella dell’edificio preesistente.

La modifica introdotta dalla L. 166/2002 nel corpo dell’art. 338 del R.D. n. 1265/1934 deve essere letta tenendo conto delle considerazioni che precedono nonché della lettera della nuova previsione, che riferisce gli interventi consentiti solo agli “edifici esistenti”, per consentirne il recupero o il miglior godimento (cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 03/03/2022, n.1510): è dunque evidente che gli interventi di nuova costruzione consentiti dalla norma in esame sono solo quelli attuati per ampliamento di fabbricati che vengano mantenuti e modificati nella sagoma, e comunque con un incremento volumetrico massimo del 10%. Nessuna altra ipotesi di nuova costruzione è consentita dalla norma in esame, ragione per cui la demolizione totale seguita da ricostruzione risulta consentita solo nella misura in cui sussistano le condizioni per qualificarla quale intervento di recupero sub specie di “ristrutturazione edilizia”.

Riforma Cartabia: la Map "allargata" ai nuovi reati a citazione diretta resta preclusa in Cassazione

di Aldo Natalini

La possibilità di accedere alla messa alla prova si è così allargata ad oltre quaranta reati per i quali prima era esclusa

Con la definitiva entrata in vigore – dallo scorso 30 dicembre – della riforma Cartabia del processo penale si è allargato il catalogo dei reati per i quali si procede a citazione diretta del Pm innanzi al Tribunale monocratico e, conseguentemente, si è esteso il raggio di applicazione della probation, in quanto "agganciato" all'articolo 550, comma 2, Cpp, modificato dall'articolo 32, comma 1, del Dlgs 150/2022 .

Testo Unico Edilizia: per la demolizione dell'abuso serve la sentenza di condanna, non basta l'accertamento
L'ordine di demolizione dell'opera edilizia abusiva, previsto dall'art. 31, comma 9 del Testo Unico Edilizia, presuppone comunque la pronuncia di una sentenza di condanna, non risultando sufficiente l'avvenuto accertamento della commissione dell'abuso.

di Matteo Peppucci

Perché un'ordinanza di demolizione sia legittima, deve esserci una sentenza di condanna. Senza, l'ingiunzione è illegittima, non essendo sufficiente l'avvenuto accertamento della commissione dell'abuso edilizio.

Il concetto, piuttosto importante, è stato ribadito dalla Corte di Cassazione nella sentenza 12552/2023, relativo al ricorso di un privato contro l'erronea applicazione dell'ordine di demolizione.

Demolizione senza sentenza di condanna
Nello specifico, il Tribunale ha disposto la demolizione delle opere indicate nelle imputazioni, sottoposte a
sequestro, e di cui era stata chiesta la restituzione, in violazione dell'art. 31, comma 9, dpr 380/2001 - Testo Unico Edilizia, ma tale norma prevede, come necessario presupposto dell'ordine di demolizione, una sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44 del medesimo Testo Unico (si citano Sez. 3, n. 31322 del 05/06/2019, e Sez. 3, n. 9915 del 18/12/2020, dep. 2021).

Nel caso specifico, però, non è mai stata pronunciata alcuna sentenza di condanna.

L'accertamento dell'abuso non basta per la demolizione
La Cassazione accoglie il ricorso in quanto "costituisce principio assolutamente consolidato nella giurisprudenza di
legittimità quello in forza del quale l'ordine di demolizione dell'opera edilizia abusiva, previsto dall'art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001, presuppone comunque la pronuncia di una sentenza di condanna, non risultando sufficiente
l'avvenuto accertamento della commissione dell'abuso, come nel caso di sentenza che rileva l'intervenuta prescrizione del reato".

TERZO CONDONO IN SICILIA: LA CORTE COSTITUZIONALE FA IL PUNTO SULLE CONDIZIONI DI APPLICABILITÀ. COSA FARE IN CASO DI RIGETTO DEL NULLA OSTA.

di Santi Delia

La Corte Costituzionale con la sentenza 252/2022 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 1, co. L.R. n. 19/2021 con il quale veniva data, stando alla lettera della norma, “interpretazione autentica” al disposto dell’art. 24 L.R. n. 15/2004.

La norma cassata, in sintesi estendeva l’applicabilità del c.d. “terzo condono” anche per quelle opere realizzate in aree sottoposte a vincoli di inedificabilità relativa, a dispetto invece di quanto previsto dalla norma “nazionale”, ossia l’art. l’art. 32, comma 43 D.L. n. 269/2003.

La suddetta disposizione ha trovato recepimento nella Regione Siciliana, che in materia urbanistica ha una competenza esclusiva, attraverso l’art. 24, L. r. n. 15/2004 a mente del quale “dalla data di entrata in vigore della presente legge è consentita la presentazione dell’istanza per il rilascio della concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell’art. 32 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito con legge 24 novembre 2003, n. 326 e successive modificazioni e integrazioni”.

Sin dalla sua prima applicazione è stato più volte posto il problema di quale fosse l’effettivo ambito di applicazione della disposizione nazionale nella Regione Siciliana, tenendo in considerazione che la surriferita norma è intervenuta in maniera incisiva sulla normativa urbanistica statale, modificando radicalmente i presupposti previsti dai precedenti condoni per il rilascio delle concessioni edilizie in sanatoria.

La questione principale, infatti riguardava la condonabilità, ex art. 32, anche gli immobili ricadenti in aree sottoposte ai c.d. vincoli “relativi”, giacché, il comma 27, lett. d) della surriferita disposizione esclude dal novero degli abusi sanabili quelli che “siano stat[i] realizzat[i] su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.

Per risolvere la questione era quindi necessario verificare se il recepimento dell’art. 32 D.L. n. 269/2003, operato dall’art. 23 L. r. n. 15/2004 fosse stato integrale ovvero se esso avesse riguardato solamente il condono edilizio, inteso nella sua portata di applicazione massima, escludendo le modifiche apportate alla disciplina urbanistica previgente.

In particolare, il nocciolo della questione riguardava la circostanza che l’art. 32, comma 43 D.L. n. 269/2003 aveva sostituito integralmente l’art. 32 della L. n. 47/1985 lasciando inalterato il successivo art. 33, mentre in Sicilia la L. n. 47/85 è stata recepita dalla L. r. n. 37/85, il cui art. 23 ha sostituito, sostanzialmente fondendoli, gli art. 32 e 33 della disciplina nazionale, tanto da essere rubricato “32-33.Condizioni di applicabilità della sanatoria”.

Ebbene poiché, come già detto, l’art. 32 D.L. n. 269/2003 aveva apportato delle modifiche alla L. n. 47/85, divenuta normativa regionale a seguito del recepimento operato dalla L. R. n. 37/85, bisognava verificare se tali modifiche avessero inciso anche l’art. 23 L. R. n. 37/85.

Il C.G.A. aveva affrontato e risolto il problema opinando nel senso di ritenere che “nessuna novella può ritenersi operata dal sopravvenuto art. 32 del D.L. n. 269/2003 per le seguenti ragioni di ordine formale e sostanziale:

a)Sotto il profilo formale perché il comma 43 dell’art. 32 del D.L. n. 269/2003 ha sostituito l’art. 32 della legge 47/1985, che però non esisteva in Sicilia del c.d. primo condono, dall’unico art. 32-33; il quale articolo, peraltro, non può considerarsi, a sua volta oggetto della novella del 2003, giacché diverso per nome rispetto alla disposizione nazionale che il legislatore ha inteso novellare;

b) sotto il profilo sostanziale, perché, ove si opinasse diversamente si perverrebbe all’assurdi risultato che […] la novella del 2004 avrebbe interessato l’intero art. 32-33 (l’unico vigente in Sicilia) sostituendolo con il nuovo testo dell’art. 32 della L. n. 47/85 che è stato introdotto in Italia nel 2003 e dunque con il corollario che detta novella avrebbe riguardato anche l’art. 33 (non vigente autonomamente in Sicilia), ovviamente travolgendolo [..] laddove invece la perdurante e autonoma vigenza di detto art. 33 è ineluttabilmente postulata dal novellato art. 32” (C.G.A. Sez. Un. Par. 13 gennaio 2013, n. 697/2010).

Pertanto in Sicilia, secondo quello che era l’orientamento espresso dalla Giurisprudenza amministrativa, il condono del 2003 anche se riguardava immobili edificati su aree sottoposte a vincoli relativi, doveva essere rilasciato purché sussistessero le condizioni previste dall’art. 23 L. R. n. 37/85 che, come già detto, ha racchiuso quanto disposto dagli artt. 32 e 33 della L. n. 47/85.

L’orientamento assolutamente consolidato del G.A. ha così indotto il legislatore regionale ad introdurre l’art. 1, co. 1 L.R. n. 19/202, secondo cui “l’articolo 24 della legge regionale 5 novembre 2004, n. 15 si interpreta nel senso che sono recepiti i termini e le forme di presentazione delle istanze presentate ai sensi all’articolo 32 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, e pertanto resta ferma l’ammissibilità delle istanze presentate per la regolarizzazione delle opere realizzate nelle aree soggette a vincoli che non comportino inedificabilità assoluta nel rispetto di tutte le altre condizioni prescritte dalla legge vigente”.

La prassi vigente trovava finalmente codificazione.

Tuttavia la Corte Costituzionale, a seguito di ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri, con la sentenza n. 252/2022 ha dichiarato l’illegittimità della censurata disposizione.

In particolare, la Consulta ha rilevato che essa, lungi dal costituire una norma di interpretazione autentica, aveva invece un effetto innovativo giacché consente, retroattivamente, di ampliare i termini di applicabilità del terzo condono, rendendolo praticabile anche per quelle opere realizzate in aree sottoposte a vincolo di inedificabilità relativa.

Sul punto, la Corte ha evidenziato che “ è ben vero che la disposizione impugnata, nella sua portata innovativa, è espressione della competenza statutaria primaria della Regione Siciliana nelle materie dell’urbanistica e della tutela del paesaggio (art. 14, primo comma, lettere f ed n), tuttavia è altresì vero che essa, ai sensi dello stesso art. 14, deve essere esercitata «senza pregiudizio» delle riforme economico-sociali, che assurgono, dunque, a limite “esterno” della potestà legislativa primaria. Le “grandi riforme” sono quindi individuate, nel caso di specie, dal legislatore nazionale nell’esercizio delle sue competenze esclusive in materia di ambiente (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.).

Infatti, questa Corte ha più volte affermato che, in relazione alle competenze legislative di tipo primario previste dagli statuti speciali, lo spazio di intervento affidato al legislatore regionale, con riguardo alla disciplina del condono edilizio, è circoscritto – oltre che dal limite della materia penale – da «quanto è immediatamente riferibile ai principi di questo intervento eccezionale di “grande riforma” (il titolo abilitativo edilizio in sanatoria, la determinazione massima dei fenomeni condonabili)» (sentenza n. 196 del 2004; in senso conforme, sentenza n. 232 del 2017).

In riferimento al caso in esame, assurgono pertanto a norme di grande riforma economico-sociale le previsioni statali relative alla determinazione massima dei fenomeni condonabili, cui devono senz’altro ricondursi quelle che individuano le tipologie di opere insuscettibili di sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, incluso il limite di cui alla lettera d)”.

Appare evidente la portata dirompente della suddetta pronuncia: tutti coloro che da quasi venti anni attendevano, fiduciosi il completamento dei procedimenti di condono edilizio oggi vedono frustrate le loro legittime aspettative giacché tutti le amministrazioni titolari di poteri governo sui vincoli relativi, si vedranno costrette a rigettare le richieste di nulla osta inoltrate in seguito alle istanze di condono.

L’impugnazione delle predette determinazioni costituisce condizione essenzile per evitare che poi la richiesta di condono venga definitivamente rigettata. Le strade da seguire sono, essenzialmente, due: il rimedio giustiziale rappresentata dal ricorso gerarchico, da inoltrare all’autorità sovraordinata, oppure direttamente il ricorso al T.A.R.

Al di là delle differenze di costo – il ricorso al T.A.R presuppone il pagamento del contributo unificato – i due rimedi sono sostanzialmente diversi giacché il ricorso gerarchico avvia un procedimento amministrativo che si conclude con un decreto, di rigetto o di accoglimento il quale può a sua volta essere oggetto di impugnazione innanzi agli organi giurisdizionali, al contrario con il ricorso al T.A.R. si avvia un’azione giurisdizionale caratterizzata dalla tipica dialettica processuale che, ovviamente, con il ricorso gerarchico manca del tutto.

Anche negli sport da impatto l'avversario va rispettato evitando gesti pericolosi

di Pietro Alessio Palumbo

Nella valutazione della colpa sportiva assume centralità l'analisi della situazione di fatto in rapporto allo sviluppo dinamico dell'azione lesiva

La vicenda sottoposta all'esame della Corte di Cassazione (sentenza n.21452/2023) attiene ad una partita di rugby femminile. A seguito di un duro impatto con un gomito dell'avversaria un'atleta si era procurata gravi lesioni oltre all'indebolimento permanente della vista.

Dalla ricostruzione dei fatti, nella fase successiva ad un placcaggio, entrambe le giocatrici erano cadute a terra; l'imputata, che si trovava sopra, aveva alzato il braccio destro colpendo il volto l'avversaria causandole lesioni.

Chi ha subito un sinistro all'auto ha diritto d'accesso alla videosorveglianza comunale

di Pietro Alessio Palumbo

Sul piano della tutela della privacy bisognerà però oscurare la parte delle immagini ritraenti persone estranee agli eventi

Il Tar Campania (sentenza n. 2608/2023) ha chiarito che chi ha lasciato l'auto nel parcheggio di una strada comunale e se la ritrova rigata ha diritto a copia delle immagini registrate dal sistema comunale di videosorveglianza per verificare la dinamica del sinistro e individuare il numero di targa del veicolo danneggiante.

Sul piano della tutela della privacy bisognerà però oscurare la parte delle immagini ritraenti persone estranee agli eventi.

Sentenza che riduce rendita catastale, efficacia retroattiva e sostituzione di quella attribuita dall'Agenzia

di Giuseppe Durante

I giudici di Palazzaccio hanno pertanto confermato l'efficacia ex tunc del giudicato che ha rivisto la potenzialità reddituale di un fabbricato a seguito di contestazione giudiziale del proprietario

Ai fini della determinazione della base imponibile IMU la rendita catastale accertata sulla base della sentenza passata in giudicato si applica retroattivamente, fin dal momento dell'attribuzione della rendita impugnata e non dal momento dell'annotazione della nuova rendita agli atti catastali. E' quanto ha confermato la Suprema Corte di Cassazione con l'Ordinanza n°18637.

I giudici di Palazzaccio hanno pertanto confermato l'efficacia ex tunc del giudicato.

 

Rifiuti, il sindaco deve controllare la gestione

di Paola Ficco

Viceversa è reato in concorso con il responsabile dell’ufficio tecnico

Il sindaco che omette il controllo dell'attuazione concreta degli indirizzi per la gestione dei rifiuti commette il reato di gestione non autorizzata di cui all'articolo 256, Dlgs 152/2006, in concorso con il responsabile dell'ufficio tecnico.

Il principio è stato stabilito dalla sentenza n. 18024/2023, con la quale la Corte di cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi presentati dai ricorrenti in qualità di sindaco di un Comune calabrese e di responsabile dell’ufficio tecnico comunale.

Incidente dopo aver preso cocaina, lo "stato di alterazione" (e il reato) resta da provare

Lo afferma la Corte di cassazione, con la sentenza n. 22682 depositata oggi, accogliendo (con rinvio) il ricorso di una automobilista.

Anche se l'assunzione di sostanze stupefacente è accertata, nel caso tracce di cocaina presenti negli esami ematici, lo stato di alterazione psicofisica che fa scattare il reato previsto dall'art. 187 del Codice della strada, va provato e non può neppure essere desunto dal verificarsi di un incidente stradale. Lo afferma la Corte di cassazione, con la sentenza n.22682 già deposita, accogliendo (con rinvio) il ricorso di un'automobilista condannata dalla Corte di appello di Firenze.

 

di Vanessa Ranucci

Il nudo proprietario non risponde dei danni da infiltrazioni causati dall'immobile in cui vive l'usufruttuario

La responsabilità è del custode dell’appartamento che non ha provveduto alla manutenzione e al ripristino delle strutture danneggiate

Non è il nudo proprietario che deve rispondere per le infiltrazioni di acqua all'immobile sottostante ma l'usufruttuario perché è il custode del bene e, come tale, deve provvedere alla manutenzione e al ripristino delle strutture danneggiate. Lo ha stabilito la Cassazione (provvedimento leggibile in fondo a questo articolo).

Il nudo proprietario di un immobile sito in un condominio aveva chiesto il risarcimento dei danni subiti dal ballatoio, dalle tubazioni e dallo scarico del bagno dell'appartamento di una condomina, anch'essa nuda proprietaria al 50%. La Corte d’appello aveva dichiarato che quest'ultima non era tenuta all’esecuzione dei lavori per eliminare le cause delle infiltrazioni. Nella specie, secondo i giudici la signora non poteva rispondere della custodia dell'immobile che aveva causato i danni, perché la custodia competeva all'usufruttuario, non avendo la stessa alcuna relazione di fatto con il bene.

Il ricorrente, in sede di legittimità, ha affermato che la Corte aveva escluso la signora, in concorso con lui, dal danno da cosa in custodia, in qualità di nuda proprietaria al 50% dell’immobile, ma, a suo avviso, visto che gli interventi incidevano sulla struttura, sostanza e destinazione della cosa, la relativa riparazione doveva essere posta anche a suo carico.

Per il Palazzaccio il motivo è infondato. Al riguardo, ha ricordato che “La responsabilità cagionata da cose in custodia ricade infatti sul soggetto che abbia il pieno controllo della cosa, con la conseguenza che, ove la res sia nel possesso di un usufruttuario, questi ne risponde quale titolare della custodia. Questa conclusione discende dalla circostanza che il presupposto della responsabilità invocata risiede nella normale condizione di “potere sulla cosa”, che - in quanto riflesso di una situazione giuridicamente rilevante rispetto alla res- sia tale da rendere attuale e diretto l’anzidetto potere attraverso una signoria di fatto sulla cosa di cui si abbia la disponibilità materiale, sicché essa postula la qualità di proprietario della cosa che ha dato luogo all’evento lesivo che ne abbia l’effettivo godimento o, comunque, di soggetto terzo tenuto per legge a provvedere alla sua manutenzione ordinaria e straordinaria.

La distinzione in base alla natura dei vizi strutturali o funzionali e al tipo di opere interessate, allo scopo di individuare il soggetto tenuto al controllo, si attaglia, non già al rapporto nudo proprietario-usufruttuario, bensì alla relazione tra proprietario e conduttore, posto che il titolare del diritto personale di godimento è mero detentore qualificato e non già pieno possessore del bene. Ciò vale anche per i pregiudizi che dipendono dall’insorgere nella cosa in custodia di un agente dannoso, come nel caso di infiltrazioni di acqua da un immobile a un altro, di cui risponde l’usufruttuario che abbia la disponibilità materiale e giuridica dell’immobile".

La Cassazione riconosce il diritto al risarcimento del danno
– Il medico a cui non sia stata riconosciuta l’indennità di posizione variabile per la funzione svolta ha diritto al risarcimento del danno per perdita di chance. A rimarcarlo in una importanza sentenza è la quarta sezione civile della Corte di Cassazione.

“In tema di dirigenza medica del settore sanitario pubblico – si legge nella sentenza -, la P.A. è tenuta a dare inizio e a completare, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, il procedimento per l’adozione del provvedimento di graduazione delle funzioni dirigenziali e di pesatura degli incarichi […]; il mancato rispetto dei termini interni […] e le eventuali problematiche concernenti il fondo espressamente dedicato […] alla quantificazione della menzionata quota variabile non fanno venire meno di per sé l’obbligo gravante sulla P.A. di attivare e concludere la procedura diretta all’adozione di tale provvedimento”. La violazione di tale procedura, prosegue la Cassazione, “legittima il dirigente medico interessato a chiedere non l’adempimento di tale obbligazione, ma solo il risarcimento del danno per perdita della chance di percepire la parte variabile della retribuzione di posizione”.

«Sono numerosissime le Aziende che, in tutta Italia, non hanno ancora avviato la contrattazione collettiva integrativa, relativa al contratto nazionale adottato nel 2019, necessaria a determinare la graduazione delle funzioni e quindi la relativa retribuzione di posizione variabile – commenta Guido Quici, Presidente della Federazione CIMO-FESMED (cui aderiscono le sigle ANPO, ASCOTI, CIMO, CIMOP e FESMED) -. Si tratta, come precisato dalla Cassazione, di Aziende inadempienti, che non vorremmo dover portare in massa in tribunale per chiedere il risarcimento del danno subito dai nostri iscritti».

«L’affidamento degli incarichi, con il relativo riconoscimento economico, oltre ad essere un obbligo per le Aziende è uno degli strumenti più semplici e diretti per incentivare i dipendenti a rimanere all’interno del Servizio sanitario nazionale.

Quando l’emergenza chiama, anche l’infermiere può intervenire

Non viene integrato l’esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p. in ogni caso in cui l’ausilio “non professionale”, seppur invasivo sul paziente, si palesi necessario e ne incrementi le possibilità di sopravvivenza. L’integrazione della norma penale citata, che preserva le riserve professionali previste dal legislatore, va indagata in concreto e mediante specifica analitica delle circostanze di fatto: non tutti gli esercizi di professionalità riservate da parte di chi non avrebbe titolo sono puniti dalla norma penale.

Così si è espressa la Corte di Cassazione, con sentenza n. 24032, depositata il 22 giugno.
Il fatto. Un cardiologo professionista veniva condannato per aver consentito ad un infermiere – addetto alle vendite di una società che produceva strumenti da utilizzare per l'esecuzione degli interventi nelle sale operatorie e che si trovava nei luoghi dell'operazione – di intervenire sul paziente nel corso di una imprevista emergenza coronarica non altrimenti risolvibile

1. Con sentenza la Corte di appello di (omissis) ha confermato la sentenza di primo grado, che dichiarava G.M.M. - cardiologo in servizio presso l'Ospedale di (omissis) - colpevole del reato di cui agli artt. 110,81,348 c.p. e lo condannava alla pena di mesi tre di reclusione, oltre al risarcimento dei danni e al pagamento di una provvisionale in favore della parte civile A.S.L.

 

Violazione Codice della strada da parte del minore: vanno sanzionati i genitori
In caso di violazione amministrativa commessa da minore di 18 anni la sanzione va irrogata ai soggetti tenuti alla sorveglianza dell'incapace che rispondono a titolo personale e diretto

Multe ai genitori per violazione del Cds dei figli
In caso di violazione del Codice della strada da parte del minore, la sanzione va irrogata ai genitori. A stabilirlo è Corte di cassazione con l'ordinanza n. 19619 del 17 giugno 2022 (in allegato). Per gli Ermellini la contestazione deve avvenire nei confronti dei soggetti tenuti alla sorveglianza con la redazione di apposito verbale. La Cassazione ha colto con rinvio, il ricorso di una madre contro la decisione del Tribunale di Aosta.

Era stato invece il giudice di secondo grado a rigettare il ricorso della donna contro la decisione di primo grado che, a sua volta, aveva respinto l'opposizione contro il verbale della polizia stradale che aveva indicato il figlio quale trasgressore e non invece, come avrebbe dovuto fare, i genitori cioè coloro che esercitavano la patria potestà. Per il Tribunale, l'indicazione del figlio minore come trasgressore non aveva cagionato alcuna violazione del diritto di difesa dell'appellante, poichè il verbale risultava notificato alla madre in qualità di obbligata in solido in quanto esercente la potestà genitoriale sul figlio minore nonché trasgressore.

Violazione del Cds commessa da minori
Per la Cassazione «Quando il fatto è commesso da minore il verbale della contestazione deve essere elevato nei confronti dei genitori i quali non rispondono a titolo di obbligati in solito, ove non dimostrino di non aver potuto impedire il fatto a titolo personale e diretto in qualità di trasgressori e, come tali, devono essere chiaramente indicati nel verbale». Per la Suprema Corte dunque «in caso di violazioni amministrativa commessa da un minore di anni 18 della stessa risponde (a norma dell'articolo 2 della legge 689 del 1981 applicabile anche agli illeciti amministrativi previsti dal codice della strada ai sensi dell'articolo 194) colui che era tenuto la sorveglianza del incapace salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto.

Ne consegue che in caso di violazione commessa da minore, fermo l'obbligo di reazione immediata del relativo verbale di accertamento, la contestazione della violazione deve avvenire nei confronti dei soggetti tenuti alla sorveglianza del minore, con la redazione di un apposito verbale di contestazione nei loro confronti nel quale deve essere enunciato il rapporto intercorrente con il minore che ne imponeva la sorveglianza al momento del fatto e la specifica attribuzione ad esso della responsabilità per illecito amministrativo (Cassazione n 17189/2009)».

La Corte specifica ancora che «in caso di violazione amministrativa commessa da minore di 18 anni la sanzione va irrogata ai soggetti tenuti alla sorveglianza dell' incapace che rispondono a titolo personale e diretto per la trasgressione della norma, avendo omesso la vigilanza la quale erano tenuti con la conseguenza che, in quest'ipotesi, fermo l'obbligo della reazione immediata del verbale di accertamento, la violazione deve essere contestata enunciando il rapporto intercorrente con il minore al momento del fatto che imponeva la specifica attribuzione ad essi della responsabilità per illecito amministrativo (Cassazione 26171/2013)».


 

Licenziato chi produce poco rispetto ai colleghi

Scarso rendimento ipotesi di recesso del datore per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali: lo scostamento fra obiettivi e risultati denota la non esatta esecuzione della prestazione

Pelandrone licenziato. Perde il posto il dipendente che produce poco rispetto ai colleghi. Il provvedimento espulsivo adottato dal datore per scarso rendimento del lavoratore costituisce un’ipotesi di recesso per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali a carico del prestatore: il sensibile scostamento fra gli obiettivi fissati e i risultati ottenuti denota la non esatta esecuzione della prestazione, tenuto conto dell’attività media tra i vari dipendenti e al di là del conseguimento di una soglia minima di produzione. È quanto emerge da un’ordinanza pubblicata il 6 aprile 2024 dalla sezione lavoro della Cassazione (leggibile in fondo all’articolo).

Dati e testi
Diventa definitiva la decisione che converte il licenziamento per giusta causa in recesso per giustificato motivo: il dipendente è condannato a restituire alla banca il risarcimento ottenuto nella precedente fase di giudizio al netto dell’indennità di mancato preavviso. Al datore che recede per scarso rendimento non basta provare che il dipendente non abbia raggiunto il risultato atteso ed esigibile. Ma deve anche dimostrare che la causa è l’inadempimento degli obblighi contrattuali, colpevole e negligente. Impietoso il confronto con gli altri addetti del settore sviluppo: in tre mesi lo scansafatiche visita soltanto sedici fra clienti e filiali contro i centoventi dei colleghi. E soprattutto acquisisce un solo nuovo cliente, mentre gli altri mostrano una raccolta impieghi ben superiore. Lo scarso rendimento non solo sussiste ma è pure grave: risulta dimostrato da dati indotti dalla banca oltre che dalle testimonianze assunte. Né si può dire che il lavoratore sia stato onerato della prova contraria o non abbia dotazioni sufficienti a differenza dei colleghi.

Violazione evidente
Lo scarso rendimento si pone come specie della risoluzione per inadempimento ex articolo 1453 Cc. Nessun dubbio che il mancato raggiungimento di un obiettivo sia di per sé insufficiente a integrarlo. Ma il licenziamento è illegittimo quando sussiste un’evidente violazione della diligente collaborazione imputabile al dipendente. Il tutto in base alla sproporzione fra i target di produzione indicati al lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento.

Parco giochi non a norma, comune corresponsabile dell'infortunio

di Francesco Machina Grifeo

Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 11942 depositata oggi, accogliendo con rinvio il ricorso della mamma di un bambino infortunatosi dopo la caduta da una struttura ginnica montata più alta e senza tappeti

All'interno di un parco per bambini, la maggiore pericolosità di giochi montati non a norma può fondare la corresponsabilità del custode, in questo caso il comune di Pesaro. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 11942 depositata oggi, accogliendo con rinvio il ricorso della mamma di un bambino infortunatosi dopo la caduta da una struttura ginnica.

Prima il Tribunale di Pesaro e poi la Corte di appello di Ancona invece avevano rigettato la domanda di risarcimento affermando che la struttura era conforme agli standard di sicurezza "al momento della produzione e dell'uscita dalla fabbrica" e che l'infortunio "non era dipeso da cedimenti e/o difetti di fabbricazione, bensì dal fatto che il minore aveva lasciato la presa delle corde sulle quali poggiavano mani e piedi".

Mentre l'eventuale difetto nell'altezza della struttura e nell'assenza di una superficie di assorbimento a terra «non possono essere state concause nell'evento occorso, perché l'utilizzo delle strutture esistenti in un parco giochi non si connota, di per sé, per una particolare pericolosità" e "presuppongono, comunque una qualche vigilanza da parte degli adulti". Del resto, concludeva, un cartello consigliava l'uso ai bambini dai 5 ai 12 anni mentre il minore aveva, all'epoca, tre anni.

All'opposto, per la ricorrente, l'"anomalia della cosa" aveva, se non causato integralmente, sicuramente aggravato le conseguenze della caduta. E doveva ritenersi adempiuto l'onere di dimostrarne l'accresciuta potenzialità lesiva; il nesso di causalità tra le condizioni della res al momento del sinistro e infine l'entità delle conseguenze derivate dall'infortunio.

Al termine di un lungo riepilogo sui principi codicistici e giurisprudenziali che regolano la responsabilità del custode – "Sussiste la necessità di apportare un definitivo contributo chiarificatore sulla materia" -, la Terza sezione civile afferma che il giudice di merito ha errato laddove "senza escludere che la struttura ginnica presentasse le due anomalie individuate ha apoditticamente affermato che le stesse sarebbero ininfluenti («non possono essere concause nell'evento occorso») sul mero rilievo di ordine generale che l'utilizzo di strutture presenti in un parco giochi presuppone una vigilanza da parte degli adulti".

Così motivando, tuttavia, prosegue la decisione, la Corte ha focalizzato la sua attenzione "sul difetto di vigilanza della madre e ha finito per escludere a priori qualunque valenza causale delle due anomalie denunciate senza verificare se le stesse possano avere inciso, non sulla caduta del bambino, ma sulle conseguenze che ne sono derivate, in termini di aggravamento delle stesse, tenuto conto dell'aumento della violenza d'urto correlato alla maggiore altezza dal suolo e del mancato assorbimento da parte dell'apposito tappetino".

In tal modo, però, il giudice non ha valutato se la specifica condizione della "cosa" abbia influito o meno sulle conseguenze della caduta (anche in termini di aggravamento), secondo i consueti criteri di accertamento del nesso causale. Mentre "soltanto all'esito di una tale verifica", la Corte avrebbe potuto escludere qualunque nesso di causa fra la cosa e le lesioni riportate dal minore oppure, in caso di accertata sussistenza di nesso causale o concausale, avrebbe dovuto procedere alla verifica circa la ricorrenza del caso fortuito o, in difetto, di un concorso causale fra quanto determinato dalla cosa e quanto imputabile a difetto di vigilanza della madre del minore".

Cassazione: responsabilità medica anche quando si omettono ulteriori controlli
Responsabilità medica per errore diagnostico
Riconosciuto l'errore medico anche quando si omette di eseguire o disporre ulteriori controlli. Così la Cassazione nella sentenza n. 15786/2023 
La vicenda
Nella vicenda, due medici venivano condannati per il reato ex art. 589 c.p. per aver cagionato, per imprudenza, negligenza e imperizia, la morte di un paziente per non essersi attenuti nello svolgimento della propria attività alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica e aver omesso di effettuare una corretta diagnosi e una corretta valutazione del quadro clinico.

La Corte di appello, in riforma della sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, affermata la responsabilità civile dei predetti, li ha condannati, in solido tra loro, al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.
Nell'editto accusatorio veniva altresì evidenziato che "le condotte omissive, laddove adeguatamente tenute, avrebbero determinato una corretta diagnosi ed evitato l'evento morte, così come verificatosi, ovvero determinato un evento morte diverso o comunque differito nel tempo".
Per il giudice appello, in sostanza era evidente l'errore diagnostico compiuto e aveva errato il primo giudice nell'affermare la correttezza della condotta dei sanitari.

La Corte di ricordava, quindi, il principio di diritto enunciato dalla nota sentenza "Franzese" in tema di nesso causale nei reati omissivi impropri, secondo cui il nesso di causalità deve ritenersi accertato e sussistente, appunto, oltre ogni ragionevole dubbio, "tutte quelle volte in cui con alto grado di credibilità razionale o probabilità logica, dalla diagnosi omessa o dall'intervento terapeutico non effettuato o male effettuato, sarebbe potuta derivare non solo la salvezza della vita del paziente, ma anche una attenuazione del danno prodotto dalla patologia con conseguente ritardo dell'evento morte.

Affermava di conseguenza che nella fattispecie a giudizio, proprio sulla base delle conclusioni dei periti del Gip, adeguatamente supportate anche dal perito della parte civile Antico, era ragionevole inferire che l'evento morte avrebbe avuto diverse modalità di verifica e differenti e più estesi tempi di sopravvivenza, qualora i due odierni imputati avessero praticato una corretta diagnosi come pacificamente emerso dall'intera istruzione dibattimentale svolta".
Il ricorso
Avverso la sentenza di appello ricorrono gli imputati, denunciando tra l'altro, carenza e manifesta e logicità della motivazione con riguardo alla ipotizzata cooperazione colposa di cui all'art 113 c.p., presupponendo, in conseguenza, l'esistenza di un legame psicologico tra le condotte dei due. Così facendo, non avrebbe tenuto conto delle distinte posizioni. Inoltre, deducevano insussistenza del nesso causale tra la loro condotta e la morte del paziente, sostenendo che le patologie da cui lo stesso era affetto avrebbero comportato comunque l'inevitabilità del decesso.
La decisione

Per gli Ermellini, i ricorsi sono inammissibili.
Nel caso di specie, la Corte territoriale è pervenuta all'affermazione della responsabilità degli imputati ai fini civili senza rivalutare nel merito il compendio istruttorio, bensì correggendo l'errore di diritto in cui era incorso il giudice di primo grado laddove aveva escluso il nesso di causalità tra la condotta omissiva dei medici, odierni imputati, e il decesso del paziente.
Circa la contestazione del ragionamento sviluppato nella sentenza impugnata riguardo la condotta gravemente colposa attribuita ai sanitari che presero in cura il paziente, omettendo entrambi, nelle rispettive qualità contestate nell'editto accusatorio, di approfondire la situazione clinica del paziente e di formulare la corretta diagnosi, ciò basta per "ritenere la cooperazione colposa, ciascun medico essendo consapevole della condotta dell'altro".
Per il resto le doglianze dei ricorrenti si risolvono in deduzioni di mero fatto, non proponibili in sede di legittimità, a fronte peraltro di una esposizione, da parte della Corte di merito, assai chiara e dettagliata dell'intera vicenda con particolare attenzione al parere scientifico formulato dagli esperti.
Indiscutibile, ricorda la S.C., "l'errore diagnostico e le conseguenti errate condotte omissive". Sul punto, la Corte territoriale ha correttamente applicato i principi della sentenza "Franzese", cui nel tempo si sono uniformate le sezioni semplici della S.C.
Va, del resto, riaffermato, concludono i giudici dichiarando inammissibili i ricorsi, che "in tema di colpa professionale medica, l'errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli ed accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi (cfr. Cass. n. 23252/2019); e che risponde di omicidio colposo per imperizia, nell'accertamento della malattia, e per negligenza, per l'omissione delle indagini necessarie, il medico che, in presenza di sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, rimanga arroccato su diagnosi inesatta, benché posta in forte dubbio dalla sintomatologia, dalla anamnesi e dalle altre notizie comunque pervenutegli, omettendo così di porre in essere la terapia più profittevole per la salute del paziente 

Taurianova dedica un’opera al “Tramonto sullo Stromboli” riconosciuto patrimonio Unesco

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Nel prossimo mese di Giugno p.v., precisamente nei giorni 16, 17 e 18, la Cittadina di Taurianova sarà ancora teatro dell’ormai celebre Infiorata, giunta alla Vª edizione, manifestazione amata da tutta la comunità calabrese e alla quale le istituzioni riconoscono il fondamentale ruolo di promozione turistica, sociale e culturale per l’intera regione.

“Sin da subito, dichiara il Presidente della Proloco Nello Stranges, la nostra manifestazione, è sempre stata improntata alla promozione e alla valorizzazione della cultura del nostro Territorio; infatti, nelle edizioni passate dell’Infiorata di Taurianova, abbiamo sempre voluto omaggiare illustri personaggi calabresi e luoghi di Calabria di incomparabile bellezza: lo scrittore e giurista Gemelli Careri, il poeta e scrittore sanluchese Corrado Alvaro, i Miti e le Leggende del Mediterraneo con l’omaggio speciale a Scilla e Cariddi e ai Bronzi di Riace, o ancora l’edizione dedicata all’ingresso del Parco dell’Aspromonte nella rete dei Geoparchi Unesco.

Queste scelte, dimostrano inequivocabilmente che, tenendo fede al nostro statuto, ci siamo sempre impegnati nel promuovere , custodire e valorizzare la storia e la cultura del nostro territorio e, in coerenza con la nostra missione di promotori di cultura e bellezza dei nostri luoghi, con la 5ª edizione dell’Infiorata di Taurianova, vogliamo dar forza e voce alla proposta di riconoscimento del “Tramonto sullo Stromboli”, come patrimonio UNESCO, mettendo a disposizione del Comitato “Network Mediterraneo” l’importante vetrina della nostra manifestazione.
A tal proposito, in sinergia con l’Assessore al Turismo Massimo Grimaldi e l’Assessore alla Cultura Maria Fedele, quest’ultima rappresentante anche del comitato di Calabria Network Mediterraneo, abbiamo deciso di dedicare uno dei 13 quadri floreali dell’Infiorata di Taurianova, che avrà come tema “Le Meraviglie del Mondo”, allo spettacolare scenario del Tramonto sullo Stromboli.”
Per l’occasione, il Network bandirà altresì un contest dal titolo “Il Tramonto in una frase”, con l’obiettivo di individuarne una da abbinare al bozzetto artistico. La frase ritenuta più significativa, coerente ed originale verrà inserita come accompagnamento all’opera, fotografata ed incorniciata per venire successivamente esposta all’interno della nuova sede della biblioteca comunale di Taurianova

L’esito del Contest sarà reso pubblico in data 16 giugno 2023 durante un’apposita cerimonia.
Ricordiamo che Il Comitato, è stato fondato nel 2017 da Francesca Agostino, Edoardo Zannoli, Marzia Matalone, Rocco Polistena e dall’Associazione CulturalMente di Amato di Taurianova, nelle vesti dell’allora Presidente Maria Fedele; per sostenere e promuovere la candidatura del Tramonto sullo Stromboli come patrimonio dell’Umanità.

Esso conta ad oggi l’adesione di ben 18 comuni calabresi e una vastissima platea di associazioni ed enti del terzo settore, perseguendo la finalità di accrescere interesse e attrattività per lo straordinario patrimonio paesaggistico calabrese, focalizzando l’attenzione su questo scenario unico al mondo. Parallelamente alla complessa attività documentale propedeutica alla candidatura UNESCO il comitato è stato il promotore di molteplici attività promozionali e conoscitive, campagne informative e convegni, il più recente dei quali si è svolto il 15 aprile 2022 alla Camera dei deputati, che ha visto anche l’annuncio di una proposta di legge su iniziativa del celebre critico d’arte e parlamentare italiano, Vittorio Sgarbi.(approdocalabria.it)

 

Condono edilizio: il Consiglio di Stato
Quali interventi è possibile realizzare su un immobile in cui è in pendenza un'istanza di sanatoria edilizia speciale (condono edilizio)?

Condono edilizio e opere di completamento: nuova sentenza del Consiglio di Stato
È una domanda che, nonostante dall'ultimo condono sia trascorso quasi un ventennio, tiene banco all'interno dei tribunali di ogni ordine e grado che hanno definito la problematica nelle sue sfaccettature. E tutto proviene dall'art. 43 della Legge n. 47/1985 che al comma 5 prevede:

Possono ottenere la sanatoria le opere non ultimate per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali limitatamente alle strutture realizzate e ai lavori che siano strettamente necessari alla loro funzionalità. Il tempo di commissione dell'abuso e di riferimento per la determinazione dell'oblazione sarà individuato nella data del primo provvedimento amministrativo o giurisdizionale. La medesima disposizione per determinare l'oblazione è applicabile in ogni altro caso in cui i suddetti provvedimenti abbiano interrotto le attività edificatorie.

La sanatoria per le opere abusive non ultimate è ammissibile "limitatamente alle strutture realizzate e ai lavori che siano strettamente necessari per la loro funzionalità".

Sull'argomento, come detto, si è espressa una copiosa giurisprudenza tra cui:

la Corte di Cassazione, sez. IV penale, con la sentenza n. 430/2022;
il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 3791/2022.
Proprio recentemente il Consiglio di Stato è tornato a parlare di condono e opere di completamento, all'interno della sentenza 5 maggio 2022, n. 3533 in cui ha chiarito alcuni dubbi.

I fatti
Nel caso di specie, successivamente all'istanza di sanatoria speciale richiesta ai sensi della legge n. 724/1994 per la realizzazione di un box in lamiera e una roulotte privi però del presupposto della fissità al suolo e quindi non costituenti “corpo edilizio”, il ricorrente aveva modificato la collocazione spaziale dei manufatti in questione. E proprio per questo il comune aveva provveduto con il diniego del rilascio del permesso di costruire in sanatoria.

In tali casi, confermano i giudici di Palazzo Spada, in pendenza di un procedimento di condono edilizio, possono essere effettuati interventi finalizzati a garantire la conservazione del manufatto, purché gli stessi non modifichino le caratteristiche essenziali e la destinazione d'uso dell'immobile.

Il diniego di condono edilizio
La collocazione spaziale del manufatto, rilevante dal punto di vista urbanistico edilizio, costituisce elemento essenziale e fondante della stessa identità costruttiva e di occupazione del territorio soggetto a vigilanza comunale, con la conseguenza che il motivo fondante il diniego impugnato in prime cure risulta condiviso e corretto.

Ricorso respinto e sanatoria denegata.

 

Trasgredire l'ordinanza del sindaco non è reato se il fatto interessa solo il vicino e non la collettività
di Federico Gavioli

La Cassazione interpreta così l'articolo 650 del codice penale che punisce l'inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità

L'inosservanza dell'ordinanza emessa dal sindaco non costituisce il reato previsto dall'articolo 650 del codice penale nel caso in cui i lavori prescritti dall'ordinanza sindacale di messa in sicurezza dell'immobile di proprietà dell'imputato servono a rimuovere una situazione fonte potenziale di pericolo per il solo confinante e non dell'intera collettività. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 17032/2023.

Distanze legali e condono edilizio
Il rispetto delle distanze legali tra edifici è una condizione che incide sull’accoglimento dell’istanza di condono? Quali funzioni svolgono le distanze legali?

Il Tar Palermo si è soffermato su tali questioni problematiche precisando alcuni aspetti.

Condono e distanze legali

“Il rilascio del condono per un immobile realizzato in violazione della distanze legali di cui al D.M. n. 1444 del 1968 non risulta legittimo, visto che secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, gli abusi in materia di distanze non sono condonabili (C.G.A.R.S., I, 14 aprile 2014, n. 207; T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, I, 7 maggio 2015, n. 445; T.A.R. Molise, I, 23 maggio 2014, n. 334).

Dunque, secondo il Tar, l’eventuale accoglimento dell’istanza di condono edilizio, in violazione delle distanze legali, di cui al D.M. 1444/1968, sarebbe illegittimo. Le distanze legali, infatti, non svolgono unicamente una funzione privatistica (tutelare i diritti dei terzi) ma anche, o soprattutto, una pubblicistica (profilo igienico-sanitario).

Funzione delle distanze legali tra edifici

In tal senso, è stato precisato che “a prescindere dalla circostanza che vanno preservati i diritti dei terzi confinanti pregiudicati dall’illecito edilizio, pur potendo gli stessi trovare tutela in sede civile, è necessario comunque garantire il rispetto delle distanze minime di cui al D.M. n. 1444 del 1968 – le cui disposizioni, aventi natura pubblicistica, sono inderogabili – in quanto le stesse hanno lo scopo di assicurare le necessarie condizioni di salubrità dei fabbricati sotto il profilo igienico-sanitario, mediante l’eliminazione di intercapedini nocive tra gli stessi (Tar Palermo sent. 3740 del 23.12.2022 che richiama T.A.R. Campania, Napoli, VII, 14 marzo 2011, n. 1458)”.

 

Modifiche su immobile già condonato: ci vuole un nuovo permesso di costruire?
Il Consiglio di Stato specifica quando è necessario un nuovo titolo abilitativo nel caso di trasformazione di una struttura preesistente e già oggetto di condono

Un manufatto già esistente e condonato, se diventa oggetto di trasformazioni edilizie importanti, configura nuovamente gli estremi di abuso edilizio. A confermarlo è il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 8238/2022, a seguito del ricorso presentato contro l’ordine di demolizione relativo ad alcune opere comprendenti un manufatto in muratura realizzato mediante l'accorpamento due strutture già esistenti, la pavimentazione del lastrico solare, l’accorpamento alla struttura di una veranda e la realizzazione di due tettoie su due balconi.

Modifiche su immobile condonato: la sentenza del Consiglio di Stato
Nel valutare il caso, il Collegio ha spiegato che il manufatto, realizzato tramite l’accorpamento di due strutture preesistenti costituisce un’opera nuova. A nulla vale che entrambe siano state condonate (una ai sensi della legge n. 326/2003, cd. “Terzo Condono Edilizio”, l’altra ai sensi della legge n. 47/1985, cd. “Primo Condono Edilizio”). I due manufatti preesistenti sono infatti confluiti all’interno di un unico corpo di fabbrica, il quale costituisce un ‘quid novi’, per consistenza, composizione (tre vani forniti di impiantistica, piatto doccia, pavimenti, rivestimenti, infissi esterni e portoncino) e destinazione (abitativa con collegamento, tramite scala, all’appartamento sottostante).

Secondo i giudici di Palazzo Spada si tratta di un organismo edilizio diverso da quello preesistente, abusivo perché realizzato senza permesso di costruire.

 

Sanatoria edilizia.

La mancata risposta all’istanza di Permesso di Costruire in sanatoria entro 60 gg non significa silenzio inadempimento

di Carlo Pagliai 

La sentenza di Corte Costituzionale n. 42/2023, depositata in data 16 marzo 2023, ha confermato il valore di tacito diniego all’accertamento di conformità, trascorsi sessanta giorni dall’istanza senza pronuncia con adeguata motivazione del Comune. Non ha colto nel segno la serie di motivazioni che ha spinto il TAR del Lazio a sollevare l’eccezione di incostituzionalità verso il comma 3 articolo 36 DPR 380/01.

Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata. In caso di SCIA in sanatoria ex art. 37 DPR 380/01, il Consiglio di Stato si è espresso inquadrandolo come Silenzio-inadempimento; con tale sentenza è stato chiarito che il silenzio serbato sulle SCIA in sanatoria non possa configurare silenzio-assenso nè silenzio-rigetto. Ma la questione sollevata nella predetta sentenza di Corte Costituzionale sul silenzio diniego verso istanze di Accertamento di conformità ex art. 36 TUE è complessa.

 

Mancato abbattimento delle barriere architettoniche, il Comune è chiamato a risarcire i disabili
di Federico Gavioli

La Cassazione ha condannato l'ente locale in solido con la società che gestisce il parcheggio

Il Comune è tenuto a risarcire il disabile se non si è attivato per rimuovere le barriere architettoniche; la Corte di cassazione con l'ordinanza n. 9384/2023, ha condannato l'ente locale in solido con la società che gestisce il parcheggio comunale, perché aveva lasciato che lo stesso parcheggio fosse raggiungibile solo attraverso la scala mobile, non accessibile però al cane guida del disabile.

 

Cassazione: responsabilità medica anche quando si omettono ulteriori controlli
Responsabilità medica per errore diagnostico
Riconosciuto l'errore medico anche quando si omette di eseguire o disporre ulteriori controlli. Così la Cassazione nella sentenza.
La vicenda
Nella vicenda, due medici venivano condannati per il reato ex art. 589 c.p. per aver cagionato, per imprudenza, negligenza e imperizia, la morte di un paziente per non essersi attenuti nello svolgimento della propria attività alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica e aver omesso di effettuare una corretta diagnosi e una corretta valutazione del quadro clinico.

La Corte di appello, in riforma della sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, affermata la responsabilità civile dei predetti, li ha condannati, in solido tra loro, al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.
Nell'editto accusatorio veniva altresì evidenziato che "le condotte omissive, laddove adeguatamente tenute, avrebbero determinato una corretta diagnosi ed evitato l'evento morte, così come verificatosi, ovvero determinato un evento morte diverso o comunque differito nel tempo".
Per il giudice appello, in sostanza era evidente l'errore diagnostico compiuto e aveva errato il primo giudice nell'affermare la correttezza della condotta dei sanitari.

La Corte di ricordava, quindi, il principio di diritto enunciato dalla nota sentenza "Franzese" in tema di nesso causale nei reati omissivi impropri, secondo cui il nesso di causalità deve ritenersi accertato e sussistente, appunto, oltre ogni ragionevole dubbio, "tutte quelle volte in cui con alto grado di credibilità razionale o probabilità logica, dalla diagnosi omessa o dall'intervento terapeutico non effettuato o male effettuato, sarebbe potuta derivare non solo la salvezza della vita del paziente, ma anche una attenuazione del danno prodotto dalla patologia con conseguente ritardo dell'evento morte. Affermava di conseguenza che nella fattispecie a giudizio, proprio sulla base delle conclusioni dei periti del Gip, adeguatamente supportate anche dal perito della parte civile Antico, era ragionevole inferire che l'evento morte avrebbe avuto diverse modalità di verifica e differenti e più estesi tempi di sopravvivenza, qualora i due odierni imputati avessero praticato una corretta diagnosi come pacificamente emerso dall'intera istruzione dibattimentale svolta".

Il ricorso
Avverso la sentenza di appello ricorrono gli imputati, denunciando tra l'altro, carenza e manifesta e logicità della motivazione con riguardo alla ipotizzata cooperazione colposa di cui all'art 113 c.p., presupponendo, in conseguenza, l'esistenza di un legame psicologico tra le condotte dei due. Così facendo, non avrebbe tenuto conto delle distinte posizioni. Inoltre, deducevano insussistenza del nesso causale tra la loro condotta e la morte del paziente, sostenendo che le patologie da cui lo stesso era affetto avrebbero comportato comunque l'inevitabilità del decesso.
La decisione
Per gli Ermellini, i ricorsi sono inammissibili.
Nel caso di specie, la Corte territoriale è pervenuta all'affermazione della responsabilità degli imputati ai fini civili senza rivalutare nel merito il compendio istruttorio, bensì correggendo l'errore di diritto in cui era incorso il giudice di primo grado laddove aveva escluso il nesso di causalità tra la condotta omissiva dei medici, odierni imputati, e il decesso del paziente.
Circa la contestazione del ragionamento sviluppato nella sentenza impugnata riguardo la condotta gravemente colposa attribuita ai sanitari che presero in cura il paziente, omettendo entrambi, nelle rispettive qualità contestate nell'editto accusatorio, di approfondire la situazione clinica del paziente e di formulare la corretta diagnosi, ciò basta per "ritenere la cooperazione colposa, ciascun medico essendo consapevole della condotta dell'altro".
Per il resto le doglianze dei ricorrenti si risolvono in deduzioni di mero fatto, non proponibili in sede di legittimità, a fronte peraltro di una esposizione, da parte della Corte di merito, assai chiara e dettagliata dell'intera vicenda con particolare attenzione al parere scientifico formulato dagli esperti.

Indiscutibile, ricorda la S.C., "l'errore diagnostico e le conseguenti errate condotte omissive". Sul punto, la Corte territoriale ha correttamente applicato i principi della sentenza "Franzese", cui nel tempo si sono uniformate le sezioni semplici della S.C.
Va, del resto, riaffermato, concludono i giudici dichiarando inammissibili i ricorsi, che "in tema di colpa professionale medica, l'errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli ed accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi (cfr. Cass. n. 23252/2019); e che risponde di omicidio colposo per imperizia, nell'accertamento della malattia, e per negligenza, per l'omissione delle indagini necessarie, il medico che, in presenza di sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, rimanga arroccato su diagnosi inesatta, benché posta in forte dubbio dalla sintomatologia, dalla anamnesi e dalle altre notizie comunque pervenutegli, omettendo così di porre in essere la terapia più profittevole per la salute del paziente (cfr. Cass. n. 26906/2019)".

 

Legittimo impedimento negato, i penalisti romani scrivono al Pg di Cassazione

Dopo una puntuale ricostruzione della vicenda chiedono "effettuata ogni più utile verifica del caso, di adottare gli opportuni provvedimenti.

