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di Adriano Madonna*

Di dissalatori si parla e si legge molto.
Un impianto di dissalazione, però, è come una medaglia a doppio taglio. Ciò significa che nel caso in cui non sia progettato e messo in uso nel migliore dei modi, potrebbe comportare gravi danni all’ambiente, come quelli causati dalla salamoia residua della dissalazione riversata in mare.
Una leggerezza del genere farebbe aumentare in maniera considerevole la salinità delle acque dell’area interessata, con la conseguente morte della vita marina che vi alligna, ma qui è necessaria una spiegazione.

I mari del mondo hanno salinità diverse, così come spesso si registrano differenze di concentrazioni saline in zone anche vicine dello stesso mare. In Mediterraneo la salinità media si aggira tra il 35 e il 38 per mille circa. Ciò significa che in un chilogrammo di acqua di mare ci sono 35 – 38 grammi di sali, e parliamo di sali, non di sale, poiché l’acqua marina contiene diverse decine di sali diversi, di cui alcuni anche importanti per la farmacologia, la cosmetica, la chimica.
È ovvio che gli organismi marini delle nostre acque “sono fatti” per vivere al 36 – 38 per mille di salinità.
Nel momento in cui la salinità dovesse aumentare poiché il dissalatore ha riversato in mare la salamoia residua, gli organismi che non sono in grado di abbandonare l’area moriranno per disidratazione.

Per i non addetti ai lavori non è immediato comprendere come un organismo immerso in acqua possa disidratarsi, ma questo è proprio quanto accade in ragione di un fenomeno noto come osmosi, che possiamo riassumere così: se un organismo è immerso in acqua con una concentrazione salina superiore a quella dei propri liquidi vitali, l’acqua di questi ultimi migrerà all’esterno. È proprio quanto accade al naufrago in mare che non viene ripescato in tempo ed è anche quanto avviene alle acciughe salate nel vasetto che, grazie all’osmosi causato dalla salamoia si disidratano e si conservano senza marcire. Al contrario, se un organismo viene posto in acqua con una concentrazione salina inferiore a quella dei suoi liquidi vitali, il suo corpo acquisirà acqua, sempre per il fenomeno dell’osmosi. Da tutto ciò possiamo dedurre che uno scarico di salamoia in mare al termine di un processo di dissalazione non è certo “una botta di salute” per l’ambiente acquatico e i suoi abitanti.

A ciò dobbiamo aggiungere che in mare non verrà sversata solo salamoia, ma anche ipoclorito di sodio (comunemente varichina), acido solforico e altri detergenti necessari all’impianto di dissalazione.
Non solo la salinità del mare, quindi, viene toccata, ma anche l’acidità delle acque.
In condizioni normali, l’acqua di mare è leggermente alcalina, con un pH (unità di misura dell’acidità) che oscilla da 7.2 a circa 8. Nell’area di scarico del dissalatore e in quelle limitrofe l’acidità potrebbe aumentare con conseguenze gravi per l’ambiente.

In relazione a questo punto, personalmente credo poco all’effetto tampone del mare che dovrebbe contenere l’azione acidificante degli inquinanti (perché di inquinanti si tratta), né credo troppo che l’area ipersalina non tenda ad ampliarsi nel tempo. Tutto quanto di catastrofico abbiamo esposto, però, potrebbe essere scongiurato: basterebbe evitare di scaricare la salamoia in mare e dirottarla verso un centro di produzione di sali, dove verrebbe trattata ad hoc per la produzione di cloruro di sodio (il comune sale da cucina) e degli altri numerosi sali contenuti nell’acqua di mare.
Considerazioni finali? Se un dissalatore serve, dissalatore sia! Ma non si faccia a meno di tutte quelle misure accessorie che eviterebbero di fare dell’impianto un’arma a doppio taglio: la salamoia residua riversata in mare, infatti, potrebbe essere un grave insulto al pianeta acqua per tutto quanto abbiamo esposto e, purtroppo, sarebbe l’ennesimo pugno in faccia all’ambiente in cui viviamo e che sta cominciando a presentarci il conto di tutto quanto sta subendo da tempi ormai lontani (leggi: siccità, smog, tropicalizzazione, desertificazione etc.).

*Biologo marino, Eclab Laboratorio di Endocrinologia Comparata, Dipartimento di Biologia, Università degli Studi di Napoli “Federico II” e docente di Scienze Ambientali presso la Scuola Superiore di Tecnologia per il Mare – ITS Fondazione Caboto di Gaeta

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