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Nuove opportunità di finanziamento, fuori dagli schemi bancari
Nuove opportunità di finanziamento per le imprese, con modalità più snelle istruttoria ridotta al minimo, un modo come semplificare anche su questo versante e andare incontro agli imprenditori che intendono cimentarsi in progetti di grande impegno. Se ne è parlato alla Camera di commercio, nell’incontro promosso dalla UnionSì di Catania (società di mediazione creditizia) rappresentata dal direttore dott. Francesco Figlia Francesco e presieduto dal presidente della Camera di Commercio di Messina dott. Ivo Blandina.

Il dott. Alessandro Seminara, general manager rappresentante della UnionSì di Messina e provincia, in apertura dei lavori, cui hanno partecipato decine di imprenditori, ha illustrato la possibilità di avvalersi di nuove fonti di approvvigionamento di finanziamento per chi ha necessità di avvalersi di finanza alternativa al di fuori degli schemi bancari tradizionali. Il prof. Salvatore Cifalà intervenuto nella qualità di associato europeo, unico rappresentante in Italia, ha illustrato le nuove
metodiche di finanziamento messe a disposizione dalla società americana Ethos che si sostanziano in un finanziamento a tasso fisso al 3% rimborsabile in 12 anni oltre un periodo di ammortamento di 3 anni, opportunità di finanziamento concedibile a progetti validi adeguatamente supportati da un business plan che illustri la redditività dell’operazione da porre in essere ed adeguatamente supportati da un equity equivalente del 25% per importi progettuali superiori ai 10 milioni di euro.

Altra opportunità finanziaria esposta dal prof Cifalà, riguarda la Holding Rockefeller per progetti superiori ai 5 milioni di euro per società che vantano un bilancio consolidato di almeno 3 anni.
Il dott Figlia si è infine soffermato sulla possibilità di avvalersi attraverso i prodotti offerti dalla UnionSì, di altri prodotti finanziari alternati a quelli offerti dal mercato bancario tradizionale. Nel dibattito che ne è seguito è intervenuto, tra gli altri, il presidente dell’Ordine dei commercialisti di Messina.

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NOTIZIARIOEOLIE.IT

Finanza, nuove opportunità per gli imprenditori Il 7 giugno incontro alla Camera di commercio di Messina

Mercoledì 7 giugno ore 11, alla Camera di commercio di Messina, incontro con gli imprenditori per parlare di “Finanza fuori dai soliti schemi”, in collaborazione con i principali players nazionali ed internazionali, sia appartenenti alle banche tradizionali che alle fintech.

Occasione per illustrare le soluzioni finanziarie più vantaggiose che vengono proposte a chi ha in programma investimenti impegnativi da realizzare. In particolare, si parlerà delle opportunità offerte da Ethos Asset e da Fondazione Rockefeller

Dopo i saluti di apertura del presidente di Camera di commercio dott. Ivo Blandina, relazioneranno:
prof. Salvatore Cifalà, associato europeo Ethos e Advisor della Holding Rockefeller in Italia;
dott. Francesco Figlia, capo Area Sicilia e Calabria di Finint MC e CEO Founder della UnionSì srl; dott. Alessandro Seminara, business developer manager e direttore Area Messina della UnionSì.

NOTIZIARIOEOLIE.IT

20 GENNAIO 2022

L’intervista del Notiziario al giornalista Mario Primo Cavaleri, un vita da prima penna

Nell’impicciato dossier Ponte, su cui il ministro Matteo Salvini si gioca tutto, spunta un suffisso. Fosse un refuso sarebbe il solito incubo dei copywriter. Ma qui si tratta di un suffisso che non c’è!

A liggi è liggi, carusi: non è roba da poco, né pasta del capitano ma svarione degli estensori del decreto. Strano che nessuno se ne sia accorto, epperò nell’ultima novella legislativa lo sfondone tornerà indigeribile al governatore Renato Schifani: nel decreto legge del 31 marzo, con cui il ministro riaccende la procedura del collegamento nello Stretto con opere connesse per il riscatto dell’intero Meridione, ci sono mille virgolettati con precisione di date, dati, deroghe, revoche e manca quel suffisso… che getta nello sconforto dell’imprecisione.

Disorientati dal mucchio di visto, considerato, ritenuto; dai riferimenti normativi da cassare passati presenti e futuri; dalla miriade di leggi consultate e richiamate che neanche un azzeccagarbugli; preoccupati del particulare per blindare il più possibile il testo seppur edotti dell’impresa improba per le inevitabili fagliature pronte ad aprirsi, i legulei ministeriali si sono persi in un “na”.

Logorati dal copioso daffare, hanno così inferto un duro colpo nientemeno che al principale alleato del ministro, il governatore Schifani, amico e pronto a sostenerlo in questa avventura del Ponte, dichiaratosi immediatamente disponibile a fare la propria parte anche economicamente (non sappiamo con quali quattrini, dal momento che a Palazzo d’Orleans e dintorni sono malmessi).

Non basta. Inconsapevolmente gli estensori del decreto-Salvini hanno creato i presupposti per incrinare i rapporti tra i governatori delle due regioni dirimpettaie, a loro volta alleati e compagni di partito, Schifani e Occhiuto, entrambi forzisti; a capo di realtà gemelle sì ma non uguali, almeno nel nome.

Cos’è accaduto? Tra le regioni a statuto speciale ve ne è una sola che si fregia di un suffisso “glorioso”, riconosciuto in Costituzione: la Regione Siciliana.
Orbene, nel testo controfirmato dal siciliano Capo dello Stato Mattarella, la Regione è indicata ripetutamente come Sicilia, al pari della Calabria. Poiché la Gazzetta ufficiale, bibbia delle istituzioni, fa testo, si rileva che l’articolo 1 ignora la dizione esatta di Regione Siciliana. Ora il “refuso” grida rivalsa. Non perché va a disdoro degli estensori, ma per aver sottovalutato la genesi di quel suffisso, il suo significato storico-giuridico che mantiene vitale il senso di un termine benché i governanti locali l’abbiano col tempo ingrigito svilendolo. Caratterizza l’identità di nuatri, che il sigillo di Stato non può ignorare.

Rinfreschiamo la memoria.
 E’ il 15 maggio 1946: re Umberto II, su proposta del consiglio dei ministri presieduto da De Gasperi, approva lo Statuto della Regione Siciliana. La Repubblica deve ancora nascere e all’Assemblea costituente toccherà di coordinare il decreto con la nuova Costituzione dello Stato. Sono passati 77 anni e la riflessione su cosa ne è stato di quella specialissima autonomia, appare mero esercizio storico. Se non fosse che la questione si trascina l’interrogativo sul valore aggiunto di quell’accordo pattizio che doveva tradursi in un quid pluris, salvo a sfarinarsi col tempo, fino a essere ricompresa in una sostanziale “parificazione” tra regioni, senza alcuna reattività.

La differenza però è rimasta, almeno nel nome: quel “Siciliana” e non Sicilia. Un suffisso costato atti di eroismo, riconosciuto sulla spinta di un movimento separatista che fu sentito, determinato e combattente.

Nelle scuole, gli alunni non sanno cos’è l’Autonomia, che pure consentiva all’Isola di integrare i programmi scolastici. Adesso scopriamo che non lo sanno neppure al Ministero, anche se parlarne, in una regione che di speciale somma una serie di primati negativi, appare operettistico.

L’orgoglio almeno dell’identità – In quel “siciliana” analogo di repubblica “italiana” si racchiudeva un rapporto paritario, l’amplissimo potere normativo e gestionale che ne faceva una nazione nella nazione. Va bene che poi, da candidati protagonisti in Italia e in Europa, ci siamo ritrovati a essere ultimi: scippati dal Nord e traditi dai nostri politici responsabili del fallimento perché preoccupati a svendere ogni prerogativa pur di assecondare i capi partito e il personalissimo disegno di assicurarsi una poltrona a Roma. Per decenni e, peggio di ieri, oggi.

E’ andata così! Abbiamo perso tutto, facendocene una ragione; rassegnati.
Ma l’orgoglio, l’onore dell’identità, almeno questo no!
E allora unicuique suum: Regione Calabria e Regione Siciliana. Per la precisione.

 

“Giornata storica: il consiglio dei ministri ha approvato il Ponte che unisce la Sicilia al resto d’Italia e all’Europa, un’opera assolutamente sicura che verrà certificata dai migliori ingegneri italiani e internazionali e soprattutto un modello dell’Italia che ci crede, che cresce, che lavora. Stiamo sbloccando cantieri ovunque, avremo l’alta velocità in Sicilia, in Calabria e il ponte a campata unica più bello, più sicuro e più green di tutto il mondo”.

Parole di Matteo Salvini, ministro delle infrastrutture e vice premier, cui sono seguiti i cori di osanna dal corteggio di ossequiosi pronti ad acclamare. Nessuno sfiorato dal dubbio su quel “decretino” svilito in comunicato-stampa, che lo stesso giorno il sito del ministero annunciava “disponibile a breve perché sono necessari gli ultimi approfondimenti tecnici”.

Sono trascorse due settimane… e del fantomatico decreto legge, atto normativo di Governo cui si ricorre in casi straordinari di necessità e urgenza, non v’è traccia. L’urgenza di ottenere un sì in Consiglio dei ministri ha prodotto finora solo il video del ministro che si autocompiace della “giornata storica” e pure di una ”alta velocità” in Sicilia… che non ci risulta.

Ma torniamo al “decreto” esibito e sparito. Nullaggine? Combine compensativa in contemporanea al porcellum-bis dell’autonomia differenziata?
Non sappiamo ma importa poco, si tratta infatti di interrogativi marginali rispetto a ben altre questioni che attendono risposta e chiarimenti mentre date e numeri ballano, conditi da una superficialità allarmante. Col rischio concreto del ripetersi di un deja vu che in 30 anni ha alimentato aspettative sul nulla (come la variante di Cannitello, spostamento di binari spacciato quale lavoro propedeutico al Ponte!).

Nel convegno dell’altro ieri a Palermo coordinato dall’on. Saverio Romano (cui va il merito di aver dato spazio a voci fuori dal coro), il commissario della “Stretto di Messina spa” Vincenzo Fortunato, ha ricostruito la story e ci ha poi rassegnato alcune illuminanti considerazioni che riassumiamo:
1 – “Non si ha contezza del testo del nuovo decreto-legge, ed è anomalo che non vi sia ancora; la riscrittura normalmente si fa all’indomani de Cdm”
2 – “La “Stretto di Messina” non ha più la concessione per la realizzazione dell’opera e, ammesso che venga inserita nel nuovo decreto, occorrerà una legge ad hoc per l’affidamento”
3 – “Sulle presunte penali, si è detto tanto ma a me risulta che l’indennizzo riconosciuto sia il 10% degli ottanta milioni di lavori svolti da Impregilo, ossia 8 milioni. Pendono ricorsi in appello ma dopo un paio di sentenze favorevoli e un pronunciamento della Corte costituzionale, non credo che i ricorrenti possano contare su un ribaltamento dell’esito giudiziario”
4 – “Il Governo ha scelto l’unico modo per procedere in fretta, cioè ripescare il progetto originario, senza sconvolgerlo, ancorché non si fosse esaurita la valutazione di impatto ambientale. Nel 2013 il Governo ha acclarato che non si era concluso l’iter progettuale. Ripartire da lì e senza modifiche importanti del progetto di allora, è possibile. Probabile pure che il Consiglio tecnico integrato che si intende nominare (trenta componenti di varia estrazione) possa avallarlo come organo terzo, senza ulteriori passaggi approvativi. Come sarà giudicato in Ue è da vedere”

Ma a 30 anni dalla progettazione, si possono davvero liquidare come “aggiornamenti” le modificazioni che dovranno essere apportate? Il rompicapo si complica peraltro non solo sul piano tecnico.

Il ministro confida nei suoi poteri magici di convincimento, di indefettibile risolutore dei problemi e di inauguratore di cantieri (“alta velocità” in Sicilia… magari!), irrompe con sicumera su procedure, tempi, penali, costi.

Eppure non dovrebbe sfuggire al suo staff che il percorso è accidentato, su diversi profili. Ne indichiamo alcuni:
dare una nuova concessione alla “Stretto di Messina” richiederà passaggi legislativi nel rispetto delle norme comunitarie;
sostituire le competenze del Consiglio superiore dei lavori pubblici con un Consiglio di tecnici probabilmente richiederà altra legge;
la valutazione ambientale, già a suo tempo critica, difficilmente si sbarazzerà della riserva naturale di Capo Peloro, sito di importanza internazionale inserito nel Water Project dell’Unesco, istituita nel 2001, quindi successivamente all’elaborazione del progetto originario che prevede la torre di 394 metri proprio tra i due laghi di Ganzirri;
il costo dell’opera non può allargarsi a mantice di fisarmonica (i numeri che circolano variano tra gli otto e i 12 miliardi), perché l’Europa per scucire i quattrini pretenderà di vedere un progetto “buono e solido” e dai costi in linea con gli standard internazionali.

Quanto alla previsione della posa della prima pietra… meglio tacere.
Su questi gangli insidiosi, almeno per i tempi, i governatori delle due Regioni, i parlamentari, dovrebbero soffermarsi e chiedere rassicurazioni piuttosto che attardarsi sulle ovvie ricadute benefiche del Ponte. Per evitare che la falsa ripartenza porti a rimanere incagliati, in un Paese che persino sul Pnrr si dimostra inadeguato.
Altrimenti di questo passo… il prosecco in frigo per i brindisi di luglio 2024 andrà in scadenza.

 

 

Al netto del plauso dei corifei epigoni, proviamo a capire cosa è venuto fuori dal Consiglio dei ministri a proposito del Ponte sullo Stretto, risultato che fa esultare i due governatori di regione. Siccome abbiamo a cuore la realizzazione dell’opera, aborriamo ulteriori illusioni e nuovi giochi dell’oca ma sappiamo bene quanto poco valore i politici attribuiscono a ciò che dicono (altrimenti non ne avremmo sentito di ogni genere proprio sul tema), ecco allora un paio di punti che appaiono di tutta evidenza dopo la riunione di ieri dell’Esecutivo presieduto da Giorgia Meloni che sull’opera epocale non ha detto nulla, lasciando il campo al suo vice Matteo Salvini.

I FATTI CERTI

Cosa dice Palazzo Chigi – “Il Governo ha approvato, salvo intese, un decreto-legge che introduce disposizioni urgenti per la realizzazione del collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria. Il testo interviene in modo complessivo in differenti ambiti (tra i principali: assetto societario e governance della Stretto di Messina S.p.a., rapporto di concessione, riavvio delle attività di programmazione e progettazione dell’opera, servizio di monitoraggio ambientale), al fine di consentire, nei tempi più celeri, il riavvio della procedura di progettazione esecutiva del ponte sullo Stretto di Messina”.

Scomparsa l’immediata cantierabilità – Ripetuto a più riprese dal ministro e giù per li rami dai governatori e da alcuni deputati ma credibile solo dagli sprovveduti, questo mantra è finalmente sparito, per il semplice motivo che siamo all’avvio di una nuova opera. Di cantierabile non c’era proprio nulla, solo gli allocchi potevano emozionarsi rinnovellando pappagallescamente quanto blaterato ex pulpito. Così come nessuno ciancia più di centomila posti di lavoro!

Serve un nuovo progetto – Con buona pace dell’allora assessore siciliano ai trasporti Marco Falcone, che nel maggio 2021 parlava di “progetto chiavi in mano, già munito dei necessari pareri e relative autorizzazioni” riferendosi a quello di Eurolink-Webuild del 2011, il decreto portato all’esame ieri dal ministro alle infrastrutture prevede un nuovo progetto da completare e approvare entro luglio 2024. E si tratta pur sempre di una previsione, perché non è possibile, prima ancora di cominciare, fissare inderogabilmente il completamento di un progetto su cui dovranno lavorare ingegneri e non solo e che dovrà passare al vaglio di approvazioni varie, a cominciare dal Consiglio superiore dei lavori pubblici i cui componenti non sono yesman politici. Un nuovo progetto che dovrà essere in linea con le acquisizioni tecniche maturate nel frattempo a livello internazionale, rispettare criteri di valutazione riconosciuti e accreditati in giro per il mondo anche perché se non rispondenti, difficilmente l’opera verrebbe coperta da una compagnia di assicurazioni.

Nessuna ipotesi sul costo – Non essendoci un progetto, sol successivamente si potrà capire su quali cifre si attesterà il nuovo computo che terrà conto del prezziario aggiornato, e probabilmente non potrà ignorare i parametri che accomunano le opere già realizzate in giro per il globo. A sentire alcuni tecnici si tratterebbe di costi che non dovrebbero superare i due miliardi e mezzo, eppure corrono voci su cifre triplicate. Anche perché cambia molto tra un ponte a unica campata o a più campate.

Il fascino del modellino – Il ministro Salvini e i presidenti delle due Regioni, Renato Schifani e Roberto Occhiuto, si sono fatti immortalare, prima della riunione del Cdm, davanti al modellino del ponte a unica campata, vecchio di un paio di decenni, portato in giro per convegni di qua e di là dello Stretto, per finire poi depositato al Ministero. Lo stesso ministro in un video parla già di unica campata, anticipando quindi il lavoro dei tecnici che dovranno lavorare al progetto; salvo a dire che l’aspetto ingegneristico spetta agli ingegneri. E vorremmo dire… ovviamente. Ma proprio perché saranno gli ingegneri progettisti a firmare e assumersi la responsabilità dell’elaborato, sarebbe appropriato lasciarli lavorare senza pressing.

Il rebus contenzioso – Ecco, anche su questo versante la situazione rimane ingarbugliata e quello che si percepisce è un complesso intrecciarsi di problematiche non risolte, per cui non si comprende la fretta di portare il decreto in Cdm senza avere già una soluzione pronta. Tant’è che prudenzialmente il decreto parla di “salvo intese”.

C’è questa intesa di massima con il precedente generale contractor Impregilo oggi Webuild? Non sappiamo. E non è l’unico aspetto poco chiaro del testo esitato, di cui non v’è traccia sul sito del Ministero perché sono “necessari gli ultimi approfondimenti tecnici”.

Un decreto da pontifex – Comunque l’ultima frase del comunicato può rappresentare la sintesi di quanto avvenuto ieri: “semaforo verde salvo intese”.

Leghisti e forzisti nel culto del capo brindano. Ma dopo trent’anni si registrano pochi fatti (rimessa in bonis della Stretto di Messina) mentre prevalgono… intenzioni e previsioni. C’è però il timbro del Cdm e alle nostre latitudini basta per inorgoglirsi e fare cin cin.

 

Metti un’insinuazione mollata sui social, che per qualsiasi ragione incontra la solerte attenzione di un maresciallo proteso a cogliere quanto di utile si può intercettare per impiantare nuove indagini in un’isoletta dove tempus non fugit. Metti ancora che nel mirino possano essere tirati in ballo nomi pesanti che fanno clamore, e il clima generale assecondi un’iniziativa deflagrante.