La Camera penale di Roma interviene sul caso dell'avvocata a cui non è stato concesso il legittimo impedimento per assistere il figlio da sottoporre ad un intervento in day hospital e scrive al Pg presso la Corte di Cassazione; al Pg presso la Corte di Appello di Roma e al Presidente presso il Tribunale di Roma chiedendo "effettuata ogni più utile verifica del caso, di adottare gli opportuni provvedimenti".

La richiesta arriva all'esito di une verifica del "direttivo" che ha esaminato sia l'istanza di rinvio che il verbale dell'udienza. L'istanza, proseguono, "è ampiamente documentata e le ragioni poste a suo fondamento non appaiono discutibili nella loro capacità giustificativa della richiesta".

Che l'istanza non fosse tempestiva, aggiungono, "appare intanto declinazione vacuamente formale. Ciascuno che frequenti le aule di giustizia conosce bene l'assoluta rarità della valutazione di un'istanza di rinvio in un momento antecedente a quello di celebrazione dell'udienza".

Nel caso di specie, poi, "è solo grazie all'intervento di un collega di studio del difensore che il giorno antecedente all'udienza la PEC con l'istanza veniva inserita nel fascicolo; mentre era proprio l'avv. Salamandra a telefonare in cancelleria la mattina stessa dell'udienza per sapere se il giudice la reputasse in limine meritevole di accoglimento, sentendosi ribadire dalla cancelliera, di ritorno dal colloquio con la presidente, che, appunto, la decisione sarebbe stata assunta soltanto alla chiamata del processo".

Il difensore per perorare il rinvio nominava, prosegue la nota, un sostituto adeguatamente informato "al solo fine di offrire al giudice un contributo concreto per una più congrua decisione ed evitare che il rinvio coincidesse con altri impegni del delegante".

Ma che il bimbo potesse essere accompagnato dal padre anziché dalla madre avvocata "è invece affermazione grave e non tollerabile". "È grave perché sembra poggiata su un'idea proprietaria del processo; un'idea muovendo dalla quale la discrezionalità nell'esercizio della giurisdizione tracima francamente nell'arbitrio". "Ed è del tutto intollerabile perché consegna la figura di un magistrato che si spinge addirittura a immaginare di poter scrutinare l'organizzazione del ménage familiare attorno a temi cruciali e privatissimi, quali quello della salute di un figlio di due anni".

"Non compete a nessuno, men che mai al presidente di un tribunale che non ne sia investito per ragioni di ufficio, stabilire chi debba attendere a quella cura. Ed è urticante che si pensi di poterlo invece fare, sbrigativamente liquidando le ragioni serie di una richiesta".

 

di Dario Ferrara

Non è reato il tramezzo senza permesso

Grazie allo Sblocca Italia non serve il titolo edilizio per il frazionamento senza aumento dei volumi né modifica della destinazione d’uso. Basta la Scia, in assenza della quale non c’è l’illecito penale

La tramezzatura senza permesso non è reato. E ciò anche se con i lavori il proprietario ricava più stanze nell’appartamento. Lo Sblocca Italia, infatti, ha ampliato la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria: ora vi rientra anche il frazionamento dell’unità immobiliare, che non richiede più il permesso di costruire, se non amplia la volumetria né altera la destinazione d’uso. Insomma: per realizzare l’opera basta la Scia e la mancata segnalazione al Comune non fa scattare il reato di cui all’articolo 44, comma primo lettera b) del testo unico dell’edilizia. È quanto emerge da una sentenza depositata l’11 aprile 2023 dalla terza sezione penale della Cassazione (testo in lavorazione).

Violazione di legge
È accolto uno dei motivi di ricorso proposti dall’imputato, un cittadino della Repubblica popolare cinese: il pubblico ministero aveva chiesto la condanna a sei mesi di arresto e 8 mila euro di ammenda. La Suprema corte cassa senza rinvio la sentenza di condanna «perché il fatto non sussiste», mentre il sostituto procuratore generale concludeva per l’inammissibilità; trova ingresso la censura che denuncia violazione di legge in quanto si tratta di lavori per i quali non sono necessarie autorizzazioni. E ciò benché il ricorso sbagli indicando l’imputazione contestata nel reato di cui alla lettera a) e non b) della disposizione: il punto è che il giudice del merito non spiega perché la condotta del proprietario dell’immobile sarebbe riconducibile alla fattispecie ascritta.

Superficie e carico
Con i lavori l’imputato divide in due un vano creando un’altra camera, con interventi sul pavimento e sull’impianto elettrico per renderla abitabile. Ma attenzione: dopo le modifiche apportate al testo unico per l’edilizia dall’articolo 17, comma primo lettera b) numeri 1 e 2, del decreto legge 133/14 non serve più il permesso di costruire per il frazionamento o l’accorpamento, anche se comportano una variazione di superficie o del carico urbanistico, a patto che non cambino la volumetria complessiva e l’originaria destinazione d’uso; aspetti, questi ultimi, che il giudice del merito non affronta. E se manca la Scia la sanzione penale è esclusa dal combinato disposto degli articoli 37, ultimo comma, e 44, comma 2 bis, del dpr 380/01.

 

L'abuso d'ufficio è escluso se si esercita un potere discrezionale
Il carattere discrezionale del potere esclude la possibilità di ritenere integrati gli estremi del reato per violazione di specifiche regole di condotta (Cass., sentenza n.

di Simone Marani

Non sussiste abuso d'ufficio quando si esercita un potere discrezionale.
Questo è quanto emerge dalla sentenza 6 aprile 2022, n. 13136 (testo in calce) della Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione.

Il caso vedeva due pubblici ufficiali essere assolti dai giudici di merito dal reato di abuso di ufficio, perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, per avere, in concorso tra loro, in violazione delle norme di legge previste dall'art. 97 Cost. e art. 25 del D.Lgs. n. 150 del 2009, adottato un provvedimento sindacale di nomina di due soggetti legati agli imputati a responsabili di posizione organizzativa, così procurando loro un ingiusto vantaggio patrimoniale sebbene nell'organigramma del comune vi fossero altri dipendenti di parità categoria giuridica ma con superiore posizione economica e migliori requisiti professionali.

Il fatto contestato non è più previsto dalla legge come reato a seguito della parziale abolitio criminis conseguente alle modifiche introdotte all'art. 323 c.p., dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76, art. 23, convertito dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, disposizione con la quale le parole “norme di legge o di regolamento”, contenute nell'art. 323 c.p., sono state sostituite con quelle di “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

Fermi restando l'immutato riferimento all'elemento psicologico del dolo intenzionale e l'immodificato richiamo alla fattispecie dell'abuso di ufficio per violazione da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio, dell'obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli atri casi prescritti, il delitto di abuso di ufficio per violazione di legge, per effetto delle modifiche intervenute, è ora configurabile solamente nei casi in cui la violazione da parte dell'agente pubblico abbia avuto ad oggetto “specifiche regole di condotta” e non anche regole di

carattere generale; solo qualora tali specifiche regole di condotta siano dettate da norme di legge o da atti aventi forza di legge, e non anche quelle fissate da meri regolamenti o altri atti normativi di fonte subprimaria e, in ogni caso, a condizione che le regole siano formulate in termini da non lasciare alcun margine di discrezionalità all'agente, restando esclusa l'applicabilità della norma incriminatrice laddove quelle regole di condotta rispondano in concreto, anche in misura marginale, all'esercizio di un potere discrezionale (Cass. pen., Sez. VI, 28 gennaio 2021, n. 8057).

Deve ritenersi corretta la decisione dei giudici di merito nel ritenere che il fatto di reato non è più previsto dalla legge come reato, avendo i giudici chiarito come fosse insufficiente il richiamo alle regole di condotta genericamente indicate nell'art. 97 Cost., a proposito dei principi di buona amministrazione e di imparzialità che debbono governare l'operato dei pubblici agenti (Corte Cost., sent. n. 8 del 2022).

Inoltre, la specifica regola di condotta dettata dalla norma di legge contestata, prevista dall'art. 25, comma 2, del D.Lgs. n. 150 del 2009, secondo cui nell'assegnazione ai propri dipendenti di incarichi e responsabilità le pubbliche amministrazioni devono tenere conto della professionalità sviluppata ed attestata dal sistema di misurazione, secondo criteri oggettivi e pubblici, comporta di certo margini di discrezionalità nell'esercizio comparativo dei profili e nel bilanciamento tra le aspettative dei singoli dipendenti e le esigenze delle amministrazioni medesime.

Il carattere discrezionale del potere esclude la possibilità di ritenere integrati gli estremi del reato per violazione di specifiche regole di condotta, rendendo irrilevante la circostanza che quel potere si fosse concretizzato nell'adozione di un provvedimento amministrativo recante una motivazione incompleta ovvero insufficiente, dunque in violazione del generico obbligo di motivazione che dev3 qualificare tutti gli atti amministrativi che incidono sulla sfera giuridica dei relativi destinatari.

 

di Dario Ferrara

Stop delibera perché lo “screen” del sito Poste non prova che il condomino ha avuto la convocazione

L’ente di gestione non produce l’avviso di ricevimento della raccomandata mentre la stampata è solo un elemento presuntivo che non indica la persona cui l’atto sarebbe stato consegnato

Annullate. Addio alle delibere adottate dall’assemblea “incriminata” perché il condomino non ha ricevuto la convocazione. Di fronte alle contestazioni del singolo proprietario all’ente di gestione non basta allegare la copia della distinta e lo screenshot del sito web di Poste che traccia la raccomandata: pesa la mancata produzione dell’avviso di ricevimento, mentre la stampata della pagina Internet non indica la persona fisica cui l’atto sarebbe stato consegnato. È quanto emerge da una sentenza pubblicata di recente dalla seconda sezione civile del tribunale di Vicenza (leggibile in fondo all’articolo).

Elemento presuntivo
Accolta la domanda proposta da uno dei condomini, un sacerdote, che nega di aver ricevuto l’avviso di convocazione presso l’indirizzo di residenza. È vero: la dimostrazione del solo invio della raccomandata, senza avviso di ricevimento, costituisce prova certa della spedizione dalla quale si può dedurre per presunzione la prova che l’atto è arrivato al destinatario, con relativa conoscenza. Ma servono altri elementi. E quando non si tratta di atti giudiziari la stampata del sito web di Poste italiane può essere valorizzata come uno degli elementi presuntivi dai quali desumere l’invio e la ricezione dell’atto unilaterale recettizio com’è la convocazione all’assemblea condominiale.

Indicazioni generiche
Il condominio, nella specie, neppure riesce a provare di aver spedito l’avviso al condomino prima ancora della ricezione. L’articolo 66 disp. att. Cc prescrive soltanto che la convocazione debba essere inviata con raccomandata e non anche con avviso di ricevimento. Ma nella copia della lettera prodotta agli atti compare la dicitura “ar”: il condominio, dunque, era pienamente in grado di depositare la ricevuta di ritorno. La distinta cumulativa fa riferimento soltanto a una «parrocchia» e manca l’indirizzo: non si sa se si tratti della sede presso cui è incardinato il sacerdote. E quindi non è possibile concludere che la comunicazione sia stata inviata almeno al domicilio del destinatario, mentre sono troppo generiche le indicazioni che emergono dalla stampata del sito web delle Poste: è escluso che possano supplire alla mancata produzione dell’avviso di ricevimento.

 

 

di Debora Alberici

Condannato per stalking chi minaccia sui social

Un anno e sei mesi di reclusione a una donna che pubblicava quotidianamente post intimidatori

Rischia una condanna per stalking chi minaccia sui social. A questa importante conclusione è giunta la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 16254 del 17 aprile 2023 ha confermato un anno e sei mesi di reclusione a carico di una donna pubblicava quotidianamente post intimidatori.

La signora continuava a offendere e minacciare sui social una consulente del giudice addirittura additandola come collusa con la mafia.

Il Tribunale e la Corte d'Appello avevano emesso una condanna severa: un anno e mezzo di carcere.

Ora il “Palazzaccio” ha reso definitivo il verdetto.

Ad avviso degli Ermellini, infatti, il reato d’atti persecutori è stato integrato non soltanto da condotte consistite in pedinamenti e/o appostamenti, ma anche in reiterate esternazioni, realizzate: per il tramite di pubblicazioni su social network. Ciò posto, la Corte territoriale ha compiutamente esposto le ragioni per cui ha considerato recessivo il peso di talune incongruenze relative alle dichiarazioni della consulente minacciata, chiarendo l’irrilevanza di quelle difformità, a fronte di un compendio probatorio dal quale è inopinabilmente emerso «il dato oggettivo della riferibilità donna dei post e articoli aventi come bersaglio la professionista».

Inoltre, ecco ciò che più conta, nel valutare l’insieme dei comportamenti (appostamenti, pubblicazione di post dal chiaro tenore minatorio ascritti all’imputata come idoneo a integrare la condotta materiale di molestia e/o minaccia richiesta dall’art. 612 bis, va sottolineato come anche le sole pubblicazioni di post su svariati social network («con cadenza quasi quotidiana... dal contenuto non soltanto diffamatorio, ma anche, per la loro virulenza e ossessiva ripetitività, minatorio») sono sufficienti, da sole, a integrare il reato di atti persecutori.

Nulla da fare neppure sul fronte della diffamazione. Anche in questo caso l'impianto accusatorio ha retto alle obiezioni della difesa.

In particolare, ad avviso dei Supremi giudici, In tema di diffamazione, l'esercizio del diritto di critica, reso legittimo dall'interesse pubblico della notizia e dalla funzione esercitata dal soggetto criticato, non autorizza l'offesa rivolta alla sfera privata di quest'ultimo mediante l'uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona. Infatti, le espressioni adoperate dall'imputata, ben lungi dall’essere puramente “pungenti”, “forti e incisive” (tale è la tesi difensiva), si sono invece caratterizzate per un tenore tale da oltrepassare il limite della continenza, che è comunque un limite immanente anche all'esercizio del diritto di critica.

di Dario Ferrara

Addio paradiso fiscale: così la Svizzera esce dall’ultima black-list
La Svizzera sta per abbandonare definitivamente anche l’ultimo e ormai scomodo paradiso fiscale

di Giorgio De Marinis 

La Svizzera sta per abbandonare definitivamente anche l’ultimo e ormai scomodo ricordo del paradiso fiscale che fu. Il ministro dell’Economia e finanze Giancarlo Giorgetti e il suo omologo «capo del dipartimento federale» delle finanze della Confederazione, signora Karin Keller-Sutter, hanno firmato ieri una «intesa preliminare» per rimuovere il paese alpino dalla lista del Decreto ministeriale 4 maggio 1999, la cosiddetta black list delle persone fisiche.

 

Stop condanna se non si indica a quale velocità il guidatore avrebbe potuto evitare il pedone

La regola cautelare elastica che si ritiene violata non si può ricavare ex post ma va individuata in base a dati di fatto certi e preesistenti: impossibile ignorare che la vittima attraversa di corsa nel buio

Impossibile condannare per omicidio stradale l’automobilista che investe il pedone mentre va 30 all’ora. O meglio: la sanzione penale non può scattare se il giudice, con l’aiuto del perito, non indica qual è la velocità del veicolo che avrebbe consentito al conducente di evitare la vittima, che attraversa di corsa la carreggiata nel buio della notte. E ciò perché la regola cautelare elastica che si ritiene violata non può essere ricavata ex post ma va individuata in base a dati di fatto certi e preesistenti. Di più: anche dopo una doppia condanna in sede di merito si può configurare un vizio di motivazione sull’interpretazione della testimonianza oculare. È quanto emerge da una sentenza pubblicata il 17 aprile 2023 dalla quarte sezione penale della Cassazione (leggibile in fondo all’articolo).

Ricostruzione lacunosa
Il ricorso dell’imputato è accolto contro le conclusioni del sostituto procuratore generale. Trova ingresso la censura che denuncia l’errore metodologico compiuto dai giudici territoriali: ricavano addirittura dalle affermazioni del consulente della difesa la regola prudenziale la cui osservanza avrebbe scongiurato l’evento. Nell’omicidio stradale conta la causalità della colpa e l’elemento psicologico del reato deve essere verificato su due fronti: da una parte la prevedibilità dell’evento, dall’altra l’esigibilità del comportamento alternativo lecito. La responsabilità penale dell’imputato, nella specie, risulta affermata sulla base di una ricostruzione lacunosa dell’incidente: non si valutano le condizioni della strada e la visibilità né se la presenza di pedoni può ritenersi prevedibile; il tutto invece avrebbe consentito di stabilire ex ante la regola cautelare violata. Insomma: non si capisce perché si decide che, procedendo a 20 chilometri orari invece che a 30, l’auto avrebbe scansato il pedone, che attraversa la strada a 12 km/h.

Deposizione travisata
Evidente, infine, il travisamento della deposizione resa dall’automobilista che sopraggiunge in direzione opposta: riferisce in effetti di aver visto il pedone soltanto dopo che è stato travolto nell’altra corsia, mentre la sua condotta di guida non è di per sé dirimente per valutare quella dell’imputato. Parola al rinvio.

 

Annullate multe over50: la prima sentenza. Il Giudice di pace di Velletri ha annullato la sanzione amministrativa di 100 euro prevista per gli over50 non vaccinati per difetto di legittimazione sostanziale dell'ADER

Annullamento multa over 50 non vaccinati
Addio multe agli over 50 non vaccinati? Sembra questa la strada intrapresa dalla giurisprudenza in questa prima sentenza "pilota" del giudice di pace di Velletri n. 721/2023 (sotto allegata) che ha annullato la sanzione amministrativa di 100 euro prevista dall'art. 4-sexies del dl n. 44/2021 per tutti coloro che, compiuti i 50 anni di età alla data del 15.6.2022, non avevano iniziato o concluso il ciclo vaccinale anti-Covid. Per il Gdp si verte in difetto di legittimazione sostanziale dell'Agenzia delle Entrate e Riscossione nell'accertamento della sanzione per l'inadempimento all'obbligo di vaccinazione.

Nell'attesa di capire se sarà la prima di una lunga serie di pronunciamenti giurisprudenziali in materia, vediamo di capire le ragioni giuridiche alla base della decisione.

Difetto di legittimazione sostanziale ADER nell'accertamento della sanzione per inadempimento all'obbligo vaccinale
L'art. 4-sexies del decreto-legge n. 44 del 2021, convertito con legge n. 76/2021 s.m.i. commina la sanzione amministrativa di € 100,00 (cento euro) ai cittadini italiani ed agli stranieri residenti nel territorio dello Stato che abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età alla data del 15/06/2022 senza aver iniziato o concluso il ciclo vaccinale primario (tre dosi) anti covid-19.

Si tratta di una norma - e di una violazione - molto controversa, giuridicamente discutibile e socialmente avvertita come discriminatoria per una categoria anagrafica che si è dimostrata ritrosa a pagare la somma di centro euro dopo aver - presumibilmente - subito aggressioni molto più invasive ai propri diritti personalissimi.

Per tali ragioni buona parte della comunità forense socialmente impegnata nel contrasto alla distopia della normativa pandemica ha tentato di fornire una risposta alla crescente domanda di tutela di una platea enorme di soggetti, tenuti a fare i conti con la normativa in questione, vuoi perché convinti della illegittimità della disciplina, vuoi perchè interessati solo a giustificare l'inesistenza dell'obbligo nei propri confronti essendo in possesso di una certificazione di differimento o di esenzione dall'obbligo vaccinale, ovvero di altra ragione di assoluta e oggettiva impossibilità all'adempimento.
Per tutte queste persone Avvocati Liberi ha predisposto un modello di ricorso editabile, corredato dalla nota di iscrizione a ruolo e da un apposito vademecum esplicativo per fornire gli strumenti in maniera diffusa e gratuita a chiunque volesse impugnare l'avviso di addebito in autonomia ed economia.
Le soluzioni offerte da giuristi e giureconsulti che si sono interessati alla materia sono delle più varie, la cui diversità e pluralità è stata favorita da una tecnica di descrizione normativa basilare ed impropria e da una serie di interventi legislativi che hanno manipolato l'operatività della riscossione accentuandone i problemi interpretativi, di trasparenza e certezza applicativa.
Il riferimento è all'articolo 7 della legge 30 dicembre 2022 n. 199, che ha stabilito che "dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto fino al 30 giugno 2023 sono sospese le attività e i procedimenti di irrogazione della sanzione previsti dall'articolo 4 -sexies, commi 3, 4 e 6, del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2021, n. 76".
Tale norma ha generato un acceso dibattito in ordine alla "sospensione" delle attività di riscossione, che qualcuno ha erroneamente esteso anche alla "sospensione" dei termini di impugnazione degli avvisi di addebito nelle more ricevuti dai cittadini in costanza del rinvio della riscossione. In altri termini l'Agenzia delle Entrate si "è portata avanti", ha notificato gli addebiti e sospeso la loro riscossione sino al 30 giugno, predisponendo però in tal modo un meccanismo subdolo di maturazione della definitività del titolo che, a decorrere dal 1° luglio, avrà fatto decadere dall'impugnazione coloro che avranno ricevuto l'avviso di addebito in precedenza senza impugnare nei termini al proprio Giudice territorialmente competente.
Questioni non di poco conto, non c'è dubbio, ma per non dilungarci oltremodo rispetto al tema oggetto del presente commento, sarebbe possibile riassumere i motivi di impugnazione in due macro aree di ricorso:

- Motivi di carattere sostanziale per una sanzione fondata sulla discriminazione del trattamento, obbligato per gli over 50 in ragione semplicemente dell'età e, quindi, di una condizione personale di cui all'art. 3 Cost. e senza alcun altro motivo logico, scientifico o prudenziale che possa in qualche modo giustificare l'obbligo vaccinale covid19.

- Motivi di carattere processuale e, soprattutto procedimentale, relativamente al rispetto delle condizioni e dei principi tipici del sistema degli illeciti e delle sanzioni amministrative, e del loro accertamento, delineato dalla legge.

I primi, quelli di carattere sostanziale, costituiscono l'aspetto più stimolante della discussione di questa tipologia di ricorsi, dal valore economico irrisorio ma certamente portatori di un valore giuridico, etico e sociale senza prezzo, in quanto sottendono a questioni che involvono diritti fondamentali universali inviolabili.

Tra questi il ricorso di ALI ha dato risalto ai motivi relativi all'insussistenza dell'obbligo di sottoporsi al ciclo vaccinale primario per la palese violazione delle norme sulla Convenzione dei diritti e delle libertà fondamentali dell'Uomo (CEDU); per la scriminante di cui all'art. 4 Legge 689/1981 dell'esercizio di un diritto o della legittima difesa o stato di necessità dovuta dall'insorgenza di reazioni avverse; per la violazione del divieto di non discriminazione di cui al Considerando 36 del Reg. 953/2021; per la violazione dell'art. 5 codice civile, a mente del quale "gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica"; per l'insussistenza dell'obbligo di sottoporsi al ciclo vaccinale primario per tutti i soggetti guariti e, dunque, portatori della c.d. immunità naturale; per la violazione del diritto alla riservatezza dei dati personali ed, infine, per le violazioni dei diritti costituzionali di cui agli articoli 2,3,27, 32 e 97 Cost.

Anche i motivi di carattere procedimentale/processuale sono altrettanto degni di rilevanza, ed il più delle volte costituiscono la via d'uscita per il Giudice per rispondere alla domanda di giustizia senza entrare nella disamina delle questioni meritali, limitandosi alla fase preliminare delle illegittimità evidenti e assorbenti.

La comunità forense più attenta ha sollevato molte questioni preliminari e pregiudiziali, tra le quali le più importanti consistono nella nullità dell'avviso di addebito per omessa indicazione dei termini e delle modalità di impugnazione; nella nullità della sanzione per omesso invio della comunicazione ex art. 4-sexies, co. 4, del decreto-legge 1° aprile 2021; nella tardività della notifica dell'avviso di addebito (in particolari casi) ma, in questo commento, ci soffermiamo sull'eccezione di nullità dell'addebito per carenza di potere e di funzioni (legittimazione sostanziale) dell'Agenzia delle Entrate e Riscossione (Ader) all'accertamento della violazione di cui all'art. 4 sexies cit. accolta dal Giudice di Pace di Velletri con sentenza n. 721 del 21 marzo 2023.

La constatazione degli illeciti amministrativi è affidata agli organi amministrativi che svolgono attività di polizia amministrativa i quali, ai sensi dell'art. 13 legge n. 689/1981, sono "organi addetti al controllo sull'osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro".

L'ordine viene dall'alto, direttamente dall'art. 97 Cost. che. prevede al secondo comma come "i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari".

L'imparzialità dell'amministrazione e il suo buon andamento - che nella specie coincide con l'esercizio del potere amministrativo di accertamento del fatto illecito, di irrogazione della sanzione e, in ultimo, della riscossione coattiva in caso di mancato pagamento della sanzione - è rimesso agli organi di vigilanza indicati nelle singole leggi speciali, agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria ex art. 57 c.p.p. , agli enti locali ex art. 7 bis del D. Lgs. n. 267/2000, nonché ai singoli uffici e ai singoli organi deputati all'esercizio del potere amministrativo cui è la legge stessa a determinarne le rispettive sfere di competenza e di attribuzione.

I pubblici uffici, pertanto, sono organizzati secondo le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari come previsti dalla legge, che determina l'esercizio del potere amministrativo in maniera "tipica", ossia predeterminato, in ossequio al principio di legalità, massima espressione della garanzia di tutte le situazioni giuridiche in capo agli stessi soggetti privati.

Pertanto per l'applicazione di una sanzione, anche amministrativa, vige il principio di legalità (art.1 legge n. 689/1981) in base al quale solo con una legge è possibile fissare e stabilire delle sanzioni.

Premesso ciò, l'art. 4 sexies comma 3 D.L. 44/2021, in deroga all'art. 13 della Legge 689/1981 stabilisce che "l'irrogazione della sanzione è effettuata dal Ministero della salute per il tramite dell'Agenzia delle entrate-Riscossione, che vi provvede sulla base degli elenchi dei soggetti inadempienti all'obbligo vaccinale periodicamente predisposti e trasmessi dal medesimo Ministero…".

È evidente sin da subito il trasferimento di fatto all'Ader della competenza materiale di "irrogare" la sanzione amministrativa per la violazione che però sia stata "accertata" in precedenza mediante un atto dell'organo titolare e funzionalmente competente all'accertamento, ossia il Ministero della Salute, come espressamente previsto dall'art. 4sexies D.L. 44/21.

Tale atto di accertamento, secondo la sfocata e ambigua struttura normativa, sarebbe costituito da quegli "elenchi dei soggetti inadempienti all'obbligo vaccinale" che il Ministero trasmette periodicamente all'Ader, ed ai quali quest'ultima dovrà irrogare la sanzione per conto del Ministero.

Dunque accertamento e irrogazione sono due segmenti diversi del processo di accertamento di una violazione amministrativa, possono coincidere certamente (si pensi alle contestazioni immediate) ma possono anche aversi in momenti successivi (si pensi alle sanzioni per "autovelox") e non v'è dubbio che all'Ader nel caso di specie sia stata delegata dalla legge solo la funzione di irrogare (e comunicare) ai soggetti inadempienti, per conto del Ministero Titolare, l'avvio del procedimento sanzionatorio, nei cui confronti ciascuno tenetur se detergere, comunicando entro dieci 10 dalla ricezione dell'avviso direttamente al Ministero della Salute titolare del trattamento una causa di esenzione o giustificazione.

In questa prospettiva l'art. 4sexies D.L. 44/21 non ha delegato l'attribuzione del potere di "accertamento" all'Ente Riscossione che, istituzionalmente (ai sensi del D.L. 22 ottobre 2016, n. 193 convertito con modificazioni dalla L. 1 dicembre 2016, n. 225, nonché dallo Statuto e dal Regolamento dell'Agenzia delle Entrate - Riscossioni) esercita esclusivamente le funzioni di riscossione, ma solamente quelle accessorie e strumentali alla stessa secondo gli indirizzi dettati dal Ministero dell'Economia e delle Finanze.

Sul punto la sentenza del Consiglio di Stato rileva come "Il potere di delega, poiché altera l'ordine delle competenze degli organi abilitati ad emettere atti con efficacia esterna, necessita di un supporto normativo di valore almeno pari a quello attributivo della competenza ordinaria, in quanto diversamente si renderebbe l'amministrazione arbitra di spostare, caso per caso, e senza alcuna previsione di limiti oggettivi e soggettivi, le competenze precostituite, con l'effetto di privare l'amministrato delle garanzie che sono insite nelle attribuzioni di uno specifico organo" - rif. C.d.S., Sez. VI, sent. 20/1979).

La motivazione del Giudice di pace di Velletri nella sentenza del 21 marzo 2023
Sebbene la motivazione della sentenza n. 721/2023 del Giudice di Pace di Velletri (sez. distaccata di Albano Laziale) del 21 marzo 2023 sia estremamente "asciutta", si comprende bene per quale motivo abbia annullato l'avviso di addebito comunicato alla ricorrente come atto di accertamento "atteso che l'irrogazione della sanzione ex art. 4 comma 3 D.L. 44/2021 è effettuato dal Ministero della Salute per tramite l'Agenzia delle Entrate".

L'Ader è un semplice tramite privo di una legittimazione propria o "attiva", nel senso sostanziale e funzionale dell'esercizio di attività delegate - e non certo processuale sol per l'evidente constatazione che è la convenuta in giudizio - che non le consentono di accertare la violazione mediante la formazione di atti sostitutivi degli elenchi ricevuti dal Ministero contenenti i nominativi dei soggetti "verificati e accertati".

La migrazione di tali elenchi negli "avvisi di addebito" che l'Ader notifica ai sensi del comma 6 dell'art. 4sexies cit. costituisce un eccesso di potere ed una grave violazione dei diritti difensivi dei sanzionati, che non sarebbero in nessun modo posti a conoscenza dell'atto di accertamento originario e per i quali non vi sarebbe alcuna prova di trasmissione o possibilità di accesso, innescando ulteriori problematiche relative all'avveramento delle condizioni previste ex art. 29, 32 e 39 del GDPR.

Sovrapponendo la funzione di accertamento della violazione con quello della irrogazione della sanzione si opera un automatico (e non consentito) trattamento dei dati personali e profilazione automatizzata di condizioni sanitarie personali sensibilissime in palese violazione del diritto previsto ex art. 22 GDPR nonché in violazione dell'art. 5 GDPR che impone la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali in ossequio al principio di trasparenza che tenga conto della necessità di salvaguardare il diritto di accesso nonché la tutela e stabilità delle situazioni giuridiche nei rapporti con la pubblica amministrazione (interesse alla riservatezza dei terzi; tutela del segreto) (cfr. Cons. Stato, A.P., 18 aprile 2006, n. 6).

Ad ogni buon conto l'illegittimità dell'operato dell'Ader risiede, in parte qua, nella mancanza di notifica del presupposto atto di accertamento di inadempimento della sottoposizione all'obbligo vaccinale, atto prodromico essenziale, affinché venga successivamente emesso l'avviso di addebito.

Per analogia basta richiamare ciò che accade a seguito di accertamento effettuato dall'Agenzia delle Entrate che riscontri un "maggior reddito" prodotto dal contribuente, quando l'INPS richieda i contributi sull'eccedenza riscontrata. Al riguardo, la pacifica e consolidata giurisprudenza ritiene illegittimo l'avviso di addebito per crediti previdenziali notificato dall'Inps al contribuente qualora esso tragga le sue origini soltanto da un precedente accertamento eseguito dall'Agenzia delle Entrate, il quale risulti a sua volta passibile di autonoma impugnazione dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale.

Si è ritenuto difatti che l'accertamento dell'Agenzia delle Entrate rappresenti solo una circostanza pregiudiziale, diversamente dall'esito della verifica fiscale che rappresenta il presupposto in forza del quale il convenuto può rideterminare i contributi dovuti. Tuttavia, la definizione fiscale della lite tra il contribuente e l'Agenzia delle Entrate non rende definitivo l'accertamento e, pertanto, l'INPS non può limitarsi a dedurre l'intervenuta definitività dell'avviso di accertamento in sede giudiziale, in quanto ha l'onere di dare prova della propria pretesa contributiva (v. Tribunale di Siracusa, sez. lav. 23/09/2021; Tribunale Ferrara, sez. lav., 14/11/2019, n. 170; Tribunale Arezzo, sez. lav., 16/05/2014, n. 203; Tribunale Milano, sez. lav., 24/06/2013, n. 5304).

Anche la Corte Suprema si è pronunciata sulla tematica, rilevando che "in tema di iscrizione a ruolo di crediti degli enti previdenziali, l'art. 24, co. 3 del D.Lgs. n. 46/1999, che prevede la non iscrivibilità a ruolo del credito previdenziale sino a quando non vi sia il provvedimento esecutivo del giudice, qualora l'accertamento su cui la pretesa creditoria si fonda sia impugnato davanti all'autorità giudiziaria, va interpretato nel senso che l'accertamento, cui la norma si riferisce, non è solo quello eseguito dall'ente previdenziale, ma anche quello operato da altro ufficio pubblico come l'Agenzia delle Entrate, né è necessario, ai fini della non iscrivibilità a ruolo, che, in quest'ultima ipotesi, l'INPS sia messo a conoscenza dell'impugnazione dell'accertamento innanzi al giudice tributario" (Cass. Civ. sez. lav., 17/06/2016, n. 12333; Cass. Civ., sez. lav., 27.01.2015, n. 1483).

Nessuna legittimazione attiva
Ne discende che nel caso deciso dal Giudice di Pace di Velletri con la sentenza 21 marzo 2023 è stato accertato come l'Ader non avesse alcuna legittimazione "attiva" a sostituirsi al Ministero nell'accertamento e come avrebbe dovuto, in quanto delegato ex lege, notificare con l'avviso di avvio del procedimento ex art 4sexies comma 4 cit. oppure, al più, con l'avviso di addebito di cui al successivo comma 6, l'atto di accertamento redatto dal Ministero della Salute ai sensi e per gli effetti del comma 3 dell'art. 4 sexies D.L. 44/21.

E sebbene la sentenza valga inter partes, non v'è dubbio che il carattere pubblicistico del procedimento amministrativo in discussione abbia portata erga omnes, per cui l'illegittimità del caso velletrano sarà applicabile per analogia a tutti quei casi in cui all'addebito notificato all'istante non si sia provveduto preliminarmente con alla notifica dell'atto prodromico di accertamento dell'inadempimento all'obbligo vaccinale, essendo stata comminata de plano la sanzione in spregio alla normativa su indicata.

A cura dell'Avv. Angelo Di Lorenzo, Avv. Roberto Martina, Avv. Bruno Botta e Avv. Chiara Guglielmetto, del gruppo di lavoro tematico degli Avvocati Liberi, United Lawyers for Freedom

 

 

La Prefettura rigetta il ricorso, il ricorrente paga la sanzione e il Multificio incassa. Autovelox e velocar: il caso del "Multificio" di Firenze

Diverse testate giornalistiche hanno definito il comune di Palazzo Vecchio di Firenze il Multificio Fiorentino poiché con i tanti autovelox e velocar produce innumerevoli multe comminate agli automobilisti (400mila sanzioni in 8 mesi come riportato dalla testata Firenze Today) che superano anche di poco il limite imposto di velocità in alcuni tratti urbani.

Tra questi vi è il Viale XI Agosto dove lo spietato telelaser sparamulte ha immortalato un automobilista che si era recato a visitare la splendida città di Firenze. Al suo ritorno dalle vacanze si è visto notificare una sanzione pecuniaria per presunta violazione del C.d.S. per eccesso di velocità.

Di seguito, si illustra uno specifico caso, che non si esclude possa essere simile a tanti altri.

Sanzioni per prevenire o per rimpinguare le casse comunali?
E' innegabile, deducendolo da tanti aspetti, che il Comune di Firenze abbia messo in atto un sistema sanzionatorio pecuniario, che ha contribuito ad un notevole introito nelle casse comunali che si è sicuramente incrementato, ai danni dei cittadini fiorentini e di chi si reca nella città per visitarla per poi trovarsi con una multa inaspettata.

Firenze Today del 14 ottobre 2022 riporta la seguente dichiarazione di un consigliere regionale:"Queste sanzioni pecuniarie non vengono fatte per prevenire incidenti stradali, ma servono al Comune per fare cassa".

Velocar e margine di tolleranza per i limiti di velocità
Il velocar è un autovelox di ultima generazione e non è collocato nelle classiche cassette grigie o arancioni, a livello stradale a fianco della carreggiata, ma la telecamera viene fissata su un palo ad un'altezza di circa 3 metri che rende difficile eventuali azioni di danneggiamento ed è poco visibile e meno evidente proprio per l'assenza dei suddetti box a bordo strada. Per gli autovelox e i velocar la tolleranza prevista dalla normativa è del 5% con un minimo di 5 Km/h. Ciò significa che su una strada urbana dove è previsto un limite max di 50 km/h, la multa per eccesso di velocità scatta dopo aver superato i 55 km/h. Il Velocar di Viale XI agosto è posto su un lampione di luce alla sinistra della carreggiata e per nulla visibile ed il limite imposto è di 50 Km/h. Tale limite non è poi tanto difficile da superare su una strada a tre corsie e rettilinea come quella summenzionata, anche se di pochi Km/h.

Incubo multe a Firenze
La Nazione del 09/11/2022 pubblicò questo titolo: Incubo multe a Firenze: il 70% è per superamento dei limiti entro i 10 km/h. Il temuto velocar in azione. Con i "vecchi" apparecchi la maggioranza delle sanzioni avveniva per infrazionisuperiori.

Infatti l'articolo riporta che dagli 81mila verbali del 2021 si è giunti ai quasi 400mila dei primi 8 mesi del 2022. Si tratta di una vera e propria strage degli automobilisti che si trovano a transitare in quei tratti dove sono appostati i velocar.

Caso specifico
Un turista si reca a Firenze e al ritorno dalle vacanze si ritrova con una notifica di sanzione per presunta violazione del CdS. Indispettito dell'accaduto decide di scrivere una email al Sindaco di Firenze esternandogli il suo disappunto. La email viene rinviata all'assessore Grandi infrastrutture, mobilità e Trasporto pubblico Locale, Polizia Locale Stefano Giorgetti, il quale risponde affermando di aver richiesto ai tecnici della mobilità l'aumento del limite di velocità su quel tratto di viabilità, ma la risposta è stata negativa adducendo motivazioni legate alla sicurezza stradale, in quanto si verificavano molteplici incidenti.

A questo punto l'automobilista multato decide di presentare, entro i termini di legge, ex art. 203 D. LGS 30.04.1992 n.285, ricorso avverso sanzione amministrativa al Prefetto.

Ricorso al Prefetto
Nel ricorso, il ricorrente impugnando il verbale della Polizia Locale espone dettagliatamente una serie di punti sorretti da sentenze e che l'organo accertatore avrebbe dovuto fornire le prove a sostegno di un vantato credito. Tra questi vengono evidenziati:

1) Nullità del verbale per le modalità di notifica attraverso i servizi SIN;

2) Onere della prova;

3) Mancata prova della commissione degli asseriti illeciti;

4) Mancata indicazione del P.U. che ha sviluppato i fotogrammi;

5) Richiesta di esibizione delle verifiche di funzionamento dell'apparecchio di rilevazione automatica;

6) Illegittimità dell'accertamento avvenuto mediante dispositivo approvato ma non omologato;

7) Preventiva contestazione dei rilievi fotografici eventualmente prodotti dall'organo accertatore.;

8) Violazione dell'obbligo della preventiva segnalazione dell'autovelox;

9) Sulla visibilità dell'autovelox;

10) Richiesta di esibizione del certificato di collaudo

Prefettura di Firenze "ammazza" ricorso
Dopo aver presentato ricorso al prefetto, al ricorrente viene successivamente notificato un'ordinanza ingiunzione di pagamento, per l'infrazione, del doppio della sanzione e in più le spese di accertamento, procedimento e notifica, in quanto è stato rigettato.

Anche se non previsto dal nostro ordinamento giuridico, il ricorrente tenta una richiesta di revoca dell'ordinanza esponendo le seguenti ragioni:

Revoca di ordinanza-ingiunzione per difetto motivazionale (ex art. 3 L. 241/90; ex art 18 comma 2 L 689/81; ex art. 204 comma 1 C.d.S.).

L'ordinanda ingiunzione prefettizia della sanzione amministrativa pecuniaria, a parere del ricorrente, è palesemente viziata per violazione di legge, in quanto in essa si attesta: "che i motivi di ricorso non sono sorretti da utili elementi probatori atti a rendere le ragioni addotte e che, conseguentemente, rendono lo stesso ricorso infondato per inadempimento dell'onere probatorio".

Vale a dire l'onere probatorio gravava sul ricorrente.

Come specificato nel ricorso, grava esclusivamente sull'ente o organo accertatore che ha emesso il verbale offrire prova della legittimità dell'accertamento (parte attrice in senso sostanziale) e quindi dell'onere probatorio dimostrando il fondamento della propria pretesa di credito, come più volte precisato dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. Civ., n. 11869/2020; Cass. Civ., n. 18575/2014 ; Cass. Civ., n. 9645/2016) e non sul ricorrente.

Il ricorrente lamenta poi, nell'atto prefettizio, un "vizio di carenza di motivazione" (ex art. 3 L. 241/90; ex art 18 comma 2 L 689/81; ex art. 204 comma 1 C.d.S.). Infatti in essa viene riportato testualmente "considerando che alla luce del rapporto controdeduttivo dell'organo accertatore, al quale questa autorità rinvia facendolo proprio in punto di fatto e di diritto, il ricorso è infondato e pertanto viene respinto", senza specificare l'infondatezza e senza riportare norme a sostegno del rigetto, recando delle frasi già predisposte ed adattabili ad altri ricorsi e di contenuto generico, rilevando un "vizio di motivazione del provvedimento" stesso ove si contesta la sola notifica e non tutte le altre eccezioni riportate nel ricorso,. ex art 203 co 3 C.d.S. .

La norma prevede che l'ordinanza prefettizia sia "motivata". Affinchè sia tale deve precisare espressamente le motivazione che hanno indotto al rigetto del ricorso nel rispetto di quanto sancito dall'art. 18 della L. 689/81 (vedi anche Cass. 519/2005) con riferimento alle ordinanze ingiunzioni, dall'art. 3 della L. 241/90 per tutti gli atti amministrativi e dall'art. 204 co. 1 C.d.S.. La Corte di cassazione si è espressa sull'argomento sottolineando che l'ordinanza ingiunzione "deve essere a pena di illegittimità, motivata, sia pure succintamente, sia in relazione alla sussistenza della violazione, sia in relazione alla infondatezza dei motivi allegati con il ricorso" (Cass. civ., 13/01/2005, n. 519; Cass. civ., 16/04/2008, n. 10043; Cass. civ , 16/11/2007, n. 23747; Cass. civ., 13/04/2006, n. 8649). Inoltre l'atto potrebbe configurare il reato di falso ideologico in atto pubblico (ex art 479 c.p.) in quanto, basandosi sì sulla legittimità delle controdeduzioni dell'organo accertatore, si afferma che "per converso, che le controdeduzioni alle eccezioni argomentate nel ricorso confermano, con puntualità, gli elementi di fatto e di diritto che hanno formato oggetto dell'accertamento di violazione e che esauriscono tutti gli aspetti di rilievo dedotti nel presento ricorso". Tale attestazione appare del tutto non veritiera, in quanto, nelle suddette, viene riportata la sola scarna dicitura: "Considerato che il centro servizi SIN è un ramo di poste italiane specializzato nella notifica dei verbali per violazioni al codice della strada, che pertanto non si tratta di una società privata bensì di Poste Italiane; che la notifica è avvenuta ai sensi della L. 890/82". non riportando e non fornendo affatto utili elementi di prova dell'organo accertatore, che avrebbero dovuto esaurire tutte le eccezioni riportate nel ricorso, e non esclusivamente la notifica.

Inoltre su un punto, anch'esso riportato nel ricorso, circa la visibilità dell'autovelox, nulla viene contestato e motivato nell'atto. L'8 febbraio 2022, con l'Ordinanza n. 4007, la Corte di Cassazione ha chiarito la corretta interpretazione dell'art. 142 del C.d.S. I verbali per eccesso di velocità potranno essere annullati se l'autovelox non è ben visibile agli automobilisti.

La giudice di pace di Firenze Carla de Santis ha annullato diciotto multe recapitate dal nuovo telelaser di viale XI Agosto a Firenze, "Sopra un lampione è violazione del codice della strada". L'autovelox dev'essere sistemato nella corsia di marcia degli automobilisti, per permettere a questi ultimi di rendersi conto, in tempo, della sua presenza. Come già accennato, il riformato art. 142, comma VI bis, del Codice della Strada, prevede che, oltre che presegnalati, gli autovelox debbano essere collocati in condizioni di visibilità.

Anche in merito alla Visibilità dei Segnali, che indicano "Strada sottoposta a controllo elettronico della velocità", e segnalazione Velocar o autovelox, il Reg. di esecuzione e di attuazione del C.d.S. all'art. 79 (art. 39, CdS) riporta che: "1. Per ciascun segnale deve essere garantito uno spazio di avvistamento tra il conducente ed il segnale stesso libero da ostacoli per una corretta visibilità. In tale spazio il conducente deve progressivamente poter percepire la presenza del segnale, riconoscerlo come segnale stradale, identificarne il significato e, nel caso di segnali sul posto, di cui al comma 2, attuare il comportamento richiesto".

Si evidenzia perciò che Viale XI Agosto in Firenze trattandosi di carreggiata a tripla corsia, i cartelli di presegnalazione di controllo velocità dovevano essere due, precisamente uno alla destra ed un altro alla sinistra della stessa carreggiata, in quanto un automobilista in fase di sorpasso, come nel caso del ricorrente, non è stato in grado di vedere il cartello posto sulla destra della carreggiata, essendo coperto dal veicolo sorpassato e di dimensioni inadeguate. Che in casi del genere i cartelli debbano essere due, lo si evince chiaramente dal fatto che se la funzione del cartello è quella di segnalare agli utenti l'imminenza della postazione di rilevamento della velocità, ne consegue che il cartello deve poter essere visto sia dagli utenti che percorrono la corsia di marcia più a destra, sia da quelli che percorrono quella di sorpasso. Infatti l'art. 104 (Art. 39, CdS) recita che " I segnali di prescrizione devono essere posti sul lato destro della strada. Sulle strade con due o più corsie per ogni senso di marcia devono adottarsi opportune misure, in relazione alle condizioni locali, affinché i segnali siano chiaramente percepibili anche dai conducenti dei veicoli che percorrono le corsie interne ripetendoli sul lato sinistro o al di sopra della carreggiata". Nel caso di specie, pertanto, i cartelli dovevano essere due: uno sul lato destro, per gli utenti della corsia di marcia normale; ed un altro sulla sinistra, o meglio sulla carreggiata, per gli utenti che percorrevano la corsia di sorpasso, impossibilitati a vedere il cartello posto sulla destra a causa della presenza del veicolo sorpassato. (sentenza n° 856/15, sezione civile del Tribunale di Trento). Anche perché la cosiddetta direttiva Maroni, la circolare del 2009 emanata dall'allora Ministro dell'Interno contenente le "istruzioni operative" sul controllo dei limiti di velocità, afferma che "tutte le segnalazioni dovranno essere comunque collocate … in modo da consentirne il tempestivo avvistamento da parte degli utenti in transito…". Inoltre La Corte ha rilevato che l'art. 142, co. 6 bis, del C.d.S. nel prevedere che la postazione di controllo sia ben visibile richiede anche la "necessaria visibilità della postazione di controllo per il rilevamento della velocità quale condizione di legittimità dell'accertamento , con la conseguente nullità della sanzione in difetto di detto requisito".

Nonostante ogni punto del ricorso presentato sia stato sorretto da consolidate sentenze della Corte di Cassazione che non sono state confutate nel citato rapporto controdeduttivo dell'organo accertatore (che si allega), nonostante l'ordinanza non sia stata motivata in tutte le eccezioni proposte nel ricorso, l'Area III Ufficio ricorsi C.d.S. della Prefettura di Firenze risponde che non è più possibile prendere in considerazione la richiesta di revoca dell'ordinanza ingiunzione in quanto la Prefettura si è già espressa in materia basandosi sulla legittimità delle controdeduzioni dell'organo accertatore. Non rimane altro che presentare un ulteriore ricorso al Giudice di pace per far valere le proprie ragioni.

A nulla è servito inviare un'ulteriore istanza in autotutela alla Prefettura, che non ha dato alcun riscontro.

Fare un ricorso al G.d.P. e soprattutto per un cittadino che risiede fuori Regione costerebbe molto di più della sanzione stessa e con esito incerto della sentenza del Giudice di Pace. Di questo la Prefettura è ben consapevole.

Pertanto, al ricorrente, non resta che pagare la sanzione a fronte di un'illegittima ordinanza ingiunzione prefettizia basata su un inesistente rapporto controdeduttivo dell'organo accertatore, ricordando che l'art. 203 C.d.S. co. 3 recita: "l responsabile dell'ufficio o del comando cui appartiene l'organo accertatore, è tenuto a trasmettere gli atti al prefetto nel termine di sessanta giorni dal deposito o dal ricevimento del ricorso nei casi di cui al comma 1 e dal ricevimento degli atti da parte del prefetto nei casi di cui al comma 1-bis. Gli atti, corredati dalla prova della avvenuta contestazione o notificazione, devono essere altresi' corredati dalle deduzioni tecniche dell'organo accertatore utili a confutare o confermare le risultanze del ricorso.

La Suprema Corte ha infatti chiarito che "la mancata produzione da parte dell'autorità opposta (delle produzioni richieste) non può non costituire un decisivo elemento di giudizio, idoneo a suffragare la sussistenza del fatto sul quale l'opponente ha fondato l'eccezione (C.Civ., Sez. I, n. 7296/96)".

Nel ricorso veniva infatti chiesto all'organo accertatore, nell'assolvimento del proprio onere probatorio, di:

- farsi obbligo di esibire documentazione attestante il corretto funzionamento del dispositivo;

- offrire prova dei riscontri fotografici (doverosamente assolta), ma che il ricorrente ne contestava preventivamente ogni risultanza, in quanto nella foto, presentata al Prefetto, viene ritratta sola l'auto del multato e non c'è alcun riscontro se nello stesso momento transitavano altre auto, a fianco o davanti alla stessa in altre corsie, che avrebbero potuto inquinare l'attendibilità della rilevazione del Velocar;

- offrire prova della corretta ed idonea presegnalazione del dispositivo di rilevamento della velocità, in conformità a quanto disposto dall'art. 142, comma VI bis, C.d.S. e relativo decreto di attuazione;

- smentire quanto sostenuto nel ricorso riguardo all'accertamento avvenuto mediante dispositivo approvato ma non omologato, citando un parere espresso dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (parere distinto da prot. n. 34505/2010) secondo cui vi sarebbe equivalenza sostanziale tra omologazione e approvazione (nel verbale è riportato "Approvazione", sulla foto "Omologazione" M.I.T n 4708 del 01/08/2016);

- verificare che l'apparecchiatura di controllo sia stata sottoposta a taratura , appurando in particolare che non sia decorso oltre un anno dalla data in cui sarebbe stata rilevata la presunta infrazione de quo alla data dell'ultima taratura del dispositivo, così come prescritto dal D.M. 282/2017….etc.

Nonostante non sia stato assolto l'onere probatorio da parte dell'organo accertatore, inviando uno scarno rapporto controdeduttivo, nonostante l'atto prefettizio, come già detto, indichi che il ricorso è infondato per inadempimento dell'onere probatorio da parte del ricorrente,

La prefettura di Firenze ammazza il ricorso con un atto nullo, il ricorrente soccombe pagando l'ingiusta sanzione e il Comune Multificio esulta incassando. Tutto in palese violazione di legge.

 

 

 

di Remo Bresciani

Spetta al giudice ordinario stabilire se la multa si può pagare in misura ridotta

Il rimedio dell'opposizione copre tutte le questioni e comprende anche quelle relative all'entità della multa

Spetta al giudice ordinario stabilire se la multa stradale si può pagare in misura ridotta. Il rimedio dell'opposizione copre tutte le questioni e comprende anche quelle relative all'entità della multa.

Lo ha affermato la Cassazione (il documento è consultabile in fondo all'articolo) che ha così deciso un regolamento di giurisdizione. La questione è stata originata da una multa comminata a una signora straniera che circolava in Italia, con la patente scaduta, su un'auto a noleggio con la patente scaduta. Nel verbale di accertamento della violazione si dava atto della possibilità di accedere alla definizione agevolata del procedimento sanzionatorio mediante il versamento della sanzione pecuniaria in misura ridotta entro sessanta giorni dalla notifica della violazione.

Il verbale è stato quindi notificato al rappresentante legale della società di noleggio che il primo giorno lavorativo dopo la scadenza, prevista per il giorno di Natale, si è recato alla posta per pagare la sanzione ridotta. L'operazione non è andata però a buon fine perché il sistema informatico non ha accettato il pagamento in misura ridotta. Il legale rappresentante ha quindi presentato istanza ai carabinieri per essere rimesso in termini, ma la domanda è stata respinta. Il ricorrente ha quindi proposto ricorso al giudice di pace che ha però declinato la giurisdizione e il tar adito in riassunzione ha sollevato conflitto negativo di giurisdizione.

