di Bruno Cirotti
Caro Bartolino,
ti mando gli appunti del mio consueto viaggio in Congo. So che qualche amico di Lipari mi segue da anni in questo lungo viaggio e per questo mi farebbe piacere fargli sapere qualcosa riguardo la mia missione. Che tra alti e bassi ha raggiunto lo scopo che ci eravamo prefissati. Ora all'interno dell'ospedale di Kimbondo c'è un ambulatorio odontoiatrico perfettamente funzionante e, soprattutto, gestito da odontoiatri locali a cui abbiamo ceduto l'onere di proseguire quanto fatto dal mio gruppo. Ti mando alcune riflessioni personali, scritte per sottolineare in qualche modo le emozioni che mi hanno sempre spinto in questo progetto e che vanno considerate come se fossero le pagine di un diario personale
Anche se sono passati 12 anni dalla prima volta che hai messo piede a Kimbondo, le sensazioni che ti avvolgono sono sempre nuove ed è come se ogni volta le emozioni ti coivolgessero e ti avvolgessero come una nuova pelle. Riassapori i colori, i suoni e gli odori, come se fossi tornato a casa tua. E ritrovi il piacere di salutare vecchi amici che ormai sono diventati parte della tua vita.
I piccoli della Neo che sono cresciuti e che ti salutano, chiamandoti per nome, ti danno la misura del tempo che passa. E ti accorgi che molti di loro sono ormai diventati dei ragazzi, giunti sulla soglia dell'età adulta, che stanno per diventare uomini e donne.
Alcuni di loro ti salutano toccandosi i denti o la bocca, come a rimarcare che sanno perfettamente chi sei e il motivo della tua visita annuale. A molti di loro, magari, hai tolto i denti da latte e ora te li ritrovi in ambulatorio che chiedono di essere curati da te, dal "dottor Bruno".
Altri vengono semplicemente a salutarti, senza perdere l'abitudine di chiederti qualcosa.
Fosse pure del dentifricio, piuttosto che delle scarpe o la lampadina tascabile, non perdono l'occasione per farsi dare qualcosa dal "bianco", perché così li hanno abituati da secoli e così credono sia normale fare.
I più coraggiosi arrivano a chiederti soldi per comprarsi un cellulare o il pc, perché questi sono i finti bisogni che il mondo occidentale gli ha fatto credere che siano indispensabili per vivere bene. E tutti loro te lo chiedono sempre sorridendo, perché anche il buonumore fa parte del loro patrimonio genetico, al quale non vengono meno.
Padre Hugo è sempre più triste e il suo appoggiarsi ad un bastone sembra la rappresentazione di una parabola del suo percorso a Kimbondo che, come il cammino del sole, si incurva verso il tramonto della vita.
E non puoi fare a meno di pensare che, nonostante tutti gli sforzi fatti in questi lunghi dodici anni, le cose che hai realizzato non sono state quelle che sognavi di fare.
E anche se hai la soddisfazione di aver partecipato, come relatore, per la prima volta a un incontro scientifico organizzato all'interno dell'ospedale, al quale hanno partecipato 60 odontoiatri, hai la certezza che dovevi fare di più per quel microcosmo chiamato Kimbondo.
E anche se ti consola il riconoscimento dei colleghi congolesi, ti rimane la rabbia di aver fatto la mattinata scientifica nei locali di Casa Patrick, con in sottofondo le grida di qualche ospite del padiglione che chiedeva l'attenzione che nessuno si curava di dargli.
La solita, perenne contraddizione di quella problematica realtà chiamata Congo. Paese nel quale sono capaci di perderti i bagagli in aeroporto, ma dove sono capaci anche di regalarti una camicia dal disegno africano che non ti faccia fare brutta figura al congresso al quale stai per partecipare.
Semplicemente Kimbondo, ospedale pediatrico nella città di Kinshasa, capitale della Repubblica democratica del Congo.
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