Come ingredienti di avvio, si ingigantiscono episodi banali conditi con un po’ di immaginazione criminogena, si mettono insieme fatti sconnessi fra loro, congetture e magari presupposti inventati ed ecco la falsa partenza che brucia la miccia per l’innesco: il pm abbocca, da accusatore per definizione e deformazione, prende per buona la relazione dei carabinieri, vista le intercettazioni richieste e parte la caccia non per provare fatti già assunti, ma per cercarli, per trovare qualcosa a supporto di una premessa farlocca. Una trappola criminale: basta aver detto a un funzionario “ti voglio fare un pensierino” (senza annotare nell’intercettazione che si trattava della ricorrenza di un compleanno) per tradurre … pensierino? alias non poteva che essere denaro! Dunque corruzione.

Macché, c’era meno che niente. Per fortuna. grazie a un giudice serio e accorto che ha capito subito il grande inganno di base, la montatura è stata bollata come tale già in fase preliminare: ricostruzioni fantasiose. Così l’inchiesta “Salina isola verde” è finita rapidamente in una bolla di sapone.

Mutatis mutandis. Metti un paio di pentiti che, sai tu per quale recondita ispirazione ricevuta, dichiarano di aver visto o saputo cose scottanti sul conto del presidente della Regione; metti che all’interno della Procura tra ripicche personali o visioni diverse, i magistrati si scontrino sul modo di procedere; che i cronisti di giudiziaria, megafono delle Procure, arrivino a parlare di arresto mentre il procuratore smentisce e anzi perviene a conclusioni opposte, ossia che si tratti di accuse insostenibili in un eventuale processo. Metti però che un gip si incaponisca, dia ragione al pool di sostituti “colpevolisti” e imponga l’imputazione coatta… a quel punto il processo è d’obbligo. Nel frattempo magari quei pentiti si rivelano inattendibili ma ormai è tutto incardinato. Tra gradi di giudizio e ricorsi, quintali di faldoni, centinaia di titoli che a ogni udienza rifanno la storia precedente… gli anni passano e i padri imbiancano.

Alla fine, l’assoluzione. Che scagiona Raffaele Lombardo e dà ragione proprio a quel procuratore rimasto isolato che però aveva capito di trovarsi davanti a un ballon d’essai, a una torta dagli ingredienti avariati, confezionata con accuse che difficilmente avrebbero retto in un dibattimento. Infatti sono state smantellate in appello con tanto di ratifica della suprema corte.
Un tempo sospeso… di tredici anni.

 

Quanto cinismo nel cordoglio del giorno dopo. Quanta odiosa ipocrisia persino nel comporre le bare con mazzi di fiori in quel palazzetto dello sport, allineate in decoroso triplice filare da morti quando potevano esserci da vivi. Quasi un’operazione di immagine per fare dimenticare la vergogna del mancato soccorso, di un abbandono che ne ha consumato l’esistenza all’ultimo miglio, quando già assaporavano la salvezza e comunicavano ai parenti in Europa di essere ormai arrivati.

Per non dire della ripugnanza provocata dalle dichiarazioni del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi a poche ore dalla tragedia in mare che ha già restituito oltre 70 corpi.

Accusato di disumanità, e secondo Carlo De Benedetti “sotterratosi politicamente”, il capo del Viminale ha dato una sua lettura dell’accaduto che ha sconvolto, ha lasciato attoniti e infatti si è precipitato a cercare di correggere il tiro all’indomani in un’intervista al Corriere. Niente, non è riuscito a convincere nessuno: ha tirato in ballo l’Europa, ha parlato di scafisti assassini, di nuove norme sull’immigrazione, di apertura all’arrivo regolamentato.

Sì, vabbé: ma di come sono andate le cose? Perché per ore non si è prestato soccorso? Nulla.
Che senso aveva parlare di etica della responsabilità, di senso civico al cospetto di salme e di sopravvissuti che per fuggire dalla disperazione sono stati capaci di tutto quindi anche di affrontare 4 giorni e altrettante notti su un barcone sapendo bene di rischiare la vita.

A proposito degli scafisti, che sempre criminali sono, nel caso specifico va detto che per duemila chilometri, partiti dalla Turchia, hanno solcato il mare portando i disperati a ridosso della costa crotonese; non li hanno abbandonati in alto mare. Dunque per i fatti dell’altro ieri in Calabria, si può parlare di scafisti assassini? E di profughi irresponsabili?.

Il ministro Piantedosi ha fatto anche di peggio: subissato da un’ondata di invettive ha cercato di rifugiarsi nel solito “sono stato frainteso”, il mio “discorso è stato decontestualizzato” salvo a non smentire nulla perché c’era poco da edulcorare dichiarazioni rese, diffuse, registrate e trasmesse.

Non basta: il Ministero si è spinto oltre. Ha minacciato gli ospiti di “Non è l’arena” e il direttore del tg Mentana che domenica sera commentavano l’accaduto. La minaccia? Ne ha dato conto il conduttore Giletti leggendo in diretta un flash dell’Adnkronos: “Fonti del Viminale fanno sapere che sarà interessata l’avvocatura dello stato per le gravi affermazioni degli ospiti di Non è l’arena”. Uno degli ospiti in questione era il medico soccorritore Amedeo Orlando il quale, dall’alto della sua pluridecennale esperienza, parlava di bugie nella ricostruzione dei fatti, perchè l’allarme seppur dato in tempo utile non è servito a salvare i migranti. E a microfono spento concludeva: non riconosco questo ministro.
Un triplice svarione.
Ma davvero è tale il profilo dell’Esecutivo? Con una squadra così la premier Giorgia Meloni intende andare avanti nei prossimi cinque anni?

Un sommesso suggerimento: Imponga ai suoi ministri più loquaci la regola aurea del…silenzio. Tacere, conviene.

 

 

Che tempi, che politica! Fino a un paio di decenni addietro era possibile, per chi si avviava al lavoro o si avventurava in un’impresa, immaginare un programma di vita o pianificare nel lungo periodo; mettere su famiglia e accendere un mutuo, assumere personale, fare un quadro di entrate e uscite e grosso modo stilare un bilancio attendibile avendo contezza di costi, agevolazioni, normative.

Si poteva confidare sulla durevolezza delle regole, presupposto fondamentale per progettare con una certa ragionevolezza. Tra privati la parola data aveva un senso, non c’era bisogno di portarsi appresso il notaio. Tanto più quando il contraente era la pubblica amministrazione.
Adesso che tutto è improntato alla caducità, precarietà, nessuno si raccapezza e tra quota 100, flat tax, rottamazioni, anche il più laborioso e ottimista si perde tra le novità che intervengono a rotazione.

In un paio d’anni si è passati dal superbonus per tutti “a gratis” alla bocciatura immediata del provvedimento perché scelta politica scellerata… ma non ci voleva un revisore dei conti a capirlo. Che ne sarà adesso di tutti i crediti ceduti e dei lavori in corso non è ancora chiaro.

In un paio di mesi la Regione siciliana ha approvato, contestato e cancellato un affidamento milionario per la passerella a Cannes. Con quali esiti in termini di risarcimento non è dato sapere.

Dentro il centrodestra si affannano in ogni occasione a celebrare l’unità di intenti e la coesione… salvo a dirsele di santa ragione un giorno sì e l’altro pure.
Un paio di esempi, i più recenti: Silvio Berlusconi, uno dei maggiori azionisti della maggioranza, spara a zero sulla premier Giorgia Meloni contestandole di aver incontrato Zelensky, poi cerca di metterci una toppa, convince i suoi servizievoli parlamentari, non i Popolari europei che lo boicottano a Napoli, disertando l’assemblea dei Popolari italioti.

Sono passati pochi giorni, ed ecco il forzista Giorgio Mulè alzare il tiro sulla sottosegretaria di FdI Augusta Montaruli, condannata per “rimborsopoli” in Piemonte, della quale sollecitava le dimissioni per non creare disagio alla maggioranza. La deputata si era già dimessa, e i colleghi di Fratelli d’Italia si sono scatenati contro il vicepresidente azzurro della Camera, elogiando “lo schiaffo morale ricevuto dalla Montaruli la cui impronta gli manterrà la faccia ben più rossa di quanto rubiconda già sia. Che provocatorie insinuazioni vengano da un personaggio come Mulè, che di pregiudicati eccellenti nel suo partito ne vanta più di uno, è intollerabile”. A sentirsi dare del “faccia di suola”, lui ora pretende le scuse. E’ giornalista… e confida nella solidarietà dei colleghi giornalisti perchè gli rivelino la fonte delle notizie, cioè nomi e cognomi di chi ha osato profferire quelle espressioni. Poffarbacco!!!

De minimis. Che tuttavia rivelano il livello di concordia, di afflato, di compattezza tra alleati.
Con questi presupposti, si configura il quinquennio al governo? Per fortuna che il miracolo italiano si ripete: i dati economici sul fronte inflazione tengono, sembra scongiurato il rischio di sprofondare. Ma della credibilità istituzionale intra ed extra moenia?

 

 

Pieno di albagia e con quel timbro tenorile che esalta la pomposa estimazione di sé, ieri Matteo Salvini non si è sottratto dal commentare lo sgarbo alla premier Meloni, non invitata alla cena di Macron con il tedesco Scholz e l’ucraino Zelensky. Ha visto nell’atteggiamento del presidente francese “una certa spocchia che non lo farà andare lontano”. E siccome di burbanza si intende, se lo dice lui c’è da crederci.

I francesi dal nasino all’insù e pure i tedeschi dalla lingua allergica hanno spesso rifiutato all’Italia il ruolo di comprimaria. E’ accaduto con Giuseppe Conte da parte dello stesso Macron e della Merkel e altre volte in passato in cui l’asse franco-tedesco si è imposto nelle decisioni importanti riproponendo il collaudato cliché: Francia e Germania prevalenti sui 27 soci dell’Unione.

Epperò, da quando è scoppiata la guerra russa in Ucraina, qualcosa era cambiato e proprio gli stessi commensali della cena parigina si erano trovati, a giugno scorso nel pieno delle bombe, su un treno diretto a Kiev assieme all’italiano Mario Draghi, presidente del Consiglio pro tempore per fallimento conclamato degli ex alleati di Salvini, ossia i Cinquestelle.

Sarà stato un caso? A quel tempo (eppure pochi mesi fa) del premier italiano, gli omologhi europei dicevano: “Quando parla Draghi, siamo in silenzio ad ascoltare”, evidentemente sapeva rendersi credibile con il linguaggio della competenza e della serietà. Quel registro è stato cancellato dalle elezioni di settembre e dalla campagna elettorale che le ha partorite: ricordiamo quando un gasatissimo Salvini che addirittura comiziava da aspirante premier, a Messina per parlare del Ponte, su domanda di un giornalista, perentoriamente dichiarava: “Non abbiamo bisogno di Draghi nel prossimo Governo”.

Aveva ragione: cosa c’entra Draghi in un contesto di vanità inconcludente? In un Esecutivo affollato di ministri alcuni dei quali devono ancora farsi conoscere e dare prova concreta di capacità, mentre tra i più noti e loquaci si erge il Capitano alle Infrastrutture risolutore di problemi irrisolti (come se la Lega non fosse al Governo da tempo). A sentirlo a reti unificate nei talk serali, è dovuto arrivare lui a sbloccare centinaia di cantieri, fermi per inezia, per colpa di qualche burocrate, dei bastian contrari, insomma di altri.

Comunque, alterigia o boria poco importa se parleranno i fatti.
E poiché l’icona della sua politica del fare è diventato il Ponte nello Stretto, su cui i parlamentari leghisti compiaciuti accolgono il verbo, inneggiano al Capo, dicono di crederci, il countdown è iniziato. I siciliani fremono; l’annuncio ormai è ufficiale: mancano due anni e tre mesi… alla posa della prima pietra!

Ma quali due anni e passa, anche di meno rilancia Silvio Berlusconi: intervistato ieri su Canale 5, lui che il ponte lo ha inventato vent’anni fa, da irredimibile ottimista afferma: “Penso che si potrà aprire il cantiere entro 18 mesi da oggi”.
Quando si dice la politica del fare, del fare bene e in fretta!

Così, mentre in Italia si ciancia a favore di eterne campagne elettorali (domani si vota in Lombardia e Lazio, poi sarà la volta delle Europee) a Bruxelles attendono ancora che il ministro si ripresenti, non per raccontare di centomila posti di lavoro e di costruzione pronta a partire, ma con in mano un vero progetto.
L’Europa spocchiosa aspetta semplicemente “un progetto buono e solido”. C’è?

 

 

Vuoi vedere che la cattura di Matteo Messina Denaro alla fine servirà pure ad accelerare il Ponte sullo Stretto?

Cosa c’entra la realizzazione dell’opera con l’arresto del super latitante non si capisce. Potrebbero essere due gli elementi che l’hanno motivata: il fatto che nel cognome si legge il nome della città e poi la connessione temporale: del ponte, come dell’arresto, si parla da 30 anni!

E allora, se dopo tre decenni un risultato si è ottenuto, si può confidare che arrivi anche l’altro.
Lo assicura il ministro delle infrastrutture Matteo Salvini che ha colto al balzo l’occasione per un tweet: “Con l’arresto di Messina Denaro, la Sicilia ha voltato una delle sue pagine più buie. Il Ponte sullo Stretto darà ai siciliani un altro segnale concreto, connettendo l’isola con il resto d’Italia e l’Europa e costruendo uno straordinario acceleratore di opere pubbliche, di lavoro e di crescita, facendo finalmente tornare la Sicilia protagonista del Mediterraneo”.

Nessun condizionale, il futuro è già chiaro e scritto: si farà. Il nesso con la vicenda dell’ex primula rossa è inintelligibile, tuttavia la forzatura va considerata come utile per parlarne visto che Salvini ne ha fatto un’icona della sua azione al Ministero.
Nel caso di Denaro Messina hanno parlato i fatti; adesso che parlino i fatti anche per il Ponte.

Un mese fa Salvini si è congedato dalla commissaria europea dopo una cena, confermando che anche l’Europa è d’accordo sul farlo. In realtà nulla di nuovo perché da tempo l’Ue si era pronunciata favorevolmente. Siamo però fermi alle richieste avanzate e non ancora esaudite: per impegnarsi economicamente l’Europa attende un progetto “concreto e valido” o “buono e solido”. Sono aggettivi usati dalla commissaria Ue nel rispondere ad alcune interrogazioni di europarlamentari lo scorso anno e ribaditi nel recente incontro con Salvini.

Ecco, parlino i fatti: Bruxelles attende un progetto del Ponte “buono e solido”. C’è o non c’è?
Visto che si parlava già in campagna elettorale di un’opera immediatamente cantierabile, immaginiamo che di qui a qualche giorno Salvini tornerà a Bruxelles con le carte.

 

 

Per chi immaginava che gli assessori di Fratelli d’Italia potessero inaugurare uno stile diverso ora che sono al governo della Nazione; diciamo un approccio più serio, affidabile, meno sleale e menzognero di altri… ecco il disinganno.

E quale arroganza nel cercare di smentire persino gli atti pubblici e pubblicati, quegli scripta manent che l’ex assessore al turismo oggi deputato nazionale di fede meloniana, Manlio Messina, ha provato a travisare offrendo una lettura fuorviante; mentendo su passaggi essenziali, pur di avallare l’operato del suo successore Francesco Scarpinato e magari se stesso nella vicenda del milionario investimento-bis su Cannes.

Arroganza fino alla gratuita e odiosa offesa personale. Sostanzialmente cosa ha detto Messina: quei 3 milioni e 750mila destinati alla Absolute Blue per gli eventi al Festival di Cannes sono effetto di una contrattazione avvenuta tra il 20 ottobre e l’11 novembre, “quando io mi ero dimesso e Scarpinato non si era ancora insediato, quindi l’interim che ha seguito la vicenda si chiama Renato Schifani”. Dunque “o non ha letto le carte, ed è gravissimo, o non ha saputo leggerle”.

Corbezzoli! Un alleato che accusa di cialtroneria, negligenza il presidente della Regione, espressione anche del suo schieramento politico. Dall’opposizione non hanno osato spingersi a tanto. Dire al presidente della Regione, per giunta avvocato di lungo corso, di non aver letto o di non sapere leggere le carte è disonorevole, calunnioso.
Tanto più che le cose non stanno per come le racconta Messina. Perché lui si ferma alla parte preliminare, tralascia quella più corposa e decisiva che si è perfezionata tra fine novembre e dicembre 2022 tradottasi, esattamente il 20 dicembre, nel decreto del direttore generale ad interim dell’assessorato al turismo Calogero Francesco Fazio, controfirmato dal responsabile del procedimento Nicola Tarantino (al quale nel riassetto organizzativo del Dipartimento regionale Turismo, Sport e Spettacolo, il 14 giugno 2022 – cioè con Messina assessore – era stato conferito l’incarico di dirigente del Servizio 9 “Sicilia Film Commission”).

Il 28 novembre Scarpinato già sapeva – E’ infatti il 28 novembre quando Tarantino, “prima dell’aggiudicazione della commessa alla Absolute Blue S.A. e della sottoscrizione del relativo contratto di appalto, notizia l’assessore regionale del Turismo, per il tramite del dirigente generale ad interim del Dipartimento, in merito all’iter amministrativo condotto nell’ambito della procedura in esame”.

Il 14 dicembre presa d’atto dell’assessore – Poi il 14 dicembre l’assessore regionale del turismo prende atto, con tanto di annotazione in calce alla nota del RUP e notificata al Servizio 9 – Sicilia Film Commission.

Infine il 20 dicembre il provvedimento
 – Viene approvata la realizzazione con il quadro economico previsionale del progetto fotografico “Sicily, Women and Cinema 2023”, nonché la sua presentazione, ivi compresi gli eventi di comunicazione e promozione, nell’ambito della 76a edizione del Festival Internazionale del Cinema di Cannes.

L’on. Messina glissa sul precedente dell’anno scorso
 – Il deputato di FdI, assessore al turismo fino a ottobre scorso, con l’affondo dell’altro ieri a Schifani, nel tirarsi fuori dal caso peraltro omette di dire che l’istruttoria della proposta trova la premessa-madre proprio nella sua determinazione dell’anno prima. Tra le pagine di “visto e ritenuto” di oggi si fa riferimento infatti a quel precedente: “Considerato che il progetto “Sicily, Women and Cinema 2022”, costituito da un remake cinefotografico delle figure femminili siciliane della recente storia del cinema finalizzato a promuovere le location cinematografiche della Sicilia, e stimolare un crescente flusso di visitatori correlato al fenomeno del cosiddetto cine-turismo, è stato presentato ed esposto nel 2022 per tutta la durata della 75a edizione del Festival Internazionale del Cinema di Cannes in una apposita e prestigiosissima struttura denominata “Casa Sicilia” ed ha riscosso uno straordinario successo mediatico, contribuendo ad incrementare

l’attrattività della Sicilia per le produzioni cinematografiche internazionali; considerato che in forza di tali risultati, l’Assessorato Turismo, Sport e Spettacolo della Regione Siciliana ha stanziato per il 2023 la somma di € 3.750.000 per la realizzazione di una nuova edizione del progetto da presentare nel corso del 76a Festival Internazionale del Cinema di Cannes, con risorse del Piano Sviluppo e Coesione Sicilia 2014/2020 e, pertanto, da impegnare giuridicamente entro il 31/12/2022”.

Dunque si deve risalire a lui e allo scorso anno, nella scelta senza gara della società lussemburghese cui furono destinati oltre due milioni a firma Messina, quasi raddoppiati a firma Scarpinato perché i tanti “visto e considerato” sottolineano l’enorme successo mediatico ottenuto e l’incremento dell’attrattività siciliana.