Le sezioni unite della Cassazione, nel decidere la questione, hanno affermato che in tema di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, l’opposizione giurisdizionale al giudice civile ha natura di rimedio generale esperibile, salvo espressa previsione contraria, contro tutti i provvedimenti sanzionatori. Tale principio implica che il rimedio dell'opposizione al giudice civile copre tutte le possibili questioni attinenti, oltre che all’accertamento della responsabilità, anche alla misura della sanzione; comprese, quindi, le questioni relative al diritto di pagare la sanzione in misura ridotta. Il collegio di legittimità ha quindi dichiarato la giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria rimettendo le parti davanti al giudice di pace.

 

Legittima la riduzione TARI in caso di mancato svolgimento del servizio anche se non prevista dal regolamento del Comune

di Giuseppe Durante

La specifica riduzione della TARI di cui all' art.1 comma 657 della Ln°147/2013 è dovuta in favore del contribuente che concretizza il presupposto d'imposta, per il solo fatto che il servizio di raccolta, pur debitamente istituito e regolarmente attivato nel perimetro comunale, non venga poi concretamente svolto dall'ente locale in una determinata zona del territorio comunale, purché trattasi di una zona particolarmente estesa. E' quanto ha disposto la Suprema Corte di Cassazione .

 

di Debora Alberici

Condannato per stalking chi minaccia sui social

Un anno e sei mesi di reclusione a una donna che pubblicava quotidianamente post intimidatori

Rischia una condanna per stalking chi minaccia sui social. A questa importante conclusione è giunta la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 16254 del 17 aprile 2023 ha confermato un anno e sei mesi di reclusione a carico di una donna pubblicava quotidianamente post intimidatori.

La signora continuava a offendere e minacciare sui social una consulente del giudice addirittura additandola come collusa con la mafia.

Il Tribunale e la Corte d'Appello avevano emesso una condanna severa: un anno e mezzo di carcere.

Ora il “Palazzaccio” ha reso definitivo il verdetto.

Ad avviso degli Ermellini, infatti, il reato d’atti persecutori è stato integrato non soltanto da condotte consistite in pedinamenti e/o appostamenti, ma anche in reiterate esternazioni, realizzate: per il tramite di pubblicazioni su social network. Ciò posto, la Corte territoriale ha compiutamente esposto le ragioni per cui ha considerato recessivo il peso di talune incongruenze relative alle dichiarazioni della consulente minacciata, chiarendo l’irrilevanza di quelle difformità, a fronte di un compendio probatorio dal quale è inopinabilmente emerso «il dato oggettivo della riferibilità donna dei post e articoli aventi come bersaglio la professionista».

Inoltre, ecco ciò che più conta, nel valutare l’insieme dei comportamenti (appostamenti, pubblicazione di post dal chiaro tenore minatorio ascritti all’imputata come idoneo a integrare la condotta materiale di molestia e/o minaccia richiesta dall’art. 612 bis, va sottolineato come anche le sole pubblicazioni di post su svariati social network («con cadenza quasi quotidiana... dal contenuto non soltanto diffamatorio, ma anche, per la loro virulenza e ossessiva ripetitività, minatorio») sono sufficienti, da sole, a integrare il reato di atti persecutori.

Nulla da fare neppure sul fronte della diffamazione. Anche in questo caso l'impianto accusatorio ha retto alle obiezioni della difesa.

In particolare, ad avviso dei Supremi giudici, In tema di diffamazione, l'esercizio del diritto di critica, reso legittimo dall'interesse pubblico della notizia e dalla funzione esercitata dal soggetto criticato, non autorizza l'offesa rivolta alla sfera privata di quest'ultimo mediante l'uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona. Infatti, le espressioni adoperate dall'imputata, ben lungi dall’essere puramente “pungenti”, “forti e incisive” (tale è la tesi difensiva), si sono invece caratterizzate per un tenore tale da oltrepassare il limite della continenza, che è comunque un limite immanente anche all'esercizio del diritto di critica.

 

di Dario Ferrara

La compagnia low cost risarcisce il volo saltato per lo sciopero dei controllori di volo

Se il vettore avesse comunicato subito l’astensione, avrebbe potuto limitare i disagi della cancellazione: invece costringe i viaggiatori a spostarsi e pernottare in un’altra città

La compagnia low cost risarcisce ai viaggiatori il volo soppresso. E ciò benché il collegamento aereo sia cancellato per lo sciopero dei controllori di volo e non per motivi interni all’azienda. Il punto è che, se la società avesse subito comunicato ai clienti l’astensione dal lavoro che ha impedito il decollo, avrebbe potuto limitare - se non annullare - i disagi conseguenti alla cancellazione. Non l’ha fatto e dunque rimborsa i costi imprevisti che i passeggeri hanno sostenuto pur d’imbarcarsi sul volo successivo per raggiungere la destinazione. È quanto emerge da una sentenza pubblicata di recente dalla sezione civile del giudice di pace di Aosta (leggibile in fondo all’articolo).

Alternative necessarie
Accolta la domanda proposta dalla coppia difesa dall’avvocato Alessandro Lazzari: ottengono lui circa 120 euro e lei oltre 366 a titolo di compensazione pecuniaria; pesa la sentenza 4261/23 della Cassazione. Dopo anni di stop causa Covid, i due riescono a concedersi una vacanza a Ibiza: l’agognata partenza è fissata da Torino per l’8 giugno, ma viene funestata dal più classico degli scioperi, quello degli uomini radar, che tuttavia la compagnia comunica soltanto il giorno prima. Nessun dubbio che il vettore cancelli il volo senza rispettare il preavviso minimo di quattordici giorni previsto dall’articolo 5, comma primo, del regolamento europeo 261/04. Ma l’astensione dei controllori del traffico aereo non dipende certo dall’azienda. Il fatto è che la low cost non presta nessuna assistenza ai viaggiatori, costretti a chiedere la riprotezione con l’offerta di un volo da Bologna il 9 giugno come migliore alternativa per giungere al più presto a destinazione. E lo sciopero esterno alla compagnia come quello degli uomini radar non rende di per sé materialmente impossibile per la società adottare misure alternative per minimizzare almeno i sacrifici imposti ai viaggiatori.

Eccezionalità esclusa
Non si tratta, insomma, di circostanze eccezionali che escludono la compensazione pecuniaria in capo all’impresa: la società, nella specie, deve farsi carico dei costi legati al pernottamento e allo spostamento a Bologna cui i passeggeri sono stati costretti per salire sul primo volo utile. Alla compagnia non resta che pagare, anche le spese di giudizio.

 

di Giulia Provino

Assolto grazie alla riforma dell’abuso d’ufficio il sindaco che trasferisce il funzionario ostile

Dopo le modifiche del dl 76/2020 è necessaria la violazione di norme specifiche ai fini del delitto ex articolo 323 Cp: irrilevanza penale per le disposizioni dei regolamenti comunali

Deve essere assolto il sindaco che trasferisce il funzionario ostile con una delibera illegittima, in violazione di regolamenti comunali interni, perché il fatto non integra abuso d’ufficio. È quanto contenuto nella sentenza della Cassazione depositata il 14 aprile 2023 (qui leggibile in fondo all’articolo), che ha accolto il ricorso degli imputati avverso la condanna per il reato di abuso d’ufficio.

In particolare, il sindaco ricorrente contestava la sussistenza dell’asserito reato commesso attraverso la delibera, con cui aveva disposto il trasferimento del funzionario ad altro ufficio, la quale era stata adottata da questi in violazione di un articolo del regolamento comunale dei servizi e degli uffici.

La recente riforma del reato di abuso d’ufficio - ex Dl 76/2020, convertito con legge 120/2020 - ha inciso sullo spettro applicativo della fattispecie, limitandola, sul versante della rilevanza degli atti discrezionali e su quello delle norme di legge che costituiscono il parametro della violazione richiesta. In questo modo, è stata esclusa la rilevanza della violazione di norme contenute all’interno di regolamenti. Per effetto della modifica indicata, si è realizzata una parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore, in quanto realizzati mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali ed astratte, da cui non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse, o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità nell’azione del pubblico ufficiale.

La sesta sezione penale ha precisato che, la condotta di abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche così da impedire che si sussuma nell’ambito della fattispecie tipica anche l’inosservanza di norme di principio, quale l’articolo 97 della Costituzione.
Di conseguenza, nel caso in esame, in relazione al contestato abuso d’ufficio ai danni del dipendente pubblico, la sentenza deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, con conseguente revoca delle statuizioni civili.

 

di Dario Ferrara

La Cartabia salva anche chi ruba in chiesa

Furto aggravato nella cassetta delle offerte non procedibile per rimessione di querela: favor rei col cambio nel regime di procedibilità che ha «esteso molto il campo» dei reati non perseguibili d’ufficio

La Cartabia salva anche chi ruba in chiesa. È estinto per remissione di querela il furto aggravato per il ladruncolo che ha forzato la cassetta delle offerte nella collegiata del paese: la riforma del processo penale, infatti, «ha esteso molto il campo» dei reati non più procedibili d’ufficio, fra i quali spicca il delitto ex articolo 624 Cp aggravato dalla violenza sulle cose e dall’esposizione alla pubblica fede. E non c’è dubbio che si applichi in senso retroattivo il mutamento nel regime di procedibilità del reato più favorevole all’imputato: pesa la natura mista della querela, che costituisce a un tempo condizione di procedibilità e di punibilità. È quanto emerge da una sentenza pubblicata il 14 aprile 2023 dalla quinta sezione penale della Cassazione (leggibile in fondo all’articolo)

Limitate eccezioni
Inammissibile perché «manifestamente infondato» il ricorso del pm, mentre il sostituto procuratore generale aveva concluso per l’annullamento con rinvio. È un’opera di misericordia del parroco a cancellare il delitto compiuto dal quarantaquattrenne marchigiano. La rimessione della querela della persona offesa, che nella specie l’imputato si è affrettato ad accettare, a partire dal 31 dicembre scorso determina l’estinzione del reato. Con la novità introdotta dall’articolo 2, primo comma lettera i), del decreto legislativo 150/22 il furto aggravato è punibile soltanto se lo chiede la vittima, a meno che la persona offesa non sia incapace per età o malattia, mentre resta perseguibile d’ufficio in alcune limitate eccezioni come quando si rubano cose pignorate oppure materiale metallico ai danni di gestori di servizi come energia elettrica e ferrovie. La riforma, in generale, estende la procedibilità a querela a fattispecie sanzionate con pena non superiore nel minimo a due anni: si tratta di ipotesi «che si prestano a condotte riparatorie e risarcitorie».

Fatto e diritto
L’applicazione della norma più favorevole al reo di cui all’articolo 2, secondo comma, Cp (favor rei) opera non soltanto per individuare la norma di diritto sostanziale applicabile al caso concreto ma anche sul regime di procedibilità che riguarda la fattispecie, date che è legata in modo inscindibile al fatto come qualificato dal diritto.

 

di Remo Bresciani

Nessuna sanzione al notaio se il rettore dell'università acquista quote consortili senza delibera del Cda

Un eventuale atteggiamento compiacente del professionista volto a soddisfare le esigenze di un “uomo solo al comando” non costituisce un disvalore in sé

Nessuna sanzione disciplinare al notaio se il rettore dell'università acquista per l'ateneo quote di partecipazione di una società senza delibera del consiglio di amministrazione. Un eventuale atteggiamento compiacente del professionista volto a soddisfare le esigenze di un “uomo solo al comando” non costituisce, infatti, un disvalore in sé.

Lo ha affermato la Cassazione (il documento è consultabile in fondo all'articolo) che ha accolto il ricorso di un notaio al quale era stato contestato di avere tenuto sistematici comportamenti frettolosi e compiacenti nella redazione di alcuni atti. Sotto accusa, in particolare, l'atto di acquisto di quote di partecipazione di società consortile da parte di un'università con intervento del rettore, in mancanza di apposita delibera di autorizzazione del consiglio di amministrazione o di richiamo nell'atto di eventuali ragioni di urgenza che giustificassero la mancanza di tale preventiva autorizzazione.

La commissione regionale di disciplina ha assolto il notaio ma la corte d'appello ha parzialmente accolto l'impugnazione stabilendo che questi comportamenti, pur privi del carattere della sistematicità atti a ricondurli alla previsione dell’art. 147 comma 1, lett. b della legge notarile, fossero idonei, per la loro intrinseca gravità, a compromettere il decoro e il prestigio della categoria notarile e sanzionabili in forza della norma di chiusura del sistema, rappresentata dall’art. 147 comma 1, lettera a), della stessa legge. Secondo il collegio, infatti, i comportamenti avrebbero evidenziato una compiacenza del professionista di soddisfare, con la sua stipula, l’esigenza del rettore di agire come “uomo solo al comando” e avrebbero determinato in futuro una “scarsa o nulla fiducia” nelle prestazioni della categoria notarile dai potenziali utenti che avessero appreso dell’assoluzione in sede disciplinare.

La vertenza è così giunta in Cassazione dove il professionista ha contestato le conclusioni della corte d'appello perché i comportamenti tenuti non si potevano considerare idonei a provocare discredito alla reputazione dell'intera categoria.

La Suprema corte, nell'accogliere il ricorso, ha rilevato che la motivazione addotta non appare idonea a sorreggere la valutazione di adeguatezza e di doverosità della sanzione e a integrare quella “intrinseca gravità” del fatto che lo stesso giudice ha posto come premessa per la riconduzione della condotta alla norma violata. Infatti, ha spiegato il collegio di legittimità, il grave danno di immagine per l’ente pubblico, “improvvidamente rappresentato da un falsus procurator”, contrasta con il fatto che la legislazione universitaria di natura pubblicistica individua nel rettore il legale rappresentante dell'istituzione universitaria. Inoltre, ha concluso la Cassazione, la compiacenza di soddisfare le esigenze di un “uomo solo al comando” è argomentazione di per sé apodittica e comunque l'atteggiamento compiacente, quand'anche fosse effettivo, non costituisce un disvalore in sé. Inevitabile pertanto il rinvio della causa al giudice di merito per un nuovo esame della vicenda.

 

di Dario Ferrara

Licenziato chi produce poco rispetto ai colleghi

Scarso rendimento ipotesi di recesso del datore per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali: lo scostamento fra obiettivi e risultati denota la non esatta esecuzione della prestazione

Pelandrone licenziato. Perde il posto il dipendente che produce poco rispetto ai colleghi. Il provvedimento espulsivo adottato dal datore per scarso rendimento del lavoratore costituisce un’ipotesi di recesso per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali a carico del prestatore: il sensibile scostamento fra gli obiettivi fissati e i risultati ottenuti denota la non esatta esecuzione della prestazione, tenuto conto dell’attività media tra i vari dipendenti e al di là del conseguimento di una soglia minima di produzione. È quanto emerge da un’ordinanza pubblicata il 6 aprile 2024 dalla sezione lavoro della Cassazione (leggibile in fondo all’articolo).

Dati e testi
Diventa definitiva la decisione che converte il licenziamento per giusta causa in recesso per giustificato motivo: il dipendente è condannato a restituire alla banca il risarcimento ottenuto nella precedente fase di giudizio al netto dell’indennità di mancato preavviso. Al datore che recede per scarso rendimento non basta provare che il dipendente non abbia raggiunto il risultato atteso ed esigibile. Ma deve anche dimostrare che la causa è l’inadempimento degli obblighi contrattuali, colpevole e negligente. Impietoso il confronto con gli altri addetti del settore sviluppo: in tre mesi lo scansafatiche visita soltanto sedici fra clienti e filiali contro i centoventi dei colleghi. E soprattutto acquisisce un solo nuovo cliente, mentre gli altri mostrano una raccolta impieghi ben superiore. Lo scarso rendimento non solo sussiste ma è pure grave: risulta dimostrato da dati indotti dalla banca oltre che dalle testimonianze assunte. Né si può dire che il lavoratore sia stato onerato della prova contraria o non abbia dotazioni sufficienti a differenza dei colleghi.

Violazione evidente
Lo scarso rendimento si pone come specie della risoluzione per inadempimento ex articolo 1453 Cc. Nessun dubbio che il mancato raggiungimento di un obiettivo sia di per sé insufficiente a integrarlo. Ma il licenziamento è illegittimo quando sussiste un’evidente violazione della diligente collaborazione imputabile al dipendente. Il tutto in base alla sproporzione fra i target di produzione indicati al lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento.

 

di Debora Alberici

Risarcimento dimezzato al professionista che cade sul marciapiede vicino allo studio

Sussiste un concorso di colpa perché l’infortunato conosceva la strada e avrebbe dovuto prestare attenzione

Può essere addirittura dimezzato il risarcimento al professionista che cade sul marciapiede sconnesso vicino al suo studio. In questi casi sussiste un concorso di colpa perché il danneggiato conosce bene la strada.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con un’ordinanza leggibile in fondo alla pagina, ha respinto il ricorso di un uomo caduto rovinosamente sul marciapiede sconnesso vicinissimo al suo studio.

Gli Ermellini hanno confermato integralmente la motivazione di merito spiegando che il nesso causale tra la cosa in custodia e il sinistro fosse parzialmente eliso dalla condotta del professionista il quale, trovandosi a percorrere una strada a lui ben nota perché percorsa quotidianamente per recarsi presso il proprio studio professionale, doveva conoscere lo stato dei luoghi e adottare le cautele necessarie.

Nel caso sottoposto all’esame della Corte, lui aveva tenuto una condotta che non poteva ritenersi abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto e ciò con la conseguente decurtazione, nella misura del 50%, della somma dovuta a titolo risarcitorio.

 

di Dario Ferrara

ll Comune paga il sinistro sul marciapiede sconnesso anche se il pedone è distratto e cade vicino a casa

La mera disattenzione dell’infortunato non integra il caso fortuito: l’ente non dimostra di aver adottato le minime cautele necessarie a prevenire i danni prodotti dalla mattonella malferma

Spetta al Comune risarcire il sinistro occorso sul marciapiede sconnesso, anche se il pedone è distratto e il luogo della caduta risulta vicino alla sua abitazione. O meglio spetta anche al Comune, in quanto si configura un concorso di colpa al 50 per cento da parte dell’infortunato: la mera disattenzione della vittima, tuttavia, non integra il caso fortuito in grado di superare la presunzione di colpa a carico dell’amministrazione, custode del bene demaniale; l’ente locale non dimostra di aver adottato le minime cautele necessarie a prevenire i danni prodotti sulla mattonella malferma. È quanto emerge da una sentenza pubblicata ieri da una sezione civile della Corte d’appello di Roma.

Pericolosità obiettiva
Accolto il gravame proposto dalla signora anziana: sbaglia il Tribunale a escludere il risarcimento dopo la caduta. Il Comune è condannato a versare alla donna un risarcimento di oltre 7.300 euro e a restituirle gli oltre 4.300 euro che la donna aveva pagato all’amministrazione in esecuzione della sentenza di primo grado. L’applicazione delle regole di cui all’articolo 2051 Cc presuppone sempre che il danneggiato dimostri il fatto dannoso ed il nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno e che, ove la cosa in custodia sia di per sé statica e inerte, il danneggiato è tenuto a dimostrare altresì che lo stato dei luoghi presentava un’obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, il danno. È stato poi riconosciuto che, ai fini di cui all’articolo 2051 Cc il caso fortuito può essere integrato anche dal fatto colposo del danneggiato.

Omessa manutenzione
Nel nostro caso il sinistro avviene in pieno giorno e in ottime condizioni atmosferiche: il dissesto è ben visibile e, d’altronde, la signora conosce lo stato dei luoghi perché abita a trecento metri. Il Tribunale si limita a osservare che l’anziana, visto che è della zona, avrebbe potuto evitare di passare sul marciapiede sconnesso, ma dimentica che compete al Comune curare la manutenzione. E che l’ente locale non ha dimostrato di aver adottato neanche le minime cautele necessarie a segnalare la situazione di pericolo.

Reato prendere nidi e uova, per gli uccelli sofferenze maggiori della caccia
Uccellagione per chi preleva uova, nidi o piccoli nati. La potenzialità offensiva é indeterminata e comporta una maggiore sofferenza per gli animali

di Patrizia Maciocchi

Scatta il reato di uccellagione per chi preleva, con mezzi diversi da armi da sparo, uova, nidi o piccoli nati. Una condotta che ha una potenzialità offensiva indeterminata e comporta una maggiore sofferenza per gli animali. La Corte di Cassazione, in assenza di una definizione chiara, fornisce un’interpretazione restrittiva della norma che vieta di catturare gli uccelli vivi (legge 157/1992), per tutelare i volatili fin dallo stato “embrionale”. La Suprema corte respinge così il ricorso contro la condanna per uccellagione, inflitta all’imputato, classe 1983, che aveva prelevato, con le mani, e detenuto 320 esemplari di uccellini selvatici appena nati e senza anello identificati.

Maggiore sofferenza e impossibilità di arrivare all’età adulta
Azione che, ad avviso del ricorrente, non poteva ricadere nel reato di uccellagione secondo quanto previsto dalla legge. I giudici di legittimità in assenza di una specifica definizione normativa del concetto di uccellagione ne forniscono un’interpretazione estensiva e includono nel concetto di uccellagione anche il “prelievo” - nozione diversa dalla ricerca e dalla cattura - di uova, nidi e piccoli nati «ovvero di categorie diverse dagli uccelli adulti». La Cassazione sottolinea, infatti, che va considerata uccellagione e non caccia «qualsiasi atto diretto alla cattura di uccelli con mezzi diversi da armi da sparo (reti, panie ecc..). Un’interpretazione della nozione di uccellagione non inclusiva di uova, nidi e piccoli nati «priverebbe di sanzione, senza alcuna logica - si legge nella sentenza - una condotta che, se posta in essere con potenzialità offensiva indeterminata, impedirebbe alla specie di arrivare all’età adulta, cagionando una ben più grave offesa alla fauna selvatica rispetto a qualsivoglia attività prodromica alla cattura». Centrale nella decisione anche l’elemento della maggiore sofferenza per gli animali.

 

Conservazione fascicoli e trasmissione: obbligo dell'amministrazione

La Cassazione (con l'ordinanza n. 8506/2023) ha rammentato che la conservazione dei fascicoli e la loro trasmissione al giudice dell'impugnazione è un obbligo dell'amministrazione giudiziaria. E non può essere delegato alle parti, se non sotto forma di mero invito.
Nella vicenda, i genitori di un ragazzo convennero dinanzi al tribunale di Napoli una donna chiedendo la condanna al risarcimento del danno patito in conseguenza dell'aggressione subita dal figlio minore ad opera della stessa, che lo aveva colpito con un bastone procurandogli lesioni personali.
La donna si costituiva negando la propria responsabilità.
In primo grado, il tribunale accoglieva la domanda e condannava la donna.
In appello, la Corte, ai fini della decisione, mandava alla cancelleria l'acquisizione del fascicolo del giudizio di primo grado; invitava la parte più diligente (che ne fosse eventualmente in possesso) a depositare i verbali del giudizio di primo grado. Tuttavia, all'udienza successiva la Corte rigettava l'appello, adducendo che le parti "nonostante l'esplicito invito", non avevano allegato il verbale del giudizio di primo grado e che la mancanza dei verbali rendeva impossibile vagliare la fondatezza del gravame, e tale mancanza era "addebitabile alle parti medesime".
 
La questione approda quindi in Cassazione, la quale, in ordine alla censura della sentenza d'appello nella parte in cui ha ritenuto addebitabile alle parti l'impossibilità di disporre del fascicolo di primo grado e dei verbali istruttori in esso contenuti, ha affermato che "quando non sia stato acquisito il fascicolo di primo grado il giudice d'appello può decidere il gravame solo in un caso: quando gli atti contenuti in quel fascicolo non siano pertinenti rispetto ai motivi di gravame (ex multis, Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 9498 del 04/04/2019)". Nel caso di specie, i motivi di gravame avevano ad oggetto la ricostruzione dei fatti, e si basavano sulla interpretazione e valutazione delle prove raccolte, per cui il fascicolo era indispensabile per la decisione dell'appello.

Tuttavia, afferma la S.C., "la conservazione dei fascicoli e la loro trasmissione al giudice dell'impugnazione è un obbligo dell'amministrazione giudiziaria". E tale obbligo "non è delegabile alle parti, se non sotto forma di mero invito. Prova ne sia che l'art. 123 bis disp. att. c.p.c. consente al giudice d'appello di ordinare alla parte il deposito di determinati atti del giudizio di primo grado solo in un caso: quando l'appello sia proposto avverso una sentenza non definitiva, per l'ovvia ragione che in tal caso la prosecuzione del giudizio di primo grado impedirebbe la sottrazione del fascicolo al giudice di quest'ultimo".

I principi appena esposti, rincara il Palazzaccio, "hanno per conseguenza che le carenze organizzative dell'ufficio giudiziario, così come gli errori dei funzionari ad esso addetti, non possono mai comportare alcuna conseguenza pregiudizievole per le parti del processo".

Pertanto, va qualificata "come abnorme - e dunque nulla ed impugnabile per tale motivo - la sentenza con la quale il giudice d'appello, rilevata la mancanza del fascicolo d'ufficio di primo grado (il che dimostra una non adeguata custodia da parte dell'ufficio stesso), dichiari inammissibile il gravame (Sez. 3, Sentenza n. 12223 del 17/07/2012, Rv. 623295 - 01), senza previamente accertare se il fascicolo risulti ufficialmente smarrito, accertamento che presuppone una espressa attestazione in tal senso della cancelleria".

di Remo Bresciani

Nulla la multa se il Comune produce solo in giudizio il decreto prefettizio che autorizza l'autovelox

Gli estremi del provvedimento devono essere riportati nel verbale di accertamento della sanzione

È nulla la multa per violazione del codice della strada se il Comune produce solo in giudizio il decreto prefettizio che autorizza l'installazione dell'autovelox. Gli estremi del provvedimento, infatti, devono essere riportati nel verbale di accertamento della sanzione.

Lo ha ricordato la Cassazione (il documento è consultabile in fondo all'articolo) che ha accolto il ricorso di un automobilista. Il giudice di pace aveva rigettato il ricorso proposto contro il verbale di contestazione del superamento del limite di velocità. Il tribunale ha poi confermato la pronuncia condannando il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

La vertenza è così giunta in Cassazione dove il trasgressore ha contestato la legittimità della sentenza impugnata per non avere rilevato la mancata indicazione nel verbale di accertamento del decreto prefettizio che autorizzava l’installazione dell’autovelox, che sarebbe stata necessaria per la legittimità del rilevamento elettronico della velocità avvenuto su strada extraurbana secondaria.

La Suprema corte, nell'accogliere la domanda, ha ricordato che l'indicazione del decreto prefettizio costituisce requisito di legittimità del verbale di accertamento in tema di sanzioni amministrative conseguenti al superamento dei limiti di velocità accertato mediante autovelox, poiché la sua mancanza, ove si proceda a una contestazione differita della violazione amministrativa, integra un vizio di motivazione del provvedimento sanzionatorio che pregiudica il diritto di difesa impedendo, in particolare, al destinatario del verbale di ottenere ogni utile informazione con l'esercizio del diritto di accesso alla documentazione amministrativa. La mancanza, peraltro, non è rimediabile nella fase eventuale di opposizione, con la conseguenza che la sopravvenuta produzione nel giudizio di primo grado, da parte del Comune del decreto prefettizio non può comportare l'eliminazione del vizio di legittimità. Di qui il rinvio della causa al giudice di merito per un nuovo esame.

di Debora Alberici

Il Comune risarcisce i disabili per non aver abbattuto le barriere architettoniche

La Suprema corte dà ragione ad alcuni non vedenti che non potevano raggiungere il parcheggio perché il cane guida non può fare le scale mobili

Il Comune è tenuto a risarcire i disabili quando non abbatte le barriere architettoniche: in questo caso lasciando che un parcheggio fosse raggiungibile solo con una scala mobile non percorribile dai cani guida.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con una ordinanza leggibile in fondo alla pagina, ha respinto il ricorso dell'ente locale, confermando il diritto al ristoro.

Per la terza sezione civile del Palazzaccio, è doveroso premettere che la legge n. 67 del 2006 appresta misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità che siano vittime di discriminazioni, al fine di garantire alle stesse, in attuazione di principi costituzionali (di eguaglianza e di parità di trattamento) e sovranazionali (art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), «il pieno godimento dei diritti civili, politici, economici sociali».

Infatti non permettere al disabile la frequentazione agevole dell'intero territorio comunale è un atto discriminatorio.

Per la Cassazione, infatti, la nozione di discriminazione è positivamente definita dalla legge n. 67 del 2006 attraverso due possibili declinazioni: la discriminazione diretta, la quale si verifica ogni qualvolta una persona, per motivi connessi alla disabilità, riceve un trattamento diverso e meno favorevole di quello riservato ad una persona non disabile in
situazione analoga; la discriminazione indiretta, la quale si configura quando «una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri» mettano una persona con disabilità in posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.

Insomma, la sentenza di secondo grado ha ravvisato la sussistenza di un interesse concreto ed effettivo a fondamento dell’azione promossa: « i ricorrenti hanno denunciato una asserita condotta discriminatoria di cui ciascuno di essi assume essere stato vittima essi, pur essendo afflitti dalla medesima disabilità di non vedenti, hanno agito facendo valere non gli interessi della categoria di cui fanno parte, quanto piuttosto l’interesse di ciascuno a non subire atti discriminatori proprio perché non vedente. Va ritenuto sussistente quindi l’interesse degli appellanti, e di ciascuno di essi, alla proposizione dell’azione risarcitoria, che hanno proposto cumulativamente, ma non come azione collettiva».

Evasione fiscale se il commercialista rivela che l'imprenditore conosceva il dissesto

Sull'omessa dichiarazione pesano gli accertamenti induttivi, i documenti dell'azienda e le testimonianze

Condannato per evasione fiscale l'imprenditore quando il commercialista testimonia la conoscenza dello stato di dissesto. Sull'omessa dichiarazione pesano gli accertamenti induttivi, i documenti dell'azienda e le testimonianze.

Lo ha sancito la Corte di cassazione con una sentenza leggibile in fondo alla pagina.

La terza sezione penale ricorda che per il reato di omessa dichiarazione ex art. 5, cit., la prova del dolo specifico di evasione non deriva dalla semplice violazione dell'obbligo dichiarativo né da una culpa in vigilando sull'operato del professionista, che trasformerebbe il rimprovero per l’atteggiamento anti-doveroso da doloso in colposo, ma dalla ricorrenza di elementi fattuali dimostrativi che il soggetto obbligato ha consapevolmente preordinato l’omessa dichiarazione all'evasione dell’imposta per quantità superiori alla soglia di rilevanza penale.

In tal senso del tutto correttamente il primo Giudice — dopo avere appunto escluso che il contribuente avesse un ruolo di mero prestanome — ha ravvisato l’esistenza dell’elemento soggettivo del dolo di evasione nel forte scostamento dalla soglia di punibilità, nella piena consapevolezza dell'andamento societario e nella conoscenza della situazione contabile, come attestato proprio dalle dichiarazioni della teste, commercialista della società.

 

 

Stupro il rapporto ottenuto dalla donna che ha paura a dire di no

Non è necessario il dissenso esplicito della donna: sufficiente il timore della reazione di lui

Rischia una condanna per stupro chi ottiene un rapporto sessuale dalla moglie con le minacce, anche se lei non ha espresso palesemente un dissenso.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con una sentenza leggibile in fondo alla pagina, ha respinto il ricorso di un uomo che era riuscito a congiungersi con la moglie solo perché lei temeva le conseguenze.

La vicenda riguarda un uomo violento che teneva spesso sotto minaccia la partner. Spesso i due avevano rapporti sessuali perché, viene ricostruito in sentenza, lei aveva paura a dire di no.

Gli Ermellini hanno confermato l'intero impianto accusatorio respingendo ogni obiezione mossa dalla difesa. Hanno chiarito che in tema di violenza sessuale, il mancato dissenso ai rapporti sessuali con il proprio coniuge, in costanza di convivenza, non ha valore scriminante quando sia provato che la parte offesa abbia subito tali rapporti per le violenze e le minacce ripetutamente poste in essere nei suoi confronti, con conseguente compressione della sua capacità di reazione per timore di conseguenze ancor più pregiudizievoli, dovendo, in tal caso, essere ritenuta sussistente la piena consapevolezza dell'autore delle violenze del rifiuto, seppur implicito, ai congiungimenti carnali.

 

di Dario Ferrara

Sono i nonni che pagano il mantenimento al minore se il padre è inadempiente

Obbligazione non solidale ma sussidiaria e subordinata: grava sugli ascendenti al di là di chi sia il genitore che determina l’esigenza. Consuoceri da evocare in giudizio: non c’è litisconsorzio necessario

Spetta ai nonni pagare il mantenimento al minore se il padre è inadempiente rispetto al contributo fissato in sede di separazione consensuale. L’obbligazione è sussidiaria e non solidale: grava in proporzione su tutti gli ascendenti di pari grado, al di là di chi sia il genitore che ha determinato l’insufficienza dei mezzi economici. Non c’è, tuttavia, litisconsorzio necessario: la nonna chiamata dalla nuora a pagare l’assegno deve farsene carico da sola perché non evoca da subito in giudizio la consuocera, ma si limita alla chiamata in causa, che non è accolta dal giudice del merito con decisione insindacabile in sede di legittimità. È quanto emerge da una sentenza pubblicata il 30 marzo 2023 dalla prima sezione civile della Cassazione (leggibile in fondo all'articolo).

Obbligo subordinato
Bocciato il ricorso proposto dalla nonna: diventa definitiva la condanna a pagare 200 dei 350 euro al mese del contributo per il minore posto a carico del figlio inadempiente, domiciliato presso di lei. A porre l’obbligo anche a carico degli ascendenti è l’articolo 316 bis Cc, introdotto dalla riforma della filiazione di cui al decreto legislativo 153/13. A intervenire sulla norma, fra l’altro, è stata anche la riforma Cartabia con modifiche ai commi 2, 4 e 5 in vigore dal 28 febbraio scorso, che si applicano ai procedimenti instaurati in epoca successiva. Se i genitori non hanno i mezzi, sono i nonni a dover fornire loro i mezzi per adempiere i doveri nei confronti dei figli. L’obbligazione degli ascendenti è solo subordinata rispetto a quella primaria di mamma e papà: non si può chiedere ai nonni un aiuto economico solo perché uno dei genitori non dà il contributo al figlio, se l’altro è in grado di mantenerli. Ma si può farlo quando papà e mamma non sono in grado di adempiere il loro personale obbligo diretto verso i minori: un po’ come il diritto agli alimenti ex articolo 433 Cc, legato alla prova dello stato di bisogno e dell’impossibilità di trovare lavoro.

Valutazioni discrezionali
La nonna, nella specie, non riesce a far condannare anche la consuocera perché il giudice non poteva integrare d’ufficio il contraddittorio, mentre il provvedimento che nega la chiamata in causa di un terzo implica valutazioni discrezionali e non può formare oggetto di appello o ricorso per cassazione.

 
di Debora Alberici 
 
Comune responsabile delle buche sulle strade vicinali. Sussiste il dovere di custodia da parte dell'ente locale.

Il Comune è responsabile delle buche e della cattiva manutenzione delle strade vicinali.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con una ordinanza leggibile in fondo alla pagina, ha respinto il ricorso dell'ente locale condannato a risarcire una donna scesa in strada per agevolare la manovra del marito e caduta rovinosamente in un buca.

Per gli Ermellini, in relazione alle strade vicinali sussiste la responsabilità per custodia del Comune a prescindere dal fatto che esse siano di proprietà privata, purché esse siano inserite — come nella specie - tra le strade adibite a pubblico transito.Infatti , va premesso che ai fini della definizione stessa di strada, è rilevante, ai sensi dell'articolo 2, comma primo, del nuovo codice della strada, la destinazione di una determinata superficie ad uso pubblico, e non la titolarità pubblica o privata della proprietà.

È, pertanto, l‘uso pubblico a giustificare, per evidenti ragioni di ordine e sicurezza collettiva, Ia soggezione delle aree alle norme del codice della strada e la legittimazione passiva del Comune, fondata sugli obblighi d i custodia correlati al controllo del territorio e alla tutela della sicurezza ed incolumità dei fruitori delle strade di uso pubblico, in relazione agli eventuali danni riportati dagli utenti della strada.

 

di Giulia Provino

La causale «prestito» dei bonifici prova l’esistenza del contratto di mutuo

Sì alla domanda di restituzione delle somme date a titolo di finanziamento se il convenuto non giustifica il suo diritto a trattenere il denaro ricevuto

La causale «prestito» dei bonifici effettuati è idonea a dimostrare la ricorrenza di un contratto di mutuo tra le parti. È legittima, dunque, la domanda di restituzione delle somme date a titolo di finanziamento, se il convenuto non giustifica il suo diritto a trattenere il denaro ricevuto. Con l’ordinanza depositata il 29 marzo 2023 (qui leggibile in fondo all’articolo) la Cassazione ha accolto il ricorso dell’attrice per la restituzione delle somme versate a titolo di prestito.
Sbaglia la Ctr a non attribuire rilevanza probatoria alle presunzioni gravi, precise e concordanti da cui si sarebbe potuta desumere la sussistenza di un rapporto di mutuo, incorrendo così nel vizio di sussunzione.

Ad avviso della parte attrice, la causale «prestito» apposta sugli ordini di bonifico, l’entità delle somme di volta in volta versate, la destinazione delle somme al fine di ripianare l’esposizione debitoria della controparte e della sua impresa individuale avrebbero dovuto indirizzare il giudice verso la conclusione della raggiunta dimostrazione della ricorrenza di un contratto di mutuo e non escluderne l’integrazione in forza di considerazioni non confacenti con i fatti addotti.

In particolare, la parte che domanda la restituzione di somme date a mutuo è tenuta a provare, oltre alla consegna, anche il titolo dal quale derivi l’obbligo di controparte alla restituzione, purché l’attore fondi la domanda su un particolare contratto, senza formulare, neppure in subordine, una domanda volta a porre in questione il diritto della controparte di trattenere la somma ricevuta, ferma restando la necessità che il rigetto della domanda di restituzione sia argomentato con cautela, tenendo conto della natura del rapporto e delle circostanze del caso, idonee a giustificare che una parte trattenga, senza causa, il denaro indiscutibilmente ricevuto dall’altra.

In caso di rigetto della domanda di restituzione dell’asserito mutuante, per mancanza di prova della pattuizione del relativo obbligo, il convenuto è tenuto, quanto meno, ad allegare il titolo in forza del quale si ritiene, a sua volta, legittimato a trattenere la somma ricevuta. In mancanza tale allegazione, il rigetto per mancanza di prova della domanda di restituzione proposta dal solvens va argomentato con una certa cautela e tenendo conto di tutte le circostanze del caso, al fine di accertare se e fino a che punto la natura del rapporto e le circostanze del caso giustifichino che l’una delle parti trattenga, senza causa, il denaro indiscutibilmente ricevuto da altri.

Nel caso in esame, a fronte di un’espressa imputazione del versamento da parte dell’attrice, documentata dalla causale «prestito» dei bonifici, il giudizio in ordine alla carenza di prova (diretta) dell’esistenza del rapporto di mutuo, come invocato dalla ricorrente, non si è attenuto al principio di particolare cautela valutativa, specie in presenza di un’allegazione difensiva della controparte che si è basata unicamente su asserite cause alternative addotte solo in epoca successiva alla dazione della somma, e non già al momento in cui è stata richiesta, mediante lettere raccomandate, senza elementi presuntivi volti ad avvalorare tali cause alternative e senza che emerga un’altra, plausibile, diversa ragione per il versamento, alla luce delle inferenze offerte.

 

di Remo Bresciani

Nulla la multa se il Comune produce solo in giudizio il decreto prefettizio che autorizza l'autovelox

Gli estremi del provvedimento devono essere riportati nel verbale di accertamento della sanzione

È nulla la multa per violazione del codice della strada se il Comune produce solo in giudizio il decreto prefettizio che autorizza l'installazione dell'autovelox. Gli estremi del provvedimento, infatti, devono essere riportati nel verbale di accertamento della sanzione.

Lo ha ricordato la Cassazione (il documento è consultabile in fondo all'articolo) che ha accolto il ricorso di un automobilista. Il giudice di pace aveva rigettato il ricorso proposto contro il verbale di contestazione del superamento del limite di velocità. Il tribunale ha poi confermato la pronuncia condannando il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

La vertenza è così giunta in Cassazione dove il trasgressore ha contestato la legittimità della sentenza impugnata per non avere rilevato la mancata indicazione nel verbale di accertamento del decreto prefettizio che autorizzava l’installazione dell’autovelox, che sarebbe stata necessaria per la legittimità del rilevamento elettronico della velocità avvenuto su strada extraurbana secondaria.

La Suprema corte, nell'accogliere la domanda, ha ricordato che l'indicazione del decreto prefettizio costituisce requisito di legittimità del verbale di accertamento in tema di sanzioni amministrative conseguenti al superamento dei limiti di velocità accertato mediante autovelox, poiché la sua mancanza, ove si proceda a una contestazione differita della violazione amministrativa, integra un vizio di motivazione del provvedimento sanzionatorio che pregiudica il diritto di difesa impedendo, in particolare, al destinatario del verbale di ottenere ogni utile informazione con l'esercizio del diritto di accesso alla documentazione amministrativa. La mancanza, peraltro, non è rimediabile nella fase eventuale di opposizione, con la conseguenza che la sopravvenuta produzione nel giudizio di primo grado, da parte del Comune del decreto prefettizio non può comportare l'eliminazione del vizio di legittimità. Di qui il rinvio della causa al giudice di merito per un nuovo esame.

 

di Dario Ferrara

Mai le carenze organizzative della Giustizia possono danneggiare le parti

Se manca il fascicolo di primo grado, il giudice di seconda istanza può decidere il gravame solo se gli atti contenuti non sono pertinenti all’impugnazione: l’invito a estrarre copia non comporta obblighi

Le carenze organizzative dell’ufficio giudiziario mai possono comportare alcuna conseguenza dannosa per le parti del processo. Spetta all’amministrazione della giustizia conservare i fascicoli della causa di primo grado e trasmetterli al giudice dell’impugnazione: si tratta di un obbligo che non è delegabile alle parti, se non sotto forma di invito, che non fa sorgere obblighi di sorta in chi lo riceve. Insomma: è nulla la sentenza del giudice che rigetta o dichiara inammissibile il gravame senza un’attestazione della cancelleria che dichiara il fascicolo di primo grado ufficialmente smarrito. In mancanza del fascicolo, il giudice di seconda istanza può decidere il gravame solo se gli atti contenuti non sono pertinenti all’impugnazione. È quanto emerge da un’ordinanza pubblicata il 24 marzo 2023 dalla terza sezione civile della Cassazione (leggibile in fondo all’articolo).

Verbali indispensabili
Sono accolti due dei motivi del ricorso proposto dall’originaria convenuta, condannata in primo grado a risarcire 4 mila euro al ragazzo, all’epoca minore, che ha colpito con un bastone. La Corte d’appello, dopo aver incaricato la cancelleria, invita la «parte più diligente che ne fosse eventualmente in possesso» a depositare i verbali della causa di primo grado. Ma poi rigetta il gravame sul rilievo che nessuna delle parti aveva provveduto: la mancanza rende impossibile vagliare la fondatezza dell’appello e sarebbe «addebitabile» ai litiganti. Il punto è che nel nostro caso il fascicolo del giudizio precedente risulta indispensabile per decidere: i motivi di gravame riguardano la ricostruzione dei fatti e si fondano sull’interpretazione e sulla valutazione delle prove raccolte.

Motivazione contradditoria
Anche gli errori dei funzionari dell’amministrazione non possono ridondare a scapito delle parti processuali. Trova ingresso la censura secondo cui nella specie il giudice d’appello non ha autorizzato le parti a esigere una copia dei verbali dalla cancelleria del Tribunale: la sentenza è contraddittoria laddove prima afferma che le parti hanno ricevuto un invito a estrarre copia degli atti e poi che la Corte non era tenuta a disporre ulteriori rinvii visto «l’inadempimento imputabile alla parte». La parola passa al giudice del rinvio.

 

di Debora Alberici

Furbetto del cartellino licenziato anche se assolto nel penale

Respinto il ricorso della lavoratrice che andava a casa prima

Il furbetto del cartellino rischia il licenziamento anche se viene assolto in sede penale.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con una sentenza leggibile in fondo alla pagina, ha respinto il ricorso di dipendente del Comune che, pur risultando in presenza a scuola, era invece a casa.

La donna ha impugnato il licenziamento usando come grimaldello l'assoluzione in sede penale dalle accuse di truffa.

Gli Ermellini hanno chiarito, in relazione all'assenza ingiustificata, che «la disposizione normativa cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, mentre consente la verifica, caso per caso, della sussistenza dell'elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se ricorrono elementi che assurgono a scriminante della condotta tenuta dal lavoratore tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa»

Nel caso di specie, la Corte territoriale, dopo avere escluso, con accertamento di fatto la fondatezza delle giustificazioni fornite dalla donna, ha anche evidenziato che l'addebito contestato, per la sussistenza dell’elemento soggettivo («quanto meno della colpa») e per la sua gravità, era idoneo a integrare una giusta causa di licenziamento, non solo sulla base della previsione normativa, ma anche «per le delicate e importanti funzioni svolte dalla lavoratrice», che svolgeva anche servizi esterni.

 

La mostra - evento di Roberto di Alicudi all'Hotel Patria si terrà il 1 Aprile 2023 a Palermo, ore 18, in un posto magico. Oltre 30 quadri su vetro e un piccolo cabinet erotico. Durante l'inaugurazione ci sarà una performance della Compagnia Virgilio Sieni. 

 

di Remo Bresciani

Al Comune non basta inserire il viottolo tra le strade vicinali per creare una servitù di uso pubblico

Necessaria una convenzione tra privato ed ente locale o l'acquisto per usucapione

Al Comune non basta inserire il viottolo tra le strade vicinali per creare una servitù di uso pubblico. È necessaria infatti una convenzione tra privato ed ente locale oppure un utilizzo ininterrotto della cittadinanza per il tempo necessario ad acquistare il diritto per usucapione.

Lo ha affermato la Cassazione (il documento è consultabile in fondo all'articolo) che ha accolto il ricorso di un uomo. Il ricorrente aveva convenuto in giudizio il Comune al fine di accertare che il tratto di strada privata (un viottolo) di cui era proprietario non fosse gravato da alcuna servitù di uso pubblico. L'ente locale si è costituito in giudizio chiedendo in via riconvenzionale l'accertamento della natura di strada vicinale pubblica.

Il tribunale ha accolto la riconvenzionale dell'ente locale dichiarando che la strada era assoggettata a servitù di uso pubblico. La corte d'appello ha poi respinto l'impugnazione rilevando che con delibera consiliare il Comune aveva stabilito di aggiornare l’elenco delle strade vicinali pubbliche

inserendovi anche il tratto di strada in contestazione. Al riguardo non aveva carattere dirimente la circostanza che l’originario elenco delle strade vicinali pubbliche non fosse mai stato approvato dal consiglio comunale con apposita delibera, posto che l'inserimento delle strade negli elenchi riveste valore meramente dichiarativo.

La controversia è così giunta in Cassazione dove l'originario ricorrente ha sostenuto che l'elenco delle strade vicinali, nel quale era stato inserito il tratto di viottolo di sua proprietà, non risultava redatto né approvato dal consiglio comunale, né depositato presso la prefettura, nel rispetto della procedura prevista dalla legge: lo stesso, pertanto, non era idoneo a fondare alcuna presunzione di vicinalità e di sussistenza di servitù pubblica.

La Suprema corte, nell'accogliere la domanda, ha affermato che una strada privata può essere

ritenuta soggetta a servitù di uso pubblico solo in presenza di convenzione tra il proprietario e l'ente pubblico, ovvero nel caso in cui l'uso pubblico - per la cui configurazione non è sufficiente l'utilizzazione di fatto da parte di soggetti diversi dal proprietario per raggiungere i terreni limitrofi, ma è necessario che essa sia al servizio della generalità dei cittadini e che la collettività ne faccia

autonomamente uso per la circolazione - si sia protratto per il tempo necessario ai fini dell'acquisto per usucapione. Inevitabile il rinvio della causa al giudice di merito per un nuovo esame della vicenda.

di Dario Ferrara

Mai le carenze organizzative della Giustizia possono danneggiare le parti

Se manca il fascicolo di primo grado, il giudice di seconda istanza può decidere il gravame solo se gli atti contenuti non sono pertinenti all’impugnazione: l’invito a estrarre copia non comporta obblighi

Le carenze organizzative dell’ufficio giudiziario mai possono comportare alcuna conseguenza dannosa per le parti del processo. Spetta all’amministrazione della giustizia conservare i fascicoli della causa di primo grado e trasmetterli al giudice dell’impugnazione: si tratta di un obbligo che non è delegabile alle parti, se non sotto forma di invito, che non fa sorgere obblighi di sorta in chi lo riceve. Insomma: è nulla la sentenza del giudice che rigetta o dichiara inammissibile il gravame senza un’attestazione della cancelleria che dichiara il fascicolo di primo grado ufficialmente smarrito. In mancanza del fascicolo, il giudice di seconda istanza può decidere il gravame solo se gli atti contenuti non sono pertinenti all’impugnazione. È quanto emerge da un’ordinanza pubblicata il 24 marzo 2023 dalla terza sezione civile della Cassazione (leggibile in fondo all’articolo).

Verbali indispensabili
Sono accolti due dei motivi del ricorso proposto dall’originaria convenuta, condannata in primo grado a risarcire 4 mila euro al ragazzo, all’epoca minore, che ha colpito con un bastone. La Corte d’appello, dopo aver incaricato la cancelleria, invita la «parte più diligente che ne fosse eventualmente in possesso» a depositare i verbali della causa di primo grado. Ma poi rigetta il gravame sul rilievo che nessuna delle parti aveva provveduto: la mancanza rende impossibile vagliare la fondatezza dell’appello e sarebbe «addebitabile» ai litiganti. Il punto è che nel nostro caso il fascicolo del giudizio precedente risulta indispensabile per decidere: i motivi di gravame riguardano la ricostruzione dei fatti e si fondano sull’interpretazione e sulla valutazione delle prove raccolte.

Motivazione contradditoria
Anche gli errori dei funzionari dell’amministrazione non possono ridondare a scapito delle parti processuali. Trova ingresso la censura secondo cui nella specie il giudice d’appello non ha autorizzato le parti a esigere una copia dei verbali dalla cancelleria del Tribunale: la sentenza è contraddittoria laddove prima afferma che le parti hanno ricevuto un invito a estrarre copia degli atti e poi che la Corte non era tenuta a disporre ulteriori rinvii visto «l’inadempimento imputabile alla parte». La parola passa al giudice del rinvio.

Tenuità del fatto per il reingresso non autorizzato dello straniero che sposa come programmato una cittadina italiana
di Giampaolo Piagnerelli

Il matrimonio non era di convenienza in quanto organizzato da tempo con tanto di pubblicazioni

Tenuità del fatto per il reingresso non autorizzato dello straniero in Italia se il soggetto provveda a sanare la situazione irregolare attraverso un matrimonio con una cittadina italia na. Matrimonio - sottolinea la Cassazione (sentenza n. 11498/23) - non affatto riparatore o di convenienza in quanto organizzato da tempo con tanto di pubblicazioni.

 

 

La satira non è reato perché si sottrae al parametro della verità

Diversamente dalla cronaca e dal mero diritto di critica, esprime un giudizio ironico su di un fatto col paradosso e il surreale: soggetta a pertinenza e continenza, non deve essere un attacco gratuito

La satira non è reato. Almeno quella vera, che non diventa uno schermo dietro cui far passare notizie false. Diversamente dalla cronaca e dalla critica, si sottrae al parametro della verità: esprime invece un giudizio ironico su un fatto mediante il paradosso e la metafora surreale. E dunque resta assoggettata soltanto ai limiti della pertinenza, laddove le espressioni e le immagini forti sono funzionali alla finalità di denuncia politica o sociale, e della continenza, laddove i toni pungenti e perfino volgari non si traducono in un’aggressione gratuita che lede l’onore e la reputazione della persona interessata. È quanto emerge da una sentenza pubblicata il 22 marzo 2023 dalla quinta sezione penale della Cassazione (leggibile in fondo all’articolo).

Tono canzonatorio
Il ricorso dell’imputato viene accolto mentre il sostituto procuratore generale concludeva per il rigetto: la Suprema corte cassa la condanna senza rinvio, revocando le statuizioni civili. Non costituisce reato il fatto addebitato all’uomo che prende di mira un ente, additandolo come inutile, in volantini, manifesti e in un articolo pubblicato su un periodico locale; scritti che mandano su tutte le furie il direttore dell’istituzione, che si sente offeso nella reputazione. Il punto è che sia i manifesti sia i volantini hanno un carattere canzonatorio: sono scritti in versi e le rime con frasi colorite - e a tratti scurrili - non mascherano il tentativo di veicolare un’informazione su fatti specifici non veri che possano ledere l’onore della persona offesa; sostanzialmente l’ente è dipinto come autoreferenziale e compiacente verso le gerarchie ecclesiastiche, ma le espressioni utilizzate non si risolvono in un attacco gratuito contro la persona del direttore, mentre l’articolo sul periodico è diretto solo contro l’ente e costituisce manifestazione del diritto di critica.

Dissenso ragionato
Nella satira, d’altronde, si possono utilizzare frasi o immagini anche lesive della reputazione altrui, a condizione che siano collegate in modo strumentale alla manifestazione di un «dissenso ragionato» dall’opinione o dal comportamento presto di mira. E a patto che la presentazione in veste ironica e scherzosa non divenga lo strumento per diffondere informazioni false, oltre che offensive, almeno nel nucleo essenziale.

di Dario Ferrara

Grazie alla Ue il datore non può di fatto pagare meno il dipendente quando è in ferie

Prassi e omissioni che disincentivano la fruizione dei riposi sono incompatibili con la finalità di tutela della salute. Nulla la clausola del Ccnl che esclude alcune indennità dalla base della retribuzione

Il datore non può, di fatto, risparmiare sulla retribuzione soltanto perché in quel momento il dipendente si trova in ferie. E ciò perché il diritto alle ferie annuali retribuite è un principio particolarmente importante per l’Unione europea. In base all’articolo 7 della direttiva 2003/88 i periodi di riposo servono al lavoratore per svagarsi oltre che per recuperare le energie.

E ogni incentivo a rinunciare al congedo è incompatibile con gli obiettivi di tutela della salute e della sicurezza. Risultato: è nulla la clausola del contratto collettivo di lavoro che esclude alcune indennità percepite dai lavoratori dalla base di calcolo della retribuzione durante le ferie. È quanto emerge una sentenza pubblicata il 22 giugno dalla sezione lavoro della Cassazione.

Efficacia vincolante
Bocciato il ricorso della compagnia aerea: è nulla la clausola del contratto collettivo nazionale di lavoro del settore laddove esclude l’indennità di volo integrativa dalla base di computo dello stipendio da versare nel periodo feriale. E ciò perché la disposizione pattizia risulta in contrasto con la norma imperativa ex articolo 4 del decreto legislativo 185/05, così come interpretato alla luce del diritto europeo.

Decisiva sul punto la sentenza pronunciata dalla Corte di giustizia europea nella causa C-514-20, pubblicata il 13 gennaio scorso: pronuncia che non è qualificabile come ius superveniens ma ha efficacia vincolante, diretta e prevalente sull’ordinamento nazionale.

Effetto deterrente
È la direttiva Ue a prescrivere che gli Stati membri devono adottare le misure necessarie affinché ogni lavoratore possa beneficiare di almeno quattro settimane di ferie retribuite: i Paesi partner possono definire le condizioni di esercizio e attuazione ma non subordinare ad alcuna condizione la costituzione del diritto.

E dunque ogni azione o omissione del datore che, anche potenzialmente, può dissuadere il lavoratore dal fruire delle ferie annuali è incompatibile con l’obiettivo di garantire un riposo effettivo del prestatore: non c’è dubbio che la prospettiva di guadagnare di meno rispetto al periodo di ordinario servizio costituisca un deterrente, almeno sulla carta. La parola passa al giudice del rinvio.

Grazie alla Cartabia chi patteggia può candidarsi alle elezioni

Il Viminale: abrogazione tacita dell’incandidabilità della Severino, quando non ci sono pene accessorie, perché sono ridotti gli effetti extra-penali della pena applicata su richiesta delle parti

Grazie alla riforma Cartabia chi ha patteggiato una condanna può candidarsi alle prossime elezioni. A patto, tuttavia, che non vi siano pene accessorie, il che avveniva già prima sotto i due anni e che adesso può avvenire anche sopra con l’eventuale accordo fra pm e imputato. Il tutto perché il comma 1 bis dell’articolo 445 Cpp, così come novellato dal decreto legislativo 150/22, ha ridotto gli effetti extrapenali della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ex articolo 444 Cpp, abrogando così in modo tacito l’incandidabilità prevista dalla legge Severino. Lo conferma lo stesso Viminale, dipartimento Territorio e autonomie locali, in un parere che riporta anche il punto di vista dell’avvocatura generale dello Stato (cfr. il documento in allegato).

Nessuna punizione
La novella prevede che se nel patteggiamento «non sono applicate pene accessorie», ad esempio l’interdizione dai pubblici uffici, non producono effetti le disposizioni di leggi, diverse da quella penale, che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444 comma secondo, Cpp (appunto l’applicazione della pena su richiesta delle parti, ndr) alla sentenza di condanna». È l’articolo 15, comma primo, della legge Severino a stabilire che «l’incandidabilità di cui al presente testo unico opera anche nel caso in cui la sentenza definitiva disponga l’applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’articolo 444 Cpp». Il ministero dell’Interno si rivolge allora all’avvocatura generale dello Stato. Secondo l’organo di difesa erariale dal dato testuale del nuovo articolo 445 Cpp si ricava che - salvo il caso di applicazione di pene accessorie - non si applicano più dal 30 dicembre 2022, data di entrata in vigore della riforma Cartabia, tutte le disposizioni legislative non qualificabili come penali che equiparano il patteggiamento alla sentenza di condanna. E le misure previste dalla legge Severino non hanno natura penale: lo certifica la Corte costituzionale nelle sentenze 230/21 e 276/16, escludendone lo «scopo punitivo» sul rilievo che sono state introdotte nell’ordinamento nazionale per assicurare il buon andamento e la trasparenza della pubblica amministrazione oltre che delle assemblee elettive e arginare l’infiltrazione criminale nella Pa. Sulla stessa lunghezza d’onda è sintonizzata la Corte europea dei diritti umani con la sentenza pubblicata il 17 giugno 2021.

Senza effetti
Un chiarimento in tal senso arriva dalla stessa relazione illustrativa del decreto legislativo 150/22, secondo cui «per effetti penali si intendono tutti quegli automatismi discendenti ope legis (dunque per effetto di una norma di legge, ndr) da una sentenza irrevocabile di condanna o di patteggiamento secondo una miriade di ipotesi previste dalle leggi speciali». Secondo la relazione, pubblicata nel supplemento straordinario alla “Gazzetta Ufficiale” 245/22, la formulazione della novella «ha il vantaggio per cui non vi è necessità di intervenire su tali leggi speciali, che restano in vigore e continuano ad applicarsi ogni volta che alla sentenza di patteggiamento verranno ricollegate pene accessorie». Insomma: secondo l’avvocatura dello Stato la disposizione della legge Severino non produce più effetti e tutti i soggetti che hanno patteggiato la condanna senza pene accessorie possono così «concorrere alle prossime elezioni».

di Debora Alberici

Risarcimento dimezzato al professionista che cade sul marciapiede vicino allo studio

Sussiste un concorso di colpa perché l’infortunato conosceva la strada e avrebbe dovuto prestare attenzione

Può essere addirittura dimezzato il risarcimento al professionista che cade sul marciapiede sconnesso vicino al suo studio. In questi casi sussiste un concorso di colpa perché il danneggiato conosce bene la strada.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con un’ordinanza leggibile in fondo alla pagina, ha respinto il ricorso di un uomo caduto rovinosamente sul marciapiede sconnesso vicinissimo al suo studio.

Gli Ermellini hanno confermato integralmente la motivazione di merito spiegando che il nesso causale tra la cosa in custodia e il sinistro fosse parzialmente eliso dalla condotta del professionista il quale, trovandosi a percorrere una strada a lui ben nota perché percorsa quotidianamente per recarsi presso il proprio studio professionale, doveva conoscere lo stato dei luoghi e adottare le cautele necessarie.

Nel caso sottoposto all’esame della Corte, lui aveva tenuto una condotta che non poteva ritenersi abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto e ciò con la conseguente decurtazione, nella misura del 50%, della somma dovuta a titolo risarcitorio.

di Debora Alberici

Sono reato i post intimidatori su Facebook

Confermata la condanna per minacce a carico di un cliente che prometteva vendetta a un avvocato

I posti su Facebook con i quali si promette vendetta sono un reato, precisamente chi scrive frasi intimidatorie può essere punito per minacce.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con una sentenza leggibile in fondo alla pagina, ha confermato la condanna a carico di un cliente che prometteva vendetta all'avvocato.

La quinta sezione penale ha spiegato che il delitto contenuto la minaccia va valutata con criterio medio ed in relazione alle concrete circostanze del fatto, sicché non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo sufficiente che la condotta dell'agente sia potenzialmente idonea a incidere sulla libertà morale della vittima, il cui eventuale atteggiamento minaccioso o provocatorio non influisce sulla sussistenza del reato, potendo eventualmente sostanziare una circostanza che ne diminuisca la gravità, come tale esterna alla fattispecie.

Nel caso sottoposto all'esame della Corte, gli Ermellini hanno spiegato che «il riferirsi a un luogo in cui l’agente avrebbe svolto esternazioni capaci di arrecare dolore al preciso soggetto destinatario dell’avviso ( “ci vediamo...anticiparti" , per la valenza semantica delle espressioni usate (tese non ad illustrare eventuali ragioni di supporto alle avverse tesi processuali o a sconfessare eventuali linee defensionali già tracciate dal professionista preso di mira, ma a prospettare “tout court” un doloroso danno) e per il pregresso contesto diffamatorio ed accusatorio, non può che voler significare e rappresentare l’intenzione di arrecare, a mezzo delle proprie future esternazioni in sede tribunalizia, danno e dolore al destinatario dell’avviso, rendendo tanto più inquietante la minaccia proprio per la sua genericità e la sua prospettazione nell’ambito di una certamente ineludibile, doverosa ed inevitabile futura dialettica processuale».

Non è reato pagare l’agente della Guardia di finanza per evitare l’accertamento

Rilevante che il militare abbia chiesto fra le righe un obolo al fine di chiudere un occhio

Non commette alcun reato l’imprenditore che paga, in sede di ispezione, l’agente della Guardia di finanza per evitare l’accertamento. Tanto più quando il militare chiede fra le righe un obolo per chiudere un occhio.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 11138 del 15 marzo 2023, ha accolto il ricorso di un manager.

Gli Ermellini hanno accolto la tesi con la quale la difesa ha smontato l’intero impianto accusatorio spiegando che il reato di di concussione di cui all'art. 317 cod. pen., nel testo modificato dalla legge n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all'alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall'art. 319-quater cod. pen., la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest'ultimo non si risolva in un'induzione in errore), pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico.

Insomma, i giudici di merito avrebbero dovuto approfondire le diverse implicazioni sottese alle specifiche emergenze probatorie delle quali ha pur dato conto nella motivazione, là dove ha mostrato di ritenerle, per certi aspetti, sintomatiche dell’utilizzo delle attività di accertamento fiscale come strumento di persuasione, anche indiretta, nei confronti dell'imputato, con il rischio di non lasciargli alcuna possibilità di opzione in vista di una diversa alternativa comportamentale.

di Giulia Provino

Poste non risarcisce il phishing perché solo il correntista conosce i codici per i bonifici online

La condotta imprudente del cliente esclude la responsabilità della società: la transazione può avvenire unicamente con l’inserimento di credenziali sconosciute anche al personale dell’azienda

Poste italiane non risponde delle transazioni online fraudolente, quando l’utilizzazione del servizio online per i bonifici può avvenire esclusivamente attraverso l’inserimento di vari codici segreti conosciuti solo dal cliente. Dunque, in caso di phishing, la condotta imprudente del correntista esclude Poste Italiane dalla responsabilità. Con l’ordinanza depositata il 13 marzo 2023 (qui leggibile in fondo all’articolo) la Cassazione ha rigettato il ricorso dei correntisti.
I ricorrenti avevano espressamente disconosciuto, nell’ambito del rapporto contrattuale fra loro e Poste Italiane, l’operazione contabile di addebito sul conto corrente di cui essi erano titolari della somma di 6 mila euro, oggetto di ordine di bonifico online in favore di terzi.

Tuttavia, risulta che i livelli di sicurezza dei sistemi informatici di Bancoposta on line di Poste Italiane Spa sono stati certificati da appositi enti certificatori secondo i più rigorosi ed affidabili standard internazionali. In particolare, l’utilizzazione del servizio Bancoposta on line può avvenire esclusivamente attraverso l’inserimento di vari codici segreti in possesso dell’utente e sconosciuti allo stesso personale di Poste Italiane. Il cliente è responsabile della custodia e dell’utilizzo corretto dell’identificativo utente, della parola chiave, del codice di attivazione, del codice dispositivo segreto e della chiave di accesso.

Pertanto, l’operazione, eseguita per via telematica di trasferimento delle somme dal conto corrente di cui erano titolari i ricorrenti ad altro conto intestato a terzi non può che essere avvenuta grazie all’utilizzo dei codici identificativi personali del ricorrente, il che, a sua volta, porta a ritenere che, assai verosimilmente, lo stesso sia rimasto vittima di una delle sempre più frequenti truffe informatiche, a seguito della quale questi è stato indotto a fornire on line i propri codici personali (user id, password, pin), poi utilizzati dall’hacker per il compimento dell’illecita operazione dispositiva. La condotta imprudente del ricorrente è, quindi, causa esclusiva dell’operazione fraudolenta e, di conseguenza, esclude Poste italiane dalla responsabilità.

Nel caso in esame, infatti, l’addebito della somma di denaro al conto corrente postale di cui i ricorrenti erano titolari costituì esecuzione di ordine di bonifico dato alla società previa utilizzazione di username, di password e di pin per l’accesso ai dati interni al conto corrente postale assegnati ai correntisti e dei cui contenuti solo costoro avrebbero dovuto essere a conoscenza. A fronte delle caratteristiche di sicurezza proprie del sistema informatico di Poste per l’esecuzione di operazioni bancarie per via telematica e del diniego dei ricorrenti di avere utilizzato tali dati identificativi per dare l’ordine di bonifico controverso, si inferisce che gli stessi dati erano stati fraudolentemente, captati e, successivamente, in concreto utilizzati da un terzo.

Successioni, la rinuncia all’eredità non ammette una revoca tacita

La Cassazione afferma che per tornare indietro serve un atto pubblico

La rinuncia all’eredità è un atto formale e, come tale, non ammette una revoca tacita. Pertanto, la rinuncia all’eredità resta ferma anche se il rinunciante tiene un comportamento (come l’agire in un giudizio) che appare in contrasto con la rinuncia stessa: è quanto afferma la Cassazione nell’ordinanza n. 37927 del 28 dicembre 2022, con cui viene annullata la sentenza della Corte d’appello di Napoli che aveva deciso in senso contrario.

Imballaggi secondari: non assimilabili agli urbani in caso di mancata attivazione della raccolta differenziata. L'onere della prova spetta al Comune

Nell'occasione, gli Ermellini hanno confermato, ove ce ne fosse bisogno, la non assimilabilità dei rifiuti degli imballaggi terziari a quelli urbani, escludendo altresì l'assimilazione agli urbani anche dei rifiuti degli imballaggi secondari, prescindendo dalle possibili previsioni regolamentari del Comune se manca il servizio di raccolta da parte del Comune stesso

I rifiuti degli imballaggi terziari nonché quelli degli imballaggi secondari, ove non sia stata attivata la raccolta differenziata da parte del Comune, non possono essere assimilati ai rifiuti urbani, previo espletamento dell'esercizio del potere attribuito all'ente locale dall 'art.21 del D.L. n. 22/1997 (Decreto Ronchi) e dalla successiva abrogazione della L. n. 146/1994, art.39.

di Giulia Provino

Sì all’accertamento del fisco fondato su doppia presunzione

Sbaglia la Ctr giudicare lo scostamento dei valori Omi come unico elemento presuntivo addotto, senza considerare anche gli altri elementi indiziari

Legittimo l’accertamento del fisco fondato su una doppia presunzione. Il fatto noto, accertato in via presuntiva, può costituire la premessa di un’ulteriore presunzione. Con l’ordinanza depositata l’8 marzo 2023 (qui leggibile in fondo all’articolo) la Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle entrate.
Bocciato il ragionamento su cui si fonda la sentenza della Ctr, secondo cui gli accertamenti basati su valori Omi costituiscono meri indizi di evasione, posto che essi tuttavia consentono l’accertamento ai sensi dell’articolo 39 comma 1 lettera d) del dpr 600/1973 ove vi siano, come nel caso in esame, ulteriori elementi idonei a suffragare l’accertamento. Tali elementi possono essere individuati nel valore del mutuo, superiore al prezzo dichiarato nella compravendita; nel prezzo a metro quadro desunto dalla fattura, pari o inferiore al costo di costruzione. I giudici di secondo grado, invece, non ha considerato gli ulteriori elementi prodotti dal fisco, focalizzandosi solo sulla presunzione costituita dallo scostamento dai valori Omi.
Non è configurabile nel sistema processuale un divieto di presunzioni di secondo grado, non essendo lo stesso riconducibile agli articoli 2729 e 2697 Cc né ad altre norme. Pertanto, è ben possibile che il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituisca la premessa di un’ulteriore presunzione, ferma restando la necessità di valutare in concreto l’attendibilità del risultato, in termini di gravità, precisione e concordanza idonee a fondare l’accertamento del fatto ignoto.
Nel caso in esame, pur dando atto che l’ufficio ha esibito altri elementi indiziari oltre allo scostamento dei valori Omi, la Ctr ha di fatto giudicato come se questo fosse stato l’unico elemento presuntivo addotto, ciò eliminando a monte ogni valenza presuntiva al maggior importo del mutuo contratto rispetto al valore delle cessioni, seppure in relazione ai soli quattro immobili.

di Dario Ferrara

Solo la particolare tenuità può salvare chi lascia i cani per mezzora al sole senza acqua né cibo

Da verificare la non punibilità perché l’imputata deposita i cuccioli davanti al canile senza aspettare che siano messi in sicurezza. Ma il giudice del rinvio non può rilevare la prescrizione

Soltanto la particolare tenuità del fatto può salvare dalla condanna per abbandono di animali chi lascia i cani per mezzora al sole senza acqua né cibo. La sussistenza della causa di non punibilità va accertata perché la signora lascia la scatola con i cuccioli davanti al canile, dunque vicino a una struttura adeguata per soccorrere gli esemplari. La parola, dunque, passa al giudice del rinvio, che tuttavia non potrà rilevare l’eventuale decorso del termine di prescrizione. È quanto emerge da una sentenza pubblicata il 6 marzo 2023 dalla terza sezione penale della Cassazione.

Detenzione occasionale
È accolto solo uno dei motivi di ricorso proposti dall’imputata, mentre il sostituto procuratore generale concludeva per l’inammissibilità. Inutile per la signora eccepire di non essere la proprietaria dei cuccioli, abbandonati davanti al canile con alcuni randagi che si aggirano minacciosi, senza aspettare che il personale raccolga e metta in sicurezza gli esemplari. Ai fini della condotta tipica di abbandono ex articolo 727 Cp è irrilevante la proprietà degli animali domestici: conta invece il potere di fatto esercitato sull’animale. E dunque la fattispecie è integrata non soltanto dal proprietario ma anche da chiunque detiene l’animale anche solo occasionalmente.

Giudicato progressivo
Fondata, invece, è la doglianza sul mancato riconoscimento della causa di non punibilità, che pure risulta chiesta in udienza dall’imputata. Il giudice avrebbe dovuto spiegare le ragioni per le quali non ha ravvisato l’esiguità del pericolo determinato dalla condotta. Le videocamere riprendono la signora mentre deposita la scatola con i cuccioli attorno alle 18,25: citofona ma se ne va senza aspettare che sia aperto il cancello; soltanto alle 19 il personale porta i cuccioli all’interno. Il giudice, tuttavia, sui profili dell’eventuale tenuità del fatto si limita a tacere. E il vizio di omessa motivazione si configura anche quando mancano singoli momenti esplicativi rispetto ai temi sui quali deve vertere il giudizio. La parola al giudice del rinvio che potrà accertare la non punibilità per particolare tenuità ma non la prescrizione perché pesa la formazione del giudicato progressivo sull’accertamento del reato e l’affermazione di responsabilità dell’imputato.

Addio multa e taglio punti perché anche il Tutor va tarato ogni tanto

Le verifiche periodiche sul funzionamento indicate dalla Consulta vanno compiute su tutti gli strumenti di rilevamento: spetta alla prefettura dimostrarle, non basta l’attestazione contenuta nel verbale

Annullati. Addio multa e taglio dei punti patente perché anche il tutor deve essere sottoposto a verifiche periodiche di funzionalità, come gli altri strumenti di rilevamento elettronico. E ciò benché non rilevi una velocità istantanea come l’autovelox ma soltanto l’andatura media del veicolo. La sentenza costituzionale 113/15, che ha imposto i controlli per garantire la sicurezza sulle strade, vale per tutti i dispositivi e le postazioni di misurazione, fisse e mobili, in quanto soggetti a obsolescenza ed esposti alle intemperie. Se il trasgressore contesta l’affidabilità dell’apparecchio, spetta all’amministrazione dimostrare che le verifiche necessarie sono state compiute: non basta l’attestazione contenuta nel verbale di contravvenzione. È quanto emerge da una sentenza pubblicata il 6 marzo 2023 dalla seconda sezione civile della Cassazione (leggibile in fondo all’articolo).

Tempo a rischio
È accolto dopo una doppia sconfitta in sede di merito il ricorso proposto dalla società proprietaria del veicolo sanzionato con due verbali per l’infrazione ex articolo 142, comma ottavo, Cds. Sbaglia in particolare il Tribunale, in funzione di giudice di secondo grado, a escludere che le verifiche periodiche di funzionalità e taratura debbano applicarsi al sistema Sicve in uso sulle autostrade italiane. E ciò sul rilievo che il Tutor misura soltanto la velocità tra due punti e, dunque, non sarebbe esposto a fenomeni di obsolescenza. Ora, invece, trova ingresso la censura espressa dal secondo mezzo di impugnazione della snc: è vero, il sistema rileva una velocità media e non istantanea, ma lo fa pur sempre in base ai dati forniti da un “orologio” che è a rischio invecchiamento e malfunzionamento.

Elemento costitutivo
Per provare che l’apparecchio funziona serve il certificato di un laboratorio: non conta il test di autodiagnosi né che il dispositivo opera in presenza di operatori o in automatico, mentre non ha fede privilegiata l’attestazione degli agenti, contenuta nel verbale di contravvenzione, secondo cui lo strumento è stato tarato. Di fronte alla contestazione del trasgressore, il corretto funzionamento dello strumento rappresenta un elemento essenziale, costitutivo della fattispecie sanzionatoria. Parola al giudice del rinvio.

 

 

Infarto da superlavoro, al dipendente basta dimostrare che l'attività si è protratta oltre la normale soglia di tollerabilità

Sul lavoratore ricade l'onere di provare l'esistenza del danno e il nesso con la nocività dell'ambiente

Il dipendente che subisce un infarto a causa di anni di superlavoro dovuto al cronico sottodimensionamento dell'organico dell'ente ha diritto a essere risarcito.

La Corte di cassazione (ordinanza n. 6008/2023) ha considerato errato pretendere l'indicazione da parte del lavoratore – nella vicenda un dirigente - delle specifiche e determinate norme di sicurezza violate dall'ente: è idonea e sufficiente a dimostrare la nocività dell'ambiente di lavoro la mera dimostrazione dello svolgimento prolungato del lavoro.

 

Fisco risarcisce contribuente per l’accertamento sbagliato

Danno non patrimoniale all’imprenditore prosciolto in sede penale: pm tratto in errore dai verificatori, se l’ispezione fosse stata corretta il procedimento per evasione non sarebbe stato aperto

Il fisco risarcisce il contribuente perché ha sbagliato l’accertamento. E con l’Agenzia delle entrate rispondono in solido i due funzionari dell’amministrazione che hanno compiuto l’ispezione in azienda: a causa del loro errore l’imprenditore si ritrova invischiato in due procedimenti penali dai quali esce innocente sì, ma malconcio; scatta allora il danno non patrimoniale a favore del contribuente per le ripercussioni sulla salute oltre che la vita lavorativa: il pubblico ministero non avrebbe esercitato l’azione penale se non fosse stato tratto in errore dai due verificatori. È quanto emerge da un’ordinanza pubblicata il 28 febbraio 2023 dalla terza sezione civile della Cassazione.

di Dario Ferrara

L’ospedale risarcisce se non prova che l’infezione al paziente era imprevedibile o inevitabile

Spetta al danneggiato dimostrare il nesso causale fra la nuova malattia e l’omissione dei sanitari e alla struttura l’impossibilità della prestazione che deriva da una causa non imputabile

Spetta all’azienda ospedaliera risarcire il paziente che ha contratto un’infezione in sala operatoria se non dimostra che l’inesatto adempimento della prestazione a proprio carico dipende da un impedimento imprevedibile o inevitabile e, dunque, non imputabile. Il danneggiato, invece, può limitarsi a dimostrare il nesso causale fra l’insorgenza della nuova patologia e l’omissione dei sanitari. È quanto emerge da un’ordinanza pubblicata il 27 febbraio 2023 dalla terza sezione civile della Cassazione (leggibile in fondo all’articolo).

Protocollo fondamentale
Bocciato il ricorso proposto dall’azienda ospedaliera: diventa definitiva la condanna a pagare 152 mila a titolo di danno biologico al paziente che ha riportato esiti invalidanti. Ricoverato nello stesso nosocomio a un anno dall’intervento al collo del femore, perché accusa forti dolori, è costretto a farsi impiantare una protesi all’anca: all’uomo è diagnosticata una necrosi cefalica femorale. Ma non giova all’amministrazione sanitaria contestare la decisione di merito che ha addebitato alla struttura l’insorgere dell’infezione.

È escluso, anzitutto, il vizio di omessa pronuncia perché la Corte d’appello ha esaminato la questione e ha giudicato infondato nel merito il motivo di gravame: deve ritenersi provato il rapporto di causalità fra l’esecuzione dell’intervento chirurgico e la contrazione dell’infezione con esiti invalidanti avvenuta in ospedale. E ciò perché grava sulla struttura sanitaria l’onere di dimostrare di aver sterilizzato l’ambiente in modo diligente: dalla sala operatoria ai luoghi di degenza fino a tutte le attrezzature; l’azienda, nella specie, neppure tenta di provare di aver seguito in modo regolare i protocolli di disinfezione della camera dove si è svolto l’intervento.

Onere della prova
Va detto che in epoca anteriore alla legge Gelli-Bianco, la 24/2017, la responsabilità medica rientra nella responsabilità contrattuale per inadempimento delle obbligazioni professionali: è onere del creditore-danneggiato provare, oltre al contratto o al contatto sociale, il nesso causale secondo il criterio del «più probabile che non» tra la condotta del professionista e il danno lamentato, mentre spetta al debitore dimostrare l’impossibilità della prestazione in alternativa all’esatto adempimento.

di Giulia Provino

Sul parcheggio scoperto non si può pagare la Tari come per un garage

Pesa il principio «chi inquina paga»: l’area all’aperto frequentata da veicoli e persone, idonea a produrre rifiuti, va inquadrata in una sottocategoria del regolamento comunale

Il parcheggio scoperto produce rifiuti in maniera diversa rispetto un garage: non può dunque essere soggetta alla stessa tariffa Tari. Con l’ordinanza depositata il 24 febbraio 2023 (qui leggibile in fondo all’articolo) la Cassazione ha accolto il ricorso della società cooperativa che si era vista tassata l’area scoperta con la tariffa della categoria A/4 del regolamento comunale e cioè quella relativa a depositi, autorimesse, magazzini e garage.

Sbaglia la Ctr a ritenere legittima l’equiparazione ai fini dell’applicazione della tariffa Tari dell’area scoperta adibita a parcheggio ad altre categorie diverse quali depositi e magazzini non tenendo conto del fatto che, in conformità ai principi di diritto comunitario («chi inquina paga»), il regolamento comunale deve prevedere un’apposita sottocategoria per le aree adibite a parcheggio scoperto, avendo queste una propria peculiare potenzialità alla produzione di rifiuti.
La sesta sezione civile ha precisato che, l’area scoperta adibita a parcheggio, pur potendo essere qualificata come rimessa di autoveicoli, con rapporto di species a genus e dovendosi escludere l’esimente di cui all’articolo 62, comma 2, del dpr 507/93, per inidoneità dell’area a produrre rifiuti, essendo la stessa un luogo frequentato da veicoli e persone, potenzialmente idoneo alla produzione di rifiuti, non può essere totalmente equiparata all’area coperta.

L’amministrazione comunale titolare di un potere tecnico-discrezionale nella determinazione delle tariffe, deve tenere conto delle peculiarità delle varie possibili fattispecie oggetto di regolamentazione in ragione delle caratteristiche del suo territorio e della produzione di rifiuti. La discrezionalità dell’ente territoriale nello stimare in astratto la capacità media di produzione di rifiuti per tipologie, ha natura tecnica, non «politica». Essa si deve basare su una stima realistica in ragione delle caratteristiche proprie dell’imposizione; deve insomma concretamente rispettare, nell’esercizio di siffatta discrezionalità tecnica, il fondamentale e immanente principio di proporzionalità, incluse adeguatezza e necessarietà.

 

Sul parcheggio scoperto non si può pagare la Tari come per un garage

Pesa il principio «chi inquina paga»: l’area all’aperto frequentata da veicoli e persone, idonea a produrre rifiuti, va inquadrata in una sottocategoria del regolamento comunale

Il parcheggio scoperto produce rifiuti in maniera diversa rispetto un garage: non può dunque essere soggetta alla stessa tariffa Tari. Con l’ordinanza depositata il 24 febbraio 2023 (qui leggibile in fondo all’articolo) la Cassazione ha accolto il ricorso della società cooperativa che si era vista tassata l’area scoperta con la tariffa della categoria A/4 del regolamento comunale e cioè quella relativa a depositi, autorimesse, magazzini e garage.

Sbaglia la Ctr a ritenere legittima l’equiparazione ai fini dell’applicazione della tariffa Tari dell’area scoperta adibita a parcheggio ad altre categorie diverse quali depositi e magazzini non tenendo conto del fatto che, in conformità ai principi di diritto comunitario («chi inquina paga»), il regolamento comunale deve prevedere un’apposita sottocategoria per le aree adibite a parcheggio scoperto, avendo queste una propria peculiare potenzialità alla produzione di rifiuti.
La sesta sezione civile ha precisato che, l’area scoperta adibita a parcheggio, pur potendo essere qualificata come rimessa di autoveicoli, con rapporto di species a genus e dovendosi escludere l’esimente di cui all’articolo 62, comma 2, del dpr 507/93, per inidoneità dell’area a produrre rifiuti, essendo la stessa un luogo frequentato da veicoli e persone, potenzialmente idoneo alla produzione di rifiuti, non può essere totalmente equiparata all’area coperta.

L’amministrazione comunale titolare di un potere tecnico-discrezionale nella determinazione delle tariffe, deve tenere conto delle peculiarità delle varie possibili fattispecie oggetto di regolamentazione in ragione delle caratteristiche del suo territorio e della produzione di rifiuti. La discrezionalità dell’ente territoriale nello stimare in astratto la capacità media di produzione di rifiuti per tipologie, ha natura tecnica, non «politica». Essa si deve basare su una stima realistica in ragione delle caratteristiche proprie dell’imposizione; deve insomma concretamente rispettare, nell’esercizio di siffatta discrezionalità tecnica, il fondamentale e immanente principio di proporzionalità, incluse adeguatezza e necessarietà.

 

di Annamaria Villafrate 
Integra il reato di maltrattamenti imporre alla moglie un regime di risparmio troppo rigido e ingiustificato

Reato di maltrattamenti imporre un risparmio ingiustificato
Respinto il ricorso in Cassazione con cui si contesta la riconducibilità al reato di maltrattamenti delle condotte controllanti e pervasive del marito finalizzate a imporre alla moglie uno stile di vita improntato a un risparmio ingiustificato. Vediamo come ha motivato questa decisione la Corte di Cassazione nella sentenza n. 6937/2023 (sotto allegata).

In sede di appello un marito viene condannato anche il reato di maltrattamenti ai danni della moglie. Condanna che l'uomo respinge con ricorso in Cassazione.

Gli Ermellini però rigettano il ricorso, evidenziando nella motivazione come, dalle dichiarazioni rese dalla persona offesa, l'uomo fosse responsabile della creazione di un clima di sopraffazione a causa delle condotte vessatorie poste in essere nei confronti della coniuge. Alla persona offesa l'uomo imponeva in particolare il rispetto di un regime di risparmio domestico all'inizio condiviso, poi tollerato e divenuto e infine divenuto insopportabile.

Aspetto della vita della donna che è stato confermato anche dal padre chiamato a testimoniare.

La consulenza espletata in sede di merito ha rivelato un forte cambiamento nella personalità della persona offesa a causa delle angherie subite dal marito. La stessa, da donna solare, in salute e fiduciosa si è lentamente spenta a causa della diagnosi di un disturbo post traumatico da stress, culminato in intenti suicidari.

La Cassazione ricorda che l'art. 143 c.c afferma che con il matrimonio i coniugi, ognuno con le sua capacità e sostanze, si impegnano a dare il proprio contributo ai bisogni della famiglia, assumendosi entrambi gli stesi doveri.

Con il matrimonio i coniugi si accordano sullo stile di vita, stabilendo anche il rispetto di un regime di risparmio rigoroso, ma tale stile di vita deve essere condiviso, non può essere imposto, soprattutto se riguarda le minime esigenze di vita quotidiana e di cura personale.

La donna invece ha riferito una vera e propria coartazione al risparmio, con condotte controllanti e pervasive del marito, concluse con un regime di assillo tale da provocarle uno stato di ansia e di frustrazione continui.

Tanto più che non vi erano necessità impellenti. Entrambi i coniugi avevano infatti un impiego e uno stipendio.

Evidente quindi la mera volontà dell'uomo di condizionare la donna e le sue decisioni su dove comprare e cosa acquistare per la casa che per se stessa.

Situazione di controllo, per fuggire alla quale, la donna ha finito per buttare via gli scontrini o nascondere la spesa a casa dei genitori o dalle amiche. Il tutto accompagnato da ingiurie e offese sfocianti in critiche per la mancanza di attenzione alle spese

 

Evasione, annullato il sequestro di 141 milioni di euro all’architetto di Putin
A pochi giorni dal processo a carico di Lanfranco Cirillo, la Suprema corte con una decisione di cui non conoscono le motivazioni, annulla con rinvio al Tribunale del riesame il maxi sequestro preventivo

di Patrizia Maciocchi

La Corte di Cassazione ha annullato il sequestro da 141 milioni di euro a carico di Lanfranco Cirillo, noto come “l’architetto di Putin” per la sua vicinanza al leader russo. Il maxi sequestro preventivo nei confronti di Cirillo, che ha lavorato e vissuto in Russia per oltre 20 anni, era scattato il 3 agosto 2022 per le accuse di reati tributari, contrabbando e dichiarazione infedele, riciclaggio, autoriciclaggio e trasferimento fraudolento di valori.

La decisione della Suprema corte rinviata al Tribunale del riesame, arriva a meno di una settimana dall’inizio del processo a Brescia a carico di Cirillo: la prima udienza è, infatti, fissata per il 23 febbraio. Il professionista é indagato per il fumus del reato di omessa dichiarazione dei redditi per decine di milioni di euro dal 2013 al 2019. E questo, secondo gli inquirenti «pur mantenendo in Italia il centro dei propri interessi familiari, affettivi ed economico-patrimoniali».

Nel mirino della Guardia di Finanza di Brescia erano finite abitazioni di lusso, conti correnti, denaro contante, gioielli, opere d’arte moderna e contemporanea di autori famosi come Picasso, Cezanne, Kandinsky, De Chirico e Fontana, oltre ad un elicottero. Beni sottoposti alla misura preventiva per un valore di 141 milioni di euro. Proprietà espressione di una ricchezza, ad avviso degli inquirenti, del tutto sproporzionata, rispetto ai redditi dichiarati.

Ora la Cassazione annulla, con motivazioni che dovranno essere depositate, il sequestro preventivo e rinvia al Tribunale del riesame di Brescia, che si esprimerà con un nuovo giudizio muovendosi sulla linea tracciata dalla Suprema corte. Le attività di indagine della Guardia di finanza avevano riguardato altri 44 oligarchi russi, con il successivo congelamento dei beni.

 

di Debora Alberici

Niente multa con autovelox sulla strada con doppia linea continua

È necessaria la contestazione immediata perché non è una via a scorrimento veloce. No apparecchiature automatiche di rilevamento

Niente multa per eccesso di velocita né taglio dei punti patente, con autovelox, all’automobilista che corre su una strada con la doppia linea continua. Si tratta non di via a scorrimento veloce ma a doppio senso: è necessaria la contestazione immediata da parte degli agenti.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con una sentenza di oggi (leggibile in fondo alla pagina), ha annullato la multa per eccesso di velocità fatta a un automobilista fotografato dall’autovelox su una strada a doppia linea continua. Sicuramente, scrivono gli Ermellini, non poteva trattarsi di strada a scorrimento veloce, l’unica dove sono ammessi sistemi di rilevamento automatico, senza la necessità di contestazione immediata.

Secondo la seconda sezione civile, l’art.139, comma 6 , lett. a) del Regolamento del Codice della Strada, prevede che le strisce affiancate continue, come quelle rilevate dal giudice di merito sono necessarie per separare i sensi di marcia nelle strade a carreggiata unica a due o più corsie per senso di marcia”. Gli artt. 138, 138, comma 1 e 2, 139 e 141 del DPR 495/92 distinguono le strisce “di separazione dei sensi di marcia” dalle strisce di “margine della carreggiata”.

Alla luce di queste norme, il giudice di merito ha errato nel qualificare la strada in cui è stata contestata la violazione come strada a scorrimento veloce in quanto si trattava di strada a una sola carreggiata.

Infatti, il provvedimento prefettizio di individuazione delle strade lungo le quali è possibile installare apparecchiature automatiche per il rilevamento della velocità senza obbligo di fermo immediato del conducente, previsto dal citato D.L. n. 121 del 2002, art. 4 può includere soltanto le strade del tipo imposto dalla legge mediante rinvio alla classificazione di cui all'art. 2, commi 2 e 3, e non altre, dovendo ritenersi necessaria l'esistenza delle caratteristiche minime per la configurazione di una strada urbana come "a scorrimento veloce" per rendere legittimo il posizionamento dell’apparecchio fisso di rilevazione elettronica della velocità.

 

di Dario Ferrara

Il Comune risarcisce perché manca il guard-rail

Oltre a rispondere come custode, l’ente paga per non aver dotato della protezione l’infrastruttura che costeggia il fossato: la presenza del traliccio ferroviario è una delle ipotesi in cui serve la barriera

Il Comune risarcisce la vittima dell’incidente stradale e i parenti perché non ha installato il guard-rail né eliminato o segnalato la situazione di pericolo. Oltre che come custode della cosa, l’amministrazione risponde in quanto non ha dotato della protezione la strada che costeggia il fossato, mentre la presenza del traliccio ferroviario a poca distanza dalla carreggiata è una delle ipotesi per cui la normativa prevede l’apposizione della barriera. È quanto emerge da un’ordinanza pubblicata il 17 febbraio 2023 dalla terza sezione civile della Cassazione (leggibile in fondo all’articolo).

Nesso causale
Diventa definitiva la condanna dell’ente locale a pagare i danni: l’uomo a bordo dell’auto finisce contro il traliccio a metro dalla carreggiata sulla strada comunale che unisce due provinciali. Al conducente va il 50 per cento della responsabilità del sinistro: non tiene una velocità adeguata sull'asfalto ghiacciato. Ma la condotta colposa dell’automobilista non esonera il Comune dalla responsabilità: il caso fortuito che deve essere provato dal custode è un fattore esterno, dovuto ad esempio a un terzo o allo stesso danneggiato, che interrompe il nesso fra il pericolo insito nella cosa e l’agire umano. E mai il fortuito può essere costituito da ciò che soltanto concorre a concretizzare il rischio. Il fattore di pericolo, nella specie, è il traliccio ferroviario, che non può certo essere ritenuto imprevedibile e imprevedibile: sussiste di norma la possibilità di apporre una barriera di protezione. In giudizio bisogna allora verificare la resistenza che il guard-rail avrebbe potuto opporre all’urto del veicolo.

Personalizzazione del danno
La vittima del sinistro ottiene anche la personalizzazione del danno non patrimoniale: dopo il sinistro non può più dedicarsi alle attività sportive e ricreative che era solito praticare. Scatta anche il danno morale per la sofferenza interiore dovuta alle lesioni patite. La condotta colposa del danneggiato, tuttavia, non risulta indifferente nella liquidazione ad opera del giudice: può comunque ridurre il risarcimento o anche escluderlo per tutti i danni che l’attore avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza: nel secondo caso, però, serve un’eccezione ad hoc della controparte.

 

di Debora Alberici

Condominio multato per la raccolta differenziata dei rifiuti fatta male

Nessuna responsabilità dell’amministratore che non ha la custodia diretta dei cassonetti

Il condominio rischia una multa salata quando la raccolta dei rifiuti è fatta male.

L’amministratore non ha, al contrario, alcuna responsabilità.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con una ordinanza leggibile in fondo alla pagina, ha accolto il ricorso di una società multata in quanto amministratore di un condominio la cui raccolta dei rifiuti non era stata eseguita a regola d’arte.

Ad avviso della seconda sezione civile, di nessun rilievo, ai fini dell'affermazione di una responsabilità dell'amministratore di condominio, è la disposizione, richiamata dal Tribunale, dettata dall'art. 14, comma 7, del regolamento per la gestione dei rifiuti urbani del Comune di Roma, approvato con deliberazione del consiglio comunale n. 105 del 12. 5. 2005, che fa espressamente obbligo agli utenti ed all'amministratore di custodire e utilizzare correttamente i contenitori assegnati al condominio. Tali obblighi, di custodia e di utilizzazione, confermano, al contrario, la tesi opposta a quella fatta propria dal giudice a quo, che vale a dire la responsabilità dell'amministratore per la loro violazione può configurarsi soltanto in via diretta e non in via solidale, per il mancato o non corretto adempimento dei doveri di custodia e di utilizzazione.

Nello specifico, con riferimento all’utilizzazione ed alle violazioni contestate, consistita nell'inserimento di rifiuti non conformi nei contenitori predisposti per la raccolta differenziata, la norma regolamentare colpisce fatti propri, senza prospettare alcun collegamento a carico dell’amministratore in termini di solidarietà con l’autore della non corretta utilizzazione.

 

di Dario Ferrara

Paga il Comune se lo scooter cade sulla buca. Il custode risponde anche se la vittima è imprudente

La sconnessione dell’asfalto va prevista e prevenuta: escluso il fortuito. La condotta colposa del centauro non interrompe il nesso causale fra la cosa e il danno, anche se può ridurre il risarcimento

Spetta al Comune risarcire il centauro caduto sulla buca nell’asfalto. A meno che, beninteso, non riesca a provare il caso fortuito, che tuttavia è rappresentato da un fatto del danneggiato o di un terzo che non si può prevedere né prevenire: la condotta colposa della vittima, dunque, non interrompe il nesso causale fra la cosa in custodia e il danno; nesso il quale è insito nel fatto stesso che la caduta sia cagionata dall’interazione fra la condizione pericolosa della strada e l’agire umano. È quanto emerge da una sentenza pubblicata il 9 febbraio 2023 dalla terza sezione civile della Cassazione..

Insidia irrilevante
È accolto dopo una doppia sconfitta in sede di merito il ricorso proposto dal centauro: sbaglia la Corte d’appello quando esclude il risarcimento sul rilievo che lo scooter era inadeguato a fronteggiare le insidie della strada e quindi il conducente avrebbe dovuto adottare un percorso alternativo. In realtà nella responsabilità ex articolo 2051 Cc non conta se la cosa in custodia abbia o no natura insidiosa e l’insidia sia o no percepibile oppure evitabile dal danneggiato. La responsabilità del custode è oggettiva: la vittima del sinistro si limita a provare l’esistenza e l’entità del danno e la riconducibilità alla cosa, mentre la prova liberatoria a carico del Comune consiste nel dimostrare l’intervento di un elemento esterno che elide il nesso causale. E che può essere un fatto naturale, di un terzo o della stessa vittima. Ma la condotta del danneggiato integra il fortuito soltanto quando è tale da sovrapporsi al modo di essere della cosa, degradandola a mera occasione del sinistro. Risulta insomma escluso che la buca nell’asfalto non possa essere prevista né prevenuta: anzi può essere rimossa o almeno segnalata.

Eccezione necessaria
Il custode deve ritenersi responsabile anche se la condotta della vittima è negligente, distratta, imperito o imprudente. La condotta colposa del danneggiato, tuttavia, non risulta indifferente nella liquidazione ad opera del giudice: può comunque ridurre il risarcimento o anche escluderlo per tutti i danni che l’attore avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza: nel secondo caso, però, serve un’eccezione ad hoc della controparte. La parola passa al giudice del rinvio.

 

di Debora Alberici

No accertamento con redditometro se il figlio guadagna e contribuisce alle spese

Accolto il ricorso del contribuente cui era stato notificato l’atto impositivo per la seconda casa e l’auto di lusso

Nullo l’accertamento con redditometro quando i figli guadagnano e contribuiscono alle spese della famiglia.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con l’ordinanza n. 692 del 12 gennaio 2022, ha accolto il ricorso di un contribuente cui era stato notificato l’atto impositivo per la seconda casa e l’auto di lusso.

In particolare l’uomo aveva subito chiesto l’annullamento della pretesa erariale dal momento che il figlio maggiore lavorava e contribuiva ai bisogni della famiglia; il piccolo era disabile e percepiva una indennità di accompagnamento.

Tutte circostanze, queste, irrilevanti per l’ufficio che aveva accertato una maggiore Irpef con metodo sintetico.

Inutile impugnare di fronte a Ctp e Ctr. I giudici di merito hanno infatti confermato l’atto impositivo.

Ora la Cassazione ha ribaltato il verdetto, accogliendo il secondo motivo del ricorso presentato dalla difesa.

Per i Supremi giudici, la commissione regionale a fronte del contenuto della prova contraria concessa al contribuente in caso di accertamento sintetico, la quale deve vertere sulla dimostrazione che il maggior reddito determinato o determinabile è costituito «in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta», attraverso la produzione di «idonea documentazione» attestante «l'entità» e «la durata» del possesso e il riferimento alla complessiva posizione reddituale dell'intero

nucleo familiare, costituito dai coniugi conviventi e dai figli, soprattutto minori, atteso che la presunzione del loro concorso alla produzione del reddito trova fondamento, ai fini dell' accertamento suddetto, nel vincolo che li lega, si è limitata a fare generico richiamo, sostanzialmente per relationem, alle verifiche operate dall’ufficio, a suo dire affatto esaminate dai giudici di prime cure, e vaghi accenni ai redditi della moglie e del solo figlio piccolo e alla percentuale di attribuzione della casa di abitazione, senza alcun accenno al possesso di redditi da risparmio e a quelli dell’intero nucleo familiare.

Ora la causa dovrà essere rivalutata dalla Ctr di Milano che dovrà tener conto delle indicazioni fornite in sede di legittimità. E quindi dovrà invalidare o ridurre l’accertamento a seconda di quanto il giovane ha contribuito all’acquisto e il mantenimento di auto e case.

 

di Vanessa Ranucci

Chi riconsegna l’immobile danneggiato risarcisce il costo delle riparazioni e il reddito perso per la ristrutturazione

Il locatore deve provare il maggior danno ma non di aver dovuto rinunciare a richieste di affitto

Nel caso in cui il conduttore di un immobile restituisca la cosa con danni, deve risarcire il proprietario pagando sia le riparazioni sia il corrispettivo dovuto per l’impossibilità di locare l’immobile per tutta la durata dei lavori. Inoltre, il proprietario deve provare il maggior danno ma non è tenuto a dimostrare di aver avuto e rinunciato a richieste di affitto durante il periodo della ristrutturazione. Così ha stabilito la terza sezione civile della Cassazione con l’ordinanza 9849/22.

La Corte d'appello aveva condannato un’inquilina a pagare, alla proprietaria dell’immobile, una somma di denaro a titolo di risarcimento dei danni per aver restituito l’immobile a lei locato ad uso abitativo in stato di degrado. Il totale della quantificazione era stato raggiunto sommando le spese affrontate per le necessarie riparazioni e quello riconosciuto a titolo di danno per mancato reddito percepito durante il periodo di esecuzione dei lavori.

La ricorrente, in sede di legittimità, ha lamentato che la Corte territoriale aveva ritenuto provato e liquidabile il danno da lucro cessante. Per il Palazzaccio il ricorso va respinto, ricordando che “qualora, in violazione dell’art. 1590 Cc, al momento della riconsegna l'immobile locato presenti danni eccedenti il degrado dovuto a normale uso dello stesso, incombe al conduttore l'obbligo di risarcire tali danni, consistenti non solo nel costo delle opere necessarie per la rimessione in pristino, ma anche nel canone altrimenti dovuto per tutto il periodo necessario per l'esecuzione e il completamento di tali lavori, senza che, a quest’ultimo riguardo, il locatore sia tenuto a provare anche di aver ricevuto - da parte di terzi - richieste per la locazione, non soddisfatte a causa dei lavori. Il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto, fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno.

Ogni qualvolta il locatore per fatto del conduttore non può disporre della cosa locata, Io stesso ha diritto a conseguire il corrispettivo convenuto, nonché eventuali danni, ulteriori, ove ne dimostri l'esistenza. Il locatore, in caso di anormale usura dell’immobile, ha diritto al risarcimento del danno consistente sia nella somma di denaro occorrente per l’esecuzione delle riparazioni imposte dai danni all'immobile provocati dal conduttore, sia nel mancato reddito ritraibile dalla cosa nel periodo di tempo necessario per l'esecuzione dei lavori di riparazione". Dunque, il risarcimento dovuto al locatore in conseguenza della mancata disponibilità del bene durante il periodo occorrente per il restauro non costituisce un danno in re ipsa. Il periodo di indisponibilità dell'immobile reso necessario dall'urgenza del restauro, è equiparato quoad effectum alla ritardata restituzione dell‘immobile, con la conseguenza che spetterà per tale periodo al proprietario il corrispettivo convenuto, ai sensi dell'art. 1591 Cc, salva la prova del maggior danno, che grava sul locatore.

  

L'esiguo valore della lite non legittima la compensazione delle spese

di Marina Crisafi

Né l’esiguo valore della lite, né tantomeno la contumacia del convenuto, possono legittimare la compensazione delle spese di causa. Lo afferma la Cassazione, con l’ordinanza n. 1724/2023 accogliendo il ricorso di una signora contro un comune.

 

di Debora Alberici

Rischia il carcere chi non dichiara la separazione dalla moglie per percepire un reddito di cittadinanza maggiore

Irrilevante che l’uomo fosse indigente. Ora sconterà un anno e mezzo di reclusione

La Cassazione dice stop ai furbetti. Rischia la reclusione chi non dichiara la separazione dalla moglie per intascare un reddito di cittadinanza maggiore rispetto a quanto gli spetterebbe. Di più: ai fini della condanna è irrilevante che l’uomo sia indigente.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 5440 dell’8 febbraio 2023, ha respinto il ricorso del cittadino.

L’uomo aveva dichiarato di coabitare con la ex e di averla quindi sullo stato di famiglia.

Con una decisione resa ora definitiva in sede di legittimità, dovrà scontare un anno e mezzo di reclusione.

Ad avviso della terza sezione penale, infatti, l'art. 7, comma 1, d.l. n 4 del 2019, prevede: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all'articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni».

Per il Collegio, questa disposizione deve ritenersi riferita non solo ai casi di dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, o di omissione di informazioni dovute finalizzati a conseguire il beneficio economico del reddito di cittadinanza, quando questo, non spetterebbe in alcuna misura, ma anche ai casi di dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, o di omissione di informazioni dovute finalizzati a conseguire il beneficio economico del reddito di cittadinanza per un importo maggiore di quello altrimenti spettante, come nel caso in esame.

Innanzitutto, infatti, beneficio «indebitamente» ottenuto è anche quello di importo maggiore di quello legittimamente spettante.

 

 

Annullato il bilancio condominiale incomprensibile anche se l’amministratore si è dimesso

Voci prive di documenti giustificativi: necessari registro di contabilità, riepilogo finanziario e nota esplicativa. Non conta l’entrata in carica del successore: possibile agire contro la delibera dannosa

Annullato. Non vale il bilancio del condominio che pure è stato approvato dall’assemblea: alcune voci sono prive di documenti giustificativi. E soprattutto mancano il riepilogo finanziario, la nota sintetica esplicativa e il registro di contabilità. Il che rende il consuntivo non intellegibile. E poco importa se il vecchio amministratore si è dimesso: il singolo condomino conserva l’interesse a impugnare la delibera illegittima da cui deriva un pregiudizio personale nella sfera patrimoniale, che è evidente in seguito al riparto delle spese fra ciascun proprietario esclusivo. È quanto emerge da una recente sentenza pubblicata dalla quarta sezione civile del tribunale di Napoli.

Accolta la domanda proposta dal condomino, anche se l’amministratore durante l’assemblea riconosce l’«errore materiale» nell’indicazione di un importo versato dal primo. Il punto è che nel consuntivo risultano voci prive di pezze d’appoggio pari a quasi 9.900 euro, mentre il bilancio mostra un disavanzo di oltre 3.100 euro, dei quali 2.400 imputati all’amministratore, che compie prelievi senza motivazione per oltre 3.600 euro con assegno a suo favore o circolari. Insomma: un caos gestionale. Non giova al condominio esclude che il bilancio sia incomprensibile sul rilievo che «in tal caso l’assemblea non l’avrebbe approvato».