Straordinario successo? Ma quali sono i dati a supporto di tale bilancio? Chi ha mai valutato ex post i risultati delle numerose, costose e in gran parte inutili partecipazioni a Bit, mostre, eventi internazionali di qua e di là dell’Atlantico e del Pacifico? Esiste un nucleo deputato a mettere insieme i numeri per capire cosa davvero frutta la presenza di Casa Sicilia al ritorno dal giro del mondo? Non ci risulta. Sappiamo solo che ogni assessore che si insedia è pronto a inorgoglirsi alla prima conferenza stampa utile nell’illustrare i dati… sempre in crescita!

L’autoreferenzialità, grande patologia della Sicilia di ieri e di oggi, insomma non conosce terapia.
Ora, cosa deciderà il governatore Schifani dopo aver imposto la revoca in autotutela del provvedimento incriminato, preoccupandosi di cautelare tutti da risvolti penali ed erariali… eppure ricambiato con un attacco proditorio?
Basterà qualche giravolta, un papocchio per superare chicane e dileggio, fare finta di niente pur di tirare innanzi.

 

 

Matteo Salvini ministro delle Infrastrutture torna sul tema del collegamento tra la Calabria e la Sicilia indicando “un arco temporale” per l’inizio dell’opera.

Lunedì, assicura il leader della Lega, il provvedimento sarà inserito nella manovra in Consiglio dei ministri. “Nella manovra di bilancio che portiamo in cdm lunedì un altro ponte di cui si parla da 54 anni sarà un esempio del genio italiano perché, se sarà come sarà, sarà il ponte a campata unica più lungo al mondo. L’Italia tornerà un punto di attrazione”. Lo ha detto – come riferisce l’Ansa – a margine della cerimonia di riapertura al traffico del ponte monumentale di Ariccia.

“Lunedì in cdm verrà riattivata la Società Stretto di Messina. Conto che in questa legislatura partano i lavori però serve anche l’Alta velocità. Nessuno può promettere un ponte in 5 anni con una campata unica di 3,3 chilometri con costi notevoli. Sarò il 5 dicembre a Bruxelles per chiedere che l’Europa faccia la sua parte, partecipi al finanziamento di un progetto che è europeo, quella non è la Messina-Reggio Calabria ma la Palermo-Berlino”.

Sul tema Ponte si continua a essere poco chiari, il ministro non ritiene di dire come stanno realmente le cose e tutto rimane nel vago, nel contraddittorio, nel poco convincente. Così mentre lui parla di avviare i lavori entro la legislatura, il suo vice Edoardo Rixi in un’intervista a La Sicilia, sostiene che il ponte sarà realizzato entro 5-6 anni. Nessuno dei due dice che il progetto definitivo ancora non c’è: perché se sarà riesumato quello a unica campata da tre chilometri e 300 mt, fermatosi davanti alla porta del Cipe e mai approvato dal Consiglio superiore dei lavori pubblici, non si tratterà certo di spostare qualche linea o di apportare solo “accorgimenti” aggiornandolo ma di rivederlo in toto e ripassare al vaglio degli organismi di valutazione. A meno che il ministro non ritenga di commissariare tutti i passaggi, sorvolando sulla normativa di riferimento: cosa per assurdo possibile… se non fosse che all’Unione europea non basterà la parola del Mit per scucire denari senza che sia avvalorata l’eseguibilità dell’opera, tanto più che in giro per il mondo non vi è nulla di simile e anzi l’ingegneria mondiale sconsiglia di spingersi oltre i circa 2 km di campata unica per un ponte che dovrà essere stradale e ferroviario.

E per fare chiarezza sarebbe doveroso anche rendere pubblici gli esiti delle commissioni ministeriali che hanno lavorato di recente sul Ponte: siamo fermi all’ultimo gruppo di studio che ha portato il ministro precedente Giovannini a commissionare a Italfer un progetto di fattibilità sull’ipotesi tre campate. L’ad di Fs Fiorani solo un paio di mesi fa annunciava che sarebbe stato pronto entro un anno, cioè nel 2023. Che ne è stato? Tutto azzerato?

Il vice ministro Rixi sostiene che la soluzione tre campate non è percorribile. Ma è proprio così? Strano, perché le tecnologie degli ultimi 20 anni ormai collaudate nei lavori dei petrolieri hanno spinto prima i giapponesi e da ultimi i turchi a utilizzarle per i ponti (come Akashi e quello sui Dardanelli).
Senza una risposta a queste domande molto semplici, continuiamo ad assistere a uno spettacolo di prestigiatori, di illusionisti che fanno apparire e scomparire con abili performance quel che piace: la “Stretto di Messina”… ci fu, non c’era più e d’incanto è riapparsa; le tre campate che appena un paio di mesi fa erano da preferire a quella unica… d’emblée scartate e archiviate; i lavori immediatamente cantierabili, ora slittano di qualche anno. E sui 100mila posti di lavoro… si danno i numeri.

 

A giudicare dalle dichiarazioni al termine del vertice del ministro Matteo Salvini con i governatori Renato Schifani (Sicilia) e Roberto Occhiuto (Calabria), siamo al solito blablabla.

Nulla di nuovo che possa risultare interessante, al di là della convergente volontà ribadita di considerare l’opera prioritaria, fondamentale per il rilancio del Sud, utile per l’intero Paese, con ricadute straordinarie in un’ottica di strategia trasportistica nel Mediterraneo eccetera eccetera. Anzi sembra di cogliere uno stato di impasse, nonostante la comune intenzione di accelerare. Ma accelerare come se non si tira fuori il progetto?

Di solito si dice che quando non si hanno le idee chiare o si intende prendere tempo, la formula migliore e più volte collaudata è quella di insediare un tavolo tecnico o una cabina di regia. Ed ecco che pure questa volta si è dato fondo alla genialità: procedere con una cabina di regia permanente tra regioni e ministero.
Il vero punto della questione sta nel calendarizzare a breve un incontro con Rfi per accelerare sullo studio di fattibilità commissionato dal governo Draghi.

Ecco allora il cuore pulsante di cui si sa poco: Ferrovie, braccio tecnico qualificato e idoneo a dire una parola chiara, si è pronunciato o no?
Se manca questa voce determinante di cosa parliamo? Del fatto che le due Regioni vogliono il Ponte; che il centrodestra lo ha inserito nel programma comune quindi è condiviso, che la realizzazione porta con sé altre infrastrutture come l’alta velocità ferroviaria, che c’è la possibilità di reperire i finanziamenti necessari?
Tutte cose ormai risapute. Va bene comunque che ci sia un verbale aggiornato con le firme di ministro e governatori che nero su bianco sottoscrivono di pensarla all’unisono, Ma siamo a una fase così avanzata di discussione che francamente, dopo decenni di studi e commissioni, adesso pretende fatti. A cominciare dal progetto.

Se il progetto, ancorché di massima, c’è e potrebbe diventare l’ipotesi cantierabile, il ministro lo dica. Se, come par di capire, dovrebbe essere quello azzerato 15 anni fa a unica campata, Salvini faccia chiarezza col supporto dei tecnici e chiuda una volta per tutte l’infinita incertezza che ha avvolto la vicenda.
Ma se siamo ancora allo studio di fattibilità commissionato a Fs, praticamente si sta discutendo di nulla. E anche l’incontro si riduce a una passerella.

 

 

 

Opera di straordinaria rilevanza trasportistica e socio-economica che non serve solo a collegare Messina e Reggio o la Sicilia al Continente ma assume rilievo di livello europeo, per completare quel corridoio scandinavo-mediterraneo pensato dall’Ue come asse nevralgico che si proietta verso l’Africa, il Ponte è divenuto argomento del giorno grazie al ministro Matteo Salvini.

Sul tema, così antico quanto dibattuto, il centrodestra si è espresso in modo inequivocabile e unanime, dunque c’è da ritenere che il nuovo Governo intenda procedere, non “perché costa di più non farlo che farlo” slogan che il ministro delle Infrastrutture ripete stucchevolmente, ma principalmente perché a questo punto se il Governo dovesse rinunciarvi o perdere altro tempo non sarebbe più credibile. Dunque occorre uscire dall’equivoco, dall’ambiguità che ha ipotecato ogni decisione e ha presentato magari come inizio dei lavori lo spostamento di un binario a Cannitello (Villa San Giovanni) 20 anni fa.

Non è più tempo di coup de theatre: per affrontare con serietà la questione, accompagnarla verso la realizzazione, non servono tuonanti quanto vaghe dichiarazioni di intenti ma atti e passaggi formali, chiamando gli organismi tecnici a progettare.
Solo facendo chiarezza, si dimostrerà concretamente di volerlo fare, altrimenti si continuerà ad alimentare la retorica inconcludente e il sospetto che politicamente “giovi” più non farlo che farlo pur di parlarne per altri anni ancora: e non per i costi (oggi stimati in 2 miliardi, mentre si sentono cifre triplicate di 7-8 miliardi); né per problematiche di esecuzione (nei Dardanelli, un ponte simile, ha visto di recente impegnate aziende italiane).

Il fatto è che la vicenda Ponte si è talmente ingarbugliata che, 25 anni dopo essere approdata al Consiglio superiore dei lavori pubblici, si sono prodotti solo quintali di faldoni e decisioni altalenanti, contraddittorie, perditempo: un po’ perché si tratta di un’opera che non vedrebbe la luce in una legislatura, ma soprattutto per gli interessi economici anche extra nazionali che smuove, sconvolgendo l’assetto geopolitico perché sposterebbe a sud l’asset strategico dei traffici intercontinentali. Immaginabili dunque le resistenze da Rotterdam in giù.

Il Governo vuole il Ponte? Il ministro Salvini, piuttosto che convocare i governatori di Sicilia e Calabria (i quali si sono già espressi a più riprese invocando Ponte, Ponte subito) dica come stanno le cose, ne parli con il suo collega Nello Musumeci che da siciliano conosce bene la questione e chiami in causa Ferrovie e Anas, bracci tecnici dell’Amministrazione.

Ca va sans dire che il Ponte serve massimamente come ponte ferroviario, deve portare l’alta velocità o almeno l’alta capacità fino ad Augusta e Palermo, dunque deve garantire il passaggio ininterrotto dei treni e in sicurezza. Fs ha al suo interno le competenze per esprimersi.

Chiarezza significa anche non ignorare quanto il Consiglio superiore dei lavori pubblici ebbe a mettere nero su bianco nel 1997, adunanza del 10 ottobre 1997, protocollo 220 sul “Progetto di collegamento stabile viario e ferroviario tra Sicilia e Continente. Progetto di massima. Legge 17-12-71 n. 1158”. E vale la pena sottolineare come già in quella relazione, che si conclude con una serie di rilievi, prescrizioni, richieste di approfondimenti per poter passare alla fase successiva, si segnalava alla “Stretto di Messina” l’opportunità di valutare più campate con pile in acqua, tecnologia off shore cui si faceva espresso richiamo che nel frattempo ha registrato progressi ulteriori rispetto ad allora, il che spiega perché a maggior ragione oggi la raccomandazione torna prepotentemente.

Questi i passaggi più significativi delle oltre 200 pagine di relazione del Consiglio superiore:
“Un giudizio di completa fattibilità e la scelta del disegno strutturale andranno dati dopo che le problematiche sopra elencate saranno state sviluppate e avranno dato risposte soddisfacenti. A tal fine si ritiene che vengano prese in esame, con lo stesso impegno, anche soluzioni con uno o due sostegni intermedi, osservando a questo proposito che i progressi realizzati nel campo delle strutture off-shore sono tali da ritenere fattibile l’esecuzione di pile in mare; con ciò il problema della struttura aerea risulterebbe commisurato al normale progresso delle conoscenze scientifiche, tecniche e realizzative. Quanto sopra vuole significare che l’attività della SM deve proseguire ed essere adeguatamente sostenuta, indirizzandosi metodologicamente in via prioritaria, agli approfondimenti teorico-sperimentali della complessa fenomenologia dell’opera in relazione specialmente alla severità del sito, in modo da eliminare le incertezze e le zone d’ombra che tuttora si ravvisano”.

Parere Fs: “Il complesso delle verifiche effettuate dalla Commissione porta ad esprimere una sintetica valutazione finale in sei punti: 1) la scelta tipologica proposta dalla SM appare attendibile e va quindi confermata; 2) la fattibilità tecnica della tipologia aerea appare abbastanza dimostrata perché valga la pena di concentrare gli sforzi su di essa adottandola per il progetto di massima. Data l’ampiezza del salto dimensionale, la preferenza prospettata dalla SM per la soluzione a campata unica non può essere assunta come definitiva fino a quando non si disporrà nell’ambito del progetto di massima, di più probanti elementi di confronto (in termini prestazionali, costruttivi ed economici) con la soluzione a due campate; 3) le valutazioni della SM sulla fattibilità economica, affette da alcune lacune e da notevoli incertezze, destano non poche perplessità; inoltre il valore del saggio di rendimento interno calcolato dalla SM è suscettibile di notevoli diminuzioni in relazione alle spese che potrebbero eventualmente essere imposte dai Ministeri della Difesa e della protezione…”.

Parere conclusivo Anas – “L’esame condotto sul progetto di massima definitivo approntato dalla SM ha posto in evidenza che il progetto unitamente a numerosi ed accurati sviluppi presenta ancora vari interrogativi e problemi inerenti la costruzione e la sicurezza che devono essere chiariti.
La Commissione Anas reputa pertanto che il progetto di massima definitivo presentato nel dicembre 1992, pur nel contesto degli indubbi e validi apporti progettuali forniti, non possa ancora essere indicato quale progetto definitivamente idoneo a essere sviluppato in un progetto esecutivo secondo il quale procedere alla costruzione del ponte e del globale attraversamento”.

 

 

 

Il vicepremier e ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, Matteo Salvini, ha contattato i governatori di Sicilia e Calabria, Renato Schifani e Roberto Occhiuto: a breve dunque l’incontro al dicastero di Porta Pia per fare il punto della situazione sul progetto Ponte.

Il ministro accelera dunque su questo tema, definito in campagna elettorale una priorità per il governo. Non si perde tempo, si va al cuore del problema, almeno questa è l’impressione avvalorata dalle parole del neo ministro. Si apre dunque una pagina nuova, promettente.
Ma per non incorrere in ulteriori delusioni, serve chiarezza: negli ultimi tre anni, a fasi alterne, si è passati dall’entusiasmo alla rassegnazione con annunci equivoci e mezze verità. Ecco allora che una bella dimostrazione di serietà, di un cambio di marcia rispetto al passato è porre fine alle ambiguità, alla confusione che ha disorientato persino gli esperti da decenni in attesa di versioni coerenti, non oscillatorie.
Sarà quindi necessario capire intanto se il progetto immediatamente cantierabile, cui ha più volte fatto riferimento il ministro Salvini, esiste, qual è, quali i tempi prevedibili per rimettere in moto l’intero iter. E dove i politici devono fare un passo indietro e far parlare i tecnici di Anas, Ferrovie.

Insomma un’operazione verità, imprescindibile per diradare quella nebbia che ha fin qui avvolto i vari passaggi, quasi vi fosse una precisa volontà a non manifestare lo stato dell’arte, visto che siamo rimasti fermi al “recente” dato noto, ossia l’affidamento del ministro Giovannini a Italfer affinché elaborasse un progetto di fattibilità sulle ultime due ipotesi rimaste in valutazione: una campata unica di 3km e 300 metri (progetto originario poi abbandonato che ora viene riesumato), oppure a tre campate (soluzione rivalutata dagli esperti insediati dalla ministra De Micheli).

Una o l’altra soluzione, l’importante è che il ponte si realizzi.

Proprio per capire se quest’opera troverà realmente esecuzione, presupposto fondamentale è sapere come stanno le cose: da quale punto si intende ripartire e con quali credibili prospettive, così da scongiurare una messinscena bis.

I presidenti di Sicilia e Calabria hanno già dichiarato in varie sedi di ritenere indispensabile il collegamento stabile nello Stretto, dunque nell’incontro non potranno che confermare tale posizione. Ciò che finora è stato poco intellegibile è come il Governo centrale ritiene di procedere, posto che il Ministero ha solo preso tempo con interminabili commissioni di tecnici.

Al ministro Salvini il merito di un rapido input, tanto da aver già affrontato il tema con i suoi tecnici. Può quindi dirci a questo punto: è finito lo studio e con quale esito? Esiste effettivamente un progetto definitivo che potrebbe in tempi ragionevoli tradursi in progetto esecutivo? Come intende ripartire da quel progetto di 15 anni fa, mai approvato dal Consiglio nazionale dei lavori pubblici?
Superare questi interrogativi sarà un sollievo: archivieremo inganni, abbagli e pose di prima pietra fasulle. Non fantasticheremo certo sul ponte percorribile entro un lustro… ma potremo almeno immaginare un inizio. Cosa non da poco, dopo mezzo secolo di miraggi tra ferry-boat.

 

 

Anche al Senato Giorgia Meloni ha mostrato carattere, la carica di energia di cui è dotata, una visione del Paese, la convinzione su alcuni provvedimenti che, possono o no essere condivisi, lei ci crede, li ritiene utili e non intende rinunciarvi, affatto interessata se saranno o meno elettoralmente fruttuosi.

Vola alto la premier, pronta a giocarsi tutto pur di segnare il suo passaggio e la svolta generazionale che incarna. Ha vinto le elezioni e soprattutto ha vinto sui colleghi parlamentari perché nessuno è stato in grado di metterla in difficoltà anche al Senato, la camera alta dove soltanto uno è riuscito a porsi al suo livello con un intervento che ha puntato al cuore della politica: il predecessore a Palazzo Chigi, Matteo Renzi leader di Italia Viva. Che pure annunciando l’opposizione al governo, si è porto nei confronti della premier in modo così aperto e costruttivo da far immaginare per il futuro un rapporto di possibile collaborazione, da posizioni diverse e con visioni che non coincidono su vari temi, perché un dialogo approfondito e senza pregiudizi tra intelligenze che si confrontano può solo fare bene alle scelte migliori per il Paese.
Renzi non torna simpatico a molti, diciamo pure che ci mette spontaneamente del suo per non mitigare un atteggiamento percepito come fastidiosa supponenza ma è autenticamente se stesso.

Meloni ha parlato chiaro e in modo diretto ai senatori, senza eludere domande e critiche nel replicare ai loro interventi, niente toni diplomatici.
Vale per tutti la piccata risposta all’ex pg Scarpinato cui ha contestato i teoremi su cui parte della magistratura ha costruito processi. Non è stato cauto neppure l’ex premier di Iv nel rivolgersi agli ex compagni di partito del Pd, mettendoli davanti alle contraddizioni e agli attacchi boomerang con cui hanno cercato di contestare i propositi del nuovo Esecutivo. Da oppositore senza preconcetti ha offerto alla premier la disponibilità a un contraddittorio su un piano di vera cultura politica che elevi il dibattito, utile alla nostra democrazia: “se la presidente del Consiglio, il governo e la maggioranza parlamentare vorranno davvero sfidarci in positivo, ad esempio sull’elezione diretta del presidente del Consiglio, su quello che nel nostro programma abbiamo chiamato ‘Il sindaco d’Italia’, noi ci saremo”.