Il via libera al rendiconto, in effetti, arriva all’unanimità dei presenti che rappresentano anche la maggioranza qualificata dei millesimi e numerica. Ma l’approvazione si spiega col fatto che risultano pagati i fornitori, peraltro pochi in un condominio di sole dieci unità immobiliari. E soprattutto con la circostanza che l’amministratore, messo alle strette, si dimette: è lo stesso ente di gestione ad ammettere le carenze della vecchia gestione nella sua comparsa di costituzione, tanto che la nomina del successore è scattata insieme alla rinuncia al mandato.

Il che, tuttavia, non fa venire meno l’interesse ad agire: il documento contabile approvato manca di elementi essenziali e la circostanza impedisce ai condomini di esprimere il proprio voto in modo consapevole perché non risulta completa l’informazione sulla reale situazione patrimoniale del condominio.

 

Carburanti, confermato l’obbligo di esposizione del prezzo medio. Sanzioni attenuate per le violazioni
Previste multe tra 200 e 2000 mila euro, tenendo anche conto del livello di fatturato

di Celestina Dominelli

Il governo apre a modifiche sulla benzina

Obbligo di esposizione del prezzo medio regionale confermato, con il correttivo per gli impianti autostradali (il calcolo sarà su base nazionale). E nuova app per gli automobilisti per la quale saranno stanziati, già quest’anno, fondi per 500mila euro e 100mila a partire dal 2024 per il supporto tecnico. E ancora, sanzioni attenuate per eventuali violazioni (che scatteranno alla quarta trasgressione) e poteri rafforzati per Mister Prezzi (con uno stanziamento ad hoc di 1,5 milioni da qui al 2025).

Sono questi i contenuti dell’emendamento, anticipati dal Sole 24 Ore di venerdì 3 febbraio, che il governo si accinge a presentare al decreto carburanti, dopo che la scorsa settimana stati depositati i correttivi proposti dai gruppi (una novantina). Il provvedimento è all’esame, in prima lettura, della commissione Attività produttive della Camera.

Tornando all’emendamento del governo, è stato quindi mantenuto l’obbligo di esposizione del prezzo medio calcolato su base regionale per le stazioni collocate sulla rete ordinaria, mentre per gli impianti autostradali la media sarebbe calcolata su base nazionale. Per garantire il tempestivo adeguamento delle informazioni di prezzo a vantaggio dei consumatori, viene poi introdotto un obbligo di comunicazione settimanale e infrasettimanale al variare, in aumento e in diminuzione, del prezzo comunicato.

Accanto al nuovo obbligo, che quindi non verrà abrogato, come chiedono invece a gran voce i sindacati dei gestori delle pompe di benzina, viene introdotta un’app pubblica gratuita a disposizione degli utenti per visualizzare prezzi medi e tariffe praticate. Una novità che, come si ricorderà, era già stata anticipata dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, al tavolo tecnico con le sigle del comparto (che tornerà a riunirsi il prossimo 8 febbraio).

L’altra novità riguarda le sanzioni: la strada scelta dal governo è quella di limitarle ai soli casi di strutturale omessa comunicazione settimanale o di reiterata mancata comunicazione di ogni variazione dei prezzi. In sostanza, la sospensione da 1 a 30 giorni (e non più da 7 a 90 come nel decreto licenziato da Palazzo Chigi) potrà essere inflitta solo dopo 4 mancate comunicazioni nell’arco di 60 giorni (e non dopo la terza violazione), ipotizzando la conferma settimanale dopo 4 settimane anche non consecutive. Inoltre è stato corretto l’importo delle sanzioni: comprese tra 500 e 6mila euro nel decreto di partenza e ora fissate tra 200 e 2000 mila euro, tenendo anche conto del livello di fatturato. Infine, la sanzione viene comminata solo per il giorno in cui si è consumata la violazione.

0Sul fronte di Mister Prezzi, il governo ha poi ampliato il perimetro delle funzioni, con l’introduzione di un monitoraggio ad hoc sull’andamento dei prezzi della filiera. Nuovi compiti, dunque, per i quali, come detto, sono stati stanziati nuovi fondi: 1,5 milioni da qui al 2025.

 

di Dario Ferrara

Con PagoPa il contributo unificato davanti al gdp

Introdotto dalla riforma del processo civile, l’obbligo di utilizzare la piattaforma tecnologica vale in tutti i procedimenti dinanzi al giudice ordinario. La risposta di Via Arenula nel canale Filodiretto

È ufficiale: dal primo gennaio scorso il versamento del contributo unificato deve avvenire con PagoPa anche nelle cause davanti al giudice di pace. Così va interpretato l’articolo 13 del decreto legislativo 149/22, il provvedimento che attua la riforma del processo civile e ha modificato l’articolo 192 del testo unico sulle spese di giustizia (cfr. la nota in allegato).

A chiarirlo è lo stesso dicastero di via Arenula, con la risposta fornita al presidente del tribunale di Caltagirone al quesito posto su Filodiretto, il canale di comunicazione immediata introdotto dal guardasigilli Carlo Nordio: agli uffici giudiziari basta una mail per ottenere la soluzione dal dipartimento degli affari di giustizia.

Questione di plesso
Il decreto delegato della legge 206/21 stabilisce che nei procedimenti davanti al giudice ordinario e a quello tributario il tributo si assolve attraverso la piattaforma tecnologica di cui all’articolo 5, secondo comma, del codice dell’amministrazione digitale. E per le cause dinanzi al primo giudice l’obbligo è scattato all’inizio del 2023.

Il versamento non effettuato secondo la disposizione che indica il canale PagoPa non libera la parte dagli obblighi: l’istanza di rimborso deve essere proposta entro trenta giorni a pena di decadenza. Il quesito arriva dal presidente del tribunale siciliano in qualità di dirigente del locale ufficio gdp. E se è vero che davanti al giudice di pace non è stato ancora attivato il processo telematico (salvo eccezioni), gli uffici risultano già abilitati all’utilizzo della piattaforma PagoPa e «quindi sarebbero pronti a passare dalla modalità facoltativa a quella obbligatoria», a patto che la norma risulti applicabile dal primo gennaio scorso anche ai gdp.

E in effetti così è - spiega il dipartimento per gli affari di giustizia - perché la disposizione fa riferimento «al giudice ordinario» e gli uffici del giudice di pace fanno parte «del plesso della giurisdizione ordinaria». Il dirigente dell’ufficio può dunque contattare la direzione generale per i servizi informativi di Via Arenula per le questioni che riguardano il controllo e l’accettazione della ricevuta telematica di pagamento del contributo unificato, così come per quelle di carattere tecnico-informativo per la gestione telematica dei procedimenti iscritti presso il gdp.

Sei macroaree
Vista la novità, il presidente della Corte d’appello diffonde la nota di via Arenula agli uffici del giudice di pace del distretto. Filodiretto è un progetto lanciato in via sperimentale in Friuli-Venezia Giulia e Sicilia: fornisce agli uffici giudiziari risposte su temi come contributo unificato, diritto di copia e di certificazione, corpi di reato e destinazione dei beni sequestrati e confiscati, fondo unico giustizia, Equitalia giustizia e foglio delle notizie.

 

La Cassazione: sotto accusa qualsiasi condotta che concretizzi una indebita ingerenza od interferenza, immediata o mediata nella vita privata e di relazione della vittima

di Pietro Alessio Palumbo

Apostrofare ripetutamente un compagno di scuola con epiteti a sfondo sessuale può costare un grave reato. Nella vicenda affrontata dalla Corte di Cassazione con la sentenza 2862 del 24 gennaio la ragazza coinvolta aveva dichiarato che diverse volte alcuni compagni le avevano dato schiaffi sul sedere, l'avevano spinta facendole versi e gesti di natura sessuale, l'avevano palpeggiata provocandole pesanti crisi isteriche.

 

Medico di famiglia: obbligato a visitare a domicilio?
L'obbligo sussiste solo in caso di urgenza o non trasferibilità valutati dal medico caso per caso? Facciamo chiarezza

Il medico di base è il primo ed essenziale riferimento quando si tratta di numerose attività legate alla sanità, ad esempio per la richiesta di analisi, per la redazione ricette e certificati, per consigliare visite specialistiche o per prescrivere farmaci. In sostanza, rappresenta un indispensabile collegamento tra il cittadino e il Servizio Sanitario Nazionale.
Se di norma l'attività del medico di base si svolge presso un ambulatorio, è legittima la richiesta di una visita domiciliare, ma ciò solo in caso l'ammalato versi in condizioni di "non trasferibilità" oppure se il suo stato di salute gli impedisca di recarsi presso lo studio.

L'argomento della visita domiciliare è alquanto dibattuto. In materia, ossia sulla disciplina del medico di base, non esistono apposite leggi e la fonte da tenere in considerazione è rappresentata dagli accordi collettivi nazionali sottoscritti dalle rappresentanze sindacali dei medici.

A norma dell'Accordo Collettivo Nazionale dei medici di base, lo studio del medico di famiglia deve essere aperto 5 giorni a settimana, preferibilmente dal lunedì al venerdì, e garantire l'apertura per almeno due fasce giornaliere (pomeridiane o mattutine) a settimana e comunque con apertura il lunedì.
L'orario di apertura deve essere congruo, definito anche in base alle necessità dei pazienti iscritti nel suo elenco, idoneo a garantire una prestazione medica corretta, efficace e funzionale alla migliore assistenza dei pazienti. Il medico è comunque obbligato a un orario di:
5 ore settimanali fino a 500 assistiti;
10 ore settimanali da 500 a 1000 assistiti;
15 ore settimanali da 1000 e 1500 assistiti.
Si rammenta che l'orario di lavoro in ambulatorio non corrisponde alla durata dell'attività, poiché tutti i pazienti che accedono all'ambulatorio entro l'orario stabilito devono essere visitati anche oltre l'orario minimo.

Se, di norma, il medico svolge la propria attività in ambulatorio, non può rifiutarsi di compiere visite a domicilio, ma si tratta di casi di eccezionalità giustificati dall'intrasferibilità dell'ammalato e da elementi di evidente immobilità.

Le visite domiciliari vanno svolte in giornata se sono state richieste entro le 10:00 di mattina, oppure, se richieste oltre quest'orario, entro le 12:00 del giorno successivo. Poiché, normalmente, il medico non è tenuto a svolgere attività ambulatoriale il sabato, egli sarà comunque tenuto a eseguire le visite a domicilio richieste il giorno precedente o entro le 10:00 del giorno stesso. Al medico è lasciata ampia discrezionalità quanto alle modalità di organizzazione delle visite a domicilio.

Le visite domiciliari sono gratuite nei casi di urgenza e intrasferibilità del paziente. Tuttavia, laddove l'ammalato chieda di essere visitato a casa nonostante le sue condizioni non siano talmente gravi da impedirgli di muoversi, il medico è legittimato a chiedere un compenso per la prestazione.

Un assunto ribadito dalla Corte di Cassazione secondo cui la visita a domicilio non indispensabile presenta i caratteri di una visita privata che il medico può effettuare come libero professionista chiedendo un pagamento. Sono sempre a pagamento, invece, le visite ambulatoriali (15 euro) o domiciliari (25 euro) laddove ci si rivolga a un diverso medico di base.
Rifiuto di visita a domicilio
Se il paziente versa in condizioni di salute che richiedono un intervento urgente, il medico dovrà svolgere la visita a domicilio entro il più breve tempo possibile. Tuttavia, a valutare "l'urgenza", così come anche l'intrasferibilità del paziente, è il medico stesso sulla base della sintomatologia che gli viene descritta e di tale valutazione ne risponde personalmente.
Infatti, il problema è che la legge resta sul vago senza non definire cosa debba intendersi per "non trasferibilità", rendendo necessaria un'analisi particolare, caso per caso, correlata anche a fattori come l'età o le condizioni di salute generale del paziente.
Tuttavia, una valutazione scorretta sulle condizioni di gravità e improrogabilità della visita domiciliare, che determini il rifiuto della visita a domicilio, può costare al medico non solo sanzioni disciplinari, ma anche una denuncia penale, precisamente quella del "rifiuto di atti ufficio".

Basta il semplice rifiuto a far scattare il reato, indipendentemente dalle eventuali conseguenze patite dal paziente e anche se questi è ricoverato presso una struttura di cura privata. Infatti, come rammentato dalla Corte di Cassazione, nella sentenza n. 21631/17, "il reato di rifiuto di atti di ufficio è un reato di pericolo, onde la violazione dell'interesse tutelato dalla norma incriminatrice al corretto svolgimento della funzione pubblica ricorre ogniqualvolta venga denegato un atto non ritardabile alla luce delle esigenze prese in considerazione e protette dall'ordinamento, prescindendosi dal concreto esito della omissione e finanche dalla circostanza che il paziente non abbia corso alcun pericolo concreto per effetto della condotta omissiva" (cfr. Cass. n. 21631/2017). Sempre la Suprema Corte, ha confermato la condanna nei confronti di una madre per calunnia nei confronti del pediatra di base, denunciato per omissione di soccorso per non aver visitato in sede domiciliare la figlia minore affetta da stato febbrile, pur nella sicura consapevolezza dell'innocenza del medico (Cass. n. 48844/2022).

 

Insegnante responsabile per autolesioni dell’alunno
Nell’ambito del suo dovere di protezione e sorveglianza il docente deve evitare anche che il bambino si procuri un danno «da solo»

In tema di danno cagionato dall’alunno a se stesso la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non ha natura generica ma «da contratto», atteso che l’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’alunno a scuola, determina l’instaurazione di un vero e proprio “patto” dal quale sorge a carico dell’istituto d'istruzione l’obbligo di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità del minore per tutto il tempo in cui fruisce della prestazione scolastica.

 

Ritardo nella diagnosi di una malattia dall’esito infausto: lesione del diritto di autodeterminarsi
di Muia' Pier Paolo, responsabilità e risarcimento, responsabilità medica

Nel caso di specie, secondo i giudici di legittimità, il diritto di autodeterminazione, in base al quale la paziente avrebbe potuto scegliere liberamente quale percorso intraprendere una volta edotta della sua malattia, è risarcibile in quanto si tratta di un diritto costituzionalmente protetto.

La Corte di cassazione, con la sentenza in commento, si è pronunciata avverso un ricorso presentato dagli eredi di parte attrice, morta in corso di causa, i quali avevano impugnato la pronuncia della Corte d’Appello di Firenze che aveva rigettato la richiesta di risarcimento dei danni asseritamente subiti dalla attrice per un evento di malpractice medica.

All’origine, parte attrice aveva adito il Tribunale di Lucca deducendo che il medico, cui si era recata per un’affezione cutanea presente sull’alluce sinistro, non aveva accertato tempestivamente la reale natura dell’affezione che presentava, la quale, dopo aver effettuato dopo un anno dal primo incontro degli esami più approfonditi, si era rivelata essere un melanoma maligno.

Il medico dermatologo si era costituito in giudizio chiedendo il rigetto delle domande di parte attrice. Egli sosteneva che era stata la paziente a rifiutarsi di sottoporsi a più approfonditi accertamenti nel corso delle cure.

Come suddetto, la paziente, parte attrice nel giudizio di primo grado, moriva in corso di causa; si costituivano così in giudizio, in qualità di eredi, i suoi figli i quali proponevano appello avverso la sentenza del Tribunale di Lucca che aveva respinto la domanda attorea in quanto dalla C.T.U. non era emersa alcuna negligenza del medico e neppure era stato accertato il nesso causale tra il melanoma e la morte della paziente.

La Corte territoriale, adita dagli eredi della paziente, respingeva l’appello sulla base di due motivi: in primo luogo, riteneva che gli eredi potevano agire solo iure successionis, poiché aventi causa della madre (invece “per chiedere iure proprio i danni cagionati dalla morte della madre avrebbero dovuto iniziare una nuova diversa causa”); in secondo luogo, riteneva che l’attrice, ossia la paziente, avrebbe dovuto dimostrare che i danni patiti e la successiva morte fossero collegati all’imperizia e negligenza del medico (onere della prova che, la Corte riteneva tuttavia non essere stato assolto).

A seguito del ricorso promosso dagli eredi della paziente, dunque, la questione giungeva dinnanzi alla Corte Suprema, la quale accoglieva il terzo motivo di ricorso con il quale veniva denunziato che la Corte territoriale aveva errato nel ritenere non allegato e non provato il danno che la paziente deceduta aveva sofferto. In particolare, la Corte di legittimità cassava la sentenza della Corte d’Appello e rinviava alla stessa, in diversa composizione, la causa in attesa di nuova pronuncia.

La Corte d’Appello di Firenze, presso cui veniva riassunta la causa, pronunciava nuova sentenza con la quale respingeva ancora una volta le domande risarcitorie iure ereditatis degli eredi della paziente in quanto, nuovamente, riteneva non provato il nesso causale tra la presunta condotta colposa del medico e il decesso della donna. In particolare, i giudici della Corte territoriale affermavano che una corretta e tempestiva diagnosi nel corso della prima visita non avrebbe comportato un esito differente della vicenda, in quanto il tumore si presentava già “ad uno stadio tale da poterle generare”.

Non soddisfatta neanche da questa pronuncia, parte ricorrente presentava ancora ricorso dinnanzi alla Cassazione, denunziando quattro motivi

Il primo motivo di ricorso, con il quale parte ricorrente sosteneva che la Corte territoriale non avesse osservato le risultanze della C.T.U., è stato rigettato dalla Corte di Cassazione, che ha richiamato a tal fine un precedente orientamento (Cass. Sez. I, n.5148/2011; Cass Sez. I, n. 988/2021) secondo il quale il giudice può legittimamente disattendere le conclusioni rese dal consulente d’ufficio avvalendosi di una valutazione critica ancorata a risultanze processuali e validi motivi. Secondo gli Ermellini, la decisone della Corte d’Appello non contrastava infatti con detti principi giurisprudenziali, fondando, perdi più, la sua decisone a dati scientifici acquisiti in corso di causa.

Con il secondo motivo di ricorso, veniva lamentato che la Corte territoriale si era ispirato al criterio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, piuttosto che al criterio del “più probabile che non” nel giudizio di accertamento del nesso di causalità tra i danni sofferti e la morte della paziente. Anche tale motivo è stato rigettato dalla Suprema Corte: secondo gli Ermellini, infatti, se è pur vero che nel processo civile, a differenza di quello penale, vige la regola del “più probabile che non”, tuttavia, nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva correttamente escluso il nesso di causalità proprio sulla base di un giudizio di verosimiglianza e non di certezza assoluta (infatti, non vi era la certezza assoluta che una tempestiva e precoce diagnosi della malattia avrebbe permesso di evitare il danno).

Con il terzo motivo di ricorso, veniva lamentato che la Corte territoriale si era pronunciata solo su una parte delle domande avanzate dal ricorrente in quanto veniva tralasciata la domanda “sui gravi danni patrimoniali anche connessi al decesso e non solo quelli conseguenti a detto evento finale”, mentre con il quarto motivo parte ricorrente denunziava che la Corte territoriale non aveva osservato i precedenti e costanti orientamenti della Corte di legittimità, non considerando che “il ritardo nella diagnosi avrebbe determinato di per sé una lesione del diritto di autodeterminarsi”.

I giudici di legittimità hanno accolto i due suddetti motivi di ricorso (esaminati congiuntamente), in quanto hanno ritenuto che la Corte d’Appello aveva omesso di considerare il seguente fatto: ossia il paziente, anche a seguito di una diagnosi di una malattia ad esito infausto, deve essere messo in una condizione tale da poter scegliere, nell’ambito dei suggerimenti della scienza medica, come “fruire della salute residua fino all’esito infausto e di programmare il suo essere persona in vista di quell’esito”.

Alla base di tale affermazione, si trova il c.d. principio di autodeterminazione, in virtù del quale nessun trattamento sanitario può essere compiuto in difetto del previo ed esplicito consenso del soggetto interessato. Quest’ultimo, infatti, è libero di scegliere in che modo “far fronte” alla malattia, anche in virtù di quanto disposto dall’art. 32 della Costituzione (“Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge“). Il consenso del paziente, che deve essere libero e consapevole (c.d. consenso informato), è ritenuto espressione dei diritti inviolabili della persona alla salute e ad autodeterminarsi. Il paziente deve trovarsi in una condizione tale da esprimere una scelta che sia frutto di una volontà consapevole e informata (ex art. 33 L. 833/1978).

Conclusioni
Secondo i giudici di legittimità, il diritto di autodeterminazione, in base al quale la paziente avrebbe potuto scegliere liberamente quale percorso intraprendere una volta edotta della sua malattia, è risarcibile in quanto si tratta di un diritto costituzionalmente protetto.

Sul punto, gli ermellini sono concordi nel ritenere che la condotta del medico non ha causato la morte della paziente, con conseguente esclusione dei danni non patrimoniali per lesione del diritto alla salute e/o alla vita, ma affermano, a differenza della Corte territoriale, che la condotta del medico ha comportato un peggioramento del periodo rimanente della paziente determinando, conseguentemente, la risarcibilità per lesione del diritto di autodeterminarsi. Infatti, l’omissione da parte del personale sanitario della diagnosi di una malattia terminale integra l’esistenza di un danno risarcibile poiché non permette al paziente di poter scegliere “cosa fare”: ciò nel senso che il paziente deve essere messo in una condizione tal da poter programmare il corso della vita in vista di quell’esito determinato dalla malattia terminale.

Per i motivi suddetti, la Corte suprema ha dunque rinviato nuovamente la causa alla Corte d’Appello fiorentina, che sarà chiamata ad applicare tale principio: i giudici fiorentini dovranno cioè valutare se gli eventuali colpevoli ritardi del medico nella diagnosi di patologie dall’esito infausto hanno determinano il danno per la perdita di un ventaglio di opzioni con le quali la paziente avrebbe potuto decidere come affrontare la fine della sua vita.

 

di Dario Ferrara

Non è reato coltivare cannabis in casa a uso terapeutico

Il fatto non sussiste: personale l’utilizzo del raccolto, rudimentale la gestione delle due piantine sulla finestra, nessun intento criminale. Pesa la consulenza di parte: la marijuana fa bene agli occhi

«Il fatto non sussiste». È assolto l’uomo che in casa coltiva cannabis a scopi terapeutici: le due piantine sul balcone, infatti, costituiscono una mera attività domestica, fruttano un modesto quantitativo di sostanza né risulta utilizzato alcun espediente per accrescere il prodotto. Pesa la consulenza tecnica di parte: la marijuana fa bene contro l’uveite cronica, l’infiammazione alla retina, di cui soffre l’ex imputato. Lo stabilisce la Cassazione con la sentenza 2388/22, pubblicata il 20 gennaio dalla sesta sezione penale.

Peso al peso
È annullata senza rinvio la pronuncia del gup che dichiarava l’imputato non punibile per particolare tenuità del fatto, mentre il sostituto procuratore generale concludeva per il rigetto. E non c’è dubbio che il prevenuto possa impugnare anche se dal provvedimento non può patire alcun danno sul piano civile o amministrativo, ma vuole solo cancellare l’iscrizione dal casellario giudiziale. Le due piante incriminate sono alte 170 e 130 centimetri con un diametro, rispettivamente, di 85 e 66; trova ingresso la censura secondo cui non si tratta di una coltivazione tecnico-agraria: è rivolta soltanto all’uso personale e risulta del tutto priva del requisito di tipicità della condotta. Sbaglia dunque il gup a ritenere integrato il reato, pur dichiarandolo non punibile per la particolare tenuità ex articolo 131 bis Cp. E ciò perché dà troppo peso al peso, nel senso del dato ponderale della sostanza, perché dalle piante si possono ricavare duecentoventi dosi medie singole: non sussiste infatti alcun elemento in grado di collegare l’imputato al mercato illegale.

Effetti positivi
La coltivazione è realizzata con tecniche rudimentali e produce un modesto quantitativo di principio attivo. I due vasi, peraltro, sono collocati sul balcone dell’appartamento, che sta di fronte alla stazione dei carabinieri del paese siciliano, e risultano ben visibili dai militari. Non c’è dunque una serra illuminata o qualche altro accorgimento per incrementare la resa. Insomma: l’imputato non risulta legato alla criminalità. E il consulente tecnico di parte conferma che la cannabis ha positivi effetti neuroprotettivi e antinfiammatori sulla retina: una mano santa contro l’uveite cronica che affligge l’uomo.

 

di Laura Cecchini

Azione possessoria a tutela del pari utilizzo di una parte comune

Il lastrico solare è una parte comune del Condominio, come espressamente indicato all'art. 1117, comma I, n.1) c.c., ricorrente oggetto di contenzioso per più e diversi fattori correlati alla sua funzione e destinazione e, anche, in relazione alle modalità ed ai limiti per il suo utilizzo.

Nella ordinanza in esame, emanata dalla Corte di Cassazione (n.35946/2021), la lite investe la limitazione di uso del lastrico solare, destinato a lavatoio/stenditoio, o meglio, la contestata ridotta fruizione dello stesso a seguito della installazione di un impianto di condizionamento d'aria da parte di un condomino.

Azione possessoria a tutela del pari utilizzo di una parte comune: la vicenda
La causa trae origine dalla domanda giudiziale promossa da alcuni proprietari e condomini innanzi al Tribunale per vedersi reintegrati nel compossesso del lastrico solare a causa del compromesso godimento delle vasche adibite a lavatoio e dei fili per stendere i panni, per l'avvenuta apposizione, di un'unità esterna di impianto di condizionamento a servizio esclusivo dell'immobile di altro condomino.

A sostegno della pretesa avanzata, i ricorrenti hanno rappresentato che le emissioni ed i flussi di aria calda provenienti dall'impianto pregiudicavano l'impiego del terrazzo comune per le finalità a cui era destinato e, per tale motivo, ne chiedevano la rimozione.

Costituitosi in giudizio il condomino ha eccepito l'avvenuta decadenza dall'azione possessoria nonché deduceva l'assenza di impedimento nel diritto al pari uso degli altri.

La responsabilità penale dell’amministratore di condominio

L'azione possessoria veniva accolta. Promossa impugnazione avverso la sentenza di primo grado i Giudici di seconde cure rigettavano il gravame confermando la pronuncia emanata dal Tribunale.

Ravvisando la falsa applicazione delle disposizioni di legge in materia, l'omesso esame di fatti decisivi per il giudizio e l'illogicità e contraddittorietà della motivazione, la vertenza veniva portata alla attenzione dei Giudici di Piazza Cavour, i quali hanno respinto il ricorso.

È proprio il caso di dire "non c'è due senza tre".

Sottotetto di proprietà esclusiva, montare le antenne televisive sul tetto, servitù di passaggio

Azione possessoria e termine di decadenza
Nella fattispecie in esame, occorre preliminarmente esaminare la censura sollevata in merito all' intervenuto decorso del termine di un anno per la proposizione della azione possessoria.

A tal riguardo, è appropriato ricordare che, ai sensi dell'art. 1168, comma I, c.c. «Chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l'anno dal sofferto spoglio, chiedere contro l'autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo».

Sul punto la disamina della Corte è chiara nel soffermarsi sulla bontà delle argomentazioni esposte dai Giudici d'Appello per cui il solo fatto di aprire un foro sul lastrico solare non realizzava un evento rilevante ai fini della percettibilità della lesione possessoria in quanto non si poteva realisticamente ipotizzare dove e se sarebbe stato posto il motore dell'impianto e le conseguenze che ne sarebbero derivate.

Per tale motivo, assumere l'avvenuta decadenza dall'azione perché avanzata dopo oltre un anno dalla esecuzione del suddetto foro è palesemente fuorviante.

Invero, anche se dalla apertura del foro era trascorso più di un anno, considerato che lo stesso era stato chiuso e poi riaperto successivamente in occasione del posizionamento dei tubi e dell'impianto, solo da quest'ultimo accadimento, da considerarsi autonomo, poteva ragionevolmente decorrere il termine previsto per Legge.

In proposito, non può dubitarsi che, solo al momento della installazione dell'impianto sul lastrico solare ed alla sua messa in funzione, i condomini possono aver ritenuto configurato un pregiudizio nell'utilizzo di detta parte comune.

In particolare, richiamando l'indirizzo costante e consolidato sul tema (ex pluribus multis Cassazione civile sez. II, 14/06/2019, n.16053), appare utile ed opportuno ricordare che «Nel caso di spoglio o turbativa posti in essere con una pluralità di atti, il termine utile per l'esperimento dell'azione possessoria decorre dal primo di essi soltanto se quelli successivi, essendo strettamente collegati e connessi, devono ritenersi prosecuzione della stessa attività; altrimenti, quando ogni atto - presentando caratteristiche sue proprie - si presta ad essere considerato isolatamente, il termine decorre dall'ultimo atto».

Sono, dunque, prive di fondamento le doglianze del ricorrente, in quanto l'azione è stata esperita nel termine di un anno dall'ultimo atto, rappresentato dalla collocazione dell'impianto sul lastrico ovvero dall'evento che ha posto i condomini nella condizione di percepire e valutare le conseguenze che ne sarebbero derivate sull'esercizio dei loro diritti.

Le azioni a difesa del possesso: azione di reintegrazione e azione di manutenzione

Pari uso della cosa comune

Il principio del pari uso della cosa comune, dirimente nella trattazione della questione in esame, è codificato all'art. 1102 c.c. secondo cui «Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.

A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa».

Il dettato normativo è limpido nello stabilire che ciascun condomino può utilizzare le parti comuni purché (i) non ne alteri la destinazione e (ii) non impedisca agli altri di farne pari uso.

È bene osservare come la citata disposizione non richieda, per l'accertamento della sua violazione, la contestualità delle due condotte indicate, in quanto la stessa si verificherà anche con il concorso di una sola delle due fattispecie previste.

Sotto tale profilo, in aderenza alla funzione nomofilattica propria, la Giurisprudenza di Legittimità ha rilevato come occorra attendere ad una valutazione della situazione concreta per constatare se, a fronte di una determinata condotta, possa sussistere e realizzarsi una limitazione nella facoltà di fruizione ovvero dell'esercizio del pari diritto di tutti gli altri condomini.

Sulla questione, è risolutiva l'interpretazione offerta dalla Suprema Corte, secondo cui «se e in che misura l'uso diretto e più intenso della cosa comune da parte di un condomino sia legittimo o venga ad alterare il rapporto di equilibrio tra partecipanti e perciò sia da ritenere non consentito a norma dell'art. 1102 c.c., occorre avere riguardo all'uso potenziale in relazione ai diritti di ciascuno dei partecipanti al condominio, proporzionalmente alla quota di ognuno di partecipazione alla cosa comune» (Cass. 23 giugno 2014 n. 14245).

Nella presente vicenda l'azione possessoria avanzata nei confronti del condomino è stata giustificata dalla installazione di un impianto che, di fatto, ha causato una turbativa del compossesso degli altri comproprietari, precludendo il godimento conformemente alle precedenti modalità di utilizzo, come rilevato dalla Corte d'Appello nella propria motivazione.

 

 

 

Quali animali sono ammessi in un condominio?

Di norma, salvo divieto approvato all'unanimità da tutti i condomini, si ritiene che possano essere detenuti cani e gatti, pesci, uccelli da gabbia, tartarughe, criceti, conigli, furetti, scoiattoli, piccole tartarughe, cincillà e porcellini d'India. Tuttavia è sempre meglio verificare cosa prevede il Regolamento Condominiale ed eventualmente chiedere chiarimenti all'Amministratore.

Qualora non vi sia un divieto espresso si ritiene consentita la detenzione di tutti gli animali non vietati dalla legge e che non creino un pericolo per la salute e l'incolumità.

 

di Debora Alberici

La condanna per ricavi in nero scatta dall’elenco dei fornitori

Utilizzabile nel processo penale l’accertamento induttivo fatto in sede amministrativa

La condanna per ricavi in nero può scattare anche dall’accertamento fatto sulle banche dati fiscali, in questo caso dall’elenco dei fornitori.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con la sentenza 2515 del 24 gennaio 2022, ha respinto il ricorso di un imprenditore.

La terza sezione penale ha motivato la sua decisione spiegando che in tema di reati tributari, ai fini del superamento della soglia di punibilità di cui all'art. 5 del D.lgs. n. 74 del 2000, il giudice può legittimamente avvalersi dell'accertamento induttivo dell'imponibile compiuto dagli uffici finanziari.

Infatti, in tema di reati tributari, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice può fare legittimamente ricorso ai verbali di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, nonché ricorrere all'accertamento induttivo dell'imponibile quando le scritture contabili imposte dalla legge siano state irregolarmente tenute e, dall'altro, che il giudice può legittimamente fondare il proprio convincimento, in tema di responsabilità dell'imputato per omessa annotazione di ricavi, sia

sull'informativa della Guardia di finanza che abbia fatto riferimento a percentuali di ricarico attraverso una indagine sui dati mercato, che sull'accertamento induttivo dell'imponibile operato dall’ufficio finanziario quando la contabilità imposta dalla legge non sia stata tenuta regolarmente. Ciò a condizione che il giudice non si limiti a constatarne l'esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in esso evidenziati, ma proceda a specifica, autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti aliunde.

Nel caso sottoposto all’esame della Corte l’accertamento induttivo era valido anche ai fini penali in quanto si fondava sulle banche dati fiscali, in particolare l’elenco dei fornitori.

 

di Vanessa Ranucci

Diffamazione aggravata per chi posta frasi offensive sui social network anche senza far nomi

Respinto il ricorso di un giovane che su Facebook ha inveito contro l'Arma: basta il riferimento a un ampio novero di persone che appartengono a una determinata categoria

Scatta la diffamazione aggravata per chi posta sui social network frasi offensive anche senza indicazioni nominative. Lo ha stabilito oggi la sesta sezione penale della Cassazione che, con la sentenza 2598/22, ha respinto il ricorso di un giovane che su Facebook ha inveito contro il personale militare che lo aveva fermato poco prima: basta il riferimento a un ampio novero di persone che appartengono a una determinata categoria.

All’imputato era stato contestato di aver espresso frasi minacciose nei confronti dei Carabinieri che lo avevano sorpreso a orinare in una via pubblica e per aver, poi, pubblicato sul social network Facebook un post dal contenuto diffamatorio, sempre rivolto al personale militare che lo aveva condotto in caserma e identificato.

Il ricorrente è ricorso in sede di legittimità contestando il provvedimento in cui il giudice ha rilevato una condotta diffamatoria aggravata in quanto, a suo avviso, nelle espressioni virtuali usate non c'è stato nessun riferimento ai destinatari né la possibilità di dedurne l’identità. Insomma, le frasi diffamanti erano riferite ai carabinieri in genere e non a specifici componenti dell'arma.

Per i giudici di Piazza Cavour il motivo è infondato perché “non osta all'integrazione del reato di diffamazione l'assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione e lesa, se lo stesso sia ugualmente individuabile sia pure da parte di un numero limitato di persone. L'individuazione del soggetto passivo deve avvenire attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e portata dell'offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili, i quali devono, unitamente agli altri elementi che la vicenda offre, essere valutati complessivamente, così che possa desumersi, con ragionevole certezza, l'inequivoca individuazione dell'offeso, sia in via processuale che come fatto preprocessuale, cioè come piena e immediata consapevolezza dell'identità del destinatario che

abbia avuto chiunque sia entrato in contatto con la propalazione diffamatoria. Al verificarsi di tali presupposti, dunque, dovrà ritenersi configurabile il reato in esame anche quando l'espressione lesiva dell'altrui reputazione risulti apparentemente riferita, in assenza di indicazioni nominative, a un ampio novero di persone, identificato in ragione della appartenenza a un gruppo o una determinata categoria: ciò potrà verificarsi laddove, per le concrete dinamiche in fatto, la propalazione offensiva finisca per riguardare singole individualità ricomprese all'interno di tale più ampio novero di soggetti che siano (e possano sentirsi) concretamente e coerentemente individuabili come destinatarie di detta espressione”.

 

RIMBORSO SPESE LEGALI A CHI È INNOCENTE: COME FUNZIONA
Come funziona il rimborso delle spese legali agli assolti con formula piena da parte dello Stato, introdotto dalla legge di bilancio 2021

 

 

Rapina con la mascherina è un’aggravante, ladro si difende: “Ma è obbligatoria…”

Il reato di rapina è aggravato se compiuto indossando la mascherina: così ha stabilito la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso di un uomo. Il ladro infatti era condannato in primo e secondo grado per rapina con l’applicazione dell’aggravante relativa al travisamento del volto. Reato compiuto mentre indossava la mascherina, resa obbligatoria dalle norme anti-Covid.

Rapina con mascherina, il ladro si difende
Il rapinatore – come riporta l’Adnkronos consultando il massimario della Fondazione Gazzetta Amministrativa della Repubblica italiana – si era rivolto alla Suprema Corte. Facendo leva sul fatto che in periodo di emergenza Covid non avrebbe potuto compiere la rapina senza la mascherina, essendo quest’ultima imposta per legge. In pratica, secondo l’autore del reato, si sarebbe trattato di un comportamento obbligatorio previsto dalla normativa vigente. Quindi non avrebbe potuto costituire un’aggravante al delitto di rapina.

La II sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 1712 depositata il 17 gennaio 2022, ha ritenuto però infondato il ricorso in quanto il camuffamento del volto per aver indossato la mascherina è comunque collegato alla commissione del delitto e utile a rendere difficoltoso il riconoscimento dell’autore del fatto. Per la Suprema Corte, inoltre, è corretta l’applicazione dell’aggravante dal momento che il nesso di “occasionalità necessaria” della rapina effettuata indossando la mascherina esclude la possibilità di ritenere quest’ultima condotta alla stregua di mero adempimento del dovere.

di Maria Crisafi

Il Tar Lazio accoglie il ricorso del Comitato Cura Domiciliare Covid-19 e annulla la circolare del ministero della Salute. Avvocato Grimaldi: "La sentenza pone fine alla follia sanitaria della vigile attesa"

 Tachipirina e vigile attesa, il contenuto delle linee guida del ministero della salute ormai dopo due anni di pandemia è noto a chiunque. Ma oggi questo contenuto viene bocciato dai giudici del Tar Lazio (con la sentenza n. 419/2022 sotto allegata) secondo i quali, non solo è in contrasto con l'agire in "scienza e coscienza" di ogni medico ma ha "impedito" di fatto l'utilizzo di terapie idonee ed efficaci per contrastare il Covid-19. Con le conseguenze che, purtroppo, sono altrettanto note a chiunque.

Grimaldi: La sentenza pone fine alla follia sanitaria della vigile attesa
"Il Governo, andando a vincolare i medici, ha di fatto privato i cittadini delle cure domiciliari precoci, paralizzando la sanità territoriale, e portato al collasso il sistema ospedaliero, con tutte le drammatiche conseguenze che migliaia di famiglie conoscono purtroppo bene" ha dichiarato a StudioCataldi.it l'avvocato Erich Grimaldi, presidente del Comitato Cure Domiciliari Covid-19 e autore del ricorso, insieme all'avvocato Valentina Piraino.

"La sentenza pone fine alla follia sanitaria della vigile attesa" ha rincarato Grimaldi.

Il ricorso del Comitato Cure Domiciliari Covid-19
Nella vicenda, il Comitato Cure Domiciliari, composto da medici di medicina generale e specialisti, ha fatto ricorso al Tar per chiedere l'annullamento della circolare del ministero della Salute recante "Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2" aggiornata al 26 aprile 2021, nella parte in cui, nei primi giorni di malattia da Sars-Cov-2, prevede unicamente una "vigilante attesa" e somministrazione di fans e paracetamolo e nella parte in cui pone indicazioni di non utilizzo di tutti i farmaci generalmente utilizzati dai medici di medicina generale per i pazienti affetti da Covid.

Con il ricorso in oggetto, i medici del Comitato Cure Domiciliari Covid-19, hanno contestato le linee guida promulgate da AIFA e pedissequamente mutuate con la circolare del Ministero della Salute "Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2" aggiornata al 26 aprile 2021, nella parte in cui, anziché dare indicazioni valide sulle terapie da adottare a domicilio, "prevedono un lungo elenco delle terapie da non adottare, divieto che non corrisponde all'esperienza diretta maturata dai ricorrenti".

Tar: le indicazioni del ministero della salute impediscono l'uso di terapie idonee ed efficaci
"È onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l'esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito" afferma preliminarmente il Tar nella decisione, e sentenzia:

"La prescrizione dell'AIFA, come mutuata dal Ministero della Salute, contrasta, pertanto, con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione, imponendo, anzi impedendo l'utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia Covid-19 come avviene per ogni attività terapeutica".

Inoltre, rappresentano i giudici amministrativi, "il giudice di appello nello scrutinare una analoga vicenda giudiziaria (la censura afferente alla sola determinazione dell'AIFA) ha precisato che: "la nota AIFA non pregiudica l'autonomia dei medici nella prescrizione, in scienza e coscienza, della terapia ritenuta più opportuna, laddove la sua sospensione fino alla definizione del giudizio di merito determina al contrario il venir meno di linee guida, fondate su evidenze scientifiche documentate in giudizio, tali da fornire un ausilio (ancorché non vincolante) a tale spazio di autonomia prescrittiva, comunque garantito".

Per cui, il contenuto della nota ministeriale, conclude il Tar Lazio, "imponendo ai medici puntuali e vincolanti scelte terapeutiche, si pone in contrasto con l'attività professionale così come demandata al medico nei termini indicati dalla scienza e dalla deontologia professionale".

Da qui l'accoglimento del ricorso e la bocciatura in toto della circolare del ministro della salute Roberto Speranza.

 

Sanzioni disciplinari, al preside spetta valutare (solo) quelle lievi
Non tocca al dirigente disporre conseguenze superiori al rimprovero verbale e inferiori alla sospensione dal servizio e dallo stipendio per oltre 10 giorni
Cassazione civile 9 gennaio 2022

In tema di sanzioni disciplinari nel pubblico impiego privatizzato al fine di stabilire la competenza dell’organo deputato a iniziare, svolgere e concludere il procedimento, occorre avere riguardo al massimo della sanzione disciplinare come stabilita in astratto, in relazione alla fattispecie legale, normativa o contrattuale che viene in rilievo. E ciò essendo necessario, in base ai principi di legalità e del giusto procedimento, che la competenza sia determinata in modo certo.

 

di di Dario Ferrara

Quando il dipendente s’infortuna il datore non può essere condannato «con il senno del poi»

Stop alla condanna emessa perché il macchinario non ha uno schermo protettivo: il giudice non considera la fase della produzione in cui si verifica il sinistro e quali siano le relative misure di protezione

Se il lavoratore s’infortuna, il datore non può essere condannato «con la logica del senno del poi». È escluso, infatti, che il giudice possa ritenere l’imprenditore penalmente responsabile senza considerare la fase della produzione in cui il sinistro si verifica né porsi il problema di quali siano le misure di protezione previste per quello specifico segmento della lavorazione. Insomma: l’errore sta nell’individuare la regola cautelare in base a una valutazione ricavata ex post a evento avvenuto, in modo del tutto astratto e svincolato dal caso concreto. È quanto emerge dalla sentenza 836/21, pubblicata il 13 gennaio dalla quarta sezione penale della Cassazione.

Giustizia creativa
È accolto contro le conclusioni del sostituto procuratore generale il ricorso dei tre imputati per lesioni colpose. L’operaio riporta la frattura scomposta del mignolo nel tentativo di recuperare il tondino di alluminio lavorato mentre il tornio è ancora in movimento. Al datore si rimprovera di non aver dotato il macchinario di uno schermo frontale di protezione per evitare il contatto del lavoratore con gli ingranaggi in movimento. E con lui alla sbarra siedono il responsabile della sicurezza, per aver sottovalutato il rischio, e il titolare ditta produttrice, per aver venduto una macchina non a norma. Almeno secondo i pm. In realtà il tornio è conforme alla norma di riferimento Uni En 12840/2003, che non prevede lo schermo “vagheggiato” dai giudici del merito: la cui necessità, osservano gli “ermellini” appare frutto di un ragionamento creativo.

Mere congetture
La responsabilità colposa, invece, non può essere fondata sul senno del poi: il riscontro della colpa deve essere frutto di un processo cognitivo che individua a monte la regola cautelare che si assume violata, secondo una valutazione ex ante. Lo schermo non avrebbe salvato l’operaio che avrebbe comunque dovuto aggirarlo per infilare la mano nel tornio: lo strumento di protezione deputato, in quella fase, è il pedale del freno, mentre il lavoratore aziona la frizione, la rotazione continua per inerzia e il guanto impigliato fa il resto. Risultato: la regola cautelare dello schermo protettivo è ricavata in maniera congetturale. Parola al giudice del rinvio.

 

 

Stop alla condanna emessa perché il macchinario non ha uno schermo protettivo: il giudice non considera la fase della produzione in cui si verifica il sinistro e quali siano le relative misure di protezione

Se il lavoratore s’infortuna, il datore non può essere condannato «con la logica del senno del poi». È escluso, infatti, che il giudice possa ritenere l’imprenditore penalmente responsabile senza considerare la fase della produzione in cui il sinistro si verifica né porsi il problema di quali siano le misure di protezione previste per quello specifico segmento della lavorazione. Insomma: l’errore sta nell’individuare la regola cautelare in base a una valutazione ricavata ex post a evento avvenuto, in modo del tutto astratto e svincolato dal caso concreto. È quanto emerge dalla sentenza 836/21, pubblicata il 13 gennaio dalla quarta sezione penale della Cassazione.

Giustizia creativa
È accolto contro le conclusioni del sostituto procuratore generale il ricorso dei tre imputati per lesioni colpose. L’operaio riporta la frattura scomposta del mignolo nel tentativo di recuperare il tondino di alluminio lavorato mentre il tornio è ancora in movimento. Al datore si rimprovera di non aver dotato il macchinario di uno schermo frontale di protezione per evitare il contatto del lavoratore con gli ingranaggi in movimento. E con lui alla sbarra siedono il responsabile della sicurezza, per aver sottovalutato il rischio, e il titolare ditta produttrice, per aver venduto una macchina non a norma. Almeno secondo i pm. In realtà il tornio è conforme alla norma di riferimento Uni En 12840/2003, che non prevede lo schermo “vagheggiato” dai giudici del merito: la cui necessità, osservano gli “ermellini” appare frutto di un ragionamento creativo.

Mere congetture
La responsabilità colposa, invece, non può essere fondata sul senno del poi: il riscontro della colpa deve essere frutto di un processo cognitivo che individua a monte la regola cautelare che si assume violata, secondo una valutazione ex ante. Lo schermo non avrebbe salvato l’operaio che avrebbe comunque dovuto aggirarlo per infilare la mano nel tornio: lo strumento di protezione deputato, in quella fase, è il pedale del freno, mentre il lavoratore aziona la frizione, la rotazione continua per inerzia e il guanto impigliato fa il resto. Risultato: la regola cautelare dello schermo protettivo è ricavata in maniera congetturale. Parola al giudice del rinvio.

 

di Dario Ferrara

Il chirurgo risarcisce perché il ferrista ha lasciato la garza nella pancia del paziente

Spetta al capo équipe assicurarsi dell’assenza di ritenzione interna prima di procedere alla chiusura anche se il conteggio del materiale e degli strumenti utilizzati è affidato all’infermiere

Anche il chirurgo compie reato se il ferrista dimentica la garza nell’addome del paziente. Spetta al capo dell’équipe medica, infatti, assicurarsi che non vi sia ritenzione interna al sito chirurgico di materiale o strumenti utilizzati prima di procedere alla chiusura. E ciò anche se la raccomandazione 2/2008 del ministero della Salute affida agli infermieri il compito di contare il materiale in entrata e in uscita nel campo operatorio. Evitare il danno connesso alla ritenzione di materiale nel corpo del paziente è un dovere proprio del chirurgo che deriva dalla posizione di garanzia che il medico assume con l’atto operatorio. È quanto emerge dalla sentenza 392/22, pubblicata l’11 gennaio dalla quarta sezione penale della Cassazione.

Posizione di garanzia
È prescritto il reato di lesioni personali colpose ascritto al chirurgo, ma il ricorso è respinto agli effetti civili: il sanitario dunque dovrà risarcire la paziente che ha riportato una patologia con prognosi superiore ai quaranta giorni a causa della garza laparotomica lasciata nella sua pancia dall’infermiere. Non trova ingresso la censura della difesa secondo cui al capo dell’équipe competerebbe soltanto costatare l’avvenuto conteggio del materiale in entrata e in uscita e ricevere la relativa scheda infermieristica, dandone atto nella check list che sottoscrive. È vero: in base alla raccomandazione ministeriale spetta agli infermieri fare la conta del materiale introdotto e poi estratto dall’organismo del malato. E il rapporto tra infermiere e medico non si esprime più in termini di subordinazione ma in chiave di collaborazione delle rispettive sfere di competenza, con il primo che assume una specifica posizione di garanzia rispetto alla salute del paziente.

Culpa in vigilando
Il punto è che tutti gli operatori coinvolti nell’atto chirurgico devono assicurare l’adempimento degli oneri di controllo che servono a scongiurare l’evento avverso. E dunque il medico viene condannato per culpa in vigilando: è escluso che l’omesso controllo possa essere ritenuto una violazione lieve perché non si accompagna al rispetto di linee guida e buona pratiche ma dipende dall’inequivoca inosservanza di una norma precauzionale imposta al capo dell’équipe chirurgica.

 

Locazioni commerciali: l’emergenza da Covid-19 non giustifica il mancato pagamento del canone

Il caso, prende spunto dal procedimento di intimazione di sfratto per morosità promosso dal proprietario dell’immobile locato nei confronti nella società conduttrice di questo per ottenere la convalida dello stesso sfratto e la condanna di essa società al pagamento dei canoni di locazione e degli oneri accessori di gestione dell’immobile non corrisposti.

La conduttrice, da parte sua, nel costituirsi in giudizio contestava in fatto e in diritto la domanda, eccependo, tra l’altro, l’impossibilità sopravvenuta al rispetto delle obbligazioni derivanti dalla locazione in essere a causa della situazione emergenziale da Covid-19 e rilevando altresì la violazione da parte del locatore del principio di buona fede per avere egli disatteso alla richiesta di rinegoziare il canone di locazione in forza anche della fideiussione bancaria già rilasciata in suo favore.

Più precisamente, dunque, la conduttrice, sulla base di tali motivazioni, chiedeva che venisse accertata e dichiarata l’esistenza dei gravi motivi previsti dall’art. 665 cpc al fine di evitare l’emissione dell’ordinanza di convalida di sfratto e di quella per il pagamento dei canoni e degli oneri di locazione scaduti e che, conseguentemente, fosse disposta una equa riduzione del canone di locazione

Il Tribunale di Roma, con questa significativa e per certi versi innovativa pronuncia in un più ampio panorama interpretativo di una normativa, quella eccezionale da Covid-19, che assume contorni e contenuti in continua evoluzione, ha espresso un importante principio di diritto in materia, secondo il quale “in materia di locazione è da escludere che la grave situazione epidemiologica in essere ed i provvedimenti limitativi della libertà di iniziativa economica emanati per effetto della diffusione del virus “Covid-19” configurino un caso di impossibilità sopravvenuta e ciò sia con riferimento all’obbligazione di pagamento del canone della conduttrice (un’obbligazione di pagamento non può diventare obiettivamente impossibile, attesa la natura di bene fungibile del denaro mentre i mancati pagamenti riferibili, come quelli qui in esame, a condizioni soggettive dell’obbligato, quali la sua incapienza patrimoniale, non possono essere ritenuti rilevanti ai fini dell’impossibilità sopravvenuta), sia con riferimento all’impossibilità per la stessa conduttrice di utilizzare, in tutto o in parte, la prestazione della locatrice, avendo questi messo a completa disposizione, senza limitazioni alcune, il bene locato”.

Nella complessa e delicata questione, dunque, che da sempre ha interessato la regolamentazione dei contratti di locazione commerciale, come è noto contrassegnati dalle limitazioni e dai divieti che l’emergenza pandemica ha inevitabilmente determinato, i Giudici romani si schierano in questo caso apertamente a favore della parte locatrice, in un certo senso quasi a voler “compensare” quel favor che invece il legislatore ha riconosciuto ai conduttori con le ormai note disposizioni di sospensione degli sfratti allo stato ancora vigenti.

La conclusione, pertanto, cui giunge il Tribunale di Roma è certamente condivisibile perché perfettamente rispondente ai principi di diritto che sottendono alla regolamentazione dei contratti sinallagmatici a prestazioni corrispettive per i quali, come è noto, l’art. 1463 del Codice Civile prevede che solo nell’ipotesi di impossibilità totale la parte liberata dalla prestazione dovuta per la sopravvenuta impossibilità della stessa non possa chiedere la controprestazione e debba restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito.

I giudici romani, infatti, opportunamente precisano come nella fattispecie esaminata tale disciplina non possa ritenersi applicabile “poiché a causa del factum principis, che vieta le attività socialmente pericolose, non è l’immobile che diventa inidoneo all’uso ma l’attività che in essa vi si svolge ad essere impedita e ciò ricade nella sfera di rischio dell’imprenditore-conduttore”.

Il ragionamento seguito dal Tribunale, dunque, è basato sulla sottile, ma comunque evidente, differenziazione tra il bene-immobile oggetto della locazione rispetto al valore-prestazione commerciale che attraverso il primo si esplica e tale distinzione in effetti non è di poco conto sotto il profilo giuridico e sostanziale, sebbene sia chiaro come alla fine si discuta intorno ad una interpretazione semantica della “impossibilità sopraggiunta della prestazione” quanto mai labile nei suoi reali contorni identificativi ex ante, ma piuttosto doverosamente individuabile caso per caso nelle competenti aule di giustizia.

Effettivamente, come emerge anche nella sentenza in commento, possiamo certamente condividere l’assunto del Tribunale secondo il quale non sarebbero ravvisabili motivi di impossibilità materiale o giuridica per il conduttore all’uso od alla detenzione dell’immobile, dal momento che anche nei frangenti più delicati del periodo pandemico, durante i quali gran parte degli esercizi commerciali e delle attività produttive è stata oggetto di chiusura forzosa per disposizione ministeriale, ciò che può dirsi essere stato di fatto compromesso e/o addirittura impedito è la predetta prestazione commerciale senza alcuna incidenza sul bene-immobile inteso quale oggetto stricto sensu del contratto di locazione.

I Giudici romani, peraltro, sostanziano la propria decisione di avvenuta convalida dello sfratto per accertata grave morosità del conduttore su una attenta e scrupolosa valutazione non solo delle principali disposizioni civilistiche in materia di obbligazioni e contratti, ma anche della normativa speciale emergenziale che è stata emanata a partire dal marzo 2020 e che si è protratta sino ad oggi con varie proroghe e modifiche, per cui ancora di più la sentenza oggi in commento è da segnalarsi per una utile lettura.

Secondo il Tribunale capitolino, infatti, non sarebbe esperibile anzitutto il rimedio della risoluzione per inadempimento del locatore, e detta conclusione ci appare quanto mai plausibile poiché è in re ipsa la considerazione che la disposta chiusura delle attività economiche, in quanto dovuta unicamente a sopraggiunte normative ministeriali, giammai potrebbe ritenersi riconducibile alla sfera di responsabilità contrattuale del proprietario.

Se così non fosse, del resto, sarebbe paradossale addossare presunte colpe contrattuali in capo ad essi proprietari, probabilmente la categoria di soggetti che in questo particolare contesto socio-economico maggiormente ha risentito degli effetti pregiudizievoli della pandemia, dal momento che oltre ad aver subito la ricordata sospensione dell’esecutività degli sfratti ha ricevuto dal Governo, come magra consolazione, la sola esenzione dalle imposte sugli immobili per i canoni di locazione non incassati, senza che sia mai stato normato il tentativo, pure operato da alcune forze politiche, di riconoscere loro delle forme di ristoro economico[2].

E’ oltretutto notizia di questi giorni l’inserimento nella Manovra di fine anno di un emendamento che potrebbe finalmente prevedere un aiuto economico in favore dei piccoli proprietari che abbiano dovuto sottostare al blocco degli sfratti esecutivi in corso, sempre mediante forme indennitarie a copertura del canone eventualmente non percepito.

Il Tribunale di Roma ha poi ritenuto ugualmente non praticabile anche il ricorso alla tutela ex art. 1463 c.c. dal momento che anche questa presupporrebbe comunque l’accertato sopravvenuto impossibile godimento ed utilizzo del locale commerciale o dell’immobile[3] che come detto nei casi in questione non è ravvisabile.

I Giudici romani hanno altresì escluso l’applicabilità dell’art. 1464 c.c. per la parziale impossibilità della prestazione di una parte ed il conseguente diritto dell’altra ad ottenere una corrispondente riduzione della propria prestazione ovvero a recedere addirittura dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale poiché anche questa soluzione contrasterebbe apertamente con la logica dei fatti che vede sempre il locatore adempiente ai propri obblighi contrattuali per aver posto comunque a disposizione del conduttore l’immobile locato e che quindi porta a concludere che se vi sia stata una limitazione all’esercizio dell’attività commerciale essa in realtà non abbia riguardato l’uso dell’immobile in sé.

Oltretutto, proprio a tale riguardo i Giudici capitolini precisano opportunamente come non possa “ritenersi esistente un diritto, fondato sulla disciplina della emergenza epidemiologica e sulla crisi che ne è scaturita, alla sospensione od alla riduzione del canone od ancora alla sua modifica da parte del conduttore che è rimasto nel godimento materiale dell’immobile con la propria famiglia oppure con la propria struttura, con i propri beni strumentali e con le proprie merci” e come non possa neanche “ritenersi legittima la unilaterale auto-sospensione od autoriduzione dei pagamenti, essendo tra l’altro, di regola, prevista nei contratti di locazione la clausola del c.d. solve et repete”.

In effetti, sappiamo tutti benissimo essere buona norma, nella predisposizione di un qualunque contratto di locazione, quella di limitare, se non appunto escludere del tutto come normalmente avviene, la possibilità per il conduttore di fare valere le proprie eventuali ragioni creditorie in compensazione automatica e/o diretta con i canoni o gli oneri di locazione, rispondendo ciò ad un fondamentale principio di certezza contrattuale e giuridica che intende anzitutto salvaguardare la posizione economica della parte locatrice in quanto proprietaria dell’immobile che si trova nell’uso e nella detenzione di altra persona.

La sopra riportata testuale considerazione contenuta nella sentenza oggi in commento, pertanto, costituisce la linea di congiunzione tra i principi civilistici di responsabilità contrattuale esaminati dal Tribunale di Roma e la vasta ed articolata normativa speciale ed emergenziale che nel tempo si è succeduta e che ancora oggi contrassegna, non senza polemiche o contrasti di pensiero, i complessi e delicati rapporti obbligatori connessi al contratto di locazione.

Nella rilevata mancata applicabilità, infatti, alle fattispecie considerate della richiamata normativa civilistica, l’unico appiglio giuridico cui eventualmente aggrapparsi per trovare la soluzione alla problematica in esame si sarebbe dovuto rintracciare negli interventi legislativi, di natura eccezionale, che sono nati per fronteggiare la pandemia in atto, ma anche questa disamina, secondo i Giudici romani, ha esito negativo.

Nessuna, invero, delle norme emergenziali introdotte in costanza di pandemia si è preoccupata di disciplinare le sorti del contratto di locazione e le sue possibili variazioni nel corso del rapporto o sino alla sua naturale scadenza, quasi a voler confermare, anche in una situazione generalizzata del Paese di assoluta incertezza e di oggettiva difficoltà economica, il primato autentico dell’autonomia negoziale rispetto ad un intervento di imperio legislativo che, se fosse stato attuato tout court, probabilmente avrebbe sollevato non poche questioni di legittimità anche sotto il profilo costituzionale.

Il concetto di fondo che, effettivamente, ricaviamo dalla pronuncia in commento è proprio questo: il Legislatore, infatti, è voluto intervenire anche in questo particolare contesto negoziale senza pregiudicare o anche solo limitare in alcun modo l’obbligo, contrattualmente assunto dal conduttore, del pagamento del canone di locazione pur in presenza di una chiusura coatta del locale commerciale per ragioni di sicurezza pubblica, preferendo piuttosto modulare tale sua “ingerenza” attraverso tutta una serie di misure e di disposizioni in favore delle attività commerciali tra le quali ha assunto decisiva rilevanza, anche economica, il credito d’imposta previsto fino al 30.4.2021 dall’art. 28 del D.L. n. 34 del 2020.

Secondo il Tribunale di Roma, anzi, proprio l’introduzione di questo credito d’imposta è la dimostrazione certa e definitiva della obbligatorietà del canone di locazione, dal momento che il fatto che al comma 6 della suindicata norma sia stato precisato che “Il credito d’imposta di cui ai commi precedenti è utilizzabile nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta di sostenimento della spesa ovvero in compensazione…” conferma ancora di più come presupposto imprescindibile per il godimento di tale beneficio sia il regolare pagamento dei canoni di locazione ovvero la disponibilità espressa del locatore alla cessione, da parte del conduttore, del credito di imposta in luogo del pagamento della corrispondente parte del canone.

Né, sempre secondo i Giudici romani, ci autorizzano ad una diversa conclusione anche altri analoghi interventi legislativi, sempre favorevolmente indirizzati al conduttore esercente di attività commerciale e sempre costituiti da vantaggi fiscali, che pure hanno contrassegnato questo lungo periodo di emergenza, a partire dall’art. 65 del Decreto Cura Italia, poi modificato ed integrato con il Decreto Rilancio[8], che ha introdotto il bonus del 60 % del canone mensile di locazione pagato nei mesi di marzo, aprile e maggio 2020 in presenza di una data diminuzione del fatturato o dei corrispettivi, per proseguire con l’art.77 comma 1 lett.b) del D.L. n. 104 del 2020 che ha esteso la previsione del credito d’imposta del 60% sul canone di locazione e del 30% sul canone di affitto d’azienda anche per il mese di giugno 2020, ed ancora con l’art. 28 del menzionato Decreto Rilancio che ha previsto un credito di imposta per i contratti di affitto di azienda per finire con l’art. 8 del Decreto Ristori n. 137/2020 che ha invece accordato tale credito d’imposta a determinate imprese operanti in ben individuati settori, senza infine tralasciare altresì i vari contributi a fondo perduto che sono stati riconosciuti ai soggetti titolari di partita IVA con ulteriori decreti ministeriali.

Vi è stato, dunque, in questo continuo, quasi vertiginoso, legiferare un lodevole e giusto passo indietro della politica rispetto alla supremazia della volontà negoziale, mai di fatto compromessa da queste disposizioni normative; basti pensare, del resto, come la situazione emergenziale abbia anche determinato casi di rinegoziazione spontanea, ed ovviamente condivisa, del contratto di locazione senza che l’emergenza in quanto tale sia mai assunta ex se a causa giustificativa della riduzione del canone, come giustamente affermato anche da alcune sentenze di merito.

 

 

No accertamento con redditometro se il figlio guadagna e contribuisce alle spese

Accolto il ricorso del contribuente cui era stato notificato l’atto impositivo per la seconda casa e l’auto di lusso

Nullo l’accertamento con redditometro quando i figli guadagnano e contribuiscono alle spese della famiglia.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con l’ordinanza n. 692 del 12 gennaio 2022, ha accolto il ricorso di un contribuente cui era stato notificato l’atto impositivo per la seconda casa e l’auto di lusso.

In particolare l’uomo aveva subito chiesto l’annullamento della pretesa erariale dal momento che il figlio maggiore lavorava e contribuiva ai bisogni della famiglia; il piccolo era disabile e percepiva una indennità di accompagnamento.

Tutte circostanze, queste, irrilevanti per l’ufficio che aveva accertato una maggiore Irpef con metodo sintetico.

Inutile impugnare di fronte a Ctp e Ctr. I giudici di merito hanno infatti confermato l’atto impositivo.

Ora la Cassazione ha ribaltato il verdetto, accogliendo il secondo motivo del ricorso presentato dalla difesa.

Per i Supremi giudici, la commissione regionale a fronte del contenuto della prova contraria concessa al contribuente in caso di accertamento sintetico, la quale deve vertere sulla dimostrazione che il maggior reddito determinato o determinabile è costituito «in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta», attraverso la produzione di «idonea documentazione» attestante «l'entità» e «la durata» del possesso e il riferimento alla complessiva posizione reddituale dell'intero nucleo familiare, costituito dai coniugi conviventi e dai figli, soprattutto minori, atteso che la presunzione del loro concorso alla produzione del reddito trova fondamento, ai fini dell' accertamento suddetto, nel vincolo che li lega, si è limitata a fare generico richiamo, sostanzialmente per relationem, alle verifiche operate dall’ufficio, a suo dire affatto esaminate dai giudici di prime cure, e vaghi accenni ai redditi della moglie e del solo figlio piccolo e alla percentuale di attribuzione della casa di abitazione, senza alcun accenno al possesso di redditi da risparmio e a quelli dell’intero nucleo familiare.

Ora la causa dovrà essere rivalutata dalla Ctr di Milano che dovrà tener conto delle indicazioni fornite in sede di legittimità. E quindi dovrà invalidare o ridurre l’accertamento a seconda di quanto il giovane ha contribuito all’acquisto e il mantenimento di auto e case.

 

di Vanessa Ranucci

Anche il commercialista risponde degli illeciti del cliente perché non ha controllato la veridicità delle fatture

Pesa l'omessa segnalazione di una serie di anomalie rilevate nella contabilità e la prosecuzione dell’attività di assistenza

Il commercialista della società che commette illeciti fiscali può essere condannato in concorso se non ha controllato la veridicità delle fatture. Il contributo partecipativo all'evento criminoso è individuabile nell'omessa segnalazione di una serie di anomalie rilevate nella contabilità e, dunque, nella prosecuzione dell’attività di assistenza. Lo ha stabilito oggi la terza sezione penale della Cassazione con la sentenza 156/22.

La Corte d'appello aveva condannato un commercialista a due anni e mezzo di reclusione per evasione fiscale. In particolare, il professionista era stato ritenuto colpevole in concorso con le società da lui seguite, per l’attività illecita al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

Il ricorrente, ricorso in sede di legittimità contro questa decisione, ha affermato di aver controllato con regolarità le fatture e di non sapere che fossero relative a operazioni oggettivamente inesistenti, in quanto non aveva mai visionato i documenti accompagnatori né aveva un obbligo in merito.

Secondo il giudici di Piazza Cavour il ricorso è infondato e, al riguardo, hanno ricordato che “il commercialista di una società può concorrere nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, agendo a titolo di dolo eventuale. È sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell'opera degli altri concorrenti, e che il partecipe, per

effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l'esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato poiché in forza del rapporto associativo diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti. Il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall'art. 2 Dlgs 10 marzo 2000, n. 74, è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell'accettazione del rischio che l'azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l'evasione delle imposte dirette o dell'Iva”.

Nella specie, il commercialista aveva rilevato delle anomalie e, invece di segnalarle alle autorità competenti, aveva proseguito nell'assistenza fiscale delle società per non perdere i clienti: proprio in tal senso, egli ha contribuito all’attuazione del meccanismo fraudolento che aveva consentito all’amministratore delle società di avvalersi di documentazione fittizia. Pertanto, il ricorso è stato respinto e il ricorrente condannato alle spese processuali.

 

di Annamaria Villafrate

NON PUNIBILE L'OCCUPAZIONE ABUSIVA DETTATA DAL BISOGNO DI DARE UN TETTO AI FIGLI

Per la Cassazione, lo stato di necessità esclude la punibilità per tenuità del fatto in presenza della necessità di garantire un tetto ai propri figli minori



 

SICUREZZA SUL LAVORO: PREPOSTO E OBBLIGHI FORMATIVI DEL DATORE

Il decreto lavoro fisco prevede la nomina del preposto e l'obbligo formativo del datore in materia di sicurezza sul posto di lavoro

Filicudi-Alicudi, mare piatto ma l'aliscafo non arriva...

 

Buongiorno direttore,

l'aliscafo Adriana M. sospende la corsa per Filicudi e Alicudi questa mattina con queste condizioni di mare.

Non Comment

Buone Feste

Lettera firmata

 

La vignetta di Silvana Clesceri

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Libertà sessuale del minore di anni 14: in caso di dubbio, il partner deve astenersi dal compiere atti sessuali

In tema di reati sessuali con minorenni, grava su chi invoca l’errore sull’età della vittima l’onere di dimostrare di avere attivato tutti gli accorgimenti per verificare di non trovarsi al cospetto di una persona minore degli anni quattordici.

Cass. pen., sez. III. 30 dicembre 2021), n. 47293
Il caso. Tre gli imputati condannati per il reato di atti sessuali con una minorenne, di anni quattordici, che hanno proposto ricorso in cassazione avverso la sentenza di condanna.

L’imputato è stato registrato in hotel? Uno dei ricorrenti ha contestato la mancata assunzione di una prova decisiva, avendo egli richiesto, nel giudizio di appello, di verificare se avesse fatto ingresso nell’albergo teatro del reato commesso, al fine di sondare altresì la veridicità delle dichiarazioni della persona offesa.

Cass. pen., sez. III, ud. 28 ottobre 2021 (dep. 30 dicembre 2021), n. 47293
Presidente Aceto – Relatore Semeraro

1. Con la sentenza del 10 dicembre 2020 la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma di quella del Tribunale di Napoli nord del 30 marzo 2018, ha ridotto la pena inflitta ad Ri.Ar. a 3 anni e 2 mesi di reclusione, ad C.A. e R.M. a 3 anni ed 8 mesi di reclusione, confermando nel resto la sentenza di primo grado.

Gli imputati sono stati condannati per i reati, loro rispettivamente ascritti.

 

Spiacevole notizia dall'Agenzia delle Entrate che blocca il superbonus 110% per queste case indipendenti.

C’è un recente aggiornamento del Decreto Rilancio. Un nuovo punto, al comma 1-bis dell’art.119, rivede i parametri necessari per considerare indipendente un ‚abitazione. Il nuovo comma asserisce che una casa puà dirsi indipendente se ha proprietà esclusiva su almeno tre utenze. Le tre utenze di cui deve avere proprietà esclusiva devono rientrare tra: impianto di approvvigionamento idrico, impianto elettrico, impianto del gas, impianto di climatizzazione.

Per avere esclusiva proprietà degli impianti però, stando a quanto affermato dall’Agenzia delle Entrate, bisogna avere proprietà esclusiva dell’allaccio. Il problema sussiste,dunque, in quei complessi residenziali che hanno ingressi indipendenti e contatori autonomi, ma in cui la proprietà dell’llaccio è condivisa. E‘ il caso,per esempio, di moltissime case vacanza, apparentemente indipendenti, ma che non potranno usufruire die superbonus. Rischiano così di non potere usufruire del superbonus.

Infatti, se in questi contesti abitativi, le case spesso hanno contatori autonomi, altrettanto spesso, gli allacci delle utenze sono spartiti tra più abitazioni. In generale, lAgenzia delle Entrate specifica che il superbonus è applicabile a case funzionalmente indipendenti. Per determinarne l’indipendenza funzionale, però, rimanda sempre al suddetto comma 1-bis dell’art.119 del Decreto rilancio

 

Legittimità del diniego di apertura di fast food in aree tutelate dal piano territoriale paesaggistico (nella specie Terme di Caracalla).
Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. del 28 dicembre 2021, n. 8641.

E’ legittimo il diniego di apertura di un McDonald's alle Terme di Caracalla, essendo l'area in cui si trova l'immobile tutelata dal piano territoriale paesaggistico ed inclusa nel centro storico tutelato come sito Unesco.

Ha premesso la Sezione che l’area in cui si trova l’immobile è tutelata dal PTP n. 15/12, art. 134, comma 1, lett c), Valle della Caffarella, Appia antica ed Acquedotti, inclusa nel Centro Storico tutelato come sito Unesco, in area attigua alle Terme di Caracalla, per la quale le Norme tecniche di attuazione (art. 46) prevedono espressamente l’obbligatorietà del procedimento di autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 del Codice (d.lgs. n. 42 del 2004).

Ha aggiunto che l’art. 150, d.lgs. n. 42 del 2004 attribuisce espressamente sia alla Regione sia al Ministero il potere di ordinare la sospensione di lavori atti ad alterare i valori paesaggistici del territorio, a tutela sia dei beni già vincolati sia di aree che si intende tutelare con l'imminente adozione di un futuro vincolo paesaggistico; si tratta, pertanto, di un potere che può essere esercitato anche a salvaguardia di aree o immobili non ancora dichiarati di interesse culturale o paesistico.

Nel caso di specie peraltro, sulla scorta di quanto sopra evidenziato, la disciplina vigente conferma la sussistenza del vincolo – nei termini predetti – e la conseguente necessità dell’autorizzazione paesaggistica, la cui mancanza ha pertanto in ogni caso giustificato e legittimato il ricorso al potere inibitorio in esame.

Quanto all’esercizio del potere di autotutela, la Sezione ha ricordato che nella specie sussiste tale potere in termini non di mera rimozione dei pareri precedentemente espressi dalle singole soprintendenze sulla base di una disciplina diversa da quella correttamente ricostruita dalla direzione generale, in quanto l’effetto degli atti impugnati è quello – di per sé neppure integrante un totale arresto procedimentale definitivo – di diffida all’attivazione del corretto percorso procedimentale.

Ha aggiunto che l’assenso edilizio, rilasciato in carenza dell'autorizzazione paesaggistica, sia inefficace (cfr. art. 146, commi 2, e 4, d.lgs. n. 42 del 2004); analogamente, ove l’assenso edilizio sia rilasciato sulla base di un presupposto (id est, l'avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (come nel caso di specie, in cui erano stati adottati pareri settoriali, non integranti la forma e la sostanza dell’autorizzazione ex art. 146, d.lgs. n. 42 per il diverso quadro pianificatorio non correttamente prospettato), si è in presenza di una doppia situazione patologica.

trasformazione edilizia del territorio, applicabili a maggior ragione in ordine alla peculiare disciplina propria degli ambiti soggetti a parallela tutela latu sensu culturale, comprendente il versante paesaggistico.

In generale, i presupposti dell'esercizio del potere di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall'originaria illegittimità del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari; l'esercizio del potere di autotutela è dunque espressione di una rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti e l'ambito di motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché dall'eventuale negligenza o malafede del privato che ha indotto in errore l'Amministrazione.

Nel caso di specie, oltre al limitato periodo temporale trascorso fra il rilascio degli evocati assensi e l’intervento di rimozione, assumono preminente rilievo i plurimi elementi posti a base degli atti impugnati, pienamente coerenti ai principi predetti: la disciplina vigente ed il conseguente previo necessario rilascio dell’autorizzazione ex art. 146 cit., nei termini già sopra condivisi; la relativa erronea rappresentazione degli elementi di fatto e di diritto rilevanti nella fattispecie; la circostanza che i lavori di trasformazione erano appena stati avviati senza alcun consolidamento, con conseguente connessa valutazione della relativa situazione giuridica dei privati interessati. Emerge altresì dagli atti l’approfondimento motivazionale degli interessi pubblici connessi alla tutela dell’area e del contesto culturale coinvolto, nei termini correttamente indicati sia dalla sentenza impugnata che dalla difesa erariale, oltre che del tutto coerenti ai principi sopra richiamati in tema di autotutela.

 

di Pietro Alessio Palumbo

Obbligo di mantenere il figlio 40enne all’università se ha ritardi di appredimento
Secondo la Corte, in un caso del genere, il ritardo negli studi non è dovuto a indolenza ma a una patologia che rende più difficoltoso il percorso

Secondo le regole del Codice civile l’obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento dei figli non cessa con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura immutato finché il genitore interessato alla dichiarazione della cessazione dell’obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica; ovvero che è stato posto nelle concrete condizioni per potere essere economicamente autosufficiente; ovvero che il mancato svolgimento di un’attività economica dipende da un atteggiamento di “inerzia” o addirittura di ingiustificato “rifiuto”. Lo ha ricordato la Cassazione con la sentenza n. 40283/2021 specificando che se il figlio quarantenne ha ritardi d'apprendimento i genitori devono comunque pagargli l’università.

L’obbligo di mantenimento
In particolare la cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto che abbia riguardo all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa, nonché alla complessiva condotta personale tenuta dal ragazzo, dal raggiungimento della maggiore età.

Il caso
Nella vicenda affrontata dalla Corte con l'ordinanza n.40283 del 15 dicembre scorso, la Cassazione ha acclarato che la situazione del figlio della coppia coinvolta nei fatti, il quale privo di redditi al momento della pronuncia della sentenza aveva 35 anni ed era ancora iscritto all’università benché fosse quasi quattro anni fuori corso, aveva una spiegazione documentata da certificati medici che davano conto di un chiaro ritardo nell’apprendimento correlato a problemi insorti al momento della nascita. Problemi che avevano condizionato il percorso scolastico del “ragazzo” il quale si era infatti diplomato all’età di 24 anni.

Ebbene secondo la Corte in tali casi il ritardo negli studi non può dirsi riconducibile a una “indolenza” del figlio, o al rifiuto di svolgere una prestazione lavorativa, quanto a una patologia che in tutta evidenza rende difficoltoso ciò che per altre persone non lo è. In tali situazioni permane l’obbligo di mantenimento del figlio da parte dei genitori.

 

di Dario Ferrara

Il patrocinio del Comune va al legale col preventivo più basso perché non vale l’equo compenso

Amministrazione non tenuta a corrispondere all’avvocato un compenso in linea con i parametri ministeriali: sceglie la proposta più conveniente quando c’è una contrattazione con il professionista

Altro che equo compenso. A patrocinare il Comune nella causa sarà l’avvocato che ha presentato il preventivo più basso. E ciò benché l’importo sia inferiore alle somme previste dai parametri forensi. L’amministrazione, infatti, ben può scegliere la proposta più conveniente fra quelle dei legali che ha consultato: quando il professionista contratta la sua prestazione su di un piano paritetico con la committente, infatti, non ha bisogno della speciale tutela introdotta dal decreto legge 148/17. Lo sostiene la sentenza 1088/21, pubblicata il 20 dicembre dalla sede di Brescia del Tar Lombardia.

Base d’asta
Niente da fare per uno dei tre legali contattati dall’ente locale per farsi difendere in giudizio davanti al tribunale amministrativo regionale. Il Comune procede all’affidamento diretto evitando la procedura a evidenza pubblica perché l’incarico è ben sotto i 40 mila euro: vince l’avvocato che si contenta di meno di 3.200 euro, fra compenso e oneri di legge. Il punto è, scrivono i giudici, che l’equo compenso si applica quando l’amministrazione definisce in modo unilaterale gli emolumenti del professionista, ad esempio laddove determina la base d’asta nella gara d’appalto. La tutela del contraente debole è invece esclusa quando il prestatore d’opera intellettuale non deve accettare supinamente le scelte dell’ente pubblico. Nella specie, si legge nella sentenza, ciascuno dei tre professionisti ha potuto formulare il proprio preventivo «senza essere vincolato a criteri predeterminati e senza subire condizionamenti».

Spending review
È stato il collegato fiscale alla manovra 2018 a modificare la legge forense introducendo l’equo compenso per garantire all’avvocato la percezione di un compenso «proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto» oltre «al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale». Attenzione, però: l’applicazione dei parametri ministeriali di cui al dm 55/2014 deve ritenersi obbligatoria soltanto quando i committenti sono «determinati soggetti imprenditoriali come banche e assicurazioni, che notoriamente godono di una certa forza contrattuale». E non anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni, che del resto non sono contemplate in

modo esplicito dall’articolo 13 bis, comma primo, della legge 247/12. Risultato: per gli enti pubblici si applica sì il concetto di equo compenso in favore del professionista, ma non entro i rigidi limiti dei parametri forensi; l’applicazione dell’istituto deve essere ancorato a criteri di maggiore flessibilità, legati da una parte a esigenze di contenimento della spesa pubblica e dall’altra alla natura e alla complessità dell’attività di difesa da svolgere. Imporre alle amministrazioni gli standard inderogabili anche quando non c’è un significativo squilibrio a carico del professionista, conclude la pronuncia, «comporterebbe un’irragionevole compressione della discrezionalità nell’affidamento dei servizi legali». Spese di lite compensate per la novità e la complessità della questione.

 

Il recupero delle spese anticipate dal Comune per la bonifica ambientale

L’ente locale può procedere al recupero delle relative spese per la bonifica ambientale in via esecutiva nei confronti del responsabile mediante iscrizione a ruolo delle corrispondenti somme solo nel caso in cui sia stata posta in essere la procedura amministrativa prevista dalla legge.

La Corte d'Appello confermava il rigetto dell'opposizione presentata da L.P. avverso una cartella di pagamento per crediti iscritti a ruolo dal Comune. I crediti avevano ad oggetto il recupero delle spese anticipate dall'ente per un intervento di bonifica ambientale.
L.P. ricorre in Cassazione, contestando il fatto che l'ente fosse fornito di titolo per iscrivere a ruolo la pretesa creditoria e, di conseguenza, per agire in via esecutiva nei suoi confronti. Il giudice di legittimità ha confermato la sentenza della Corte d'Appello

Presidente De Stefano – Relatore Tatangelo

di Gabriella Lax

DECESSI NON VACCINATI, CODACONS PRONTO A DENUNCIARE DRAGHI PER PROCURATO ALLARME

Ad essere sotto accusa le dichiarazioni del premier secondo cui tre quarti dei decessi sono di non vaccinati. Secondo il rapporto Iss i dati smentiscono le dichiarazioni

 

di Remo Bresciani

Il notaio che omette le visure non rimborsa la parte del prezzo pagata prima del rogito

La compagnia chiamata in causa deve tenere indenne il professionista ma risarcisce il terzo solo se l’assicurato contesta in appello il mancato esame della manleva

Il notaio che omette le visure in un contratto di compravendita non rimborsa la parte del prezzo pagata prima del rogito. Inoltre la compagnia chiamata in causa deve tenere indenne il professionista ma risarcisce il terzo solo se l’assicurato si costituisce nel giudizio di appello e contesta il mancato esame della manleva.

Sono questi i principi indicati dalla terza sezione civile della Cassazione nell'ordinanza 39418/21 del 13 dicembre che ha respinto il ricorso di una società di costruzioni. La srl aveva acquistato alcuni terreni a scopo edificatorio ma aveva successivamente appreso che la maggior parte degli appezzamenti apparteneva ad altri proprietari, che una porzione era oggetto di pignoramento immobiliare e che altri fondi non avevano destinazione urbanistica. Di qui la richiesta di risarcimento nei confronti della parte venditrice e del notaio che aveva redatto l’atto.

La venditrice dichiarava di non avere alcuna responsabilità avendo acquistato i terreni con atto di un altro notaio di cui ha chiesto la chiamata in giudizio. Il notaio rogante, invece ha chiamato in giudizio la compagnia assicurativa con cui aveva stipulato una polizza per responsabilità professionale. Il tribunale ha rigettato la domanda ma la corte d’appello ha riformato la decisione condannando venditrice e notaio a risarcire il danno. In particolare ha affermato la responsabilità del professionista per non avere eseguito le visure storico-catastali e ipotecarie, non bastando a esonerarlo da responsabilità la circostanza che l’oggetto trasferito provenisse da atti traslativi eseguiti da altri professionisti, né la mancata meccanicizzazione della

Conservatoria dei registri immobiliari. Inoltre ha reputato che il danno risarcibile non poteva identificarsi con il prezzo pagato dall’acquirente né con il pregiudizio subito per la mancata disponibilità del bene, ma con la situazione economica nella quale il medesimo si sarebbe trovato qualora il professionista avesse diligentemente eseguito la propria prestazione. Il corrispettivo, infatti, era stato interamente versato prima del rogito notarile e quindi il danno si era già irreversibilmente prodotto e per una serie causale indipendente dall’attività del notaio. Non avendo poi il notaio reiterato le domande di manleva nei confronti dell’assicurazione, non esaminate in primo grado, il collegio ha ritenuto che queste istanze non fossero più esaminabili.

La controversia è così giunta in Cassazione dove la società ha contestato la quantificazione del danno e la mancata condanna della compagnia di assicurazioni. La Suprema corte, nel rigettare il ricorso, ha affermato che al momento della stipula dell’atto notarile, il pregiudizio, costituito dal versamento del corrispettivo per l'acquisto delle particelle risultanti quantitativamente e qualitativamente diverse da quelle indicate, si era irreversibilmente prodotto, e per una serie causale indipendente dall'attività del convenuto. Ne deriva che legittimamente il giudice di appello ha escluso dal ristoro delle perdite determinate dal negligente comportamento del professionista le somme corrisposte dall'acquirente prima della sottoscrizione dell'atto notarile. Né miglior sorte ha avuto la domanda volta a coinvolgere direttamente l’assicurazione. Infatti, ha spiegato la Cassazione, la compagnia è obbligata solo nei confronti dell'assicurato a tenerlo indenne da quanto questi debba pagare a un terzo cui ha provocato un danno, sicché soltanto l'assicurato è legittimato ad agire nei confronti dell'assicuratore, e non anche il terzo, nei confronti del quale l'assicuratore non è tenuto per vincolo contrattuale, né a titolo di responsabilità aquiliana. Il notaio garantito è rimasto contumace in appello e non ha riproposto la domanda di condanna del garante, con la conseguenza che la questione non poteva più essere esaminata.

 

di Debora Alberici

I prelevamenti sospetti in banca dell’imprenditore fanno scattare l’accertamento induttivo

Accolto il ricorso incidentale dell’amministrazione finanziaria. Il monito della Suprema corte sulla poca chiarezza della sentenza della Consulta

La Cassazione lancia un chiaro monito sulle sente della Consulta relativa ai movimenti bancari sospetti. Con l’ordinanza n. 39747 del 13 dicembre 2021, afferma infatti che anche i prelevamenti sospetti dell’imprenditore fanno scattare l’accertamento induttivo.

Sulla base di questi motivi è stato accolto il ricorso incidentale dell’amministrazione finanziaria.

Gli Ermellini hanno ricordato che, con la decisione n. 228 del 2014 la Corte costituzionale aveva sottolineato come fosse arbitrario «arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito.

Ma per il Collegio di legittimità, nella citata sentenza del giudice delle leggi sembrerebbe essere rinvenibile una discrasia tra motivazione e dispositivo, nella prima avendo fatto chiaramente riferimento ai soli prelevamenti dai conti bancari e nella seconda, invece, avendo sancito in maniera perentoria l'illegittimità costituzionale della disposizione censurata (art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, come modificato dall'art. 1, comma 402, lett. a, n. 1, della Legge 30 dicembre 2004 n. 311), «limitatamente alle parole "o compensi”», che nell'architettura della citata disposizione è posta con riferimento ai prelevamenti, ma anche agli «importi riscossi nell'ambito dei predetti rapporti ad operazioni», che potrebbero far pensare ai versamenti.

 

Superbonus, Draghi: l'Agenzia delle Entrate ha bloccato 4 miliardi di crediti come cedibili. "Il governo non voleva estendere il Superbonus perchè ha creato distorsioni, la prima è un aumento straordinario dei prezzi delle componenti per le ristrutturazioni e l'efficientamento energetico. E' la logica del 110 per cento che in un certo senso non rende e ha incentivato le frodi".

Lo ha detto il premier Mario Draghi nella conferenza stampa di fine anno. Il premier ha poi riferito che proprio questa mattina "l'Agenzia delle Entrate ha bloccato 4 miliardi di crediti come cedibili, insomma c'erano buoni motivi,oltre al costo per la finanza pubblica per la riluttanza del governo a estenderlo ulteriormente", ma il "Parlamento utilizzando i fondi a disposizione dell'azioneparlamentare ha deciso di usarli per estenderlo".

 

di Dario Ferrara

È ufficiale: addio al «prima paghi e poi fai causa»

Nella riformulazione della norma scompare l’iscrizione a ruolo della causa subordinata al pagamento del contributo unificato dopo la levata di scudi degli avvocati e i dubbi di costituzionalità

Vittoria per gli avvocati. È ufficiale: addio al «prima paghi e poi fai causa». Dopo la levata di scudi degli addetti ai lavori scompare dalla legge di bilancio 2022 la norma che subordinava l’iscrizione a ruolo della causa al versamento totale del contributo unificato, anche con modalità telematica. Il tutto grazie all’emendamento 192.2 che riscrive l’articolo 192 della manovra economica con la riformulazione approvata in commissione Bilancio al Senato (cfr. in allegato il nuovo e il vecchio testo della disposizione). E sul testo del disegno di legge così modificato il Governo porrà la fiducia per arrivare all’approvazione entro fine anno, evitando l’esercizio provvisorio.

Accesso alla giustizia
«La riformulazione dell’articolo 192 sul contributo unificato, accolta dal Governo, è di assoluto buonsenso», commenta il presidente della commissione Giustizia a Palazzo Madama, Andrea Ostellari. E in effetti l’organismo guidato dal senatore leghista aveva bocciato la norma, chiedendo di eliminarla, nel rapporto sulle disposizioni di competenza nella manovra economica. Il tutto facendo propri i dubbi di costituzionalità sollevati dagli organismi forensi, in primis Cnf e Ocf. «Lo abbiamo detto e abbiamo raggiunto il risultato», commenta soddisfatto Ostellari: «No a norme che rischiano di limitare l’accesso alla Giustizia, che invece deve essere garantito a tutti e non condizionato da adempimenti fiscali».

Uno stop annunciato nei giorni scorsi quando nel fascicolo dei “segnalati” al Senato sono spuntati tre emendamenti fotocopia di M5S, Lega e Forza Italia per sopprimere la norma incriminata. Ora la modifica all’articolo 208 del testo unico delle spese di giustizia si limita a espungere il riferimento al processo «contabile» dalla lettera a) del primo comma, mantenendo l’inserimento della lettera c), grazie alla quale sarà la Corte d’appello di Roma a recuperare per conto della Cassazione il contributo unificato, sempre tramite Equitalia Giustizia, laddove il provvedimento impugnato proviene, ad esempio, dalla Corte dei conti e dal Consiglio nazionale forense, autorità presso le quali non è previsto il versamento del tributo.

di Dario Ferrara

Chi ristruttura col Superbonus 110% ha diritto a vedere il progetto del vicino

Entro 30 giorni il Comune deve mostrare il fascicolo con la licenza edilizia per il rifacimento del tetto al proprietario dell’immobile sottostante: diretto, concreto e attuale l’interesse dell’istante

Trenta giorni di tempo. Il Comune deve sbrigarsi a tirar fuori il fascicolo con la licenza edilizia a suo tempo concessa per il rifacimento del tetto dello stabile: vuole vederlo il proprietario dell’immobile al piano di sotto, che intende ristrutturare l’appartamento con il Superbonus 110%. E gli incentivi così generosi per l’efficienza energetica non resteranno in vigore in eterno. L’istante, dunque, risulta titolare di un interesse diretto, concreto, attuale e pure strumentale all’ostensione dei documenti richiesti all’amministrazione. È quanto emerge dalla sentenza 8968/21, pubblicata dalla sezione seconda bis del Tar Lazio.

Silenzio illegittimo
Il ricorso della signora è accolto perché risulta illegittimo il silenzio-rifiuto serbato dall’ente locale sulla domanda inviata via Pec all’ente, con tanto di ricevuta automatica dal protocollo: un’istanza avanzata in base alla legge sulla trasparenza amministrativa, la 241/90, e al dpr 184/06, il regolamento sull’accesso agli atti degli enti pubblici. La proprietaria dell’appartamento di sotto sta per dare inizio ai lavori di cui all’articolo 119, commi 1 e 1 bis, del decreto legge 34/2020, il cosiddetto “dl rilancio”. Ma per farlo deve presentare i documenti sullo stato dell’arte.

E ha bisogno di vedere tutta la documentazione amministrativa che risale al lontano 1977, quando la madre dell’attuale proprietario del piano di sopra ottenne dal Comune la concessione per sostituire il tetto di legno con una copertura in cemento armato. E quindi il progetto, i grafici, la relazione tecnica: tutto. Non c’è dubbio che ne abbia diritto. L’interesse è diretto, in quanto correlato alla sfera individuale; concreto, perché i dati da acquisire servono per essere ammessi all’agevolazione; attuale, anzi urgente, laddove i benefici fiscali risultano comunque temporanei. E risulta pure strumentale: sul piano soggettivo, dal momento che la situazione della signora merita tutela dall’ordinamento; sotto il profilo oggettivo, visto che i documenti servono a veicolare le informazioni richieste dalle autorità.

Interesse giuridico
Nella fattispecie, insomma, emergono sia la legittimazione della signora a presentare l’istanza sia l’interesse ad accedere al fascicolo con i documenti del titolo edilizio: pesa la contiguità dell’appartamento della richiedente con l’immobile del controinteressato, dunque la circostanza che vivano fianco a fianco. Ma anche la connotazione strumentale della domanda per l’ostensione del progetto, dei grafici e della relazione tecnica. Secondo la giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato l’amministrazione deve consentire l’accesso se il documento contiene notizie e dati che riguardano la situazione giuridica tutelata. E perché la fondano, la integrano, la rafforzano o semplicemente la citano oppure vi interferiscono in quanto la ledono o ne

diminuiscono gli effetti. Il tutto in base sia a quanto sostiene l’istante sia alla luce di un esame oggettivo. La proprietaria dell’appartamento, dunque, ha diritto non soltanto a visionare il materiale necessario al Superbonus 110% ma anche a farsene le copie. I giudici, fra l’altro, sottolineano «l’urgenza correlata all’acquisizione della documentazione richiesta». Il diritto all’accesso ai documenti amministrativi, d’altronde, non serve soltanto a far causa a qualcuno ma consente ai cittadini di orientare i propri comportamenti sul piano sostanziale per curare i propri interessi giuridici. I trenta giorni a disposizione del Comune per adempiere partono dalla comunicazione della sentenza del Tar o dalla notifica della decisione. All’ente non resta che provvedere e pagare le spese di lite.

 

di Debora Alberici

Le notifiche del fisco sono valide e tempestive con la consegna dell’atto al messo notificatore

Le Sezioni unite civili respingono il ricorso dei contribuenti che lamentavano di aver ricevuto in ritardo l’accertamento

Le notifiche del fisco sono valide e tempestive con la consegna dell’atto impositivo al messo notificatore.

A sciogliere ogni dubbio in materia estendendo al procedimento tributario un principio valido nel processo civile sono le Sezioni unite civili della Corte di cassazione che, con la sentenza n. 40543 del 17 dicembre 2021, hanno respinto il ricorso del contribuente che lamentava l’intempestività della notifica dell’accertamento.

In particolare i due eccepivano la decadenza delle Entrate dalla potestà impositiva in quanto l’atto era arrivato in ritardo. In particolare l’ufficio aveva richiesto la maggiore Iva per l’acquisto di un immobile che aveva ritenuto, per le sue caratteristiche, di lusso. Aveva cioè negato l’aliquota agevolata del 4%.

La Ctp e la Ctr avevano respinto i ricorso dei neoacquirenti ritenendo comunque tempestive le notifiche di maggiori imposta e sanzioni.

Anche il fisco si difendeva sostenendo che la consegna dell’atto al messo era avvenuta entro i termini.

La tesi della difesa erariale è risultata vincente. Il Massimo consesso di Piazza Cavour ha infatti stabilito, in fondo alle lunghe motivazioni, che in materia di notificazione degli atti di imposizione tributaria e agli effetti di questa sull’osservanza dei termini, previsti dalle singole leggi di imposta, di decadenza dal potere impositivo, il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione, sancito per gli atti processuali dalla giurisprudenza costituzionale, e per gli

atti tributari dall’art. 60 del d.P.R. 29 settembre 1973 n.600, trova sempre applicazione, a ciò non ostando né la peculiare natura recettizia di tali atti né la qualità del soggetto deputato alla loro notificazione. Ne consegue che, per il rispetto del termine di decadenza cui è assoggettato il potere impositivo, assume rilevanza la data nella quale l’ente ha posto in essere gli adempimenti necessari ai fini della notifica dell'atto e non quello, eventualmente successivo, di conoscenza dello stesso da parte del contribuente.

All’interno del Palazzaccio la posizione assunta dalle Sezioni unite sembra aver messo tutti d’accordo: anche la Procura generale aveva chiesto di confermare la validità e la tempestività dell’accertamento.

Conta la data di spedizione se l’opposizione alla cartella denuncia la mancata notifica della multa

Tempestività da verificare con riferimento non al giorno di arrivo in cancelleria del plico o di iscrizione a ruolo della causa ma al momento in cui il ricorso è affidato all’agente postale

Il termine per la verifica della tempestività del ricorso contro la multa stradale, che deduce anche l’omessa notifica del verbale di contestazione dell’infrazione, inviato per posta, va individuato nel momento in cui l’atto è consegnato all’agente postale. Lo ha affermato la Cassazione che, con l’ordinanza 39388/21, depositata il 10 dicembre, ha accolto il ricorso dell’attore multato.
Sbaglia il Tribunale a ritenere tardiva la proposizione dell’opposizione del ricorrente, che deduceva l’omessa notifica dei verbali di accertamento di contravvenzione al codice della strada, avendo avuto riguardo, quale dies ad quem, alla data in cui il ricorso è stato iscritto nel ruolo del giudice di pace.

L’opposizione al verbale di accertamento di violazioni del codice della strada deve essere proposta entro il termine perentorio di trenta giorni, che - nel caso di opposizione diretta avverso la cartella di pagamento emessa sulla base di atti non precedentemente notificati - decorre dalla data di notifica della cartella stessa. Per la sesta sezione civile, il dies ad quem per verificare la tempestività dell’opposizione, depositato a mezzo del servizio postale, va individuato nel momento in cui l’atto è consegnato materialmente all’agente postale, e quindi della spedizione del plico indirizzato all’ufficio del giudice di pace.

Pertanto, per la Suprema corte, «qualora la parte proponga opposizione a cartella di pagamento emessa sulla base di una sanzione amministrativa per violazione del codice della strada, deducendo anche l’illegittimità di tale atto per omessa notifica del verbale di contestazione dell’infrazione, la verifica della tempestività dell’opposizione va condotta con riferimento non alla data di arrivo in cancelleria del plico notificato, ovvero di iscrizione della causa al ruolo generale, bensì al momento, anteriore, in cui il plico contenente il ricorso viene affidato dalla parte opponente all’agente postale per la spedizione».

 

di Vanessa Ranucci

Nullo l'affidamento dell'incarico al geometra se il progetto prevede strutture in cemento

La competenza è limitata alla direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili che non richiedono particolari operazioni di calcolo

Scatta la nullità del contratto di affidamento del progetto e direzione dei lavori al geometra se è richiesta l'esecuzione di calcoli in cemento armato perché, questa, è riservata alla competenza degli ingegneri. Lo ha stabilito oggi la terza sezione civile della Cassazione con l'ordinanza 39230/21.

La Corte d'appello aveva condannato una coppia al pagamento del compenso per prestazioni professionali in favore di uno studio di geometri. I ricorrenti, in sede di legittimità, hanno osservato che il contratto di incarico professionale si era concluso prima che il D.lgs. 212/2010 abolisse le norme che impedivano ai geometri di progettare e dirigere i lavori comportanti anche opere in cemento armato: pertanto, a loro avviso, sussisterebbe violazione del Rd 2229/1939, con conseguente nullità del contratto.

I giudici di Piazza Cavour hanno ricordato che “la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione - anche parziale - di strutture in cemento armato, mentre, in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture solo con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone, essendo riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato. Ne deriva che, qualora il rapporto professionale abbia avuto a oggetto una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un geometra, quando la progettazione - richiedendo l’adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato - sia riservata alla competenza degli ingegneri".

Secondo il collegio, il giudice non ha considerato che la categoria del «progetto architettonico» non ha riscontro, ai fini di causa, nella legge e nella giurisprudenza che afferma che "che i geometri, ai sensi dell'art. 16 del regolamento professionale di cui al Rd 11 febbraio 1929 n. 274, non possono redigere progetti, sia di massima che esecutivi, di costruzioni che comportino l'impiego di conglomerati cementizi, semplici o armati, in strutture statiche e portanti". Non solo: la Suprema corte ha osservato che l’attività edilizia è avvenuta in zona sismica, condizione che impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri. Pertanto, al giudice della Corte d'appello il nuovo giudizio sul punto.

 

di Giulia Provino

Sanzionato chi dà incarichi al dipendente pubblico senza il placet dell’ente nonostante la partita Iva

Il datore privato deve verificare l’assenza dei presupposti che richiedono l’autorizzazione parte dell’amministrazione di appartenenza: nulla rileva che gli interessati tacciano la loro condizione

Scatta la sanzione per il datore di lavoro che non verifica la qualità di dipendente pubblico del neoassunto, nonostante questi presenti la partita Iva. Il dipendente pubblico, infatti, non può svolgere incarichi per privati senza prima aver ottenuto l’autorizzazione della pubblica amministrazione. Lo ha stabilito la Cassazione che, con la sentenza 38314/21, depositata il 3 dicembre, ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle entrate.

Il caso riguarda l’assunzione da parte di una cooperativa di alcuni infermieri che erano dipendenti dell’amministrazione militare dello Stato e che si erano presentati al datore di lavoro privato in possesso di partita Iva. I giudici di appello avevano ritenuto sufficiente le dichiarazioni dei dipendenti per escludere la responsabilità del datore di lavoro privato. Tuttavia la Cassazione non concorda. Infatti, secondo la giurisprudenza della Suprema corte, in tema ai pubblico impiego privatizzato, l’esperimento di incarichi extraistituzionali retribuiti da parte di dipendenti della pubblica amministrazione è condizionato al previo rilascio di autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza, con un onere di verifica dell’assenza delle condizioni che ne impongono la richiesta posto a carico dell’ente pubblico economico o del datore di lavoro privato. La verifica non può essere surrogata dalle dichiarazioni dei lavoratori, in quanto queste sono inidonee ad elidere la colposità della condotta del conferente.

A nulla rileva, dunque, la circostanza che i lavoratori avessero taciuto la loro qualità di dipendenti pubblici, producendo l’iscrizione alla partita Iva. Il datore di lavoro privato, infatti, ha l’onere di verificare l’assenza delle condizioni che impongono l’autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza e la verifica non si esaurisce con le dichiarazioni dei lavoratori.

 

di Debora Alberici

La moglie consulente fiscale risponde dell’indebita compensazione anche se l’F24 dell’azienda l’ha fatto e trasmesso il marito

Respinto il ricorso della commercialista condannata insieme al partner per aver inventato crediti Iva

La moglie, consulente fiscale dell’azienda del marito, risponde per l’indebita compensazione anche se a redigere e trasmettere l’F24 è il marito, imprenditore.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 44939 del 6 dicembre 2021, ha respinto il ricorso di una commercialista.

La terza sezione penale ha spiegato che il delitto di indebita compensazione di cui all'art. 10-quater d.lgs. 74 del 2000 si consuma al momento della presentazione dell’ultimo modello F24 relativo all'anno interessato e non in quello della successiva dichiarazione dei redditi, in quanto, con l'utilizzo del modello indicato, si perfeziona la condotta decettiva del contribuente, realizzandosi il mancato versamento per effetto dell'indebita compensazione di crediti in realtà non spettanti in base alla normativa fiscale, è certamente configurabile la responsabilità concorsuale tra il consulente fiscale ed il contribuente, soprattutto nel caso di violazioni tributarie seriali e ripetitive.

 

di Dario Ferrara

Il professionista paga i danni anche se lavora gratis

Il prestatore può rinunciare al compenso ma l’obbligo giuridico non viene meno. Scatta comunque la responsabilità aquiliana laddove l’errore reca un pregiudizio a terzi nonostante il titolo di cortesia

Il professionista rischia di dover risarcire il cliente anche se lavora soltanto a titolo di cortesia. Il fatto che il prestatore d’opera intellettuale rinunci al compenso non consente di escludere l’esistenza di un obbligo contrattuale. In ogni caso scatterebbe la responsabilità aquiliana laddove l’errore del lavoratore autonomo genera danni a carico di terzi al di là dell’esistenza di un rapporto contrattuale. È quanto emerge dall’ordinanza 38592/21, pubblicata il 6 dicembre dalla sesta sezione civile della Cassazione.

Locatio operis
È accolto dopo una doppia sconfitta in sede di merito il ricorso proposto dalla signora che ha fatto causa all’ingegnere. La donna deduce di aver pagato al vicino 14 mila euro a titolo di danni per le infiltrazioni d’acqua provenienti dal terrazzo dopo i lavori di ristrutturazione svolti sotto la responsabilità del tecnico. Pesano i documenti prodotti: da una parte c’è l’autorizzazione rilasciata dalla signora al professionista a realizzare le opere, dall’altra la dichiarazione di inizio lavori firmata dall’ingegnere. Sbagliano i giudici del merito a rigettare la domanda sul mero rilievo che l’impegno assunto dal prestatore è da ricondurre a un mero rapporto di cortesia, il che escluderebbe la sussistenza di un vero e proprio vincolo giuridico: deve invece ritenersi che in capo al prestatore sorga un’obbligazione contrattuale ex articolo 2222 Cc anche se non risultano pattuiti un emolumento per la prestazione né una penale per l’inadempimento. Nessun dubbio che il contratto d’opera preveda normalmente un corrispettivo ex articolo 2225 Cc. Ma in tema di locatio operis le parti possono stabilire la gratuità della prestazione. Il che però vuol dire che il professionista rinuncia liberamente al compenso senza però far venir meno l’obbligo contrattuale.

Fatto irrilevante
Il professionista, tuttavia, risponderebbe comunque ai sensi dell’articolo 2043 Cc: non può sottrarsi alla responsabilità per il fatto puro e semplice che non risulta pattuito un compenso o che non vi sia rapporto contrattuale. Parola al giudice del rinvio.

 

di Annamaria Villafrate

Reato di vilipendio togliere fiori da una tomba. 

La Cassazione condanna per vilipendio l'uomo che si aggirava nel cimitero e che le telecamere hanno ripreso mentre toglieva fiori e ceri dalla tomba di una defunta fiori e lumini su una tomba

Vilipendio della tomba togliere fiori e ceri C'è spregio verso la defunta nel rimuovere fiori e ceri dalla tomba?
Non rileva il movente e neppure le modalità dell'azione Vilipendio della tomba togliere fiori e ceri

Il reato di vilipendio non richiede, ai fini dell'integrazione dell'elemento oggettivo che la condotta che denota mancanza di rispetto verso le tombe e i luoghi in cui si trovano, sia commessa con violenza. Neppure il movente dell'azione rileva.