Meloni e Renzi, due quarantenni quasi coetanei che appartengono alla stessa generazione. Due formazioni di ispirazione opposta che si ritrovano però a parlare nello stesso modo, aperto e senza infingimenti. Non si sono colti atteggiamenti opportunistici, finzioni nel loro dire, entrambi si sono mostrati per quel che sono.
Molte assonanze dunque che hanno fatto bene all’immagine del Senato.
E sincera è stata anche l’esortazione di Matteo a Giorgia: “non si avventuri a fare riforme costituzionali da sola… per esperienza personale, glielo sconsiglio”.

In conclusione, chapeau di Renzi a Meloni: “Faremo opposizione con la politica, non con il vocabolario. Ci sono due opposizioni in quest’aula, è un problema”. C’è infatti l’opposizione di Pd e M5S che ancora discetta di fascismo e si sofferma se sia più consono l’articolo il o la, questioni che Renzi liquida come masochismo di quella sinistra. Lui intende privilegiare un altro registro e rende omaggio alla “donna che ha vinto tante battaglie e oggi è la trentunesima presidente del Consiglio dopo 30 maschietti”.

 

 

 

Giorgia Meloni premier si è presentata alla Camera con un discorso che ha tracciato le linee guida del nuovo governo e, richiamandosi alla sua storia politica e al programma leit motiv comune in campagna elettorale dell’intera coalizione di centrodestra, ha condensato in alcuni passaggi chiave la mission dell’Esecutivo.

Messaggi chiari, diretti, espressi con quella determinazione che la caratterizzano e ne fanno la leader indiscussa dell’intero schieramento, volitiva, ferma nei propositi di non deflettere sui punti fondanti che segneranno un cambiamento non da poco a giudicare dall’approccio sul rapporto Stato – cittadini e dal motto cui intende ispirarsi: “non disturbare chi vuole fare”.

Con il piglio di chi ci crede davvero, consapevole di aver raggiunto il massimo cui poteva aspirare e che fino a un paio di mesi addietro sembrava un miraggio; temprata da una giovinezza vissuta tra difficoltà familiari ed economiche e forte di un’esperienza combattuta con le sue sole forze, ha affrontato l’emiciclo dall’altro lato in cui si era sempre trovata. Dai banchi dell’opposizione allo scranno di presidente del Consiglio, ha mostrato coerenza e capacità di misurarsi con le sfide che l’attendono, dicendo: “stravolgerò i pronostici”.

Lei, sfavorita che ce l’ha fatta, ha insistito sulla necessità di premiare il merito, di promuovere le opportunità di lavoro piuttosto che un diseducativo reddito di cittadinanza che non sprona a darsi da fare; agevolare le imprese con meno tasse e burocrazia proprio per incentivarle a creare lavoro; tradurre in altrettanti sì i tanti no all’intrapresa anche nel campo dell’energia oggi settore delicato e vitale per la produzione e la vita di ciascuno. Dunque basta veti, basta con l’insopportabile burocrazia ma ripresa dello sfruttamento dei giacimenti di gas, in particolare nel Mezzogiorno paradiso delle rinnovabili. Le imprese chiedono meno burocrazia, regole chiare e certe, risposte celeri e trasparenti.

Un concetto ricorrente, quello della libertà: “liberare le migliori energie di questa Nazione e garantire agli italiani, a tutti gli italiani, un futuro maggiore di libertà, un futuro di maggiore libertà, giustizia, benessere e sicurezza”.

Convincenti anche i richiami: alla flat tax da ampliare fino a 100 mila euro; al Pnrr “un’opportunità straordinaria di ammodernare l’Italia” su cui occorrerà superare i limiti strutturali e burocratici che da sempre rendono difficoltoso per l’Italia riuscire ad utilizzare interamente persino i fondi europei della programmazione ordinaria, e le Regioni lo sanno bene perché in genere sono indietro per incapacità di spendere quei fondi; alla deregolamentazione dei procedimenti amministrativi per dare stimolo all’economia; alla politica industriale, per puntare sui prodotti di assoluta eccellenza, dalla moda al design, fino all’alta tecnologia, alla sovranità alimentare (“che non significa, ovviamente, mettere fuori commercio l’ananas, come qualcuno ha detto, ma più banalmente garantire che non dipenderemo da Nazioni distanti da noi per dare da mangiare ai nostri figli”).

Per fare tutto questo, c’è bisogno di una visione che non guardi alla prossima scadenza elettorale ma vada oltre la legislatura, per abbracciare almeno il prossimo decennio. La riforma costituzionale che preveda un sistema semipresidenziale alla francese è nelle corde di questo governo. Una riforma che parallelamente preveda il processo virtuoso di autonomia differenziata avviato da alcune regioni. Per la Meloni questa svolta autonomistica, in un quadro di coesione nazionale, sarà occasione per tornare a porre al centro dell’agenda Italia la questione meridionale. Il Sud non più visto come un problema, ma come un’occasione di sviluppo per tutta la Nazione.

L’intervento di Meloni ha spaziato naturalmente sul ruolo dell’Italia in Europa, rassicurando i partner atlantici; sull’intento di promuovere nuove logiche in fatto di emigrazione per impedire arrivi indiscriminati; sull’autonomia energetica.

Appassionato il richiamo al ruolo delle donne: ha citato quel pantheon che per lei ha costituito un esempio nei vari campi, ha citato per nome le “donne che hanno osato per impeto, per ragione o per amore”.
Si è rivolta ai giovani, invitandoli a partecipare e anche a protestare, confessando la sua simpatia per chi scende in piazza memore della sua storia giovanile… ma è capitato che proprio in coincidenza col suo discorso, alcuni universitari alla Sapienza che contestavano un convegno sono stati manganellati.

Comunque un discorso pacato, in stile istituzionale. Un libro ancora da scrivere su cui però ha dettato i primi titoli a segnare la volontà di cambiamento senza tentennamenti. Premesse e promesse legate soprattutto alla sua caparbietà, perché gran parte della compagnia ministeriale si è già vista all’opera in precedenti esperienze di governo e la prova non è stata proprio lusinghiera.

Di veramente nuovo c’è infatti solo lei, Giorgia Meloni, lanciatasi in politica all’indomani della strage di Via d’Amelio che uccise il giudice Paolo Borsellino, pure lui simpatizzante di destra. Dell’eredità di quella “fiamma”, oggi la premier rivendica la passione di spendersi per nuovi orizzonti di libertà e di democrazia, nessuna indulgenza sul fascismo anzi espressa condanna per i crimini del regime, che pure ieri ha ribadito e francamente appare stucchevole che dall’opposizione si insista ancora su questa matrice. Giorgia mostra autenticità di sentimenti e voglia di lasciare un’impronta nuova nella storia del nostro Paese, pur avendo già conquistato un posto con la nomina alla guida dell’Esecutivo.

Nel Parlamento può contare su numeri abbondantemente sufficienti ma è nella compagine a Palazzo Chigi che potrebbe non avere compito facile, visto il protagonismo del suo vice Salvini che, già all’indomani del giuramento e pure ieri, era in tv a riprendersi la scena per rilanciare il ruolo della Lega; così come da Forza Italia, a più riprese, si sottolinea che senza i voti degli azzurri il Governo non potrebbe durare.
Oggi si replica al Senato, poi la partita si chiuderà con la nomina dei sottosegretari: un bilanciamento delle aspettative per rimediare all’assenza del terzo partner come Noi Moderati, rimasto finora al palo.
Il resto si vedrà, man mano che le pagine del libro si riempiranno.

 

 

 

“Si comincia. Con molta emozione ma anche con la consapevolezza delle difficili sfide che ci attendono. Ora tocca a noi: siamo pronti”.

Giorgia Meloni e Mario Draghi, ieri nella consueta cerimonia del passaggio della campanella, hanno offerto una bella immagine istituzionale: quel garbo cordiale che non sempre caratterizza l’inizio di un nuovo Esecutivo: il “benvenuta” dato da Draghi alla nuova inquilina al suo affacciarsi sulla scalinata di Palazzo Chigi e poi la mano sulla spalla fino al sorriso con cui si è congedato da lei nella sala dei Galeoni hanno contraddistinto l’elegante porgersi di Draghi e l’emozione di Meloni. Quasi a dire l’uno all’altra stai tranquilla andrà tutto bene e lei a sentirsi rassicurata nel poter contare su di lui. Perché è emerso un atteggiamento paterno che sembra preludere a una continuità senza pericolose improvvisazioni, di certo utile per il Paese, in una fase così complessa di incertezze, con i conti a rischio e la necessità di trovare coperture nell’Ue a garanzia del soccorso legato al Pnrr.

D’altronde anche i numerosi messaggi augurali ricevuti da Giorgia sono l’effetto di un lascito importante che Draghi le ha fatto, accreditandola nelle ultime settimane presso i vari consessi internazionali e con i leader europei che sulle prime non avevano accolto con particolare entusiasmo la prospettiva in Italia di un governo di destra. Preoccupandosi di tenere alto il nome del Paese anche per il dopo, quando non toccava più a lui guidarlo.

Un congedo che denota un grande senso dello Stato e il profilo altissimo di autorevolezza con cui Draghi ha esercitato il suo mandato, diventando ascoltato partner dei colleghi a livello non solo europeo. Grazie super Mario e brava super Giorgia diventata, da giovane e appassionata leader, la prima premier.

Adempiuto al cerimoniale, Meloni ha presieduto il Consiglio dei ministri: nomina a sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del dott. Alfredo Mantovano, con le funzioni di segretario dello stesso Cdm. Poi l’attribuzione delle funzioni ai vicepresidenti del Consiglio, on. Antonio Tajani e sen. Matteo Salvini; infine, conferito ai ministri senza portafoglio i seguenti incarichi: per i rapporti con il Parlamento, al sen. Luca Ciriani; per la pubblica amministrazione, al sen. Paolo Zangrillo; per gli affari regionali e le autonomie, al sen. Roberto Calderoli; per le politiche del mare e per il Sud, al sen. Sebastiano Musumeci; per gli affari europei, le politiche di coesione e il Piano nazionale di ripresa e resilienza, all’on. Raffaele Fitto; per lo sport e i giovani, al dott. Andrea Abodi; per la famiglia, la natalità e le pari opportunità, all’on. Eugenia Maria Roccella; per le disabilità, alla dott.ssa Alessandra Locatelli; per le riforme, alla sen. Maria Elisabetta Alberti Casellati”.

Tra le novità dell’esordio a Palazzo Chigi da registrare che l’ex ministro alla transizione ecologica Roberto Cingolani lavorerà come consigliere a titolo gratuito.

 

Si sapeva che le elezioni di settembre avrebbero rappresentato un punto di svolta nella politica italiana per le troppe cose accadute negli ultimi anni: l’instabilità nel gradimento; la complicazione della vicenda russo-ucraina con le conseguenti nuove emergenze; da ultimo la difficoltà di prendere le redini del governo dopo l’ingombrante figura del premier dimissionario Mario Draghi che con la sua autorevolezza ha riportato sobrietà a Palazzo Chigi e serietà nell’approccio con le varie questioni senza scadere nell’approssimazione, nella superficialità dei politici.

Le urne hanno segnato infatti un radicale mutamento. La previsione di un importante cambiamento si è materializzata con il trionfo del partito di Giorgia Meloni balzato al 26% da un iniziale 4-5%, a scapito degli alleati Forza Italia e soprattutto Lega che hanno visto dimezzati i loro elettori. Come si è prosciugato l’effetto M5S che avendo sfiorato il 33% cinque anni fa, si ritrova con un 15% salutato peraltro con entusiasmo dal nuovo leader Giuseppe Conte.
Praticamene festeggiano Conte, Berlusconi e Salvini che si definiscono vincenti nonostante la batosta ricevuta.

E il Pd? Nel 2018 ha ottenuto un 18,7, oggi si ritrova al 19%: sostanzialmente ha resistito a un paio di alleanze fallite, ha sbagliato strategia passando dal “campo largo” alla chiusura a riccio, non si è capito a quale fascia elettorale era diretta la campagna di comunicazione e tuttavia ha tenuto botta, e quel 19% di fedelissimi non gli ha voltato le spalle. E allora? L’incredibile, che non era previsto, sta nell’autoflagellazione dei suoi capi: si stracciano le vesti, piangono, nel partito c’è già aria di smantellamento, di rifondazione, di rottamazione. Enrico Letta in persona ha annunciato il lutto, chiamando tutti a raccolta per il da farsi.

Ecco questo non era previsto. E appare incomprensibile che proprio il Pd, l’unico a essersi confermato un partito radicato nell’elettorato, consumi una sorta di suicidio collettivo con ipotesi addirittura di cambiare nome e simbolo. Fatto sta che in tanti si propongono per prendere le redini, senza che sia chiara la prospettiva; tanto più se a farsi avanti è anche qualche dirigente di lungo corso che semmai dovrebbe interrogarsi sul perché della crisi interna, visto che proviene da lontano.

Certo che le cose si sono complicate e andranno peggio se il Pd intende proseguire con le logiche che hanno portato a ricandidare Piero Fassino, da 30 anni parlamentare, blindandolo nel collegio del Veneto, lui ex sindaco a Torino; o piazzando in Sicilia la ligure Annamaria Furlan, ex segretaria nazionale Cisl facendo infuriare i militanti palermitani.

Il fatto è che, nonostante il risultato di settembre abbia incoronato Giorgia Meloni che da sola ha trainato l’intero centrodestra, sul versante opposto del centrosinistra è rimasto da solo il Pd da sempre un ibrido tra componente ex democristiana e grande parte con imprinting vetero comunista, due anime costrette a convivere senza condividere, portate a parlare a fasce sociali diverse con una visione ambigua che nel tempo ha allontanato piuttosto che unire. Così il risultato del centrosinistra, questo sì misero e perdente, diventa l’occasione per fare implodere il Pd fino a snaturarne l’identità.

Ma oltre il Pd cosa può esserci? Un ritorno all’antico, cioè alla separazione tra ex democristiani ed ex comunisti?
Un interrogativo che si poneva anni fa Dario Franceschini: a Messina per presentare un suo libro quando era segretario regionale del Pd Francantonio Genovese, il ministro ai beni culturali ravvisava le difficoltà di convivenza “ma oltre il Pd non c’è altro approdo”.

Sono passati alcuni anni e adesso c’è chi pensa a disancorarsi per prendere il largo, non si sa bene verso dove.
Per il sindaco di Firenze Dario Nardella “si è chiuso un ciclo dopo 15 anni, si deve aprire un nuovo capitolo. A volte ho la sensazione che ci siamo dimenticati i motivi per cui è nato il Pd, un congresso ordinario non basta, serve un reset”.

E Filippo Andreatta, docente universitario e figlio dell’ex ministro Beniamino: “Due le strade, rottamare gli ex Ds-Dl, oppure scissione. O si taglia con il passato, rottamando tutti, ma proprio tutti, i dirigenti che hanno avuto un legame organico con i partiti fondatori; oppure si prende atto del fallimento e ci si scinde in due partiti, uno riformista e l’altro più massimalista, rimanendo alleati alle elezioni”.

 

Non conosciamo gli accordi pre partita né le segrete cose che li generano e si traducono in alleanze finalizzate a un risultato, che una volta raggiunto accompagnano il divenire del post, ma possiamo immaginare che tra i compagni di squadra del vincente centrodestra la sana rivalità e il comune sentire non siano come la grappa Candolini… cioè quel che appare. Le frecciatine del prima e del dopo tra i vari leader erano un chiaro segnale, adesso le percentuali che segnano il solco tra le forze concorrenti faranno il resto.

Non crediamo allora che sarà facile per Giorgia Meloni tenere insieme il quadro vacillante della coalizione, tuttavia le va riconosciuto intanto la formidabile capacità di essersi imposta nonostante il fuoco amico e quello degli avversari, che dal Pd ai talk show di punta hanno cercato di demonizzarla con ripetitivi e noiosi richiami al fascismo di ritorno, alla ritrosia degli ambienti internazionali a digerirla, al complicato rapporto con Bruxelles in caso di vittoria.

Adesso che ha vinto e la sua percentuale ha trainato gli alleati, dovrà vedersela con loro. Ecco arrivare allora in soccorso il leader di Forza Italia per ergersi a garante dell’insieme, autoaccreditandosi come regista del prossimo svolgersi di azioni propedeutiche alla formazione dell’Esecutivo, come a voler tranquillizzare quelli che vengono definiti poteri forti, mercati, finanza, partner strategici europei.

E siamo al momento attuale, con la maggiore azionista del gruppo davanti a un bivio: rimanere prigioniera delle vecchie logiche della politica che si nutre di manuali cencelliani o tentare il colpo di ali, staccarsi, imprimere una propria direzione di guida al riparo da tutorati politici.
Per quel che sono stati i numeri ricevuti e quelli dei principali compagni di cordata, ossia FI e Lega, ci sarebbe da scommettere che Giorgia Meloni sceglierà la seconda strada e, senza rinnegare il percorso condiviso in chiave elettorale, chiedere ai partner un passo di lato per dar vita a un Governo di qualità, credibile all’interno e all’estero: in tal senso, certo non sarebbe un bel segnale ritrovarsi Matteo Salvini al Viminale, solo per citare il compagno perdente che non ha fatto mistero di puntare a quel ministero e che anzi avrebbe voluto questa garanzia alla vigilia delle urne.

Il toto ministri è già cominciato, alcuni nomi in circolazione fanno temere un ritorno all’antico ma saranno i prossimi giorni a dire in che direzione ci si muove.

Archiviati gli argomenti da campagna elettorale, le mille cose promesse con disinvolta superficialità, gli attriti a favore di telecamere, si tratta di parlare il linguaggio della serietà. E ci piacerebbe sentirlo senza bisogno di urlare, di sbracciarsi, di procedere per slogan, di comizi dalle ricette salvifiche: anche la sobrietà, il modo di porgersi denota sostanza. Palazzo Chigi non è una piazza: chi ha provato ad affacciarsi da quel balcone a gridare che era stata abolita la povertà non ha fatto una bella fine.
Altri tempi, pur essendo passati solo cinque anni. Ora che l’orchestra è un’altra e crea aspettative pretenziose sul nuovo spartito sarà determinante il preludio.

 

 

Auguri a...Buon Compleanno alla signora Provvidenza

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di Giovanni Sardella
Buon Compleanno Mamma Provvidenza
 
A Mamma Provvidenza augurissimi anche dal Notiziario

 

 

Era il 15 maggio 1864 e sul “Monitore ferroviario” compariva il seguente trafiletto: “Corre voce che la Società delle Ferrovie V.E. sia per intraprendere i lavori di un gigantesco ponte sullo Stretto di Messina”.

Sarà forse per questo che i nostri politici, massimamente in questa campagna elettorale, hanno utilizzato la realizzazione del Ponte come un’occasione straordinaria di lavoro e di sviluppo immediatamente “cantierabile”. E sì: con l’approssimazione superficiale che denotano nell’annunciare pomposamente immediati traguardi, in tanti si sono spinti a dichiarare non solo che l’opera è realizzabile subito ma che il progetto esiste già e consente di iniziare i lavori da domani. Peccato che un progetto completo non ci sia ancora e che, da 150 anni, si facciano annunci.