Il vilipendio si configura semplicemente perché si viola il sentimento di pietas che la collettività nutre nei confronti dei defunti e che è la ragione per la quale si adornano le tombe con fiori e simboli religiosi.

Va quindi condannato il soggetto che rimuove dalla tomba di una defunta ceri e fiori, anche se la gestualità è calma e priva di violenza. Questi gli importanti chiarimenti contenuti nella sentenza della Cassazione n. 43093/2021.

La vicenda processuale
Un uomo viene condannato anche in sede d'appello alle pene di legge in relazione al reato di cui all'art. 408 c.p, che punisce gli atti di vilipendio, che lo stesso ha commesso ai danni della tomba di una defunta seppellita nel cimitero comunale di Omegna.

C'è spregio verso la defunta nel rimuovere fiori e ceri dalla tomba?
Il difensore dell'imputato, nel ricorrere in Cassazione solleva i seguenti motivi di doglianza.

Con il primo contesta la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato perché all'imputato sono state contestate condotte ulteriori rispetto a quelle riprese dalle telecamere e perché le stesse sono state ricondotte al reato di vilipendio solo per la loro ripetitività. 

Con il secondo contesta anche la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato perché i gesti non sono stati posti in essere in spregio alla vittima. Dalla calma e dall'assenza di violenza con cui sono stati realizzati si evince infatti il comportamento rispettoso dell'imputato. 

Con il terzo rileva l'omessa motivazione in ordine alla sussistenza dei danni morali riconosciuti alle parti civili, parenti non conviventi della defunta.

La Cassazione rigetta il ricorso avanzato dal difensore dell'imputato perché ritenuto nel complesso manifestamente infondato.

Nell'esaminare i vari motivi sollevati gli Ermellini analizzano i primi due congiuntamente perché connessi rilevandone la infondatezza, perché ripropongono le stesse doglianze già sollevate in sede di appello e sulle quali il giudice competente si è pronunciato e perché sollevano motivi di fatto mai devoluti al giudice di merito di secondo grado.

Passando quindi all'esame dell'art. 408 c.p. che contempla il reato contestato, la Corte rileva che oggetto di tutela è la "pietas" dei defunti, ossia il sentimento individuale e collettivo che si manifesta con il rispetto non necessariamente religioso, verso i defunti e le cose che sono destinate al loro culto nei cimiteri e nei luoghi di sepoltura.

L'elemento oggettivo del reato consiste pertanto in un'azione, definita "vilipendio" che comprende ogni atto da cui si evince disprezzo delle cose appunto usate per il culto dei morti, come croci immagini, fiori e lampade, così come cose destinate all'ornamento o difesa dei cimiteri. Il delitto quindi è previsto per tutelare il rispetto per il luogo di sepoltura, non solo e non tanto il defunto in sé.

Devono quindi considerarsi atti di vilipendio, come già chiarito in passato e in diverse occasioni, i gesti commessi nei confronti delle cose poste nei luoghi di sepoltura, danneggiandole, imprimendovi segni grafici, rimuovendole in tutto o in parte o sostituendole con altre, senza che rilevi la volontà di recare offesa.

Per quanto riguarda l'elemento soggettivo il reato richiede per la sua punibilità il dolo generico, ovvero la coscienza e la volontà del vilipendio e la consapevolezza del carattere del luogo destinato alla sepoltura. Non rileva quindi il movente dell'azione, costituendo vilipendio anche rimuovere fiori da una tomba perché disposti da altri, destinatari in realtà del gesto.

Per la Cassazione la Corte di Appello nel caso specifico ha fatto corretta applicazione dei principi descritti in quanto ha considerato non solo le condotte dell'imputato riprese dalle telecamere, ma anche quelle commesse nei mesi precedenti, periodo in cui è stato visto aggirarsi più volte nel cimitero e fuggire dopo essersi accorto dell'arrivo delle forze dell'ordine dopo che le stesse lo avevano già fermato in un'altra occasione.

La sentenza inoltre ha osservato in modo logico e corretto che i gesti compiuti sulla tomba, ossia danneggiamento di piante e fiori e rimozione dei ceri, sono sintomatici di disprezzo verso i familiari della defunta e verso il sentimento di pietà che essi manifestano proprio con l'apposizione di questi oggetti simbolici.

La rilevanza penale della condotta quindi emerge anche dalla ripetitività dei gesti, non rilevando la calma e l'assenza di violenza che hanno caratterizzato la condotta ripresa dalle telecamere, avendo chiarito l'irrilevanza del movente dell'azione che l'imputato ha qualificato, in sua difesa, in modo positivo, definendoli come rituali di celebra

 

di Dario Ferrara

Niente Imu perché lo stile di vita del contribuente giustifica consumi di energia vicini allo zero

Dimora abituale l’immobile in un Comune di villeggiatura: il proprietario vive solo, è un lavoratore turnista, mangia a mensa e usa l’immobile solo per dormire: senza picchi stagionali le bollette

Il contribuente non paga l’Imu sull’immobile, che pure si trova in un Comune di montagna dove in pochi vivono e in molti vanno in villeggiatura. E ciò benché dalle bollette della luce emergano importi veramente esigui, vale a dire l’indice che le amministrazioni locali utilizzano per escludere la dimora abituale nei locali. Ma a giustificare i bassi consumi di energia è lo stile di vita del proprietario che vive da solo, lavora tutto il giorno, sta spessa da amici e, in fin dei conti, utilizza l’abitazione soltanto per dormire. È quanto emerge dalla sentenza 1417/21, pubblicata dalla seconda sezione della commissione tributaria regionale per il Veneto.

Less is more
Bocciato l’appello del Comune: confermata la valutazione della Ctp Verona che smentisce la tesi dell’ente locale. È vero, le fatture mostrano somme irrisorie: una volta 28 euro, un’altra perfino 11. Ma non sono mai uguali fra i vari periodi, né ci sono picchi stagionali che denota un uso soltanto estivo dell’immobile. Il fatto è che l’uomo, vedovo, ha un lavoro articolato in turni in una società del capoluogo e mangia a mensa. Per il resto sta spesso con gli amici, mentre ha un solo figlio maggiorenne vive per conto suo. Di più: ha l’hobby della caccia che lo porta spesso nei boschi circostanti, mentre non ha elettrodomestici e dichiara di non possedere un televisore. Una vita spartana, insomma: è allora plausibile che il contatore giri poco, anche perché l’andamento dei consumi risulta omogeneo nel corso dell’anno. Ed è dunque dovuta l’esenzione dal tributo locale ex articolo 8 del decreto legislativo 504/92.

 

È mobbing una serie di atti leciti del datore unificati dall’intento persecutorio

Quattro i requisiti della fattispecie: vessazioni sistematiche e prolungate; danno alla salute; nesso eziologico fra condotte datoriali e pregiudizio; elemento soggettivo che lega i comportamenti lesivi

Il mobbing a carico del dipendente scatta anche se la condotta posta in essere dal datore, un suo preposto o perfino dai colleghi, sia costituita da una serie di atti di per sé leciti. E ciò perché ciò che conta è le azioni che siano unificate dal disegno persecutorio. Sono quattro, in particolare, i presupposti che devono sussistere affinché si configuri la fattispecie: le vessazioni sistematiche e prolungate a carico del lavoratore; il danno alla salute riportato dall’interessato; il nesso eziologico fra le condotte datoriali e il pregiudizio patito; l’elemento soggettivo rappresentato dall’intento persecutorio che unifica tutti i comportamenti. È quanto emerge dall’ordinanza 38123/21, pubblicata il 2 dicembre dalla sezione lavoro della Cassazione.

Danno non patrimoniale
Sono bocciati sia il ricorso del Comune sia quello della dipendente: l’uno contestava la condanna, l’altra pretendeva un risarcimento maggiore. Diventa definitiva la pronuncia che dispone a carico dell’ente locale il pagamento di un risarcimento di oltre 62 mila euro in favore della dipendente, dei quali oltre 10 mila a titolo di danno non patrimoniale. E ciò perché la funzionaria è progressivamente messa ai margini dell’ufficio, pur conservandone la titolarità: oltre a essere isolata, viene pure demansionata con il mancato riconoscimento della posizione organizzativa rivestita. Il tutto perché, a quanto pare, il sindaco vuole vendicarsi contro la sorella della lavoratrice che ha rifiutato di candidarsi nella lista del primo alle elezioni amministrative.

Illecito provato
Come che sia, la dipendente è trasferita in una stanza al piano terra, destinata alle relazioni con il pubblico e inadeguata alle funzioni, tra fascicoli stipati per terra. Il tutto con la scusa di dover trovare uno spazio per gli assessori uno spazio, mentre poi la stanza è assegnata a una collega. Scatta poi lo svuotamento delle mansioni: alla funzionaria sono taciute tutte le informazioni. Insomma, anche considerando legittima ciascuna delle condotte, risulta provato l’illecito compiuto in danno della dipendente con l’intento persecutorio: sussiste il nesso eziologico fra i comportamenti e il danno all’integrità psicofisica e alla dignità della lavoratrice.

 

Sospeso dall’Ordine perché non si vaccina

Legittimo sospendere dall’Ordine il medico che non si vaccina contro il Covid-19. E ciò perché è il giuramento di Ippocrate, prim’ancora della legge, che impone al sanitario di curare i malati e di non mettere in pericolo i pazienti con cui entra in contatto. Lo stabilisce il Consiglio di Stato con il decreto 6401/21, emesso il 2 dicembre dalla terza sezione.

Individuo e comunità
Respinta l’istanza cautelare di appello proposta dall’interessato: pesa sulla decisione di Palazzo Spada il principio costituzionale della solidarietà. Sussiste il fumus boni iuris nello stop all’esercizio della professione deciso dall’Ordine nei confronti dell’iscritto. La decisione di primo grado assunta dal Tar Abruzzo valuta in modo adeguato il bilanciamento fra la pretesa del sanitario a non immunizzarsi e l’esigenza essenziale di proteggere la saluta collettiva. E la soluzione è che la necessità di mettere la popolazione al riparo dal virus prevale sui dubbi individuali o di gruppi di cittadini sulla natura dei farmaci somministrati, peraltro in base a «ragioni mai provate» sul piano scientifico. Il rifiuto di farsi somministrare la dose assume una connotazione ancor più peculiare e dirimente quando proviene dal personale sanitario. La vaccinazione massiva, infatti, rappresenta una delle misure indispensabili per ridurre i contagi, che in questi giorni tornano a moltiplicarsi, i ricoveri, le vittime e la circolazione di nuove e pericolose varianti. Il tutto specialmente da parte di chi per motivi di servizio entra ogni giorno in contatto con altri cittadini, che peraltro si trovano in situazione di vulnerabilità.

Danno collettivo
Insomma: il danno irreparabile sarebbe per la collettività dei pazienti e per la salute in generale e non per i dubbi scientifici del sanitario, di fronte all’«imponente quantità di studi scientifici che indicano la netta prevalenza del beneficio vaccinale anti Covid 19 per il singolo e per la riduzione progressiva della pandemia ancora gravemente in atto».

di Patrizia Paciocchi

Per la «pacca» alla giornalista, Daspo e rischio condanna per violenza sessuale
La Cassazione è ormai ferma nel contestare il reato più grave e non la semplice molestia, per punire un gesto evergreen, come quello compiuto la scorsa settimana nei confronti di una giornalista, in diretta Tv

«Per favore ritira la denuncia, come vedi ci ho messo la faccia». Chiede scusa e si dice pentito il tifoso della fiorentina che, in diretta Tv, ha molestato la cronista di un’emittente privata toscana, fuori dallo Stadio. Gesti accompagnati da frasi sessiste anche da parte di altri spettatori al termine dell’incontro dei viola con l’Empoli. C’è da chiedersi se le scuse sarebbero arrivate lo stesso, se le telecamere non avessero immortalato e consegnato a tutta Italia, proprio l’immagine di quella faccia che ora l’uomo, 45 anni, dichiara di averci messo spontaneamente. Intanto per lui è arrivato un Daspo, già in vigore, che lo obbligherà a disertare, per tre anni, le partite della squadra del cuore. Decisamente peggiore l’accusa che pende sul capo del tifoso nell’ambito di un’indagine che ipotizza il reato di violenza sessuale. Accusa che può reggere alla luce della nutrita giurisprudenza della Corte di Cassazione, in tema di “pacche” sui glutei e palpeggiamenti.

La sorpresa della vittima
Orientamenti che, pur con molti distinguo, prendono le distanze dalla minimizzazione dei gesti “rubricati” come semplici molestie. L’ultimo verdetto senza incertezze, la Cassazione lo ha emesso proprio lo scorso 8 marzo. La Suprema corte, con la sentenza 9146/2021, ha affermato che scatta il reato di violenza sessuale, e non quello di molestia sessuale, in caso di «toccamento non casuale dei glutei», anche se sopra i vestiti «essendo configurabile la contravvenzione solo in presenza di espressioni verbali a sfondo sessuale o di atti di corteggiamento invasivo e insistito, diversi dall’abuso sessuale». Ad essere punita con il reato più grave è dunque l’invasione della sfera sessuale, subita dalla vittima che non può opporsi, perchè la mossa è quasi sempre repentina e imprevista. In passato i giudici di legittimità (sentenza 35473/2016) si erano preoccupati di sgombrare il campo dal rischio di confusione con lo sfioramento accidentale, cavallo di battaglia di molti difensori.

La casualità va esclusa, avevano chiarito gli ermellini quando la mano resta sul “posto” un «apprezzabile lasso di tempo» e il gesto è privo di concupiscenza. Un principio che imponeva quasi una prova diabolica e che aveva dato qualche speranza di farla franca ai patiti della mano lesta. Ma presto è arrivata un’inversione di rotta. Già nel 2017 (sentenza 31737) i giudici di legittimità avevano condannato per violenza sessuale un viaggiatore “distratto” che, in areo, mentre era intento a un leggere il giornale, forse non formato tabloid, si era allargato con la mano verso il seno della passeggera di fianco. La Cassazione aveva escluso il caso fortuito, anche perché c’era stato un bis, ovviamente non richiesto, e condannato per un reato che viene punito, secondo la gravità e la presenza di attenuanti, con una pena che va da sei a 12 anni.

Goliardia e casualità: cavalli di battaglia dei difensori
La Suprema corte ha poi mantenuto la rotta. Con la sentenza 31737/2020 ha affermato che per la consumazione del reato di violenza sessuale basta che il colpevole raggiunga le parti intime della persona offesa (zone genitali o comunque erogene). In tal caso non importa la durata del contatto, né che la vittima sia poi riuscita a sottrarsi all’azione dell’aggressore o che questa abbia tratto dal suo gesto una soddisfazione erotica. A pesare sono la sopraffazione fisica e la rapidità dell’azione tale da sorprendere la vittima superando la sua resistenza.Ad essere condannati a causa della loro attrazione per il “lato b”, sono stati in molti: dai giudici ai docenti universitario fino ai carabinieri. Una via molto percorsa, a volte con successo nei tribunali di merito, è quella del gesto goliardico.

Nel 2018 il Gip del Tribunale di Vicenza, su richiesta del Pm, ha archiviato un procedimento nato dalla denuncia di un’impiegata contro il suo capo, che aveva l’abitudine di dare manate sui glutei, come gesto cameratesco e goliardico, almeno così era risultato dalle testimonianze di molti colleghi dell’impiegata. Il Pm aveva allora chiesto l’archiviazione perchè con questo “quadro” l’accusa non avrebbe retto in Tribunale. Il problema è ancora una volta più culturale che giuridico. Basta fare in questi giorni un giro nei siti web che riportano la notizia della cronista toscana. C’è di tutto anche chi rimpiange i bei vecchi tempi in cui la “manata” era considerata un segno di apprezzamento per l’avvenenza femminile. E magari fonte di rammarico per chi non riceveva questo tangibile riconoscimento, perché non degna di attenzione particolare.

 

La Cassazione bacchetta i giudici fiscali: «Non basta annullare, dovete fare il calcolo dei tributi»
Una nuova grana per il giudice tributario onorario, già sotto tiro per la qualità dei giudicati, ritenuti dai professionisti del fisco «insoddisfacenti»
5 otobre 2021

Sentenze parziali e non definitive. Una nuova grana per il giudice tributario onorario, già sotto tiro per la qualità dei giudicati, ritenuti dai professionisti del fisco «insoddisfacenti». Nell’ormai noto 46% di provvedimenti delle Ctr annullati in Cassazione, rientrano anche tutte quelle sentenze che non esaminano nel merito la pretesa tributaria e che non rideterminano l’ammontare dei tributi e delle sanzioni, limitandosi di fatto ad annullare l’accertamento.

Rideterminazione affidata all’Ufficio
La questione è stata affrontata da diverse sentenze della Corte di cassazione, ma ora trova ulteriore fondamento nella decisione 3080 del 2021. Un privato s’è visto recapitare due avvisi di accertamento per maggior reddito imponibile ai fini Irpef. In realtà, come poi ha dimostrato, l’Amministrazione gli aveva erroneamente attributo il 100% dei beni che, però, aveva in regime di comunione legale con la moglie. Nella sua valutazione, la Ctr ha annullato integralmente gli atti impositivi, demandando alla stessa agenzia delle Entrate «il compito di provvedere al ricalcolo del reddito».

Si tratta di un trend diffuso, tanto che la stessa Cassazione, in casi del genere, ha dovuto più volte specificare che sono i giudici del merito a dover rideterminare il valore e non l’Amministrazione, che è parte nel procedimento.

La regola disattesa
La Corte ricorda che esiste un «consolidato orientamento», in quanto «il processo tributario non ha natura esclusivamente impugnatoria e di legalità formale», ma di «impugnazione-merito», perché «diretto a una decisione sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell’accertamento dell’Ufficio» (Cassazione, sezione 6 e 5: 19/09/2014, n. 19750; 28/06/2016, n. 13294; 15/10/2018, n. 25629; 30/10/2018, n. 27560; 10/09/2020, n. 18777; 6/04/2020, n. 7695). Di conseguenza, spetta al giudice del merito «il potere (dovere) di stabilire i limiti quantitativi di fondatezza della pretesa impositiva in modo da adottare una pronuncia sostitutiva sulla

sussistenza ed entità dei presupposti della pretesa fiscale». Il giudice, «qualora ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi al suo annullamento, ma deve esaminare nel merito la pretesa e ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte, restando peraltro, esclusa la pronuncia di una sentenza parziale solo sull’an o di una condanna generica» (Cassazione, sezione 6 e 5: 15/10/2018, n. 25629; 24/01/2018, n. 1728, in motivazione). In conclusione, «quando il giudice ravvisa l’infodatezza parziale della pretesa dell’Amministrazione non deve, né può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dal petitum

 

Colpito al naso durante la prova d’esame di karate: nessun risarcimento

L’attività agonistica implica l’accettazione del rischio ad essa inerente da parte di coloro che vi partecipano, per cui i danni da essi eventualmente sofferti rientranti nell’alea normale ricadono sugli stessi.


G.S. subiva lesioni al setto nasale, durante la prova d'esame di karate, da parte di G.M.

Per questo motivo citava in giudizio quest'ultimo al fine di ottenere un risarcimento per i danni subiti. La ratio decidendi, però, è stata di ritenere che «nel caso di attività sportiva, chi vi partecipa accetta il rischio dei danni che possono derivare durante quella specifica pratica».

 

Cosa accade in caso di pignoramento di conto corrente affidato, ma con saldo negativo

Nel caso in cui il debitore esecutato sia titolare di un conto corrente bancario affidato, con saldo negativo, ma sottoposto a pignoramento, il creditore procedente non potrà pignorare le singole rimesse, che confluiscono sul detto conto, finché queste concorrono semplicemente a determinare una riduzione dello scoperto (sentenze n.9250/2020 e n. 6393/2015). Diversamente, ove esse siano tali da determinare un saldo positivo, sarà quest’ultimo ad essere assoggettato al pignoramento, nei limiti del suo ammontare.

Giuseppe Davide Giagnotti - Avvocato
Cass. civ., sez. III, sent., 23 novembre 2021, n. 36066

Con la sentenza n. 36066, depositata il 23 novembre 2021, la Corte Suprema di Cassazione, Terza Sezione Civile, ha affrontato il tema dell'assoggettabilità al pignoramento delle singole rimesse che affluiscono sul conto corrente del debitore, laddove questo goda di apertura di credito, ma il suo conto abbia, in quel frangente, un saldo negativo.

Cass. civ., sez. III, sent., 23 novembre 2021, n. 36066
Presidente Vivaldi – Relatore Tatangelo

Fatti di causa

G.M. , Gu.Ma. , G.T. , G.M. , B.M. , M.S. e B.P. hanno pignorato i crediti vantati dalla società loro debitrice, In Viaggi S.r.l., nei confronti di varie banche, tra cui la Cassa di Risparmio di Terni e Narni (oggi Intesa Sanpaolo S.p.A.). Quest'ultima ha reso dichiarazione di quantità in senso negativo ed i creditori hanno promosso il giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo. La domanda è stata accolta dal Tribunale di Terni.

 

Colpito al naso durante la prova d’esame di karate: nessun risarcimento
L’attività agonistica implica l’accettazione del rischio ad essa inerente da parte di coloro che vi partecipano, per cui i danni da essi eventualmente sofferti rientranti nell’alea normale ricadono sugli stessi.

G.S. subiva lesioni al setto nasale, durante la prova d'esame di karate, da parte di G.M.

Per questo motivo citava in giudizio quest'ultimo al fine di ottenere un risarcimento per i danni subiti. La ratio decidendi, però, è stata di ritenere che «nel caso di attività sportiva, chi vi partecipa accetta il rischio dei danni che possono derivare durante quella specifica pratica».

 

di Emiliana Sabia

Niente condanna per omessa dichiarazione Iva se dall'estratto conto non risultano i pagamenti collegati alle fatture false

Il giudice non può fare riferimento solo ai controlli incrociati della Finanza presso clienti e fornitori senza operare una verifica sui documenti aziendali

L'estratto conto della società prova l'assenza di pagamenti collegati alle fatture per operazioni inesistenti e, dunque, non può scattare la condanna per omessa dichiarazione Iva dell'imprenditore. Il giudice non può fare riferimento soltanto ai controlli incrociati della Finanza presso clienti e fornitori da cui emerge che le fatture non sono state dichiarate senza operare una verifica sui conti dell'azienda.

Lo sancisce la Cassazione con la sentenza n. 35399/21, pubblicata oggi dalla terza sezione penale. Con la pronuncia, il Palazzaccio accoglie i ricorsi degli imputati, condannati in appello, quali componenti del Cda di una cooperativa, per omessa dichiarazione Iva a otto mesi di carcere. A inchiodare i ricorrenti, le deposizioni di un finanziere sulla ricostruzione del volume di affari attraverso l'esame delle fatture di acquisto e vendita e il successivo controllo incrociato presso clienti e fornitori e da cui era emerso che diverse fatture risultavano non dichiarate.

Il ragionamento della Corte di merito non convince la Cassazione perché se da un lato i giudici riconducono il debito Iva e, quindi, l'imposta evasa «alle risultanze dei documenti fiscalmente rilevanti rinvenuti presso le controparti delle operazioni commerciali imponibili che non erano state contabilizzate dalla cooperativa facente capo agli imputati», d'altro lato, tuttavia, la sentenza impugnata non individua «l'entità concreta dell'evasione Iva e le concrete modalità di determinazione del superamento della soglia di punibilità al pari di quella di primo grado».

La decisione, inoltre, non fornisce alcuna risposta circa le deduzioni difensive «in ordine all'assenza di verifiche e all'esistenza o meno di movimentazioni finanziarie, e in particolare di accrediti corrispondenti alle fatture reperite presso terzi». A questo proposito - evidenzia la terza sezione - a fronte della produzione difensiva di estratti conto «dimostrativi dell'assenza di pagamenti connessi alle fatture», la Corte territoriale ha del tutto omesso di motivare sulle ragioni in base alle quali ha comunque ritenuto «le fatture rappresentative di operazioni commerciali effettive e, quindi, idonee a quantificare il tributo evaso in misura superiore alla soglia di rilevanza». In base a queste considerazioni, la Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio per un nuovo giudizio.

 

Cassazione: Il calciatore paga il procuratore per l'ingaggio anche se il merito non è suo

Salamon deve il 5% dei suoi guadagni lordi con il Milan al suo procuratore perché la revoca

dell'incarico non era stata formalizzata nei tempi e nei modi giusti

 

Caduta in strada: dal Comune ad Autostrade, l’ente gestore paga i danni se non dimostra il «caso fortuito»

Cassazione 8 gennaio 2021

 

Niente vitalizio anticipato per gli ex parlamentari: ricorso inammissibile

Per la Suprema corte è inammissibile il ricorso di Alfano e di altri tre ex parlamentari contro il Regolamento del 2012 che fissa la "pensione" a 60 anni Si allontana la possibilità del vitalizio anticipato per gli ex parlamentari, che avevano presentato ricorso in Cassazione contro le pronunce adottate in sede di autodichia parlamentare dalla Camera, contro il regolamento del 2012 di Montecitorio che fissa la "pensione" a 60 anni.

 

Offese e accuse ingiuste da parte dei colleghi? Paga il datore di lavoro che lascia correre
La lavoratrice aveva riferito di essere oggetto di accuse infondate e offese gratuite da parte di alcuni dipendenti ma il legale rappresentante aveva scelto di non approfondire e di non punire. Va invece monitorata l’integrità dell’ambiente di lavoro

di Patrizia Maciocchi

Offese quotidiane e accuse infondate nei confronti della collega, al solo scopo di prevaricare. Il tutto era stato riferito al legale rappresentante della società che aveva deciso però di non indagare a fondo sulla questione è di non adottare provvedimenti disciplinari in favore della dipendente presa nel mirino. Da qui la condanna della Cassazione (sentenza 27913) a risarcire la lavoratrice per l’invalidità temporanea come conseguenza del mobbing.

La Suprema corte punisce l’inerzia del datore che non solo era stato informato dei fatti ma aveva anche, almeno in un’occasione, sentito delle grida. I giudici di legittimità ricordano che da tempo, in linea con la Carta, sia stato ripudiato, anche dalla giurisprudenza più attenta, «l’ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l’agire privato».

E questo in considerazione del fatto che l’attività produttiva - oggetto di tutela costituzionale in nome dell’iniziativa economica privata - è subordinata all’utilità sociale «che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività, quanto soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e di dignità».

La concezione “patrimonialistica” dell’individuo deve dunque fare un passo indietro di fronte alla dignità della persona. Il dovere del datore non si esaurisce - continua la Cassazione - nel rispetto delle norme igienico-sanitarie e anti-infortunistiche ma si estende ad un obbligo di monitoraggio sull’integrità dell’ambiente nel quale il dipendente svolge il suo lavoro

 

I Dpcm sono anticostituzionali. La bomba passa alla Corte Costituzionale. Il leghista Carderoli spiega perchè Conte non può limitare le nostre libertà. Perchè non danno i verbali del Cts? Ci nascondono qualcosa?

Le liberta costituzionali possono essere compresse solo con una norma di rango costituzionale . Conte le ha limitate con un atto amministrativo contro la quale esiste il ricorso al Tar e al Consiglio di Stato. A creare polemica e stata la decisione di allungare da 30 a 50 giorni gli effetti del decreto.

Superano la sopportabilità e vanno inibite le attività di mercato che disturbino i residenti per il baccano della clientela (Tribunale di Como, 312/2019). Intollerabili anche le attività ricreative e ludiche dell’oratorio che, a causa di trombette e pallonate, pregiudichino il quieto vivere (Tribunale di Palermo, 5 dicembre 2019). I giudici fermano anche i rumori del pub che compromettono la salute psicofisica dei vicini (Tribunale di Catania, 1581/2019) e gli schiamazzi del bar notturno, che ha preso gli accorgimenti per contenere i rumori nei limiti permessi, ma faccia usare ai clienti gli spazi esterni dopo mezzanotte (Cassazione, 2757/2020).

E se i rumori delle attività produttive superiori ai limiti di accettabilità sono comunque illeciti (Tribunale di Termini Imerese, 368/2020), rispettarli non sempre salva da sanzioni se le caratteristiche dei luoghi o altri fattori li rendano insopportabili per l’uomo medio (Cassazione 28201/2018).

I giudici riducono poi gli orari del carwash aperto nei dintorni di alloggi destinati alla villeggiatura (Tribunale di Lecce, 1567/2020). E scatta il risarcimento del danno non patrimoniale per il meccanico che ripari le auto a portoni aperti o fuori dall’officina, compromettendo il pacifico svolgersi delle abitudini quotidiane dei vicini (Tribunale di Lecce, 1249/2019).

Ma ci sono situazioni più gravi che, danneggiando persone non specificate, sforano nel penale ed espongono i titolari delle attività rumorose al rischio di vedersi comminare l’arresto fino a tre mesi o l’ammenda fino a 309 euro.

Le sanzioni penali
Sono stati condannati per il reato previsto dall’articolo 659 del Codice penale, ad esempio, il gestore di un bar che non teneva a bada il fracasso dei clienti in sosta davanti all’ingresso, infrangendo le norme a tutela dell’ordine pubblico (Cassazione, 14750/2020) e quello che diffondeva musica assillante fino all’alba (Tribunale di Pescara 167/2020). Punito il venditore di bevande al minuto che non sappia contenere il chiassoso via vai dei suoi avventori (Cassazione 13915/2020). È reato anche amplificare l’impianto di un hotel, con tanto di serate karaoke o show d’intrattenimento, guastando il riposo di chi dimora nei dintorni (Tribunale di Ascoli Piceno, 479/2019).

Ancora, i giudici hanno riconosciuto la responsabilità penale di un uomo, condannato a 20 giorni di arresto, che lasciando galli e galline liberi di gironzolare nel proprio palazzo, disturbava i condòmini (Cassazione, 41601/2019). Il continuo abbaiare di cani è invece costato 300 euro di ammenda ai proprietari, colpevoli di non aver fatto di tutto per sedare il latrare degli animali (Cassazione, 38901/2018).

Per la condanna non è necessaria - come è accaduto al legale rappresentante di un’associazione culturale rumorosa - né la vastità dell’area interessata dai rumori né il disturbo di un numero rilevante di persone (Cassazione, 18521/2018), essendo sufficienti fastidi idonei a danneggiare un gruppo indeterminato di persone anche se conviventi in spazi ristretti come i condomìni. Non sfuggono a ripercussioni penali neanche l’iracondo che, urlando e rompendo vetri e oggetti, attiri l’attenzione dei passanti in strada (Cassazione, 9361/2018) o il responsabile di una palestra che animi gli allenamenti con musica ad alto volume (Cassazione, 17124/2018).

 

Corsa delle aziende per recuperare 3,4 miliardi di accise non dovute
Due sentenze della Cassazione ... Due sentenze della Cassazione, una nel giugno 2019 e una in ottobre, avevano riconosciuto il diritto dei consumatori di chiedere al fornitore elettrico il rimborso di quanto non dovuto dopo il 2008 e avevano regolato il modo in cui il fornitore elettrico può rivalersi sul Fisco per quanto ha raccolto dai consumatori e girato alle casse pubbliche.

 

No al beneficio prima casa per la coppia che compra due appartamenti ma non li unisce
I contribuenti devono provare di aver rispettato l’impegno assunto in sede di rogito di accorpare le due unità immobiliari e che l’abitazione, risultato della fusione, non è di lusso

 

Scatta il falso ideologico per il medico che, per fare un favore al farmacista che ha venduto un farmaco senza ricetta, lo prescrive sotto dettatura sul suo ricettario bianco. La Corte di cassazione (sentenza 28847), conferma la condanna per la prescrizione di un medicinale senza aver mai visto il paziente.

Senza successo la difesa fa presente che le ricette “incriminate” non erano rosse, e dunque a carico del servizio sanitario nazionale, ma “fogli” liberi del medico di base che non agiva come pubblico ufficiale.

Ad avviso dell’imputato la ricetta bianca era una semplice scrittura privata, che non conteneva nessuna attestazione di fatti di cui doveva essere provata la verità, ed aveva il solo scopo di autorizzare il farmacista alla vendita del farmaco, senza dare atto di una patologia. Un modo, insomma, di rimuovere l’ostacolo che la legge pone alla vendita di tutti i farmaci che non siano da banco.

 

La Cassazione richiede la taratura periodica anche per l'etilometro. Esteso il principio adottato dalla Consulta sui controlli di vel

Se sulle multe per eccesso di velocità tutti stanno attenti a verificare che l’apparecchio di rilevazione sia stato tarato, questa cautela è meno frequente nel caso delle pesanti sanzioni per guida in stato di ebbrezza comminate con gli etilometri. Ciò si deve al fatto che sugli autovelox c’è una sentenza della Corte Costituzionale, la 113/2015, che fece clamore. Ma per gli etilometri l’anno scorso la Cassazione ha applicato lo stesso principio.

La Consulta aveva dichiarato la parziale illegittimità del comma 6 dell’articolo 45 del Codice della strada, nella parte in cui non prevedeva che tutte le apparecchiature impiegate nell’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità fossero sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura.

La Cassazione, con l’ordinanza 1921/2019, ha stabilito che il verbale dell’accertamento con etilometro deve contenere, per un’interpretazione costituzionalmente orientata, l’attestazione della verifica che l’apparecchio da adoperare è stato preventivamente sottoposto alla prescritta ed aggiornata omologazione ed alla indispensabile corretta calibratura.

 

Quando il Fisco non transige: il ristorante chiude per 1,5 euro di sconti
Due ordinanze della Cassazione riportano in primo piano i casi di «ostinazione» dell'amministrazione fiscale. ... E' quanto emerge dalla lettura di due ordinanze depositate il 19 novembre dalla Cassazione (26309 e 26322) che meritano qualche riflessione. ...

La sentenza della Ctr che dava ragione al contribuente era impugnata per Cassazione e i giudici hanno accolto il ricorso compensando però le spese tenuto conto «del modesto importo non versato» (4 euro!).

Proprio così, per un modesto importo tre gradi del giudizio. Vero puntiglio.

Sganciata la bomba Imu. Storica sentenza condanna a pagare tutti

Non c'è più scampo per quanti vogliano evitare di pagare l'Imu. Il vecchio trucco di dividere e spacchettare la famiglia non serve più. La sentenza n. 20130/2020 della Corte di Cassazione ha, infatti, aperto la strada al recupero dell'Imu arretrata da parte delle varie amministrazioni comunali.
 

 

Con ricorso iscritto al n. 3775 del 2018, Immobiliare 31 s.r.l. propone appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, 27 marzo 2018, n. 809, con la quale è stato respinto il ricorso proposto contro il Comune di Vedano al Lambro, A. M. e M. B. e con l’intervento ad adiuvandum di Keller & Associates s.r.l. per l'annullamento, previa sospensione, con tutti gli atti preordinati, consequenziali e connessi,
della deliberazione del Consiglio comunale di Vedano al Lambro n. (omissis);
in subordine, per l’accertamento e la declaratoria del diritto della società AUS srl a realizzare corpi di fabbrica anche in sopraelevazione ed ampliamento all’esistente a distanza inferiore a dieci metri (fino a 9 metri), del manufatto realizzato dai signori B. e M., come se tale manufatto risultasse irrilevante dal punto di vista urbanistico-edilizio-privatistico.
I fatti di causa possono essere così riassunti.

Con il ricorso in prime cure, Aus s.r.l. ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe, con il quale è stata approvata la deroga alle distanze previste dalla disciplina urbanistica comunale in relazione ad una variante di progetto presentata dalle controinteressate per la realizzazione di un ascensore e di un vano scala all’esterno della sagoma dell’immobile di loro proprietà in applicazione della legislazione sull’eliminazione delle barriere architettoniche.
In seguito a tale approvazione, il progetto si trova a un confine di 9 metri invece che di 10 rispetto alla costruzione della ricorrente.
A sostegno del proprio ricorso l’istante ha dedotto la violazione degli artt. 3, 97 e 117 della Costituzione, della legge n. 241/1990, della legge n. 13/1989, della legge n. 1150/1942, del d.lgs. n. 267/2000, del d.P.R. n. 380/2001, della legge regionale n. 12/2005 e n. 6/1989, oltre che la violazione del PRG di Vedano al Lambro, del principio di tipicità degli atti amministrativi e l’eccesso di potere per sviamento, illogicità, contraddittorietà, contrasto con precedenti manifestazioni di volontà, travisamento di fatto e di diritto, difetto di motivazione, carenza d’istruttoria, ingiustizia manifesta, illegittimità derivata, disparità di trattamento.
Si sono costituiti in giudizio il Comune intimato e le controinteressate, che hanno chiesto la reiezione del ricorso per infondatezza nel merito.

E’ intervenuta in giudizio ad adiuvandum Keller & Associates S.r.l., nella sua qualità di nuova proprietaria dell’immobile che in precedenza era della ricorrente.
Successivamente le parti hanno prodotto memorie a sostegno delle rispettive conclusioni.
All’udienza pubblica del 14 marzo 2018 il ricorso è stato discusso e deciso con la sentenza appellata. In essa, il T.A.R. riteneva infondate le censure proposte, sottolineando la correttezza dell’operato della pubblica amministrazione, in relazione alla natura delle opere realizzate, mirate all’eliminazione di barriere architettoniche.
Contestando le statuizioni del primo giudice, la parte appellante Immobiliare 31 s.r.l. (già Keller & Associates s.r.l. e subacquirente dell’immobile, evidenzia l’errata ricostruzione in fatto e in diritto operata dal giudice di prime cure, riproponendo come motivi di appello le originarie censure, meglio descritte in parte motiva.

Nel giudizio di appello, si sono costituiti il Comune di Vedano al Lambro e A. M., chiedendo di dichiarare inammissibile o, in via gradata, rigettare il ricorso.
All’udienza del 7 giugno 2018, l’esame dell’istanza cautelare veniva rinviato al merito.
Alla pubblica udienza del 6 giugno 2019, la Sezione richiedeva adempimenti istruttori, con ordinanza 18 giugno 2019 n. 4110, disponendo di “acquisire:
a) dal Comune di Vedano al Lambro, una relazione fotografica esplicativa (atteso che la produzione fotografica agli atti risulta indecifrabile) sulle opere realizzate, anche all’interno dell’edificio;
b) dalle parti controinteressate, una relazione tecnica che illustri quali soluzioni alternative sono state considerate e per quali ragioni sono state scartate, allegando idonea documentazione sulle valutazioni allora fatte.”
Alla pubblica udienza del 2 luglio 2020, il ricorso è stato discusso e assunto in decisione. Diritto

1. - L’appello è fondato e merita accoglimento entro i termini di seguito precisati.
2. - La disamina della vicenda deve necessariamente partire dall’esame delle opere realizzate e dalla loro corretta sussunzione all’interno delle categorie giuridiche dell’edilizia.
La questione in esame attiene infatti due diversi manufatti: il primo è un ascensore esterno al perimetro dell’edificio; il secondo è un vano scala, realizzato in sostituzione delle scale originariamente interne e posto parimenti all’esterno della sagoma dell’immobile, contornando il citato ascensore.
Il giudice di prime cure ha considerato i due detti manufatti in maniera unitaria, inquadrandoli entrambi nell’area di applicazione della legislazione sull’eliminazione delle barriere architettoniche, sulla base di una doppia considerazione. In primo luogo, ha ripreso la nozione di barriere architettoniche, contenuta nell'art. 2, lett. A), punti a) e b), d.m. 14 giugno 1989 n. 236, rubricato “Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e della eliminazione delle barriere architettoniche", che le definisce “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o

temporanea", ovvero "gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti". In secondo luogo, ha affermato che “Appare pertanto evidente che fra tali ostacoli debbono annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento - e, dunque, di "disagio" - per chiunque, a causa dell'età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici. Invero, non può ragionevolmente negarsi che l'installazione di ascensori costituisca anche rimozione di barriere architettoniche.”
La detta affermazione, in relazione alla prima delle due opere de qua, appare del tutto condivisibile, proprio per le ragioni espresse (e già scrutinate da questo giudice d’appello, Cons. Stato, VI, 5 marzo 2014, n. 1032) che rimarcano come l’utilizzo di un ascensore, in sostituzione delle scale, elimini gli ostacoli determinati dalle scale.

Meno condivisibile e, anzi, del tutto perplesso, è l’inquadramento, peraltro non motivato, nella stessa categoria concettuale anche delle scale esterne, ossia delle opere che determinano l’attuale contenzioso (atteso che, come evidenzia l’appello – pag. 9 – “è proprio la parte esterna della scala – larga 1,50 metri – a trovarsi illegittimamente ed illecitamente ex DM LL PP 02.04.1968 nella fascia dei 10 metri dalla parete finestrata dell’edificio della società ricorrente”).
A tal proposito, occorre ricordare che la finalità della legge 9 gennaio 1989, n. 13 "Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati" è quella di permettere, come recita l’art. 2, “le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche” e, a questo fine, introduce una serie di agevolazioni ai fini autorizzatori. Pertanto, la norma è teleologicamente diretta ad eliminare le barriere e solo in funzione di tale obiettivo possono avere spazio le dette agevolazioni.

Nel caso in esame, per l’abbattimento della barriera architettonica, ossia la scala interna, si opera in due sensi diversi: per un verso, si realizza il citato ascensore, il che appare compatibile, come sopra detto, con la ratio legis; per altro verso, le scale preesistenti vengono spostate all’esterno dell’edificio, con recupero degli spazi interni e contestuale ampliamento degli spazi abitabili. Questa seconda fase realizzativa appare del tutto ultronea e non collegata con la prima. Infatti, la mera traslazione di una barriera da un luogo fisico ad un altro non concretizza l’eliminazione voluta dalla legge (anche quando questo concetto venga interpretato nel senso ampliativo sopra indicato che permette che la rimozione degli ostacoli avvenga con un’opera aggiunta a quella esistente), per l’evidente ragione che gli ostacoli permangono, seppur diversamente localizzati, perpetuando la situazione avversata dal legislatore.

Conclusivamente, mentre può sicuramente concordarsi col T.A.R. in relazione all’inquadramento tra le opere di cui alla legge 9 gennaio 1989, n. 13 del citato ascensore, deve invece escludersi che la scala esterna qui in scrutinio possa essere considerata opera di abbattimento di barriere architettoniche.
Una volta meglio inquadrata la problematica in esame, appaiono facilmente scrutinabili le doglianze proposte.
3. - Con il primo motivo di diritto, viene lamentato come il T.A.R. Lombardia ha omesso di pronunciarsi sul primo motivo, con cui è stata dedotta l’illegittimità dell’atto impugnato perché la deroga edilizia non può essere concessa in sanatoria.
3.1. - La censura è fondata e va accolta.

Occorre ricordare come il permesso di costruire in deroga di cui all'art. 14, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 sia un istituto di carattere eccezionale rispetto all'ordinario titolo edilizio e rappresenta l'espressione di un potere ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di natura urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa delibera del Consiglio comunale. In tale procedimento il Consiglio comunale è chiamato ad operare una comparazione tra l'interesse pubblico al rispetto della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l'interesse costruttivo e, come ogni altra scelta pianificatoria, la valutazione di interesse pubblico della realizzazione di un intervento in deroga alle previsioni dello strumento urbanistico è espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui l'amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la sua sindacabilità in sede giurisdizionale solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità e dall'evidente travisamento dei fatti (da ultimo, Cons. Stato, IV, 24 ottobre 2019, n.7228).

L’esistenza di una così particolare articolazione procedimentale evidenzia una incompatibilità funzionale e strutturale con l’ordinario sistema della sanatoria edilizia di cui all'art. 36 del t.u. dell'edilizia approvato con d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, che richiede la conformità dell'intervento da assentire non solo allo strumento urbanistico vigente all'epoca dell'edificazione sine titulo, ma anche a quello vigente al tempo in cui è domandata la sanatoria.
Infatti, in primo luogo, va valorizzato la necessaria previa deliberazione del consiglio comunale, che contempla anche le specifiche garanzie partecipative per i soggetti interessati. Quindi, la considerazione dei contrapposti interessi dei soggetti che potrebbero subire pregiudizio dal rilascio del titolo e un simile iter procedimentale sono evidentemente incompatibili con una valutazione postuma di tali dati. Per altro verso, il titolo sanante ai sensi dell'art. 36 è rilasciato all’esito di un diverso procedimento collegato alla sussistenza del requisito della doppia conformità delle opere sia al momento della realizzazione dell'intervento senza titolo, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente.

Pertanto, è ben condivisibile l’affermazione del principio secondo il quale il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici è istituto di carattere eccezionale giustificato dalla necessità di soddisfare esigenze straordinarie rispetto agli interessi primati garantiti dalla disciplina urbanistica generale e, in quanto tale, applicabile esclusivamente entro i limiti tassativamente previsti dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 14, e mediante la specifica procedura.
Ciò porta ad escludere che possa essere rilasciato "in sanatoria" dopo l'esecuzione delle opere e che, anzi, sia “esclusa, pertanto, nel vigente ordinamento l'esistenza di poteri di sanatoria in deroga” (Cons. Stato, V, 30 agosto 2004, n.5622; Cass. pen., III, 31 marzo 2011, n.16591).
3.2. - Il motivo va quindi respinto e consente di ritenere assorbito il terzo motivo di appello, dove si lamenta l’erroneità dell’appellata sentenza laddove ritiene che la delibera consiliare impugnata sia sufficientemente motivata con richiamo ad un’autonoma valutazione che avrebbe operato l’organo competente in esecuzione della sentenza intervenuta tra le parti che aveva annullato per incompetenza il precedente atto dirigenziale, così convalidandolo.
Vista la necessità della necessaria partecipazione procedimentale sopra evidenziata, anche il tema della motivazione avrebbe dovuto essere valutato in funzione di tale esigenza ma resta comunque superato dall’incompatibilità giuridica di una delibera di autorizzazione in deroga, comunque argomentata, con il procedimento di sanatoria.

4. - Con il secondo motivo, viene censurata la sentenza appellata nella parte in cui ha riconosciuto che le nuove opere realizzate siano assoggettabili alla generale disciplina per il superamento delle barriere architettoniche, ritenendole – quindi - esonerate dal rispetto delle distanze legali tra costruzioni ai sensi degli artt. 78 e 79 del DPR 380/2001 e dall’art. 19 della LR Lombardia 6/1989.
4.1. - Il motivo è fondato in relazione a quanto già evidenziato in relazione all’inquadramento delle opere de qua.
Si può pertanto fare rinvio in generale a quanto già evidenziato, con una ulteriore addenda in relazione alla valutazione contenuta in sentenza per cui il nuovo corpo edilizio realizzato e formato dall’ascensore e dalle scale esterne costituisca idonea soluzione tecnica migliorativa per consentire agli utenti l’uscita dall’ascensore direttamente sul pianerottolo così superando la precedente criticità rappresentata da ostacoli fisici situati all’uscita dall’ascensore, senza che siano state provate possibili ulteriori alternative.

In primo luogo, deve notarsi come, secondo il principio dell’onere della prova, di cui all’art. 2697 cod. civ., la prova del fatto favorevole deve gravare sulla parte che se ne giova che, in questo caso, è la parte che voleva conseguire l’autorizzazione in deroga. È pertanto erronea l’affermazione del T.A.R. per cui sarebbe stata la controparte quella incaricata di fornire la dimostrazione dell’esistenza di soluzioni alternative
Per altro verso, va evidenziato come a seguito dell’istruttoria disposta con ordinanza 18 giugno 2019 n. 4110, è emerso come fossero comunque prospettabili soluzioni alternative a quella realizzata, sebbene con costi e oneri diversi. Il che rende evidente come, anche da questo punto di vista, la soluzione adottata non fosse necessitata né unica. Ovviamente, è da considerare il tema dell’onerosità ma questo non è presupposto considerato dalla normativa e quindi idoneo a mutare l’assetto degli interessi delineato dal legislatore.
Anche il secondo motivo di diritto deve quindi essere accolto.
5. - È invece irrilevante il quarto motivo di ricorso, dove si lamenta come il T.A.R. Lombardia abbia omesso di esaminare la questione di costituzionalità sollevata in via subordinata nel ricorso introduttivo e riproposta in appello.

Infatti, dal momento in cui non sussistono i requisiti per l’applicazione del procedimento in deroga, appare inapplicabile al caso concreto la disciplina regionale evocata, sulla quale la parte appellante solleva questione di costituzionalità.
Pertanto, non dovendo essere applicata la detta disciplina, viene a mancare l’indispensabile requisito della rilevanza per portare la vicenda all’attenzione della Corte costituzionale.
6. - L’appello va quindi accolto, con le precisazioni sopra indicate in relazione alla diversità delle opere realizzate. Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. Le spese processuali possono essere compensate in relazione alla parziale novità della vicenda.

P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, così provvede:

1. Accoglie l’appello n. 3775 del 2018 e, per l’effetto, in riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, 27 marzo 2018, n. 809, accoglie il ricorso di primo grado;
2. Compensa integralmente tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

 

Senza permesso di costruire il pergolato su cui sono installati i pannelli fotovoltaici
Annullato lo stop del Comune: non si tratta di una tettoia che trasforma il terrazzo in una superficie coperta, l’impianto che serve l’appartamento è una pertinenza che rientra nell’attività edilizia libera

Annullato. Addio al provvedimento del Comune che boccia il pergolato su cui è installato il pannello fotovoltaico a servizio dell’appartamento. E ciò perché l’impianto che produce l’energia elettrica per l’abitazione costituisce una pertinenza urbanistica dei locali e dunque rientra nell’attività edilizia libera. A maggior ragione dopo il decreto Scia 2. È quanto emerge dalla sentenza 531/20, pubblicata dalla sezione terza del Tar Puglia.

Autoconsumo domestico
Accolto il ricorso del proprietario di casa: sbaglia il Comune a bloccare il progetto del pergolato a sostegno dell’impianto per la produzione di elettricità per l’autoconsumo domestico. E ciò perché il pergolato non ha bisogno di un titolo abilitativo: è soltanto un sostegno ai pannelli realizzato in legno lamellare che non prevede l’esecuzione di opere in muratura. Insomma: è escluso che il titolare dei locali voglia realizzare una tettoia per ottenere una superficie non residenziale coperta, trasformando in veranda il terrazzo, come invece ritengono i tecnici dell’amministrazione. Già prima della riforma la giurisprudenza amministrativa aveva peraltro chiarito che i pannelli costituivano opere assentibili ex articolo 22 del testo unico dell’edilizia.

Collocazione oscura
È vero, l’impianto deve essere conforme agli strumenti urbanistici del Comune. Nella specie il pergolato sorge al terzo piano e si pone il problema dell’allineamento agli altri edifici. Ma la circostanza non viene contestata dall’amministrazione, che parte invece dal presupposto di una diversa ma non chiara collocazione urbanistica.

---L’ente deve pubblicare la sua Pec nel registro delle amministrazioni per consentire le notifiche
Quindici giorni per provvedere all’azienda ospedaliera inadempiente: vittoria della camera amministrativa, la legge non lascia alcuna discrezionalità e per ottemperare bastano risorse minime

Quindici giorni per adempiere. L’azienda ospedaliera deve comunicare al registro ad hoc delle pubbliche amministrazioni per consentire le notifiche online nelle cause con i privati. E ciò perché il termine per adempiere è scaduto da un pezzo e per ottemperare servono risorse minime. È quanto emerge dalla sentenza 585/20, pubblicata dalla prima sezione del Tar Calabria.

Elenco consultabile
Vittoria per la Camera amministrativa distrettuale degli avvocati delle Province di Catanzaro, Cosenza, Crotone e Vibo Valentia: l’ente pubblico deve provvedere agli adempimenti dettati dall’articolo 16, comma dodicesimo, del decreto legge 179/12, il dl sviluppo bis. L’indirizzo di posta elettronica certificata non è presente nell’elenco gestito dal ministero della Giustizia e consultabile dagli uffici giudiziari, dagli uffici notificazioni, esecuzioni e protesti e dagli avvocati: il termine per ottemperare era fissato al 30 novembre 2014. E la legge non lascia all’amministrazione alcuna discrezionalità nell’adempiere. Né è dimostrato che la dovuta comunicazione dell’ospedale abbia avuto luogo.

Indubbia legittimazione
Nessun dubbio che la Camera amministrativa sia legittimata a ottenere la condanna dell’ente: produce l’atto costitutivo e lo statuto dimostrando che è preposta a tutelare gli interessi degli avvocati amministrativi del distretto in cui ricade l’ospedale “incriminato”. E sicuramente gli avvocati sono titolari di una posizione giuridica rilevante come soggetti che hanno accesso all’elenco delle Pec tenuto da Via Arenula.

NB: Il Comune di Lipari a chi aspetta per pubblicare la sua Pec nel registro delle amministrazioni pubblIche?


Il proprietario del terreno non può essere diffidato a bonificare solo perché il sito è contaminato
Vale il principio Ue «chi inquina paga»: solo con «indizi plausibili» l’amministrazione può pretendere gli interventi dal titolare, salvo rivalsa. Ma servono istruttoria e accertamento rigorosi

Il proprietario non può essere diffidato a bonificare il terreno solo perché il sito risulta contaminato. Vale, infatti, il principio eurounitario «chi inquina paga»: il titolare dell’area non porta una responsabilità oggettiva, anzi l’amministrazione ha bisogno di un’istruttoria adeguata e di un accertamento rigoroso sul nesso causale fra le condotte imputabili e l’evento dannoso. È quanto emerge dalla sentenza 202/20, pubblicata dalla prima sezione della sede di Brescia del Tar Lombardia.