Eppure, come ha recentemente scritto su questo giornale il prof. Aurelio Misiti (presidente del Consiglio nazionale dei lavori pubblici all’epoca dell’ultimo progetto di massima valutato nell’ottobre 1987), e come sottolinea il prof. Remo Calzona (che fu presidente del Comitato scientifico della Stretto di Messina, società allora incaricata di portare avanti l’opera) oggi sarebbe possibile immaginare una concreta realizzazione in tempi rapidi.

Infatti, pur non essendoci proprio nulla di cantierabile, un ponte come quello sullo Stretto di Messina, si fa oggi ordinariamente a costi non proibitivi e ammortizzabili in tempi ragionevoli. “Quello in Turchia è l’ultimo esempio di ponti della luce di 2000 m e della lunghezza di 4000 m, il costo di questa opera sfiora i 2miliardi di euro. Sulla scia delle realizzazioni fatte – scrive Calzona – anche nel mare di Messina, il ponte viene a costare non oltre 2miliardi di euro e si può realizzare in 4 anni. Si tratta di una normale opera di ingegneria non più civile ma industriale, ossia con prelavorati. Una corrente operazione economica”.

Basta volerlo: quindi dotarsi di un progetto definitivo-esecutivo e finanziare i lavori, dopo aver incaricato con gara una società per la realizzazione, ottenuto le varie approvazioni e validazioni, ed espedito le necessarie procedure di esproprio. Soltanto a quel punto si potrà parlare di effettiva cantierabilità e di realizzazione.

Ad oggi, siamo ancora al trafiletto del “Monitore ferroviario” e cioè a quel … corre voce che.

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Dal dire al fare c’è di mezzo… che manca dall’acqua fino al sale, peraltro abbondanti nel mare dello Stretto. Ponte, ponte subito, pronto entro 4 anni; c’è il progetto; lavori immediatamente cantierabili. Si può ripartire subito.
Calma e gesso! Si dice così al biliardo davanti a un tiro difficile, quando il giocatore si ferma a considerare gli effetti per poter centrare la buca.

Ha ragione il presidente Renato Schifani nell’affermare che il tema viene percepito ormai come presa in giro. Ma non sarà perché si continua a parlarne con eccessiva frettolosità e approssimazione?

Si danno certezze inesistenti, ci si lascia andare senza freni affidandosi esclusivamente alle emozioni. Calma e gesso… per non scadere in eccesso di semplicismo che non tiene conto delle debite valutazioni. Basterebbe limitarsi a una dichiarazione di intenti; per il resto stare fermi, in silenzio, prendere tempo sapendo che la questione è talmente complessa che non consente di infilarsi in un percorso irto e setoloso.
D’accordo, finalmente qualcosa si muove e all’unisono da Palermo e prossimamente da Roma potrebbe arrivare l’ok a questa promessa centenaria, tuttavia oggi dare appuntamento sull’immediata cantierabilità fa parte di quella narrazione da presa in giro che si vorrebbe esorcizzare.

Voluntas est potentia! Sicuramente è una incoraggiante premessa la sintonia nel volerlo realizzare tuttavia siamo ancora al proemio, al preambolo, alla presentazione di qualcosa che si vorrebbe. Per il resto non c’è nulla, o quasi.
Quale progetto cantierabile? Dov’é?
Non lo era dieci anni fa, quando tutto è stato bocciato e bloccato in itinere, figuriamoci oggi. Il progetto ad unica campata, cui si riferiscono i leader che si sono alternati tra Scilla e Cariddi, si è fermato allo stadio di “quasi definitivo”, non ci risulta abbia ricevuto i relativi visti finali perché erano state poste diverse prescrizioni da ottemperare prima di procedere al progetto esecutivo, senza il quale non si costruisce neppure una casetta.

Trascorsi oltre dieci anni cosa è rimasto di quei faldoni? Forse solo gli studi sui fondali.
E allora, calma e gesso! Ammesso che quel progetto possa trasformarsi in “esecutivo” con un colpo di penna (come fece il ministro Passera per cancellarlo) davvero potrebbe essere subito cantierabile, ignorando che la Consulta ha caducato tutti gli atti precedenti della “Stretto di Messina”, procedure di espropriazione comprese?
Non è cambiato nulla in questi dieci anni, neppure nei costi preventivati allora?

Voluntas est potentia! D’accordo, ammettiamo ancora che non sarà il conto economico un problema perché con un altro colpo di penna si può aggiornare, rimarrebbe da cancellare il recente esito della commissione ministeriale che, dopo aver lavorato per un paio di anni, è giunta alla conclusione di suggerire un ponte a più campate, ipotesi sui cui il ministro alle infrastrutture Giovannini si è arenato.
Come nel gioco dell’oca, infatti, siamo tornati al punto di riavvio dell’intera procedura di valutazione, peraltro avvolta in una coltre di nebbia così fitta da far trapelare poco o nulla, sicuramente da non far intravvedere il punto di approdo.

Per non apparire più una presa in giro, serve allora diradare la nebbia e fare chiarezza. Qualunque sarà la scelta ingegneristica, anche se nel mondo non esistono ponti a campata unica superiore ai due chilometri (il più recente sui Dardanelli). Vabbè, poco importa, qui si raddoppia: l’orgoglio italico ci porta nello Stretto a voler emulare Brunelleschi con la Cupola a Firenze. E sia!
Purché seguano dati di fatto seri, aggiornati, validati: cioè un progetto esecutivo con visti e timbri.
Al momento c’è solo la dichiarata voluntas. Accontentiamoci.

 

La semplificazione burocratica… ah sì, fantastica! Non proprio nuova ma così coinvolgente, percepita, agognata da diventare, come la pace sociale, l’aiuto ai più deboli, la lotta all’evasione fiscale e perché no il traffico, e pure il ponte sullo Stretto, un refrain tormentone sempre attuale, onnipresente in campagna elettorale. E’ infatti uno degli argomenti che non teme il passare del tempo, il logorio della vita moderna, l’evoluzione della moda, l’avvento dei media, le scomuniche del Pontefice.

Sarà perché chi si scaglia contro l’elefantiaco, esiziale procedere dei burocrati fa breccia nell’irritazione generale; consola per l’avvenire; si erge a condottiero di una battaglia sacrosanta, attesa, propedeutica allo sviluppo di un territorio, delle comunità che lo abitano. Fatto è che se ne parla con convinzione e rinnovato vigore.
Sarà! Il bello è che a denunciare il lasco andamento dei burocrati è l’intero arco del potere: leader, ministri, deputati. La lotta alla burocrazia non ha colore politico, registra l’unanimità: da destra a sinistra, dal centro alla periferia, da Roma a Palermo, dai capi partito ai luogotenenti regionali.
Condivisione incoraggiante… se non fosse che a tanto vituperio non è mai seguito alcunché.

Qualcosa allora non torna. Se a governare ieri, oggi (e pure domani) ritroviamo proprio gli irriducibili fautori della semplificazione, pronti con ricette salvifiche non di là da venire ma nell’immediato a imporre una svolta, cosa ha ostacolato fin qui un minimo risultato? Chi mette a capo degli snodi nevralgici dell’amministrazione gente che complica le cose invece di semplificarle?
Se i burocrati prevaricano e prevalgono non sarà anche perché il Parlamento vara leggi in quantità industriale e spesso senza senso o contraddittorie? E che mai si è affrontato sul serio il problema, preferendo andare avanti per fotocopia?
Ancora oggi un provvedimento di due righe è preceduto da un paio di pagine riepilogo delle disposizioni precedenti. Alcune risalenti a regi decreti!

Il rogo in piazza di migliaia di norme dell’allora ministro leghista Calderoli cosa ha mandato in cenere, a parte i faldoni a favore di telecamere? Se pure Berlusconi parla adesso di snellimento della burocrazia, lui che ricorda di avere governato per dieci anni.
Quanti decenni occorreranno per affrancarci da un sistema che si autoriproduce a suon di “visto, visto, visto, considerato, premesso, ritenuto”?

C’è un’ipertrofia normativa che manda in tilt gli uffici chiamati ad applicarle; appesantisce l’iter; consegna ai novelli azzeccagarbugli opportunità per leggervi tutto e il contrario, allunga i tempi, confonde, dissuade gli imprenditori da ogni intrapresa.

A sentire leader e candidati governatori riempirci ancora di chiacchiere sulla sempiterna semplificazione verrebbe voglia di rispondere alla maniera di un funzionario dirigente regionale che, non potendone più di discutibili provvedimenti del suo assessore, replicava con una beffarda nota più o meno di questo tenore, premurandosi a sottolineare in neretto le maiuscole dei capoversi che, incolonnati, rendono un’espressione poco onorevole: “Stando a quanto disposto; Udito il contraddittorio; Considerato che…; Avvertita l’urgenza…” .
Ammesso che l’onorevole assessore abbia capito.

 

Passano gli anni, il mondo attorno cambia velocemente, alcune modificazioni avvengono ormai con i tempi accelerati indotti dalla generazione smartphone, eppure non ci si scrolla da preconcetti e ideologie neppure davanti all’evidenza. I “no ponte” o i “ponte ni” sono gli ultimi irriducibili, impermeabili a qualsiasi vento nuovo; ne fanno un mantra, una religione del loro opporsi alle mega opera che dovrebbe collegare le sponde dello Stretto di Messina.

Intanto si oppongono a qualcosa che non c’è, anche se doveva esserci da oltre trent’anni. E non si capisce che cosa non piace del Ponte.
L’estetica? Non può essere perché ancora non vi è un progetto che ce lo illustri davvero nella sua futuristica realizzazione.
La funzione? Impossibile perché l’uomo ha da sempre cercato di collegare le sponde di uno specchio d’acqua.
L’utilità? E’ da escludere che si possa mettere in dubbio la necessità di un’opera indispensabile già oggi, figuriamoci se proiettata a rispondere alle esigenze dei prossimi cento anni.

E allora, cosa spinge la candidata alla presidenza della Regione siciliana Caterina Chinnici a dichiarare ieri in Confindustria che prima del Ponte sarebbe utile pensare ad altro, a migliorare le strade interne. Non è la sola a sostenere la tesi del benaltrismo ma certo stupisce che un’autorevole candidata, espressione di un partito progressista, sia ancora ferma a logiche trite e ritrite, vecchie, irritanti, ingiustificabili. Insensate tanto più in un momento in cui si programma il futuro dei prossimi 5 anni e sono in cantiere risorse ingenti che faranno la differenza proprio sulla visione delle grandi progettazioni.

Se la Chinnici ritiene più utile, opportuno, prioritario occuparsi delle trazzere, comunque ha fatto bene a dirlo. Così ogni elettore sa che dal Pd al governo di Palazzo d’Orleans non vi sarà alcuna spinta per accelerare la progettazione della più imponente opera capace di rivoluzionare l’economia dell’intero Sud, recuperando a una vera centralità nel Mediterraneo la nostra Isola destinata a diventare cerniera tra Europa e Africa.
Caterina Chinnici in realtà non chiude le porte al ponte sullo Stretto ma nel dire che bisognerà prima risolvere il nodo delle strade e delle altre infrastrutture interne, “poi si valuterà anche sulla base dello studio di fattibilità”, segna un solco profondo e foriero di un altro lustro di disinteresse, di passiva accettazione di ciò che dirà Roma.

Si sa che ormai noi non decidiamo nulla, contiamo meno di nulla ma consegnarsi così senza reagire, anzi dichiarando sorridenti di essere interessati ad altro più che al Ponte equivale a rinunciare a qualsiasi speranza di riscatto per questa terra.
Tranquilli dunque: con l’eventuale avvento di Caterina Chinnici a Palazzo d’Orleans, non ci sarà alcun input sul collegamento stabile. Palermo non muoverà foglia.
Possiamo solo sperare che sia l’Europa a imporlo, come opera strategica sovra nazionale che tocca gli interessi dell’intero continente. Valutazione che accomuna tutti gli esperti internazionali ma che risulta urticante per qualche politico.

 

 

 

 

Les jeux sont faits. Col deposito di liste e relativi listini dei candidati alla presidenza della Regione, si è chiuso il mercatino dell’usato sicuro che ha caratterizzato le varie offerte dei partiti. Gente nota, arcinota, che abbiamo lasciato da una parte ritrovandoli carambolati da un’altra, quando non ripescati o abbandonati al loro destino senza troppi scrupoli morali o di appartenenza.

“La vita continua!” scrive ‘affranta’ la moglie di uno degli esclusi di peso nel Pd, uno di quelli con cui lo stesso Pd si identificava, insomma era l’immagine pulita e perbene del partito che però…udite udite… lo ha liquidato ritenendolo d’un colpo “impresentabile”. Potenza della catarsi, della purificazione sul filo di lana!
Adesso che sappiamo chi correrà e con quale simbolo, a loro vogliamo rivolgerci.

Cari candidati virgola ‘noio volevons savoir’ per andare dove volete andare per come volete andare?
No, non nel senso di andare a quel paese, dove vi manderemmo volentieri, ma per capire le alchimie che vi hanno portato fin qui e che si sono consumate sotto i nostri occhi ad una velocità tale da smarrirci. Non sorprende più il numero di casacche e di tifoserie di volta in volta da voi mobilitate, piuttosto stupisce la rapidità degli eventi: il tempo di chiudere una porta e già vi si ritrova accasati altrove e magari persino a casa di avversari riconosciuti tali da sempre e d’incanto tornati “amici”.

Potenza della politica…degli ideali che la sorreggono, delle scadenze elettorali, dello studio a non rimanere fregati!
Ma soprattutto potenza del “a cu pigghiu pigghiu” dei partiti, finiti in mano a dirigenti pronti a imbarcare e sbarcare di tutto coprendo le vergogne con prediche etiche e prendendo a prestito qui e là per lo Stivale nomi altisonanti, dietro i quali si cela l’arrivismo più sfrenato e la dittatura dei capi.

Neppure questo comunque sorprende visto che così fan tutti, dal Pd a Forza Italia, passando per la Lega (che qui cambia nome ma è sempre il partito di chi ce l’ha duro); per Fratelli d’Italia che, in tanto marasma, rivendicano coerenza ma andavano e vanno a braccetto con chi portava l’acquasantiera a Pontida e con chi spargeva le tre I (internet, inglese, impresa) per lo sviluppo del Paese firmando contratti con se stesso davanti al notaio di Porta a Porta, ex potenza dell’ex RAI servizio pubblico.
Ah, la Rai! Mi pare che fosse Enzo Biagi a ricordare il criterio delle assunzioni: uno al centrodestra, uno al centrosinistra… e uno bravo. Dei primi due siamo certi, quanto al terzo nutriamo dubbi (sulla crisi in Ucraina La 7 con il solo Mentana e un paio di inviati ha sbaragliato l’elefantiaca Rai che conta migliaia di giornalisti a stipendio fisso).

Torniamo ai candidati e ai partiti: con quali criteri avvengono le selezioni dei dirigenti e degli aspiranti onorevoli?
In un ‘vidiri e svidiri’ il Pd ha perso il segretario di Catania e di Messina (il primo ricollocatosi da Cateno De Luca; il secondo, letteralmente disgustato, ha preferito tornare alla professione). Altri hanno detto basta, altri ancora sono in “pausa di riflessione”, quella degli ex innamorati che non hanno il coraggio della svolta. Così, in Sicilia, secondo qualcuno, il Pd rischia di passare dal campo largo al camposanto.

Marcia trionfalmente Forza Italia, il partito dell’intramontabile Silvio più volte nella polvere e altrettante sull’altar, incarnato qui da Gianfranco Micciché, unito nello stesso destino: da ministro a disoccupato, da 61 a 0… a zero e poi al gran ritorno all’Ars, al recupero di nuove adesioni. Perché in Sicilia l’area centrista, moderata che guarda a destra (ma pure a sinistra) piace, coinvolge, attira. Infatti Micciché è stato bravissimo ad attrarre quel manipolo di deputati innamoratisi di Renzi, i promotori di “Sicilia futura”, tanto sensibili da liquefarsi a ridosso delle elezioni e subire il richiamo della sirena forzista quando Italia Viva è crollata nei sondaggi. Che strano! Matteo Renzi, da molti considerato un fuoriclasse, sicuramente bravo e sopra la media, è incollato a un modesto 2-3% che non sembra crescere neanche dopo l’abbraccio con Calenda. Lui ci mette spontaneamente del suo per rendersi inviso, spocchioso, arrogante ma sui problemi ha una visione non casereccia come nella stragrande parte del mondo politico.

La Lega del Nord, piombata al di qua dello Stretto e riqualificatasi in Lega e basta, ora diventata “Prima l’Italia” è stata pure capace di attrarre: un deputato ex Forza Italia; un ex deputato ex Alleanza nazionale e Fratelli d’Italia; un uscente Sicilia Futura eletto col Pd.

Una deriva dei partiti così clamorosa da servire su un piatto d’argento opportunità aggiuntive a Cateno De Luca: con la sua lampada di Diogene è andato a cercarli i politici allo sbando, alcuni big lo hanno preso in simpatia fiutando il nuovo vento e, pur avendogli notificato un “preavviso di sfratto” lo hanno visto come utile sponda di approdo e magari come una novità. Lui che da ragazzo ha cominciato a fare politica e da oltre venti anni tiene la scena, da ex deputato Udc e da sindaco, ha deciso di mettersi in proprio e stavolta punta a scalare Palazzo d’Orleans.

Ne abbiamo viste in queste settimane e siamo solo all’inizio. Ci aspetta ancora un mese di spettacolo. Il ridicolo non ha fine, ci toccherà sentire ancora chi accoglie con soddisfazione le candidature piovute e imposte dall’alto… come un regalo: un menomale che Silvio c’è e ci onora di accogliere la sua compagna tra i vigneti di Marsala.
L’orgoglio siciliano affogato in un calice. Cin Cin!

 

Draghi va al Meeting di Rimini e incassa standing ovation… da premier dimissionario: una sonora sberla in faccia a chi lo ha disarcionato da Palazzo Chigi. Avevamo una risorsa riconosciuta in tutto il mondo per autorevolezza e lo hanno fatto fuori per anticipare di qualche mese il panorama desolante di prediche senza costrutto, cifra di questa campagna elettorale in cui il Paese si gioca il futuro mentre i soliti privilegiati, imposti e catapultati in collegi di comodo, se lo assicurano.

Vuoi vedere però che forse questa volta accadrà davvero qualcosa e magari saranno proprio i tanti big traditi e trombati, persino qualche leader di partito a rischio implosione, a rivoltarsi contro la legge elettorale e contro il sistema dentro cui si sono nutriti?
Visto che gli appelli a cambiare le regole del confronto sono falliti e la stampa è piuttosto mielosa nel denunciare le storture, non stupirebbe che la ribellione avvenga dall’interno.

Schifati più degli elettori (è tutto dire!) in tanti si sono visti scalzati sul territorio da nomi calati qui e là dall’alto delle segreterie con criteri che rispondono ad personam… del capo che, riunito con se stesso nel chiuso di una stanza in notturna, ha deciso chi piazzare e dove. Nomi imposti, conosciuti a cose fatte da chi era in attesa di sapere della propria sorte. Né l’elettore avrà poi possibilità di rispedirli al mittente, perché non gli è riconosciuto il diritto di scegliere da chi farsi rappresentare e, quale che sia il simbolo dei maggiori partiti, la marmellata è identica: dalla ligure Furlan, il milanese Bobo Craxi (Pd a Palermo); dall’ultima compagna di Silvio, Marta Fascina a Marsala, all’altra Craxi, Stefania, a Gela (Forza Italia) solo per citare alcuni dei nomi che hanno fatto sobbalzare gli iscritti… e gli uscenti pronti a reagire e fargliela pagare, non avendo più nulla da perdere e sapendo che tra 5 anni sarà un altro mondo.

Dal governo Berlusconi in avanti è stato un precipitare in peggio: prima il famigerato “porcellum” di Calderoli &C. che di fatto ripescava una legge della Toscana, poi l’Italicum bocciato dalla Corte costituzionale, infine il “rosatellum” del renziano Rosato. Una serie di riforme elettorali il cui ritmo non ha eguali in Europa e nella storia delle democrazie parlamentari, ciascuna disegnata sulla convenienza politica del momento dalla maggioranza al governo.
Un’egemonia offensiva per il sistema democratico, un dominio assoluto sulla composizione del Parlamento. I nomi li scelgono i partiti trasformatisi però in organizzazioni padronali e “non c’è democrazia se non sono democratici i partiti”, ci ricorda Piero Calamandrei.
Il combinato disposto “riduzione di deputati e senatori-oligarchia decisionale” si sta rivelando una miscela esplosiva. Tramontate le ideologie dietro questa o quella formazione, ciascun aspirante candidato ha un’unica chance di farcela: conquistarsi un posto in prima fila per scaldarsi accanto al capo, assecondarlo, scodinzolare, compiacere votando persino leggi mostruose. Ciò nonostante, può accadere che il risultato sia di ritrovarsi comunque alla porta. Ecco allora l’ira funesta: va bene tutto ma vedersi togliere a sorpresa la poltrona e capitolare per terra promette tempesta.

Ora, in un panorama che non offre certezze a nessuno, in equilibrio instabile per mille motivi non solo per la mancanza di solidi punti di riferimento, la reazione dei delusi rischia di assumere dimensioni preoccupanti, di sommarsi alla precarietà di chi resta e alla rabbia silenziosa di quel 50% di popolo che diserta le urne perché non ne vuole sapere di tenere il moccolo ai capetti del vapore capaci di mirabilia al microfono, peccato che quando sono stati sperimentati hanno dimostrato poco o nulla. Peggio: hanno avuto l’occasione di utilizzare una personalità come Draghi alla guida del Paese e lo hanno sgambettato pur di acciuffare Palazzo Chigi il prima possibile.

Della collera montante i leader fanno finta di niente: da Berlusconi a Renzi a Conte, sono passati da piazze osannanti a piccole sale di fedelissimi, con consensi ridottisi a una cifra percentuale nel volgere di poco. Oggi pure l’organizzato e territorialmente diffuso partito democratico di Letta trema, traballa, medita azioni giudiziarie contro l’M5S che ha tradito l’accordo sulle primarie in Sicilia.
Vuoi vedere che proprio dall’ex granitico Pd del pensiero unico potrebbe originarsi un gigantesco incendio?

In Sicilia, gli abbandoni sono ormai quotidiani. Non hanno da rallegrarsi negli altri partiti perché le risse già scoppiate deflagreranno dopo il 25 settembre, quando ciascuno getterà la maschera e si rimangerà la parola data.
Ah, ecco, la parola data: un adempimento d’onore tra gente perbene… estraneo alla pratica degli onorevoli delle tre carte.

 

Al confronto con la seduta di ieri al Senato, una commedia degli equivoci risulterebbe meno comica. C’è un Governo che ha i voti in Parlamento ma di fatto… è sfiduciato.

Il ridicolo teatrino offerto dai parlamentari che si preparano a un settantesimo governo in 70 anni, ha ingigantito la figura di Mario Draghi: ha tentato fino all’ultimo di richiamare i senatori a un minimo di responsabilità, di consapevolezza della drammaticità del momento, di linearità nei comportamenti, di chiarezza, lealtà. E invece, come era facile prevedere, è trionfata l’inadeguatezza, l’ipocrisia dei leader pronti al bifrontismo, all’ambiguità, al boicottaggio; essere alleati e contemporaneamente tramare contro nei salotti.

Le parole di Draghi però non hanno lasciato spazio ad altre manovre subdole e i partiti sono stati costretti a uscire allo scoperto. Si è visto così che, al di là delle dichiarazioni di facciata, non solo i Cinquestelle che avevano provocato la rottura, ma pure berlusconiani e salviniani remavano contro, tant’è che glorificato fino al mattino, già in serata ne denigravano l’operato: “si è visto che non è un politico”.

E menomale. Per fortuna Draghi non è un politico, non potrebbe esserlo in quanto persona seria.

E ieri, da non politico, ma avendo capito di essere attorniato da alleati infidi, untuosi, falsi li ha incalzati, stroncando nel modo più netto e nella sede più deputata, quella strisciante strategia ostruzionistica che si era palesata negli ultimi mesi in cui si è proceduto in una sorta di “fotticompagno”, per cercare di incastrare solo i grillini, emarginarli, per poi rendersi liberi tutti di continuare “imprigionando” Draghi: cioè tenerlo a Palazzo Chigi ma dimezzato, perché a quel punto sarebbe rimasto in balia dei partiti della nuova maggioranza. Al momento della verità, per Forza Italia e Lega è finita la farsa. Tanto da far sbottare la ministra Mariastella Gelmini: “Forza Italia ha tradito i cittadini, lascio il partito”.

Che ottusità aver pensato al prossimo appuntamento elettorale e non al ruolo dell’Italia. Che scelta sciagurata quella di Berlusconi e Salvini di farsi da parte nel momento in cui occorreva dimostrare davvero di voler andare avanti con questo premier, proprio per scongiurare l’ipotesi di privarsi del valore aggiunto che Draghi rappresenta per l’Italia anche sulla scena internazionale. Vale su tutti il commento del New York Times: “l’uscita di Draghi sarebbe un colpo pungente per l’Italia e l’Europa. L’ex presidente della Bce che ha aiutato a salvare l’euro ha usato la sua levatura per un breve periodo d’oro per l’Italia dopo aver assunto l’incarico di premier nel 2021».

Eppure il premier era stato perentorio: “siete pronti, siete pronti, siete pronti a un nuovo patto di fiducia? All’Italia serve un nuovo patto di sviluppo concreto e sincero. Partiti siete pronti a ricostruire questo patto? Siamo qui in quest’Aula solo perché gli italiani lo hanno chiesto. E’ una risposta che dovete dare a tutti gli italiani”.

Ma quale pronti! Ciascuno studiava come sfilarsi da quel patto e scaricare la colpa sui Cinquestelle, leitmotiv che sentiremo in tutta la campagna elettorale, mentre sono in molti a vedere in questa giornata parlamentare la vittoria dei partiti filoputiniani.

Carlo Calenda leader di Azione commenta con amarezza: “La fine indegna di una legislatura disastrosa. Cialtroni populisti hanno mandato a casa l’italiano più illustre. La prima cosa che diciamo è grazie Draghi. Combatteremo per portare avanti la sua agenda e il suo modo di fare politica”.

Matteo Renzi nel suo intervento al Senato lo ha detto pure: “E’ finito il teatrino, è stata l’ultima puntata del reality show”.

Adesso c’è solo da sperare che gli italiani se ne ricordino nelle urne e che il prossimo Parlamento sia abitato da persone serie e competenti. Non servono professionisti della politica ma professionisti nella politica. Anche per questo Draghi era un corpo estraneo, poco duttile ai compromessi, ostico, non incline al linguaggio della retorica da megafono, quindi sgradito ai tromboni di turno che infatti l’hanno impallinato.

Ma i fucilieri sono sicuri che ne trarranno vantaggio?

 

 

Ma cosa deve accadere perché la Politica recuperi quella serietà che da tempo e da più parti si invoca?

Ma chissenefrega di tante questioni portate avanti in questi giorni da alcuni leader con l’aplomb dell’ora grave quando si tratta invece di personalissimi protagonismi, di preoccupazioni per personalissimi destini. Com’è possibile accettare che tra un vertice del G7, un sopralluogo per il disastro sulla Marmolada e una visita al dittatore turco Herdogan, il premier Mario Draghi debba trovare il tempo per discutere con Giuseppe Conte di un ”disagio” dei Cinquestelle dentro la maggioranza? O debba seguire le volute della Lega, logorata dal dubbio amletico starci o ritirarsi nell’Esecutivo?

Il popolo elettorale ha già dimostrato il disgusto per questo andazzo, disertando le urne; non vede nei partiti e nei parlamentari che li rappresentano i riferimenti affidabili a presidio della democrazia, capaci di impegnarsi nel dare risposte su fatti importanti. Anche chi a votare va ancora è deluso dall’assenza di un dibattito di alto profilo sui vari temi oggetto di dibattito che la cronaca quotidiana consegna. Prevale il convincimento che i leader siano protesi a sfruttare questo o quel momento, a utilizzare questo o quel provvedimento solo per misere tattiche da tornaconto, appesi spasmodicamente ai sondaggi.

Neppure la prolungata pandemia e la guerra alle porte hanno rivoluzionato il sistema ingessato che consuma la sua esistenza tra rese dei conti interne alle singole forze o alle coalizioni; tra scissioni qua e là, cambi di casacca giornalieri; prese di posizione altalenanti su sì o ni alle armi in Ucraina, sul reddito di cittadinanza da prorogare o riconsiderare. Urla da barricadieri al mattino, toni soft da salottieri alla sera… e l’insidia dell’attacco all’indomani sempre dietro l’angolo.
Con il Governo esposto agli assalti presunti o minacciati ma che a ondate si ripropongono togliendo serenità in chi deve pensare al Paese, alle emergenze continue, al complicato contesto internazionale.

Minacciare crisi è uno sport che la Politica di casa nostra pratica con disinvoltura. C’è sempre qualcuno che, rinvigorito da un “più” nell’indice di gradimento o preoccupato da un “meno”, viene tentato dalla strategia della spallata definitiva, salvo a ripensarci un istante dopo. Le dichiarazioni strombazzate sulla stampa, anche se non praticate davvero, minano però la credibilità.

E l’instabilità rimane l’unica costante stabile.

Oggi il quadro parlamentare e di governo è ben chiaro a tutti: da una parte un’accozzaglia di sigle che si accapigliano e hanno un solo collante, quello di stare a Palazzo Chigi con Mario Draghi, l’unico di cui il Capo dello Stato Mattarella si fida per poter fronteggiare quel popò di rompicapo che mettono a repentaglio la tenuta del Paese; dall’altra un Parlamento non corrispondente al sentire dei cittadini. I Cinquestelle infatti non sono più il primo partito; la doppia o tripla scissione subita li ha portati al crollo nelle ultime votazioni; la Lega non ha la guida del centrodestra; traballa a sinistra il campo largo ipotizzato da Letta e l’asse Pd-M5S.

Ma soprattutto c’è una situazione di emergenza nazionale e internazionale: dalla siccità alla crisi delle piccole imprese, ai conti che non tornano, alla povertà in crescita, ai pericoli di improvvisi stop nelle fornitura di energia.

In un mondo che vede rimessi in discussione gli equilibri del Dopoguerra, con lo sconquasso che si sta già registrando in ambito economico, l’inflazione, l’incertezza di poter programmare qualsiasi attività proiettando investimenti a breve o medio termine; in un mondo che cambia sotto i nostri occhi, qui non cambia la solita, antica irresponsabile deriva dei leader pronti a dare la carica sullo jus scholae o sui lidi balneari, infischiandosene delle vere urgenze e dei problemi sovranazionali.

In questa condizione ci sarebbe un rimedio?

Al Quirinale non possono non averci pensato: mandare tutti a casa. Sì, sciogliere le Camere che non rappresentano il Paese e tornare al voto, nella speranza di garantire un Governo che duri cinque anni con Draghi sempre a Palazzo Chigi, perché l’unico di cui si fidano pure gli italiani. Sarebbe logico e auspicabile, facile da spiegare in un discorso alla Nazione di poche parole: “Signori, i partiti cincischiano e qui rischiamo il fallimento”. Ma Sergio Mattarella, eletto e applaudito da tutti a Montecitorio, non lo farà.

 

 

La rassegna dedicata al mare, inaugurata ieri al Museo, esalta le leggende cui è legato il mito dello Stretto, rievocate da Virgilio, Ovidio, Dante con i flutti tra Scilla Cariddi un tempo terrore dei naviganti. Oggi l’incubo rimane, non riguarda più i naviganti… ma tutti i viaggiatori.
Bello allora rievocare tutto ciò che di emozionante e superbo riserva lo Stretto…. se vagheggiare il glorioso passato non diventa un alibi per rifuggire dal presente che vede il porto, la mobilità tra le due sponde, il lungo affaccio a mare lasciati in un desolante abbandono.

Il porto, un tempo perno dell’economia e dei traffici mercantili, approdo sicuro per la naturale posizione a forma di falce, vive da tempo quel declino che connota buona parte del Sud, aggravato da un’impasse di prospettiva, condizionata non solo dall’improduttivo dibattito sull’ipotetico Ponte. Storia quest’ultima antica di oltre un secolo che riaffiora e s’impone all’attenzione nazionale ogni qualvolta si accenna allo sviluppo dell’area dello Stretto e al piano trasporti: perché dovrebbe passare da qui la direttrice nord-sud di quella relazione che in un futuro avvicinerà l’Europa all’Africa. Attraverso Messina, via Catania e Palermo, il terminal del Corridoio Scandinavo-Mediterraneo saranno Malta e la Tunisia. Lo vuole l’Ue e in gran parte già realizzato; l’Italia temporeggia su questo trattino di mare tra Sicilia e Calabria anche per l’insipienza di quei calabresi e siciliani convinti che non serva.

Parliamo dell’oggi. Dopo quattrini stanziati per ricerche-diletto su come saranno tra trent’anni le grandi aree metropolitane d’Europa… per scoprire che “staranno meglio quelle meglio servite dai trasporti”, qualcuno in Anas e Rfi trova il tempo di dedicarsi al presente? Scucire qualche euro per dotare la stazione marittima di Villa San Giovanni di una scala mobile? Almeno quella in salita!
Quanto a Messina, dopo la demolizione dell’ex teatro in fiera, obbrobrio finalmente raso al suolo, stiamo a meditare se vale la pena raddoppiare il lungomare o appesantirlo con altri edifici inutili?
Passano i decenni e qui tutto rimane immobile, non cambia nulla. La città col suo fronte mare è esattamente quella di mezzo secolo fa: basta guardare gli approdi, le pensiline di imbarco, le recinzioni che costellano tutto il lungomare. Per non parlare dei mezzi veloci con sedili inservibili, degli orari di servizio, dell’inefficienza del sistema trasporto nello Stretto, della rinuncia all’aeroporto.

Il paradosso: con il Frecciarossa da Roma, in 5 ore si è a Villa San Giovanni… ma una volta giunti non c’è l’aliscafo in coincidenza, dunque si aspetta tre quarti d’ora. Non basta: si intravede dietro la vetrata una sala d’aspetto… ma è chiusa quindi si aspetta in piedi, dopo aver fatto il biglietto in un box-baracca esterno. Questo a Villa. Mentre a Messina: idem.
Ecco, la “porta della Sicilia” si presenta così.

Eppure a Barcellona di Spagna e persino nella vicina Malta, per citare due mete del turismo internazionale nel Mediterraneo che producono numeri da noi impensabili, le cose stanno diversamente. Barcellona e pure Malta hanno rivoluzionato il loro affaccio, sono attraenti anche per i costi.
E dire che la Sicilia ha molto di più da offrire in bellezza e patrimonio architettonico e monumentale. Tanta ma tanta ricchezza… sprecata!

Nello Stretto transitano ogni anno venti milioni di persone e oltre tre milioni di vetture soltanto nella relazione Sicilia-Calabria. Il crescente susseguirsi di grandi navi da crociera è incoraggiante ma mette a nudo un’inadeguata risposta organizzativa, persino nell’accoglienza.
Per la ripartenza servono scelte e tempi rapidi, in una visione di insieme che finora è mancata e costituisce il gap più frenante per il Mezzogiorno. Adesso che la sfida per riscattarsi da decenni di letargo non consente tempi supplementari, la Città come intende attrezzarsi per valorizzare la sua posizione di “terra di mare”?
Potenziando la flotta dei ferryboats? come suggerirebbe la Stm, acronimo di Struttura Tecnica di Missione per l’indirizzo strategico, lo sviluppo delle infrastrutture e l’alta sorveglianza del Ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili!
E sul Ponte, davvero c’è ancora qualcuno che propone… il referendum? Cioè un tuffo all’indietro di vent’anni, praticamente l’interpretazione massima della logica siciliana: quella del meglio non fare nulla.

Ma se ancora non sappiamo dove vogliamo andare, se ciascuno va per proprio conto, è bene si abbia consapevolezza che per rimanere ai margini del mondo siamo sulla buona strada. Senza infrastrutture, senza servizi e centri d’eccellenza, ci resteranno il cacio cavallo, i salamini e qualche bottiglia d’olio e vino.
Inebriati del mito. E orgogliosi di citare Tomasi di Lampedusa che dice al tedesco: “quando i miei antenati costruivano i templi greci i tuoi stavano ancora sugli alberi!”

LA RISPOSTA. Mega: intesa con Regione Calabria e Rfi per rimediare alla disastrosa situazione della stazione di Villa S.G.

In risposta all’articolo di Mario Primo Cavaleri “Messina porta della Sicilia… ma come si arriva e in che condizioni?” l’ing. Mario Mega presidente dell’Autorità portuale dello Stretto con competenza anche su Villa San Giovanni, ci informa del protocollo d’intesa siglato nei giorni scorsi con la Regione Calabria ed Rfi che dovrebbe cambiare il volto della stazione marittima e ferroviaria calabrese per diventare finalmente un terminal dignitoso ed efficiente.

La vergognosa condizione tollerata per troppo tempo e che suona disdoro per il Comune di Villa San Giovanni in primis, ma pure per Messina, visto che da qui si nuove buona parte dei passeggeri, parrebbe quindi volgere al termine. Sono “previsti” 80 milioni di spesa per il rifacimento; e il completamento “previsto” in tre anni (entro il 2025).

Dopo decenni di sopportazione, aspettare altri tre anni per avere una scala mobile e non fare il biglietto aliscafi sotto la pioggia francamente ci sembra irrispettoso. Dagli 80 milioni si potrebbero ritagliare poche migliaia di euro e provvedere in un mese “in provvisorio”; come non costerebbe nulla eliminare in un giorno la baracchetta all’esterno e adibire uno sportello al coperto. Diamo atto comunque all’attuale presidente, come lui stesso sottolinea, di aver ereditato una situazione disastrosa dalla precedente autorità portuale di Gioia Tauro che ne aveva la competenza.

Ed ecco il comunicato stampa sul Protocollo d’intesa per l’attuazione di un programma complessivo di interventi per la riqualificazione della stazione ferroviaria di Villa San Giovanni e delle sue aree esterne, che non porta una data ma dovrebbe essere del 19 maggio scorso.