Misure di prevenzione
Accolto il ricorso della società che aveva acquisito parte di una cava per realizzarvi un impianto per il pretrattamento di rifiuti: annullato il provvedimento della Provincia che impone all’impresa di intervenire soltanto perché l’azienda era titolare di una porzione del terreno, che peraltro all’epoca dei riempimenti non autorizzati era stato concesso in comodato alla ditta incaricata dei lavori. In base all’articolo 242 e seguenti del testo unico dell’ambiente, infatti, gli interventi di ripristino possono essere imposti soltanto a chi è responsabile dell’inquinamento oppure ai soggetti che l’hanno determinato in tutto o in parte con i loro comportamenti commissivi o omissivi. Il proprietario, comunque, ha la facoltà di realizzare volontariamente tutti gli interventi necessari, come d’altronde ogni altro soggetto interessato. Per il resto risulta tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione.

Presunzione e fondamento
Come si fa a identificare il responsabile dell’inquinamento? Fondamentali le indicazioni fornite dalla Corte di giustizia europea: in Italia non si applica il criterio penalistico della colpevolezza affermata soltanto oltre ogni «ragionevole dubbio», ma è in base il canone civilistico del più «probabile che non» che va individuato il nesso causale fra l’attività industriale svolta nel sito e la contaminazione dell’area. Ad esempio verificando se c’è corrispondenza fra i componenti e le materie prima impiegate dal produttore e le sostanze inquinanti ritrovate nel terreno. Insomma: l’autorità ha bisogno di «indizi plausibili» per dare fondamento alla sua presunzione. E dunque la Provincia avrebbe dovuto attivarsi, sentendo il Comune, senza poter coinvolgere l’ex proprietaria dei suoli sulla sola base della titolarità dei suoli: così facendo ha violato tanto il codice dell’ambiente quanto i principi Ue.

Valore e onere
Resta da capire che cosa succede se il “colpevole” della contaminazione non viene scoperto o non provvede alla bonifica. In tal caso a provvedere è l’amministrazione competente e le spese sostenute per i provvedimenti necessari possono essere recuperate agendo in rivalsa nei confronti del proprietario, che risponde entro i limiti del valore di mercato del sito dopo la bonifica. E a garanzia dell’amministrazione il fondo è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare.

---Decadenza permesso di costruire per mancato inizio lavori: insufficienza di una foto aerea Google Earth TAR Sardegna
Una foto aerea di Google Earth non è sufficiente per dichiarare la decadenza del permesso di costruire per mancato inizio dei lavori
L’onere della prova del mancato inizio dei lavori assentiti con il permesso di costruire incombe al Comune che ne dichiara la decadenza, alla stregua del principio generale in forza del quale i presupposti dell’atto adottato devono essere accertati dall’autorità emanante.

La giurisprudenza ritiene che le foto aeree di Google Earth non assicurino con certezza la data del rilevamento; ad esempio, è stato affermato che “il Collegio non ritiene che i rilevamenti tratti da Google Earth prodotti in giudizio possano costituire, di per sé ed in assenza di più circostanziati elementi che la ricorrente non ha fornito, documenti idonei al prefato scopo e ciò, in particolare, in considerazione della provenienza del suddetto rilevamento, delle incertezze in merito all’epoca di risalenza delle immagini visualizzate (come emerge dallo stesso sito – alla pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it – per impostazione predefinita il software “visualizza le immagini di qualità migliore disponibili per una determinata località”, con la precisazione che “a volte potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide rispetto a quelle più recenti”), della genericità delle informazioni relative ai metodi di esecuzione del rilevamento medesimo” (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, sent. 27 novembre 2014 n. 6118).

di Annamaria Villafrate

La colpa di una violenza sessuale perpetrata da alcuni minori ai danni di un'altra minore ricade sui genitori. Su di essi grava quindi l'obbligo di risarcire i danni riconosciuti alla vittima della violenza sessuale, se dalle perizie realizzate al momento dei fatti e successivamente emerge la cattiva educazione dei figli e il loro atteggiamento violento e prevaricatore. A stabilirlo la sentenza n. 63/2020 della Corte d'Appello di Catanzaro.

Violenza sessuale e richiesta risarcitoria
Genitori responsabili se la citazione è notificata quando il figlio è maggiorenne?
I genitori devono risarcire la violenza sessuale se non hanno educato bene il figlio
Violenza sessuale e richiesta risarcitoria

In giudizio vengono convenuti alcuni ragazzi e i loro genitori affinché, previo accertamento della responsabilità dei giovani, accusati di aver perpetrato e concorso a perpetrare violenza sessuale ai danni di una minore, siano condannati a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti.

Le istanti raccontano che un pomeriggio di novembre 2004 la minore, colta da una pioggia improvvisa mentre si trovava fuori casa, si rifugiava in una casa in costruzione, dove, dopo essere stata raggiunta da alcuni ragazzi, veniva costretta a subire un rapporto sessuale da uno di questi, mentre un altro tratteneva la sua amica, che non poteva soccorrere la vittima che nel frattempo urlava e chiedeva aiuto.

Il Tribunale accoglie in parte la domanda condannando il violentatore e il complice (nella misura del 30%) a risarcire i danni richiesti. Una sentenza successiva dispone la condanna all'integrale risarcimento del danno perpetrato ai danni delle vittime.

Genitori responsabili se la citazione è notificata quando il figlio è maggiorenne?
Due dei genitori citati in giudizio ripropongono in appello, con il primo motivo, la carenza di legittimazione passiva nel procedimento già sollevata innanzi al Tribunale, perché al momento della notifica dell'atto di citazione essi non esercitavano più la potestà sul figlio, diventato nel frattempo maggiorenne.

Con il secondo motivo d'appello invece rilevano l'erroneità della sentenza di primo grado, che li ha considerati responsabili ai sensi del 2048 c.c. "senza considerare che l'evento per cui è causa è fine a se stesso, cioè è episodico, e come tale non è ascrivibile a mancanza di adeguata educazione familiare, ma piuttosto ad un fatto isolatamente dissonante spiega l'equipe socio familiare."

I genitori devono risarcire la violenza sessuale se non hanno educato bene il figlio
La Corte d'Appello, nel respingere le doglianze dei genitori, fa presente che il giudice di primo grado "ha disatteso l'eccezione in parola richiamando la giurisprudenza della Suprema Corte che ha chiarito che la responsabilità dei genitori per il fatto illecito dei minori, ai sensi dell'art. 2048 c.c., può concorrere con quella degli stessi minori fondata sull'art. 2043 c.c., se capaci di intendere e volere (...) dovendo pertanto ritenersi, da un lato sussistente la legittimazione passiva (dei due giovani responsabili della violenza) essendo, ormai maggiorenni all'epoca della proposizione del giudizio, dall'altra quella dei genitori, in proprio, ai sensi dell'art. 2048, e non quali genitori esercenti la potestà sul minore."

Il primo motivo di appello però per la Corte deve essere esaminato congiuntamente con il secondo al quale è strettamente connesso. Contrariamente a quanto sostenuto dai genitori, infatti il Tribunale non è giunto a considerare i genitori seccamente e automaticamente responsabili per la condotta del figlio. Esso "ha piuttosto ritenuto non raggiunta dai genitori del (…) la prova positiva di aver impartito al figlio una buona educazione e di aver esercitato su di lui una vigilanza adeguata, il tutto in conformità alle condizioni sociali, familiari, all'età, al carattere e all'indole del minore. In tal senso, ha evidenziato come alla luce delle evenienze istruttorie di cui si è ampiamente sopradetto (Relazione redatta dagli operatori della (...), sommarie informazioni rese da ……..), l'episodio di violenza in oggetto perpetrato da (…) non potesse considerarsi come un fatto isolato, ma come strettamente connesso ad una personalità incline alla violenza ed alla sopraffazione degli altri, "che è a sua volta il frutto di un'educazione non adeguata."

Tali conclusioni non vengono scalfite dal fatto che la relazione riporti che i genitori sono sembrate persone in grado di svolgere la loro funzione educativa tale da consentire al figlio una perfetta integrazione nella società e nel mondo del lavoro, perché dalla perizia redatta nei tre anni successivi tali conclusioni positive non sono state confermate.

di Lucia Izzo

Il Ministero dell'Interno sulla notifica delle multe a mezzo PEC

Particolari accorgimenti quando il veicolo con cui è stata commessa la violazione è intestato alla persona fisica e non all'impresa. Bandite le ricerche indiscriminate partendo dal Codice Fiscale della persona fisica senza valutare le concrete modalità di utilizzo del veicolo che ha commesso la violazione.

Lo ha chiarito il Ministero dell'Interno nella circolare 300/A/4027/20/127/9 dell'8 giugno in materia di notificazione a mezzo PEC delle sanzioni amministrative per violazioni del Codice della Strada.
Il Ministero ha fatto seguito alla richiesta del Garante per la protezione dei dati personali di intervenire sull'argomento, stante alcune segnalazioni giunte all'autorità, e ha allineato la precedente circolare in materia alle indicazioni normative del Regolamento (UE) 2016/679 e del D.lgs. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali).
Rischio di illecita comunicazione dei dati personali

Secondo l'Autorità, in caso di notifica a mezzo PEC di un verbale a persona titolare di un'impresa individuale, regolarmente iscritta al registro delle imprese, si rende necessario utilizzare particolari accorgimenti quando il veicolo con cui la violazione è stata commessa risulti essere intestato all'interessato, persona fisica, e non all'impresa come persona giuridica.
In tali casi, infatti, il veicolo potrebbe essere effettivamente utilizzato da questi a titolo privato e non nell'esercizio di attività imprenditoriale. Pertanto, l'autorità rappresenta che in simili circostanze la notifica del verbale all'indirizzo PEC, ottenuto attraverso la consultazione del registro INI-PEC, può determinare un'illecita comunicazione dei dati personali a terzi, essendo la PEC stessa visibile a tutto il personale dell'azienda.


La problematica origina dalla particolare conformazione del registro INI­ PEC che, con riferimento alle imprese individuali, non consente di distinguere l'indirizzo della persona fisica che ne è titolare da quello dell'impresa come persona giuridica.
Ricerca indirizzo PEC del proprietario obbligato in solido
In ragione delle indicazioni fomite dall'Autorità Garante, il Ministero fornisce le seguenti ulteriori istruzioni operative.

In primis, nella ricerca dell'indirizzo PEC dell'obbligato in solido proprietario del veicolo con cui è stata commessa una violazione, potrà essere utilizzato il codice fiscale della persona fisica (estratto dalle annotazioni presenti negli archivi del PRA o dall'anagrafe tributaria) inserendolo nella sezione "imprese" del registro INI­ PEC solo quando è stato accertato, ad esempio in occasione della contestazione immediata della violazione, che il veicolo con cui la violazione è stata commessa era utilizzato nell'esercizio di attività imprenditoriale.
In ogni altro caso (es. violazione accertata con dispositivi di controllo remoto, senza contestazione immediata), il codice fiscale della persona fisica intestataria del veicolo può essere utilizzato solo per interrogazioni della sezione "professionisti" del registro INI-PEC.
Niente ricerche massive e indiscriminate

In nessun caso potranno essere effettuate ricerche massive e indiscriminate di indirizzi PEC partendo dal codice fiscale di una persona fisica, svincolate dalla valutazione del singolo caso e dalle concrete modalità di utilizzo del veicolo oggetto di accertamento della violazione.
Infine, la notifica del verbale a mezzo PEC non sarà obbligatoria nel caso di abbinamento del codice fiscale della persona fisica ad una PEC di chiara matrice aziendale; in tali casi, la notifica del verbale di violazione deve essere effettuata nelle forme ordinarie, senza il ricorso alla PEC.

---Il proprietario non può essere diffidato a bonificare il terreno solo perché il sito risulta contaminato. Vale, infatti, il principio eurounitario «chi inquina paga»: il titolare dell’area non porta una responsabilità ggettiva, anzi l’amministrazione ha bisogno di un’istruttoria adeguata e di un accertamento rigoroso sul nesso causale fra le condotte imputabili e l’evento dannoso. È quanto emerge dalla sentenza 202/20, pubblicata dalla prima sezione della sede di Brescia del Tar .

Accolto il ricorso della società che aveva acquisito parte di una cava per realizzarvi un impianto per il pretrattamento di rifiuti: annullato il provvedimento della Provincia che impone all’impresa di intervenire soltanto perché l’azienda era titolare di una porzione del terreno, che peraltro all’epoca dei riempimenti non autorizzati era stato concesso in comodato alla ditta incaricata dei lavori. In base all’articolo 242 e seguenti del testo unico dell’ambiente, infatti, gli interventi di ripristino possono essere imposti soltanto a chi è responsabile dell’inquinamento oppure ai soggetti che l’hanno determinato in tutto o in parte con i loro comportamenti commissivi o omissivi. Il proprietario, comunque, ha la facoltà di realizzare volontariamente tutti gli interventi necessari, come d’altronde ogni altro soggetto interessato. Per il resto risulta tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione.

Presunzione e fondamento
Come si fa a identificare il responsabile dell’inquinamento? Fondamentali le indicazioni fornite dalla Corte di giustizia europea: in Italia non si applica il criterio penalistico della colpevolezza affermata soltanto oltre ogni «ragionevole dubbio», ma è in base il canone civilistico del più «probabile che non» che va individuato il nesso causale fra l’attività industriale svolta nel sito e la contaminazione dell’area. Ad esempio verificando se c’è corrispondenza fra i componenti e le materie prima impiegate dal produttore e le sostanze inquinanti ritrovate nel terreno. Insomma: l’autorità ha bisogno di «indizi plausibili» per dare fondamento alla sua presunzione. E dunque la Provincia avrebbe dovuto attivarsi, sentendo il Comune, senza poter coinvolgere l’ex proprietaria dei suoli sulla sola base della titolarità dei suoli: così facendo ha violato tanto il codice dell’ambiente quanto i principi Ue.

Valore e onere
Resta da capire che cosa succede se il “colpevole” della contaminazione non viene scoperto o non provvede alla bonifica. In tal caso a provvedere è l’amministrazione competente e le spese sostenute per i provvedimenti necessari possono essere recuperate agendo in rivalsa nei confronti del proprietario, che risponde entro i limiti del valore di mercato del sito dopo la bonifica. E a garanzia dell’amministrazione il fondo è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare.

---La mamma paga 10 mila euro al papà perché non gli ha fatto vedere la figlia per due anni
Condannata a risarcire la donna che sparisce all’estero con la minore, riconsegnata al padre solo grazie al giudice: esercizio della responsabilità genitoriale precluso con lesione alla sfera affettiva

La mamma paga 10 mila euro al papà perché non gli ha fatto vedere la figlia per circa due anni. Evidente la lesione prodotta nella sfera affettiva di lui: lei sparisce all’estero con la minore, che è riconsegnata all’uomo soltanto grazie all’intervento di un giudice. E il danno creato dall’irreperibilità della madre si risolve anche nell’aver impedito al padre l’esercizio della responsabilità genitoriale oltre che precluso il corretto svolgimento delle prescrizioni del giudice sull’affidamento della bimba. È quanto emerge dalla sentenza 588/20, pubblicata dalla prima sezione civile del tribunale di Modena (giudice Sira Sartini).

Nesso causale
Con la separazione dei coniugi la figlia è affidata in via esclusiva al padre mentre la madre, una cittadina nigeriana, potrà vederla soltanto nell’ambito di incontri protetti organizzate dai servizi sociali (sempre ammesso che rientri in Italia e ne faccia richiesta). Accolta l’istanza proposta dall’uomo ex articolo 709 ter Cpc, che contiene anche la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale. Non c’è dubbio che la condotta della donna integri la lesione alla sfera affettiva dell’uomo che a lungo non può mettersi in contatto con la figlia, che oggi ha dieci anni, oltre a non poterla vedere né frequentare: la donna è rintracciata addirittura in Canada e soltanto grazie all’intervento di un giudice di Oltreoceano la bambina può tornare a casa. Sussistono, dunque, il pregiudizio concreto e il nesso causale fra la condotta pregiudizievole e il danno lamentato, vale a dire i requisiti che fanno scattare il rimedio risarcitorio previsto al punto 3 dell’articolo 709 ter Cpc.

Liquidazione equitativa
Il danno è liquidato in via equitativa e tiene conto del fatto che a mettere fine alla fuga della donna sono le ricerche dell’ex marito e dell’autorità giudiziaria. Pesa anche la circostanza che sia stata necessario il provvedimento del giudice straniero a riconsegnare la bimba al padre.

---Lavoratore reintegrato perché non basta un solo detective a incastrarlo per l’abuso dei permessi 104
Licenziamento illegittimo, è inattendibile l’osservazione svolta dall’unico investigatore: le best practice della vigilanza impongono turni brevi e in coppia, inevitabili altrimenti cali di concentrazione

Reintegrato e risarcito. Il lavoratore non abusa del permesso “104” per assistere il familiare malato. O almeno: risulta illegittimo il licenziamento per giusta causa perché a spiare il dipendente sotto casa è stato un solo investigatore privato, con turni massacranti: l’attività di osservazione così svolta non risulta attendibile in quanto contraria alle best practice degli 007 privati che prevedono servizi di vigilanza più brevi e svolti in coppia; diversamente la distrazione è fisiologica. È quanto emerge dalla sentenza 167/20, pubblicata il 29 maggio dalla sezione lavoro del tribunale di Bologna (giudice Maurizio Marchesini).

Sovrapposizione involontaria
Bocciato il ricorso del datore contro l’ordinanza cautelare che boccia il recesso per giusta causa adottato contro la commessa: il risarcimento scatta dal giorno del provvedimento annullato fino al ritorno in servizio, nel limite di un anno e al netto dell’aliunde perceptum. Non serve ricorrere ai manuali di investigatori ma basta usare «la logica e il buon senso»: dopo tante ore passate dal detective da solo dentro l’abitacolo di un’auto la distrazione è in agguato. Anzi, risulta «automatica e subliminale». Con tanto di sovrapposizione involontaria di ciò che si è visto e di quello che invece si ritiene di avere percepito.

Documenti e testimonianze
È proprio l’agenzia investigativa, insomma, che non osserva le buone pratiche del suo lavoro. E i risultati si vedono: sia la barba finta alle calcagna della lavoratrice sia il collega che tallona la beneficiaria dell’assistenza non si accorgono che entrambi condomini sorvegliati hanno una seconda entrata-uscita. Crolla dunque il castello di carta costruito contro la lavoratrice laddove gli addebiti sono fondati su tre distinti episodi fra gennaio e marzo. Dalle contestazioni la dipendente incolpata tutto fa tranne che andare ad aiutare la cognata: accompagna la figlia a scuola, va a sbrigare commissioni e resta a lungo in casa. Ma anche la beneficiaria usa spesso la seconda uscita dal condominio che è al coperto e ripara dalla pioggia, mentre documenti e testimonianze confermano i servizi prestati nelle giornate “incriminate”. Le fotografie dell’auto prodotte in giudizio, invece, nulla dimostrano su chi è alla guida: ben potrebbe essere il marito della commessa. Alla società, dunque, non resta che pagare, anche le spese di lite. 

---Le spese per mantenere gli immobili ereditati fanno scattare l’accertamento sintetico
Per individuare l’effettiva capacità del contribuente contano i costi sostenuti per la gestione oltre alle modalità di acquisizione. I redditi ritenuti occultati prolungano il termine di decadenza del fisco

Ai fini dell’accertamento sintetico ex articolo 38, comma quarto, del dpr 600/73, l’effettiva capacità contributiva del contribuente va valutata non solo sulla base della mera proprietà o provenienza dei beni ma tenendo in considerazione anche la necessaria attitudine al sostenimento di spese congrue per il loro mantenimento. Inoltre è legittimo l’accertamento nel più lungo termine di decadenza previsto in caso di dichiarazione omessa dall’articolo 43 del dpr 600/73 in quanto in questi casi il mantenimento dei vari immobili e delle aziende ricevute in eredità si è potuto concretizzare, nel corso degli anni, soltantottingendo a redditi occultati all’erario. È quanto emerge dalla sentenza 1272/4/20, pubblicata dalla Ctr Lazio.

Accolto l’appello dell’Agenzia delle entrate: la commissione regionale evidenzia che non rilevano solo le modalità con cui i beni sono stati acquisiti al patrimonio - nel caso di specie a titolo successorio - bensì le spese sostenute per il mantenimento e la gestione dei medesimi, tali da evidenziare l’esistenza di redditi occultati all’erario.
Ribaltato dunque il verdetto della Ctp di Roma che aveva ritenuto nullo l’atto in quanto adottato dopo la scadenza del termine di accertamento sul rilievo che non si tratta di una dichiarazione omessa laddove è di tutta evidenza che vi può essere omissione soltanto se si è un obbligo nella presentazione, nel caso escluso dal momento che si tratta di redditi esenti.
In appello l’esito è rovesciato in quanto secondo la Ctr nei casi di beni ereditari l’effettiva capacità contributiva va individuata non in base alla mera proprietà o provenienza degli stessi, ma valutando il necessario sostenimento di spese congrue per il loro mantenimento (cfr. Cassazione 7408/11).

Sul punto si segnala un orientamento contrario espresso da Ctr Lombardia con sentenza 515/14/18 secondo cui il termine lungo di decadenza può operare anche nei confronti del soggetto che sia esonerato dall’obbligo di presentare la dichiarazione soltanto quando sia pienamente dimostrato “l’errore” compiuto dal contribuente, il quale, pur percependo redditi ulteriori rispetto a quelli da lavoro dipendente, non ha proceduto alla dovuta dichiarazione. Ciò non si verifica nel caso di contribuente in possesso di una sola certificazione Cud: con riferimento a questo contribuente deve applicarsi il termine di accertamento breve, non essendovi alcuna certezza circa la presenza di redditi ulteriori e, dunque, di un errore/omissione compiuto dal contribuente nel non presentare dichiarazione alcuna (in senso conforme, Ctr Veneto, sezione settima, 34/2013).
Secondo la Ctr Lombardia dovrebbe trattarsi di indici certi per applicare l’omissione, mentre la pronuncia in commento ritiene sufficiente anche redditi derivanti dal mantenimento di beni che l’ufficio presume occultati dal contribuente.

---È legittima la domanda risarcitoria nei confronti di un’Amministrazione che ha rilasciato un titolo autorizzatorio illegittimo.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato con la Sentenza 24 novembre 2017,n. 5475 che ha accolto il ricorso presentato per la riforma di una sentenza di primo grado con cui è stato rigettato il ricorso proposto per il risarcimento del danno conseguente al rilascio di autorizzazione edilizia riconosciuta illegittima, alla successiva inerzia nell’adozione dei provvedimenti repressivi.

I fatti
La vicenda riguarda il rilascio di un'autorizzazione edilizia illegittima non revocata dal Comune.

Con ricorso in primo grado è stata proposta domanda risarcitoria nei confronti del Comune in relazione al danno conseguente alla diminuzione di valore del proprio immobile per compromissione dei propri diritti. Ricorso in primo grado che è stato rigettato dal Tribunale Amministrativo Regionale e a cui è seguito ricorso al Consiglio di Stato.

La sentenza del Consiglio di Stato
Come indicato da Palazzo Spada, la domanda risarcitoria proposta nei confronti dell’Amministrazione comunale riguarda l’esclusione o comunque la grave violazione dei diritti subiti dal limitrofo fabbricato a seguito della realizzazione delle opere illegittime, quindi petitum e causa petendi diversa e non coperta dal giudicato civile.

Secondo i giudici del Consiglio di Stato, nessun rilievo può assumere la circostanza che i titoli edilizi sono rilasciati salvi i diritti dei terzi, che quindi possano agire a propria tutela in sede civile o in sede amministrativa. Tale “clausola” di salvezza non può ritenersi esonerativa da responsabilità dell’Amministrazione secondo i principi generali, quanto la stessa, con comportamenti commissivi o omissivi (e nella specie prima commissivi, mediante il rilascio del titolo edilizio, e quindi omissivi, attraverso l’omessa attivazione dei poteri di autotutela repressiva) ha concorso a cagionare la lesione del diritto dominicale.

Non può poi sostenersi che il fatto colposo del danneggiato, concorrente alla produzione dell’evento lesivo (e quindi semmai alla riduzione del risarcimento e non già all’esclusione della responsabilità), possa individuarsi nell’omessa impugnativa della della successiva concessione in sanatoria. Ne consegue il diritto del confinante ad ottenere il totale risarcimento dei danni da parte del Comune, in rapporto alla conseguente diminuizione del valore del proprio immobile. 

---La Regione paga stipendi per salvare il posto ai dipendenti degli studi. Aumenti di capitale agevolati. Enti territoriali e camerali coprono il costo del lavoro all’80% per un anno in zone e settori molto colpiti dalla pandemia. Nella società basta la maggioranza per deliberare nuovi conferimenti

È la Regione che paga gli stipendi ai dipendenti di imprese e studi professionali per evitare che siano licenziati. Il tutto nelle zone e nei settori particolarmente colpiti dalla crisi Coronavirus. E nelle società diventa più facile deliberare l’aumento di capitale, con una norma straordinaria efficace fino al 31 dicembre prossimo. Sono due delle misure contenute nella bozza del dl rilancio entrata nel Consiglio dei ministri di mercoledì scorso e in sostanza confermate da Palazzo Chigi dopo la seduta (cfr. in allegato il documento).

Aiuti retroattivi
Enti territoriali e camerali possono adottare misure di aiuto ad aziende e lavoratori autonomi sulla base delle loro risorse e in linea con le indicazioni contenute nella comunicazione della Commissione Ue C (2020) 1863 final sull’emergenza Covid-19. Lo schema prevede una sovvenzione mensile che per un anno copre fino all’80 per cento della retribuzione mensile lorda del personale beneficiario, compresi i contributi previdenziali a carico del datore. I dodici mesi partono dalla domanda di aiuto ma possono retroagire al primo febbraio scorso. Il tutto a patto che i dipendenti che fruiscono dell’intervento continuino svolgere l’attività lavorativa per il periodo interessato. La sovvenzione, che può essere diretta a imprese di determinate dimensioni, è cumulabile con altre misure di sostegno all’occupazione a condizione che il costo del lavoro non risulti poi sovracompensato. E in ogni caso gli aiuti non possono consistere nei trattamenti di integrazione salariale di cui al decreto legislativo 148/15 e degli articoli da 19 a 22 del #CuraItalia, convertito con modificazioni dalla legge 27/2020.

Quorum disattivato
Con la norma transitoria introdotta nel codice civile le società possono deliberare in modo più semplice e spedito l’aumento di capitale per affrontare la difficile congiuntura economica in arrivo. È disattivato il quorum rafforzato che impone il voto favorevole dei due terzi del capitale rappresentato in assemblea: basta la maggioranza assoluta, a condizione tuttavia che sia rappresentata almeno la metà del capitale sociale perché non si può derogare al principio imposto dall’articolo 83 della direttiva Ue 1132/2017). La deroga ha carattere eccezionale: vale solo quest’anno e si applica anche se lo statuto prevede un quorum pari o superiore a quello legale. Esteso poi l’ambito oggettivo e soggettivo dell’aumento di capitale con esclusione del diritto opzione in deroga alla procedura ordinaria di cui all’articolo 2441 Cc, sesto comma. Agevolata la raccolta di capitali di rischio mediante aumenti di capitale.

---Ordinanze contingibili ed urgenti nel sistema del diritto amministrativo
Le ordinanze contingibili ed urgenti sono atti a contenuto atipico che l’amministrazione, al fine di fronteggiare situazioni eccezionali e imprevedibili, può emanare sulla base di specifiche previsioni legislative, anche in deroga a norme di rango primario.

Storicamente, il potere di adottare ordinanze in deroga è stato individuato nel “creare il diritto per il caso singolo, limitatamente a quelle situazioni di necessità ed urgenza per le quali nessuna norma può provvedere[1]”, espressione della più ampia potestà d’impero dell’amministrazione volta al soddisfacimento e alla cura di un interesse pubblico tramite l’adozione di un provvedimento amministrativo che impone obblighi di condotta positivi o negativi la cui inosservanza comporta l’irrogazione di sanzioni.

L’attitudine delle ordinanze in esame a derogare alla disciplina di rango primario, sia pure in via provvisoria, ha fatto molto discutere in ordine alla relativa natura giuridica.

Ed invero, mentre secondo un primo orientamento (CORRADINI, CASETTA) le ordinanze contingibili ed urgenti hanno natura normativa e vanno inquadrate fra le fonti di secondo grado cui la legge consente di derogare alle norme primarie. Si valorizza a tal fine il carattere generale e astratto delle ordinanze, idonee a trovare applicazione in un numero di casi non predeterminato né determinabile, rivolgendosi alla generalità dei consociati.

Secondo altro orientamento, avallato anche dalla giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. 4 gennaio 1977, Corte Cost. 14 aprile 1995, n. 127), tali ordinanze hanno natura di provvedimenti amministrativi.

A tale fine si rimarca l’eccezionalità del potere, temporalmente limitato, conferito all’amministrazione, abilitata solo ad introdurre una deroga alla disciplina di rango primario, giammai ad abrogarla o a modificarla, quindi l’innovatività carattere delle fonti normative sarebbe assente nelle ordinanze de quibus.

Vi è, infine, una posizione intermedia secondo cui occorre evitare generalizzazioni, dovendosi avere riguardo alla natura giuridica dell’ordinanza di necessità non in astratto, ma in concreto, analizzando la consistenza del relativo contenuto.

Occorre adottare un criterio fattuale, e avere riguardo al caso singolo al fine di valutare se l’ordinanza intende introdurre una norma generale e astratta, derogatoria della legge o se intende regolamentare il caso singolo, mantenendo perciò la natura di atto amministrativo.

Ciò che caratterizza maggiormente le ordinanze di necessità ed urgenza è il presupposto che facoltivizza l’esercizio del potere amministrativo, cioè la circostanza che la loro adozione, sia pure sulla base di una previsione normativa, postula una situazione di eccezionalità ed urgenza per fronteggiare la quale il legislatore invita l’Amministrazione ad adottare qualsiasi misura, il cui contenuto non è predeterminato dalla norma.

Pertanto connotato essenziale delle ordinanze in parole è la loro atipicità contenustica dato che il legislatore non stabilisce quale è il contenuto dell’atto che l’amministrazione è facoltizzata a porre in essere.

Stante tale caratteristica strutturale delle ordinanze contingibili ed urgenti le stesse potrebbero generare una possibile frizione con il principio di legalità.

A riguardo la dottrina maggioritaria (Sandulli, Cassese, Casetta) ritiene che le ordinanze di cui trattasi siano una deroga al principio di legalità e, in particolare al principio di tipicità che ne costituisce un corollario.

Ed invero tali atti non rinvengono nella previa legge attributiva del potere una definizione del contenuto né tantomeno degli effetti, che sono liberamente individuati dall’autorità emanante in relazione alla necessità ed urgenza presentatasi in concreto.

Ne deriva che le ordinanze contingibili ed urgenti dovrebbero avere un campo di applicazione limitato, pur riconoscendosi alle stesse la funzione di “valvola di sicurezza”[2] del sistema consentendo per i casi di urgenza di curare il pubblico interesse con le misure che appaiono più opportune alla luce delle circostanze concrete.

---L'annullamento in autotutela del certificato di agibilità per assenza di certificazione di idoneità statica può intervenire anche a notevole distanza di tempo, considerato che l’accertamento dell’idoneità statica afferisce ad interessi essenziali quali l’incolumità delle persone e che detto annullamento non comporta effetti dannosi irreversibili, ma soltanto la riapertura del procedimento che può concludersi in termini assai brevi. Il principio di buon andamento impegna la P.A. ad adottare gli atti il più possibile rispondenti ai fini da conseguire ed autorizza quindi anche il riesame degli atti adottati, ove reso opportuno da circostanze sopravvenute ovvero da un diverso apprezzamento della situazione preesistente. La proposizione di un ricorso giurisdizionale non impedisce alla P.A. di adottare determinazioni in autotutela.
La revoca del parere del Genio Civile determina l‘annullamento della Concessione edilizia.(P.A. - Consiglio di Stato)

di Dario Ferrara

Non online le udienze con testi, parti e ctu. Giudici collegati solo da uffici. Così l’app Immuni
Sì al dl coi paletti al processo da casa. Teams fino al 31 luglio. Riforma intercettazioni a settembre, stretta su permessi ai mafiosi, cause a distanza in Tar e CdS. Tracing volontario, anonimo e no gps

Ridimensionato il processo da casa nella fase 2 dell’emergenza Covid-19. Nel decreto legge approvato dal Governo attorno a mezzanotte è previsto che le disposizioni sul giudizio penale da remoto consentite fino al 31 luglio «non si applicano, salvo che le parti vi acconsentano, alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio e a quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti».

E ora anche il ministero della Giustizia conferma quanto anticipato qualche ora fa da Cassazione.net: le udienze civili che si possono svolgere online devono comunque avvenire «con la presenza del giudice nell’ufficio giudiziario» (cfr. il documento in allegato). Ma anche il termine fino a cui quale si può fare udienza cartolare e a distanza con Teams è spostato dal 30 giugno al 31 luglio. Ancora. Via libera all’app Immuni da scaricare sullo smartphone: il tracing anti Sars-CoV-2 sarà volontario, anonimo e a norma privacy. Rinviata a settembre l’entrata in vigore della riforma delle intercettazioni. Stretta sui permessi ai boss mafiosi. Processo a distanza anche davanti a Tar e Consiglio di Stato.

Addio divano
Dopo le furiose polemiche dei giorni scorsi fra avvocati e magistrati arrivano paletti al complesso di norme che consente di svolgere grazie a Internet una serie di attività processuali, dalle indagini alle udienze di trattazione, per tutto il periodo dell’emergenza Coronavirus. Già quando l’aula di Montecitorio ha convertito in legge il decreto #CuraItalia era stato approvato un ordine del giorno con cui il Governo si impegnava prevedere che nel penale il processo telematico non si applicherà alle udienze istruttorie e a quelle di discussione, salvo accordo tra le parti. Ora la norma dispone che le norme sulla modalità da remoto non «si applicano, salvo che le parti vi acconsentano, alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio e a quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti».

Addio al processo “da divano”, visto che il giudice deve collegarsi dall’ufficio nelle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi da difensori, parti e ausiliari del giudice. Sulle udienze telematiche nuove misure riguardano anche la giustizia amministrativa e quella contabile. Soddisfatti dopo settimane di braccio di ferro i penalisti: è un «ripensamento decisivo», scrivono, «l’esclusione dalla celebrazione del processo penale da remoto dell’intera istruttoria dibattimentale, delle discussioni e delle conseguenti camere di consiglio». E bisogna darne «atto alla maggioranza di Governo e al ministro di Giustizia». Intanto la presidente facente funzioni Maria Masi del Consiglio Nazionale Forense scrive una lettera in cui chiede al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede di riaprire in sicurezza i tribunali per la fase 2 dell’emergenza sanitaria.

Uffici impreparati
Si applicherà soltanto ai procedimenti penali iscritti dopo il 31 agosto la nuova normativa con intercettazioni utilizzabili in altri procedimenti, il pm custode della privacy e l’uso dei virus Trojan sui telefonini anche contro le mazzette: la riforma sarebbe dovuta entrare in vigore da domani ma a causa dell’emergenza epidemiologica non è stato possibile adeguare le strutture negli uffici giudiziari.

Parere del pm
Veniamo alla stretta sui permessi ai boss, anticipata nei giorni scorsi dal guardasigilli Alfonso Buonafede. Sarà necessario il parere del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo sulle istanze di scarcerazione presentate da detenuti al 41 bis. Per coloro che hanno commesso reati gravi e sono detenuti in alta sicurezza il vaglio compete alla direzione distrettuale. La nuova norma, in particolare, prevede che in caso di gravi delitti - ad esempio le ipotesi aggravate di associazione a delinquere, associazione mafiosa o sequestro di persona a scopo di estorsione - il tribunale o il magistrato di sorveglianza, prima di decidere sul rinvio dell’esecuzione della pena

in detenzione domiciliare, chieda il parere del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto dove ha sede il giudice che ha emesso la sentenza. Idem vale sulle istanze per i permessi a reclusi per reati gravi o sottoposti al carcere duro. A meno di urgenze, il permesso non può essere concesso prima di ventiquattro ore dalla richiesta dei pareri, mentre per la detenzione domiciliare il magistrato e il tribunale di sorveglianza decidono non prima, rispettivamente, di due e quindici giorni dalla richiesta dei pareri, anche in assenza di questi ultimi.

Deposito telematico
Fino al 31 luglio presso ciascun ufficio del pubblico ministero che ne faccia richiesta, è autorizzato il deposito telematico di memorie, documenti, richieste e istanze successive all’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Ufficiali e agenti di polizia giudiziaria sono autorizzati a comunicare al pm atti e documenti in modalità telematica.

Senza geolocalizzazione
Parte infine l’operazione Immuni grazie alla piattaforma creata dal ministero della Salute: l’app da scaricare solo sul base volontaria sul telefonino serve ad allertare le persone che sono entrate in contatto con soggetti risultati positivi al Covid-19. I dati personali raccolti sono quelli necessari ad avvisare gli utenti che rientrano fra i contatti più stretti di altri rivelatisi infetti, in modo da agevolare le misure di assistenza sanitaria. E possono essere utilizzati in forma aggregata e comunque anonima per soli fini statistici o di ricerca scientifica. Il trattamento, infatti, è fondato sui dati di prossimità degli smartphone resi anonimi o, se non è possibile, pseudonimizzati. Esclusa, in ogni caso, la geolocalizzazione degli utenti. Le informazioni saranno cancellate entro il 31 dicembre. E nessun diritto fondamentale può essere limitato in caso di mancato utilizzo dell’applicazione. La piattaforma è realizzata con infrastrutture localizzate soltanto sul territorio nazionale e gestite da amministrazioni o enti pubblici o in controllo pubblico.

Ddl al Senato
Dopo la firma del capo dello Stato il ddl per la conversione del decreto legge sarà incardinato al Senato martedì 5 maggio alle 16,30.

---Una sentenza che potrebbe anche creare un precedente. Ed essere un colpo di avvertimento nei confronti degli haters dilaganti sui social network.

Quegli insulti scritti in un post sulla sua pagina Facebook non erano un semplice sfogo ma diffamazione. Il tribunale di Nuoro ha condannato un uomo di 42 anni a 1 anno e sei mesi per diffamazione avvenuta su Facebook due anni prima e terminato davanti al giudice del tribunale monocratico.(ilsole24ore.com)

---Padre anziano, malato e impossibilitato a recarsi in carcere: 'permesso' per il figlio detenuto
Plausibile la richiesta presentata da un detenuto. Censurata la valutazione compiuta dal Tribunale di sorveglianza e centrata sull’assenza di un pericolo di vita per l’anziano genitore. Per i Giudici della Cassazione, invece, la situazione vissuta dal detenuto è riconducibile alla presenza di un evento familiare di eccezionale gravità, costituito dalla situazione di estrema difficoltà per il genitore, impossibilitato a recarsi in carcere per effettuare i periodici colloqui con il figlio.
(Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza n. 12343/20; depositata il 16 aprile)

La Suprema corte sdogana le massaggiatrici sulla spiaggia, assolvendo una cinese dal reato di esercizio abusivo della professione nonostante girasse con un cartello sullo zaino sul quale pubblicizzava manipolazioni terapeutiche.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 12539 del 20 aprile 2020, ha assolto perché il fatto non sussiste una orientale.

Per gli Ermellini, avuto riguardo alla ricostruzione storico - fattuale della vicenda e, precisamente, alle modalità al luogo di esecuzione delle operazioni - non sia revocabile in dubbio l'estraneità delle manipolazioni praticate dall’imputata dalla categoria dei massaggi terapeutici in senso proprio.

In poche parole, non può ritenersi atto a conferire alla condotta della donna la “qualità di esercizio di una professione subordinata al conseguimento di una speciale abilitazione il riferimento alle proprietà terapeutiche contenuto nel cartello appeso sullo zaino che ella teneva sulle spalle. Detto riferimento assolveva chiaramente a una finalità solo promozionale della propria attività e non vale di per sé a mutare la natura oggettiva delle prestazioni manuali da ella erogande.

Né pare revocabile in dubbio che, per le modalità ed il contesto nel quale le manipolazioni venivano praticate (su di un asciugamano o un lettino su di una spiaggia pubblica affollata di turisti), da parte di un soggetto che non faceva alcun riferimento a competenze particolari né ad una specifica abilitazione professionale, le persone che vi si sottoponevano potessero realmente trarre da tali circostanze il convincimento che si trattasse di massaggi praticati in modo professionale, da persona munita di una specifica qualifica sanitaria e muniti di una reale valenza terapeutica.

Né per i Supremi giudici può avere alcun peso, ai fini della condanna, il fatto che la signora usasse la canfora per fare i massaggi.(Cassazione civile n 12539 del 20 4 2020)

di Dario Ferrara

Non si può condannare il medico soltanto perché tarda a operare un paziente che ha al massimo il 20 per cento delle possibilità di sopravvivere. La responsabilità del sanitario, infatti, va accertata sulla base del giudizio controfattuale, cioè valutando se senza l’omissione il malato sarebbe sopravvissuto: il tutto secondo un criterio di alta probabilità logica fondato sulle evidenze scientifiche oltre che sui dati indiziari che caratterizzano il caso concreto. E non si può ritenere responsabile il sanitario attendista se dalla perizia emerge che il quadro clinico non risulta peggiorato fra la Tar eseguita al mattino e la risonanza magnetica effettuata in serata. È quanto emerge dalla sentenza 12353/20, pubblicata il 17 aprile dalla quarta sezione penale della Cassazione.

Teoria superata
Viene accolto contro le conclusioni del sostituto procuratore generale il ricorso dell’imputato: il reato è ormai prescritto e la causa prosegue in sede civile. Ma l’analisi sul nesso eziologico fra la condotta imputata al medico e la morte della donna risulta svolta in termini erronei e insoddisfacenti dai giudici di merito. Dalla Tac svolta presso un altro ospedale emerge «un quadro di idrocefalo drammatico»: il medico di guardia che aveva a disposizione l’esito avrebbe dovuto sottoporla subito a un intervento di derivazione liquorale esterna, almeno secondo le accuse. Ma secondo il collegio di periti anche se l’operazione fosse stata eseguita subito la paziente difficilmente si sarebbe salvata. La Corte d’appello, nel condannare l’imputato, fa in sostanza riferimento alla teoria della perdita di chance superata da anni e non valuta in termini scientificamente accettabili i dati indiziari disponibili.Cassazione penale sez.IV  sentenza n.12353 del 17 aprile 2020  

---Le Sezioni unite: Non è reato coltivare cannabis in casa per uso personale

Non è reato coltivare marijuana in casa, se è per uso personale. Parola delle Sezioni unite penali della Cassazione che fanno chiarezza - speriamo una volta per tutte - sulla vexata quaestio con la sentenza 12348/20, pubblicata in extremis il 16 aprile. Attenzione: il reato di coltivazione si configura al di là della quantità di principio attivo ricavabile, ma non è non riconducibile all’ambito di applicazione della norma penale, la condotta che consente di escludere un inserimento dell’autore nel mercato della droga laddove è esiguo sia il numero delle piantine sia il quantitativo di prodotto ricavabile mentre le tecniche utilizzare risultano rudimentali.

Mancanza di tipicità
Accolto il ricorso di un trentenne campano condannato a un anno di reclusione e 3 mila euro di multa perché aveva in casa due piantine e una riserva di circa undici grammi di cannabis. Deve infatti essere superata l’equiparazione fra coltivazione tecnico-agraria e domestica effettuata dallo stesso collegio esteso con la sentenza 28605/08, secondo cui è reato ogni coltivazione non autorizzata di piante dalle quali si possono estrarre sostanze stupefacenti anche se destinate all’autoconsumo. E ciò per le preoccupazioni che desta il problema della tossicodipendenza. Non c’è dubbio che a far scattare il reato di coltivazione è sufficiente che la pianta “incriminata” sia conforme al tipo botanico previsto e possa giungere a maturazione producendo sostanza stupefacente; l’illecito copre ogni attività: dalla semina al raccolto. Il punto è che la quando la condotta è destinata all’autoconsumo manca la tipicità che fa scattare l’applicazione della norma penale.

Produttività prevedibile
Il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice è la salute, individuale e collettiva: un valore di pregnanza costituzionale, che giustifica la tutela penale anticipata tanto che la coltivazione di stupefacenti è un reato di pericolo presunto. E la prevedibilità della potenziale produttività è uno dei parametri che consente di distinguere fra la coltivazione penalmente rilevante e non laddove la seconda è caratterizzata da una produttività prevedibile come modestissima. Non basta tuttavia l’intenzione soggettiva dell’autoconsumo a escludere il reato: è serve un nesso di immediatezza soggettiva con l’uso personale. Ed è lecita pure la coltivazione industriale se quando le piante maturano non producono stupefacenti. Resta l’illecito amministrativo per la detenzione di sostanze per uso personale ottenute dalle piantine penalmente lecite. Mentre per quelle penalmente illecite, dove la coltivazione assorbe la detenzione, si può comunque ottenere la non punibilità per particolare tenuità del fatto o una condanna minore per lieve entità.Cassazione Sez.Penale 16/4/2020

--Soltanto la prescrizione salva il medico-pusher dalla condanna. Per la legge, infatti, è come un vero spacciatore il sanitario che prescrive farmaci a base di stupefacenti ai pazienti soltanto perché vogliono dimagrire. E ciò anche se i fatti sono di lieve entità. Il reato risulta estinto proprio grazie alla riqualificazione nell’ipotesi minore ex quinto comma dell’articolo 73 del testo unico sugli stupefacenti. La somministrazione di medicine preparate con sostanze psicotrope, infatti, è consentita unicamente quando risulta coerente con gli obiettivi clinici perseguiti. È quanto emerge dalla sentenza 12198/20, pubblicata il 15 aprile dalla sesta sezione penale della Cassazione

Uccisa dopo denunce non ascoltate. La Cassazione: i pm risarciscano gli orfani

La Suprema corte dà il via libera al riconoscimento della responsabilità civile delle toghe che non diedero seguito alle segnalazioni di Marianna Manduca, assassinata dall’ex marito nel 2007 a Palagonia (Catania). Accolto il ricorso dei figli minorenni della donna. Mentre divampano le polemiche sulla riforma della giustizia e sulla responsabilità civile dei magistrati, stabilisce che le toghe, se riconosciute negligenti, devono pagare.

 

MALTRATTAMENTO ANIMALI

Collare elettrico per l'addestramento del cane: condannato il padrone

Nessuna giustificazione per l'uomo che si è comportato da bestia nei confronti del suo amico a quattro zampe. Irrilevante il fatto che il collare elettrico sia reperibile facilmente sul mercato e che possa essere utilizzato per l'addestramento. Ciò che conta è che esso produce gravi sofferenze per l'animale.
(Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 11561/20; depositata il 7 aprile)

 
Niente reato ma solo una sanzione amministrativa pecuniaria per chi compie atti osceni in luogo pubblico. È l'effetto dell'operazione depenalizzazione operata dal decreto legislativo n. 8/2016 su tutta una serie di reati, ivi compreso quello previsto dall'art. 527 del codice penale. A sancirlo è la terza sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 36867/2016 annullando senza rinvio la decisione della Corte d'appello di Catania che condannava un uomo alla pena di tre mesi di carcere, convertita in 3.420 euro di multa, per essersi masturbato in corrispondenza del passaggio di alcune studentesse.

A essere fermati due uomini, beccati a trasportare uva. La polizia giudiziaria esegue l’arresto per quasi flagranza di reato. Il provvedimento è ritenuto legittimo dalla Cassazione, che smentisce la valutazione opposta data dal Tribunale. La frutta si presentava ancora verde e fresca e questo dettaglio rende palese, secondo i Giudici, l’immediatezza del controllo rispetto alla condotta.  

--Addio falso per induzione se dalla richiesta di permesso di costruire emerge che il manufatto è un rudere
Assolti beneficiario e progettista: la relazione riporta il «pessimo» stato di conservazione del fabbricato preesistente senza alterare i dati necessari all’adozione dei provvedimenti abilitativi

Niente falso per induzione per il beneficiario del permesso di costruire e per il progettista: è escluso che abbiano tratto in inganno i funzionari comunali chiamati a rilasciare il titolo edilizio e l’autorizzazione paesaggistica. E ciò perché nella relazione di accompagnamento il fabbricato preesistente viene indicato per quello che è, un rudere: risulta dunque esclusa ogni contraffazione dei dati di fatto che costituiscono i presupposti per l’adozione dei provvedimenti abilitativi da parte dell’amministrazione. La valutazione sulla fattibilità, poi, può essere giusta oppure sbagliata ma non può integrare il reato ex articoli 48 e 480 Cp. È quanto emerge dalla sentenza 10917/20, pubblicata il primo aprile dalla terza sezione penale della Cassazione.

Corte di Cassazione – VI sez. civ. – sentenza n. 21939 del 09-09-2019

La paziente che chiede il risarcimento del danno per contagio da virus dell’epatite c a seguito di un intervento chirurgico deve dimostrare di aver contratto il virus a causa di detto intervento.

---Stop all’ipoteca del fisco perché il contribuente non ha ancora accettato l’eredità
Serve una manifestazione di volontà del privato e spetta alle Entrate provare eventuali condotte concludenti: impossibile aggredire i beni prima che entrino nel patrimonio dell’interessato

Scatta lo stop all’iscrizione ipotecaria del fisco perché non risulta che il contribuente abbia accettato l’eredità paterna: è escluso che i beni possano già essere oggetto della formalità se non sono ancora entrati nel patrimonio della parte privata. È quanto emerge dalla sentenza 108/20, pubblicata dalla commissione tributaria regionale per il Molise.

Omessa dimostrazione
Bocciato l’appello dell’Agenzia delle entrate: smentita la tesi dell’amministrazione secondo cui la garanzia sui beni si potrebbe iscrivere perché l’ipoteca non è equiparabile al pignoramento, che costituisce l’atto esecutivo vero e proprio. Il punto è che anche un’eventuale rinuncia all’eredità, per quanto tardiva, esclude che il contribuente possa essere chiamato a rispondere dei debiti tributari: l’accettazione costituisce il presupposto per la responsabilità e spetta all’amministrazione finanziaria dimostrare che il privato abbia posto in essere condotte concludenti nel senso dell’accettazione tacita. L’articolo 480 Cc sancisce che il diritto di accettare l’eredità si prescrive in dieci anni nella specie il termine non risulta scaduto. Anche a fini conservativi non possono essere aggrediti i beni che non siano ancora entrati nel patrimonio dell’erede-debitore. E nella specie l’Agenzia delle entrate non ha dimostrato in alcun modo l’accettazione tacita dell’eredità. La mancata costituzione del contribuente appellato e la mancata riproposizione dei motivi di ricorso originario ritenuti assorbiti dal giudice di primo grado esime il collegio dall’esame.

---Il Comune risarcisce il bambino che si fa male cadendo nel parco giochi.
Non è necessaria la prova dell’insidia dello scivolo, spetta all’ente locale dimostrare che il danno era evitabile con la normale diligenza. Ordinanza Cassazione civile 27 marzo 2020

Accertamento anche se lo scostamento dagli studi è minimo

Per gli Ermellini, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, le risultanze degli studi di settore (come i parametri previsti dall’art. 3, commi da 181 187, della L. n. 549/1995), non costituiscono atto concreto noto e certo, specificamente inerente al contribuente, suscettibile di evidenziare in termini di rilevante probabilità l’entità del suo reddito, ma rappresentano la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni.

Sicché i detti studi rivelano valori che, quando eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico—induttivo ex art. 39, comma 1, d), del d.P.R. n. 600 del 1973, ma, ove siano contestati sulla base di allegazioni specifiche, sono inidonei a sopportare l’accertamento medesimo, se non confortati da elementi concreti desunti dalla realtà economica dell’impresa che devono essere provati e non semplicemente enunciati nella motivazione dell’accertamento.

Detto questo, per la Cassazione la decisione della Ctr di Napoli si rileva, per i profili in esame, censurabile per aver, in difformità dai principi sopra richiamati, disconosciuto legittimità all’accertamento, sotto il profilo motivazionale, senza neanche aver fatto riferimento alla risposta del contribuente in sede di interpello oltre che alle specifiche contestazioni mosse dallo stesso in giudizio.

---Per la Cassazione non regge la versione dei fatti così narrata dall'imputato, secondo il quale solo parte civile, per problemi d'insonnia e di insofferenza ai rumori, mal sopportava l'alto volume della radio.

Gli Ermellini, nella sentenza n. 8966/2020, ritengono coerente la ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale, il quale ha rilevato che lo stereo veniva acceso ad alto volume in modo reiterato, al fine di recare disturbo a una quantità indefinita di persone. Superflua ogni misurazione del rumore per stabilire l'eventuale superamento della soglia di attendibilità. Cassazione penale 8966/220.

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