“Il Protocollo, siglato da Regione Calabria, Autorità di Sistema Portuale dello Stretto e Rete Ferroviaria Italiana (Gruppo FS) ha lo scopo di mettere in atto iniziative per garantire il pieno sviluppo della stazione di Villa San Giovanni, essendo nodo centrale del sistema dei trasporti regionale e interregionale. Si tratta evidentemente di un nodo trasportistico di primo livello in cui va garantito lo scambio intermodale tra il trasporto stradale, ferroviario e marittimo da e per la Sicilia.

Lo scopo dell’accordo è il miglioramento dell’integrazione modale e delle condizioni di sicurezza ed accessibilità complessiva, con particolare attenzione al sistema di connessione tra il servizio ferroviario e marittimo. A tal fine saranno realizzati un nuovo sovrappasso ferroviario connesso ai binari mediante scale fisse, mobili e ascensori e nuovi finger di collegamento tra il sovrappasso e i moli a sud, per garantire la sostanziale separazione dei flussi pedonali da quelli carrabili e favorire uno scambio ferro-nave più immediato, sicuro e leggibile.

A completamento degli interventi lato mare, a cura dell’AdSP la creazione di una nuova stazione marittima per l’accoglienza dei viaggiatori delle navi e la realizzazione di un parco pedonale in quota affacciato sullo Stretto che collegherà la stazione ferroviaria, la stazione marittima e i moli lato nord, a loro volta oggetto di un significativo ridisegno, con una nuova darsena per traghetti e nuovi ormeggi per mezzi veloci.

La stazione ferroviaria sarà completamente riqualificata con interventi di restyling degli spazi interni dedicati al servizio viaggiatori, la realizzazione di un percorso privo di ostacoli per le persone a ridotta mobilità, la riorganizzazione delle aree esterne con la ridistribuzione dei servizi e dei percorsi di accessibilità, pedonale e veicolare, l’inserimento di nuovi servizi e funzioni per i viaggiatori sullo Stretto.

Gli interventi, oltre ad essere finalizzati alla realizzazione di un sistema integrato dei trasporti, sono orientati secondo principi di sostenibilità ambientale e risparmio energetico, anche mediante l’adozione di protocolli internazionali. Il progetto prevede interventi a cura sia di RFI che dell’AdSP, per gli ambiti di rispettiva competenza, secondo un disegno organico, integrato e coerente.

Previsto un investimento complessivo di circa 50 milioni di euro per la parte attuata da RFI, finanziata integralmente con fondi PNRR, e 30 milioni di euro per la parte attuata dall’AdSP, assicurati mediante il Fondo Infrastrutture del MIMS.

Il programma degli interventi condiviso nel protocollo prevede la progettazione di fattibilità, a cura di RFI, anche della stazione marittima e del parco in quota di connessione alla stazione ferroviaria, al fine di garantire piena compatibilità ed omogeneità tra tutte le opere da realizzarsi. Risulta attualmente concluso il progetto di fattibilità tecnico economico degli interventi a cura di RFI, il cui completamento dei lavori, in linea con gli impegni previsti dal PNRR, è previsto entro giugno 2026. Per la parte a cura dell’AdSP, invece, l’inizio dei lavori è previsto entro i primi mesi del 2024 ed il completamento entro il 2025”.

 

 

La guerra in Ucraina nell’82esimo giorno dall’invasione potrebbe segnare un punto di svolta: il battaglione Azov ha deciso di “eseguire l’ordine di evacuazione del comando supremo”; è iniziato il trasferimento dei soldati ucraini feriti dall’acciaieria Azovstal di Mariupol”.

E’ la resa che Putin voleva come scalpo di questa guerra? Lo ha avuto.

A fronte di una serie di trattative sotto traccia e serrate, tra attori di diversa caratura e nazionalità di cui non è chiaro l’ambito e certamente non sono quelli che appaiono nei titoli dei giornali, negli ultimi giorni qualcosa si è mosso. Al di là delle dichiarazioni-propaganda che da tre mesi dilagano tra le parti in conflitto e non solo, si colgono segnali in controtendenza rispetto alla previsione di una guerra a tempo indeterminato tutta evidenza Secondo Scott Berrier, direttore dei servizi di intelligence militari Usa, in un’audizione alla commissione Difesa del Senato, “al momento non stanno vincendo né i russi né gli ucraini. La guerra vive un momento di stallo che potrebbe durare a lungo”.

Una situazione che sta provocando contraccolpi per la Russia e per l’Occidente che Mosca identifica come minaccioso e considera nemico al pari dell’Ucraina cui fornisce armi.

Che il Cremlino abbia clamorosamente sbagliato i suoi piani dubitare iam liceat nemini. Parla l’evidenza sintetizzata in un twitt: “Putin ha aggredito l’Ucraina per non avere la NATO ai suoi confini e ora, con l’adesione di Finlandia e Svezia, ne avrà di più mentre rischia di non vincere la guerra e di avere nell’Ucraina per decenni un nuovo nemico. Nei paesi democratici basterebbe per sfiduciare qualsiasi leader”. A Mosca la sfiducia non è consentita.

Di più. La temibile armata rossa ha fatto piangere e pure ridere sul campo: ha mobilitato un’enormità di mezzi e di uomini per impantanarsi coi carri armati; ha immolato decine di migliaia di militari con una decina di generali e forse lo stesso capo di stato maggiore; ha svilito il bellum spiritus dei suoi combattenti, giovanotti cresciuti con Internet e costretti a mitragliare come usavano i bisnonni, per giunta a sparare su consanguinei dei nonni. Poveri soldatini!

Nel terremoto del ‘908 i marinai russi furono tra i primi ad approdare nel porto di Messina e darsi da fare per aiutare i messinesi colpiti dal sisma che aveva raso al suolo la città. La squadra navale, appartenente alla flotta del Mar Baltico, ancorata ad Augusta per una crociera di addestramento nel Mediterraneo, appena saputo del terremoto, su ordine dell’ammiraglio Litvinov salpò alla volta dello Stretto a prestare aiuto alla popolazione senza aspettare ulteriori conferme dagli alti comandi in madrepatria. A perenne ricordo di tale soccorso è stato eretto qualche anno fa un monumento, nella villetta che segna l’inizio del lungomare, dove si rinnova la gratitudine con una cerimonia.

Cosa c’entra questo ricordo con la guerra di oggi?

Ecco. Memori di tale contributo, vogliamo ricambiare il soccorso e far partire da Messina un appello al presidente Putin: colga al balzo la resa del battaglione Azov, prenda lui l’iniziativa di far tacitare le armi sorprendendo gli avversari e il mondo; lasci partire le navi cariche di grano; inviti a Mosca la band ucraina che ha vinto l’Eurovision. Sarebbe un movimento tellurico di tale portata da sbaragliare i calcoli di tutti i partner coinvolti oggi, in Europa e Oltre Atlantico.

Non solo. D’un colpo Putin cancellerebbe l’immagine del tiranno oppressore; da vincitore-pacificatore potrebbe ribaltare le sorti della sua Russia. Sarebbe clamoroso: gli farebbe riacquistare leadership da superpotenza, nonostante i flop; rasserenerebbe i confinanti, dal Baltico al mar Nero in fuga verso la Nato per proteggersi; dimostrerebbe di non volere davvero lo scompiglio negli assetti internazionali. Ottime chances per riaccreditarsi al tavolo della mediazione da zar avveduto, non più pericoloso per i vicini di casa. D’altronde un Paese sconfinato come il suo che bisogno ha di conquistare altri territori?

Certo dovrebbe zittire i tromboni delle sue tv che ogni giorno, più realisti del re, capovolgono la realtà e danno ai russi una rappresentazione dei fatti totalmente ribaltata. Dovrebbe chiedere perdono alle migliaia famiglie che hanno perso i loro cari per una guerra folle e infruttuosa; dovrebbe cancellare il carcere per chi dissente, dovrebbe ravvedersi piuttosto che impiccarsi a una ragion di stato irragionevole e antistorica. O davvero crede di poter ricostituire l’Unione sovietica e indottrinare la generazione dell’iPhone con i talk show megafono stridulo di imbonitori della comunicazione?

Dire oggi stop alla distruzione e al sacrificio di vite è l’alternativa da trionfatore. Il potere è anche capacità di cambiare, di guardare al futuro senza paure, esitazioni, di affrancarsi dalla nostalgia di gloriose parate.

In siciliano si potrebbe tradurre con questo motto antico e arguto, espressione di saggezza popolare: “u fujiri è vergogna ma è sabbamento i vita”.

 

 

Si riparte. Non si sa ancora bene con quali prospettive nel breve periodo, perché dagli imprenditori arrivano notizie drammatiche sui costi dell’energia che si sono quintuplicati, tali da mettere a rischio la sopravvivenza di molte aziende il che complicherà nell’immediato l’azione del Governo volta a tesaurizzare altri parametri positivi sulla crescita.

Si riparte dopo aver archiviato anche la brutta pagina quirinalizia che non esaurirà presto i suoi effetti nei partiti dilaniati da fratture interne e con i leader azzoppati nella reputazione.

Si riparte anche dal discorso di insediamento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, galvanizzato dal plebiscito parlamentare e con un orizzonte di altri sette anni al vertice dello Stato, potrà spendersi ancora di più e meglio. Se il buongiorno si vede dal mattino, e per mattino si guarda alle parole di ieri, si colgono segnali nuovi e una determinazione inedita sia nei confronti delle forze politiche che della magistratura. Due argomenti convincenti che spiegano il perché dopo aver escluso a più riprese un mandato bis, alla fine ha dovuto accettare di rimanere al suo posto per non compromettere ulteriormente una situazione che stava sfilacciandosi su più fronti, col rischio di mandare in fumo l’occasione imperdibile di aiuto economico da parte dell’Europa. L’emergenza politica, economica, sociale imponeva di evitare catastrofici periodi di ulteriore scontro e confusione.

Due i passaggi che hanno segnato il discorso davanti alle Camere riunite che hanno ascoltato Mattarella per circa 40 minuti, rivolgendogli ripetuti applausi. Ma al netto dei battimani provenienti da quell’emiciclo dimostratosi non all’altezza del ruolo, si tratterà di vedere quanto sarà recepito nei fatti il monito che il Capo dello Stato ha rivolto in particolare alle forze politiche e al sistema Giustizia.

Politica – Occorre dare rassicurazione, sostegno e risposte concrete al disagio diffuso e Mattarella ha sottolineato come le attese siano state “fortemente compromesse dal prolungarsi di uno stato di profonda incertezza politica e di tensioni, le cui conseguenze avrebbero potuto mettere a rischio anche risorse decisive e le prospettive di rilancio del Paese impegnato a uscire da una condizione di grandi difficoltà”. Quindi l’affondo ai partiti e alle divisioni croniche: “Leggo questa consapevolezza nel voto del Parlamento che ha concluso i giorni travagliati della scorsa settimana. E’ questa stessa consapevolezza la ragione del mio sì e sarà al centro del mio impegno di Presidente della nostra Repubblica nell’assolvimento di questo nuovo mandato”.

Giustizia – E’ stato un attacco al potere giudiziario italiano che da anni è chiamato a un “profondo processo riformatore”. “Rivolgo un saluto rispettoso alla Corte Costituzionale, presidio di garanzia dei principi della nostra Carta. Nell’inviare un saluto alle nostre Magistrature – elemento fondamentale del sistema costituzionale e della vita della nostra società – mi preme sottolineare che un profondo processo riformatore deve interessare anche il versante della giustizia”. E ancora: “Per troppo tempo è divenuta un terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività. Nella salvaguardia dei principi, irrinunziabili, di autonomia e di indipendenza della Magistratura – uno dei cardini della nostra Costituzione – l’ordinamento giudiziario e il sistema di governo autonomo della Magistratura devono corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, come richiesto a buon titolo dai cittadini”.

“È indispensabile – ha aggiunto il capo dello Stato – che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento affinché il Consiglio superiore della Magistratura possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, valorizzando le indiscusse alte professionalità su cui la Magistratura può contare, superando logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono rimanere estranee all’Ordine giudiziario. Occorre per questo che venga recuperato un profondo rigore”.

Mattarella ha ricordato che “in sede di Consiglio Superiore ho sottolineato, a suo tempo, che indipendenza e autonomia sono principi preziosi e basilari della Costituzione ma che il loro presidio risiede nella coscienza dei cittadini: questo sentimento è fortemente indebolito e va ritrovato con urgenza. I cittadini – ha concluso – devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario. Neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la doverosa certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone. Va sempre avvertita la grande delicatezza della necessaria responsabilità che la Repubblica affida ai magistrati. La Magistratura e l’Avvocatura sono chiamate ad assicurare che il processo riformatore si realizzi, facendo recuperare appieno prestigio e credibilità alla funzione giustizia, allineandola agli standard europei”.

Da Freiburg in Breisgau –Germania in linea Michele Sequenzia

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di Michele Sequenzia

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella , davanti alla Assemblea Parlamentare ha voluto richiamare tutti al rispetto della Costituzione. Con un forte monito ha indicato la strada maestra che ognuno di noi deve seguire. Occorre cambiare tutto quello che è sbagliato. Siamo tutti chiamati a cambiare rotta. Sono parole sagge. Di un grande Presidente. Soprattutto la giustizia oggi è divenuta terreno di scontro di lobbies, giudici che lottano tra di loro, curando i loro miserabili interessi, falsificando i processi, hanno provocato tanti danni, fatto perdere di vista i valori della democrazia, del diritto che sono alla base della vita civile.

Occorre dignità. Occorre ripristinare una sana giustizia. Il giudice deve essere libero da ogni ingerenza politica. Mantenersi sempre totalmente indipendente. Basta con giudici / politici. La magistratura e l’avvocatura assieme a tutti i cittadini, sono chiamate ad assicurare che il processo riformatore si realizzi dalla base , in totale autonomia, facendo recuperare tutto il prestigio e credibilità alla funzione del giudice, secondo i migliori standard europei.
Ci sono troppe ingiustizie. Dignità, occorre dignità , ha pronunciato con fermezza il capo dello Stato, per tutti gli italiani, per i nostri politici, gli amministratori, per l’intera classe dirigente, senza distinzioni. I problemi da risolvere sono molti.

Azzerare le morti sul lavoro. Combattere il razzismo, l’antisemitismo, la violenza contro le donne. Contrastare povertà, precarietà e disuguaglianze. Difendere i diritti costituzionali. Combattere le mafie. Creare lavoro, sicurezza. Dare certezza e futuro alle giovani generazioni. Punti fermi. Dobbiamo andare avanti.

Tutti noi, lettori da ogni parte del mondo che partecipiamo attivamente con il Notiziario delle Isole Eolie, libera voce generosa , esempio di democrazia e di sana partecipazione popolare, desideriamo augurare, con vero entusiasmo, al nostro amato Presidente Sergio Mattarella ogni bene. Che Egli possa guidarci con fermezza, dignità e nuovo coraggio, lungo questa nuova difficile impresa.

 

 

E’ andata. Si è conclusa nel migliore dei modi sul piano istituzionale la peggiore pagina parlamentare. La rielezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica pone fine a una settimana di spettacolo indecoroso in cui deputati e senatori e prima di loro i leader dei singoli partiti hanno dato prova di non essere all’altezza del momento massimo di responsabilità qual è il voto per eleggere il Capo dello Stato.

Ricorrere a un settennio-bis ha sancito l’ammissione del fallimento delle forze politiche. La precipitosa corsa a trovare rifugio sotto l’ala protettiva dell’inquilino del Colle è stata l’estrema ancora di salvezza per non affondare immediatamente dopo la conclamata disfatta che giorno dopo giorno ha lacerato i rapporti dentro e fuori le coalizioni.

Nessuno ha mostrato caratura adeguata, ormai non ci si fida gli uni degli altri e nei partiti la resa dei conti è già cominciata.

Per Mattarella è stata un’investitura corale: tutti, tranne Fratelli d’Italia, sono andati in processione a implorarlo di restare nonostante avesse già il trasloco in corso . Ottenuto il suo “va bene”, auspice il tessitore dietro le quinte Mario Draghi, i capigruppo sono tornati rincuorati a Montecitorio invitando i colleghi a stringersi intorno senza defezioni per garantirsi la sopravvivenza almeno per un anno ancora. Immediato il risultato: 759 voti e lunghi applausi (almeno questi potevano risparmiarseli) per salutare… la vittoria.

Salvo a capire, con un po’ di ritardo, di aver perso tutti. Tanto che nel breve tragitto da piazza Colonna al Quirinale, dove i presidenti delle Camere si sono recati a formalizzare il risultato a Mattarella, è stato uno sprizzare di veleni.

Sedimentato l’accaduto, i “perdenti” hanno provato a dare una lettura di convenienza per giustificarsi o per reagire a seconda dei casi. Il primo a infiammarsi, Luigi Di Maio: “Non vedo vincitori politici. La Politica è rimasta vittima di se stessa, che nessuno da domani alimenti giochini o divisioni. Credo che anche nel Movimento Cinquestelle serve aprire subito una riflessione interna”. Stoccata formidabile che sancisce definitivamente la spaccatura per portare alla liquidazione di Giuseppe Conte, accusato di aver flirtato con Salvini e ostacolato il percorso di Draghi.

Matteo Salvini, sulla graticola da giorni, non ci sta a passare per il super sconfitto, unico responsabile del tracollo del Centrodestra di cui aveva assunto il ruolo di coordinatore. E rivela: “siamo stati traditi dal Centrosinistra. In una riunione con Letta e Conte della sera precedente, loro mi avevano indicato il nome di Elisabetta Belloni (la responsabile dei Servizi segreti), l’ho accettata e proposta ai miei alleati ma un attimo dopo aver annunciato anche alle tv la soluzione su una presidente donna, il Pd si è rimangiato tutto”. E sulla figuraccia della presidente del Senato Elisabetta Casellati, bocciata clamorosamente, accusa i parlamentari di Forza Italia di averla affossata. A quel punto, preso atto che non era più il caso di andare avanti senza numeri, si è ripiegati su Mattarella.

Giorgia Meloni insorge, urla la sua incredulità: “nell’ultimo summit del centrodestra si erano manifestate diversità di opinioni su alcune indicazioni ma su una cosa si è registrata totale unanimità: il no al bis di Mattarella. Invece.”

Silvio Berlusconi dal lettino di ospedale forse gongola: o lui o nessuno. Avendogli sbarrato la strada, meglio la soluzione di congelare la situazione precedente con il sì a Mattarella al Colle e Draghi a Chigi. E i cespugli di area (Toti, Lupi e altri) hanno fatto altrettanto.

Adesso? Si è aperta la campagna elettorale; in campo si manifesteranno altri soggetti, le cosiddette coalizioni si sono disintegrate. Con quali ripercussioni sul Governo Draghi è difficile dirlo, il fuoco incrociato sarà quotidiano e non basterà l’accorta opera di mediazione di Mattarella a ricucire. Le ferite aperte sono profonde, i rapporti personali incrinati. Il disgusto dei cittadini che hanno assistito all’irritante teatrino, farà il resto. Sarà possibile procedere per un anno ancora con questo Parlamento?

Isole di Sicilia, stop alle navi vecchie, la Regione vince al Tar

Stop alle navi troppo vecchie per i collegamenti tra le isole minori. Lo mette nero su bianco il Tar di Palermo che ha bocciato l’impugnativa parte di Caronte&Tourist al bando della Regione per i trasporti marittimi.

La compagnia contestava 4 dei 5 lotti (Egadi, Ustica, Pelagie, Pantelleria, per il lotto delle Eolie il verdetto è stato rinviato per competenza al Tar di Catania) in cui la Regione Siciliana aveva diviso l’affidamento quinquennale dei servizi integrativi di collegamento marittimo con le isole minori, un affare da 60 milioni di euro l’anno che gli armatori hanno snobbato non presentando alcuna offerta. Ora il Tar ha chiarito che anche se le gare sono andate deserte, i bandi erano regolari e, previa proroga degli affidamenti in atto, potranno essere riproposte.

Secondo i giudici,  “il richiesto requisito, che impone di utilizzare navi costruite o ‘ringiovanite’ da meno di venti anni, è evidentemente volto ad assicurare un livello qualitativo migliore del servizio oggetto di appalto”. 

Il gruppo armatoriale delle famiglie Franza e Matacena, aveva fondato il ricorso sul requisito delle navi di età non superiore ai 20 anni imposto dalla Regione per la partecipazione ai bandi. Una condizione giudicata "escludente" da Caronte&Tourist, anche se il dipartimento regionale dei Trasporti aveva previsto la possibilità del "ringiovanimento tecnico", ovvero interventi di miglioramento sulle navi più vecchie di vent'anni certificati da enti preposti, e in alternativa il ricorso al noleggio.

Ma anche su questo punto il Tar ha chiarito che “gli ulteriori corollari della tesi della ricorrente, circa l’elevatissimo costo dell’opera di ringiovanimento delle navi, o il fatto che nel marcato non esisterebbero operatori in grado di soddisfare il requisito richiesto, non vien sufficientemente provato con la documentazione depositata”.

Sempre nella sentenza si legge poi che “non condivisibile è poi l’ulteriore argomento utilizzato dalla ricorrente secondo la quale l’irragionevolezza del requisito richiesto dovrebbe trarsi dalla circostanza che in passato le gare svolte per il medesimo servizio non richiedevano requisiti analoghi: come messo in rilievo dalla già citata nota dell’amministrazione del 4 ottobre 2021 n. 51754, è plausibile pensare che gli inconvenienti verificatisi in passato abbiano indotto l’amministrazione regionale a introdurre, non irragionevolmente, il requisito in contestazione”.

Il commento  di Vincenzo Franza, amministratore delegato di Caronte&Tourist: "La pronuncia non ha colto il punto essenziale - spiega -  cioè che l'età delle navi non può essere di per sé stesso un fattore discriminante, ma che occorre valutare le caratteristiche oggettive dei mezzi. Per cui siamo confidenti che il Cga, o addirittura il Tar Catania che ancora dovrà esprimersi su di uno dei ricorsi, coglierà il punto e confermerà le nostre tesi".

LA NOTA DEI CONSIGLIERI COMUNALI DI FORZA ITALIA

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di Eliana Mollica e Gesuele Fonti*

A fine novembre, com’è noto, la mancata partecipazione degli armatori alla gara per aggiudicare i servizi marittimi tra la Sicilia e le isole minori ha determinato, come immediata conseguenza, una inevitabile quanto drastica riduzione dei servizi nelle Eolie e negli altri comparti regionali.
La paventata diminuzione delle corse e l’inevitabile contenimento dei servizi ha allarmato la comunità eoliana, nella morsa di quanti per mesi e mesi hanno osteggiato l’impianto del nuovo piano regionale dei collegamenti marittimi con le isole minori. E sebbene la nuova rete integrata dei collegamenti marittimi  producesse significativi vantaggi per l’utenza e per le comunità insulari.

“Un’occasione persa – dichiarano i Consiglieri Comunali Gesuele Fonti ed Eliana Mollica – in quanto tali trasporti, realizzati con il sostegno economico della Regione, avrebbero trovato stabilità per i prossimi cinque anni razionalizzando l’offerta dei collegamenti con effetti assolutamente positivi per le Isole Eolie.”

All’inizio di quest’anno, i servizi di collegamento marittimo fra la Sicilia e le sue isole minori sono stati dunque prorogati in extremis dalla Regione con i titolari delle convenzioni sottoscritte nel 2015 (Liberty Lines e Caronte&Tourist), scadute a fine 2020 e allungate di 12 mesi.
“E’ necessario ricordare - aggiungono i consiglieri di Forza Italia - che i bandi per i trasporti marittimi integrativi, andati deserti alla fine dell’anno scorso, prevedevano un incremento significativo del migliaggio e delle corse rispetto al passato, senza duplicazioni di rotte e squilibri nei servizi, garantendo la continuità territoriale alle isole dell’arcipelago più distanti dalla terra ferma e dunque più disagiate. Inoltre, - continuano Fonti e Mollica - la nuova rete integrata dei collegamenti marittimi assicurava, su criteri del tutto nuovi, l’opportunità dell’alta stagione e anche penalità per le compagnie di navigazione nel caso di mancata risposta alle condizioni richieste per l’espletamento del servizio.”

“Come noto – affermano i consiglieri comunali - i traghetti impiegati nei collegamenti con le isole minori hanno un’età media superiore ai 40 anni. E il bando della Regione da 60 milioni di euro all’anno (300 milioni nel quinquennio) prevedeva quale requisito fondamentale l’utilizzo di navi costruite (o ringiovanite) da meno di venti anni volto ad assicurare un livello qualitativo migliore del servizio oggetto di appalto.”

Pochi giorni fa, il Tar di Palermo ha bocciato l’impugnativa di Caronte&Tourist al bando della Regione per i trasporti marittimi.  Il gruppo armatoriale aveva fondato il ricorso sul requisito delle navi di età non superiore ai 20 anni imposto dalla Regione per la partecipazione ai bandi. Una condizione giudicata dalla compagnia di navigazione "escludente", anche se il dipartimento regionale dei Trasporti aveva previsto la possibilità del "ringiovanimento tecnico", ovvero interventi di miglioramento sulle navi più vecchie di vent'anni certificati da enti preposti, o in alternativa il ricorso al noleggio.

Lo scorso ottobre, l’assessore regionale ai Trasporti ha incontrato i Consiglieri Comunali di Lipari e nel corso di una lunga seduta del civico consesso ha confermato la disponibilità dell’amministrazione regionale a un confronto con le amministrazioni locali e i portatori d’interesse, per apportare ove fosse necessario accorgimenti al piano dei collegamenti marittimi nel rispetto dei bisogni e delle priorità delle realtà insulari.

“Ci auguriamo – concludono Fonti e Mollica – che i criteri introdotti dai bandi regionali per i trasporti marittimi integrativi,
andati deserti, possano essere presto recuperati per garantire alle nostre isole un livello qualitativo migliore del servizio. E che possa venir meno nel nostro paese l’ostilità di quanti, barricandosi dietro una sterile ed incomprensibile polemica, osteggiano politiche volte al superamento delle criticità proprie di un territorio disagiato quale il nostro. Ci può salvare solo la concretezza e la fedeltà agli obiettivi comuni.”

*Consiglieri Comunali Gruppo Forza Italia

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Lipari, l'associazione "amici del presepe" comunica che nella chiesa di Maria Ss di porto salvo durante la messa delle 17.30 si è tenuto il sorteggio della sacra immagine del bambino Gesù come da filmato. si comunica altresì il vincitore del concorso u "presepiu a casa " che è il sig Podetti Antonio di S Marina Salina.a tutti i partecipanti verrà consegnato un diploma di partecipazione con relativa motivazione. la sacra immagine di Gesù, il premio e i diplomi del concorso verranno consegnati presso la macelleria di China Michele al supermercato D Anieri Bartolo di Lipari centro . l'associazione gli "amici del presepe " di Lipari ringrazia tutti per la pazienza e la comprensione.

Targa consegnata da Michele China al sig Antono Podetti - vincitore del concorso U presepe a casa

 

Sui temi importanti che possono incidere sulla vita dei siciliani e migliorare le prospettive dell’Isola l’Ars non brilla per dibattiti di alto profilo né per tempestività di intervento ma quando si tratta di cavalcare momenti di difficoltà politica e di esasperare i toni per attaccare avversari interni mostra una prontezza da primatisti.

E’ vero che il presidente della Regione Nello Musumeci, nell’ultima riunione dell’Assemblea, si è lasciato andare a una reazione sopra le righe, umanamente ma non politicamente giustificabile, avendo interpretato il voto d’Aula sui “grandi elettori” per il Quirinale come un alto tradimento nella sua maggioranza, tuttavia i problemi seri sono ben altri. E in questo momento l’attenzione massima dovrebbe concentrarsi su come la Sicilia segue l’evolversi dei piani di investimenti del Pnrr, sui progetti da mettere in cantiere, se ci sono le professionalità adeguate a gestire le risorse in arrivo e con quale visione di futuro. Vale per la maggioranza quanto per l’opposizione che un domani potrebbero trovarsi a parti invertite, dunque parimenti coinvolte nel come oggi si struttura il sistema per non perdere l’ultima irripetibile occasione di recuperare ritardi nelle infrastrutture e nel rilancio delle attività produttive.

Invece, l’argomento all’ordine del giorno che totalizza l’attenzione è ormai lo scivolone del Governatore. I rappresentanti delle forze di opposizione all’Ars Nuccio Di Paola (M5S), Giuseppe Lupo (Pd) e Claudio Fava (Cento Passi) hanno inviato una lettera al presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè chiedendo che martedì 18 gennaio la seduta d’aula sia dedicata ad un dibattito, alla presenza del presidente della Regione Nello Musumeci, alla luce delle sue recenti dichiarazioni.

Questo il testo
:
“A conclusione della seduta n. 313 del 12 gennaio, durante la quale si è proceduto all’elezione ed alla proclamazione dei delegati per l’elezione del presidente della Repubblica, il presidente della Regione Nello Musumeci ha chiesto la parola e la presidenza dell’Ars ha invece chiuso la seduta con l’assicurazione che l’avrebbe riaperta nel giro di pochi minuti, consentendo solo allora l’intervento del presidente della Regione. Ma alla riapertura dei lavori, di fatto, la seduta non si è mai svolta se non per comunicare il rinvio al 18 gennaio.
In quella stessa giornata il presidente della Regione, dopo aver ventilato in aula le proprie dimissioni, ha diffuso attraverso i social una comunicazione nella quale ha dichiarato l’intenzione di “azzerare la giunta”, riferendo inoltre di avere subito un “atto di intimidazione” da parte di alcuni deputati definiti “disertori e ricattatori”, e di avere respinto “pressioni e tentativi di condizionamento” dai contorni non chiariti.

È evidente come si sia determinata una situazione di caos istituzionale e di grave incertezza politica che pesa sul presente e sul futuro della Sicilia, già alle prese con una fase delicatissima dovuta alla pandemia.
Alla luce di ciò riteniamo imprescindibile che i lavori d’aula di martedì 18 gennaio riprendano con le comunicazioni del presidente della Regione sulla crisi di governo. Chiediamo inoltre che a seguire, nella stessa giornata di martedì, si svolga un dibattito d’aula”. 

 

Tranquilli, non è successo niente. Non può accadere niente. Lo sanno tutti che fino all’elezione del presidente della Repubblica si gioca a bocce ferme; quanto si è verificato l’altro ieri all’Ars è stato un episodio come tanti, non il primo né l’ultimo, in cui il presidente della Regione subisce l’onta di vedersi bocciato. La storia parlamentare è zeppa di incidenti di percorso, senza determinare sconvolgimenti. Che infatti, per ora, non ci saranno: quali dimissioni, quale azzeramento di giunta?

Nello Musumeci preso impulsivamente dall’ira dell’insulto politico avrebbe voluto giustamente tornare subito in Aula e dire “tutti a casa”. Lui lo può fare ma sarebbe l’estrema ratio a fronte di una formale sfiducia, non per ripicche personali su un voto di poco significato. La reazione irritata lo ha portato invece a scivolare ripetutamente nel volgere di poche ore, prima facendo trapelare la voglia di dimissioni, poi annunciando un azzeramento dell’Esecutivo non praticabile, tant’è che non c’è stato e non ci sarà. Le ultime informazioni parlano di decisione rinviata a dopo l’approvazione dell’esercizio provvisorio, che andrà in Aula la prossima settimana. In quella successiva i lavori sono sospesi perché si vota per il Quirinale, dunque si ragionerà successivamente sul da farsi. E tutto dipenderà dall’esito romano.

Certo non ha giovato a nessuno il clamore sollevato a seguito dei numeri sui tre grandi elettori siciliani, con Musumeci terzo e meno votato del rappresentante delle opposizioni. Il governatore non ha saputo incassare il colpo, si è fatto travolgere ai sentimenti e non ha trovato nei suoi yesman, qualcuno che lo frenasse per sedimentare l’accaduto e dare il giusto peso al giochino di palazzo. Ma si sa, in genere gli scodinzolini sono più realisti del re, pronti ad assecondare il sentimento del capo, a condividere gesti e reazioni pure a costo di andare a sbattere insieme con lui.
Riavuto in sé, sono rientrate in pochi minuti le dimissioni. La voglia però di reagire all’agguato politico lo ha spinto a diffondere un video per parlare in modo precipitoso di “azzeramento della giunta”.

Ammesso che ne avesse davvero l’intenzione, è stata comunque una mossa impacciata e ambigua: dire che avrebbe rivisto l’assetto, dopo aver chiesto ai partiti della maggioranza di fornire una rosa di possibili assessori, è un autogol: voleva mandarli al diavolo e invece si sottoponeva ai loro diktat? Una mano tesa peraltro parzialmente in quanto si riservava di confermarne una buona parte di assessori: il che non è piaciuto ai partner. Pd e M5S intanto ne sollecitano le dimissioni, ammesso che le vogliano davvero: con questi chiari di luna, chi si sente garantito nella probabilità di tornare a Sala d’Ercole?
Comunque, si sa che certe dinamiche transitano attraverso contatti con i leader nazionali. E in questo momento è impensabile infastidire i big impegnati nel rompicapo del Quirinale, per avere udienza su piccolezze siciliane.

A proposito: avere creato dissapori alla vigilia di un’elezione così agitata a Roma, non tornerà gradita nel Centrodestra dove Silvio Berlusconi si gioca una sua partita che punta sull’unità della coalizione come base fondamentale sine qua non. Ogni voto diventa preziosissimo e non c’è spazio per litigi peraltro di modesto profilo. Quindi lo stesso Gianfranco Micciché non avrà da rallegrarsi, visto che si sta spendendo per la causa del Cavaliere.

Una volta definita la questione Quirinale che si trascina appresso il futuro del Governo e della legislatura, si avrà un quadro più chiaro anche qui e solo a quel punto Musumeci potrà avere contezza di ciò che lo aspetta. Se i partiti risponderanno ancora picche, non si presterà ad inutili azzeramenti, giochini dilatatori, manovre logoranti e teatrini deprimenti di cui l’Ars riscrive copioni già abbondantemente portati in scena. Mai un dibattito serio, sereno e di livello su scelte fondamentali per la crescita dell’Isola… gli ex Novanta ora diventati Settanta amano baloccarsi in imboscate e forse appagano nel “segreto” di un’urna altre insoddisfazioni.
Musumeci, da uomo di carattere, trarrà quindi le conclusioni con un “rien ne va plus”.

 

Quello che doveva essere il processo del secolo, il cui percorso trae origine a seguito dell’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, democristiano, storico riferimento e capo nell’Isola dell’allora potente corrente andreottiana, e siamo al 1992, che ha avuto un primo punto di approdo nell’aprile 2018 con la condanna in primo grado di tutti gli imputati, quattro anni dopo quella sentenza e trent’anni dopo i fatti si conclude con un verdetto opposto: assoluzione.

Per gli imputati di spicco, cioè gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno e per il senatore berlusconiano Marcello Dell’Utri è la liberazione da un incubo. Per il popolo italiano, in nome del quale la Giustizia viene amministrata, niente di clamoroso rispetto a quanto la stragrande maggioranza aveva ipotizzato sin dall’inizio pur non avendo faldoni di intercettazioni e familiarità con codici e giurisprudenza, solo ragionando col buon senso comune: su congetture e indizi si era messo in piedi un teorema.

Un costrutto che a tuti i costi doveva indirizzarsi verso la colpevolezza e far emergere il putrido odore della mistura avvelenata tra corpi dello Stato e mafia assassina. Gli ingredienti c’erano, le stragi pure, il clima era quello giusto perché la gente, quell’opinione pubblica cangiante di umore a seconda delle situazioni, chiedeva vendetta e punizione nel vedere uno Stato che appariva debole, arrendevole. Ragionando più a cuor sereno, col passare del tempo forse ci si è ricordati che, come diceva De Gaulle, nello Stato c’è bisogno anche di chi stura le fogne. E adesso la sentenza di appello sembra confermarlo: approcci, tentativi di dialogo con la cupola mafiosa che stava lacerando la convivenza civile con un piano stragi senza sosta sono stati portati avanti per obiettivi più importanti cioè salvare la Nazione dal precipizio.

D’altronde, era mai possibile che i vertici dell’Arma dei carabinieri non sapessero cosa il gen. Mori e company stavano facendo? Le loro trame potevano essere il frutto di un’iniziativa individuale data la posta in ballo? E se sapevano allora era invischiata l’intera Arma e poi lo stesso Governo con i vari ministri dell’Interno e non solo. Dunque a processo doveva andarci la Repubblica con le sue massime espressioni istituzionali.

Le motivazioni che si accompagneranno al verdetto assolutorio di ieri ci diranno di più. Ma intanto, i giovani di allora che oggi sono prossimi alla pensione; i cronisti di giudiziaria che per tre decenni hanno preso nota di questo e quell’interrogatorio, di innumerevoli dichiarazioni, di passaggi giudiziari contraddittori che a intervalli facevano propendere per il pollice verso o viceversa possono rimuovere tutto il martellante tambureggiare delle Procure.

E’ normale che in Appello si possa pervenire a decisioni diverse. E’ meno normale che in un processo storico, venga ribaltato il verdetto tanto più se si pensa che alla nuova conclusione era già pervenuto il cittadino normale. E non è normale che dopo tanto tempo rimangano senza verità altri aspetti di questa inchiesta o vicende di quell’epoca. Ma la storia delle stragi italiane è rimasta sempre senza spiegazioni convincenti.

I teoremi qua e là hanno fatto male; l’inquirente che si innamora delle proprie tesi rischia di travolgere il destino di non colpevoli, spesso chiamati loro a giustificarsi di ciò che non hanno fatto perché ormai l’antico e in dottrina ancora attuale imperativo che recita “onus probandi incumbit ei qui dicit” viene puntualmente capovolto.

L’insieme di tutto ciò aggrava la condizione della Giustizia che attraversa il momento peggiore. La sentenza di ieri contribuisce ad alimentare il senso di sfiducia in un sistema ormai imploso per gli scandali, i veleni che attraversano le Procure più strategiche, le derive del Csm, i Referendum tendenti a modifiche radicali, il protagonismo di alcuni giudici, l’autoreferenzialità intoccabile e prevaricante rispetto agli altri poteri dello Stato.

 

Barcellona, capoluogo della Catalogna, regione di oltre sette milioni di abitanti, proprio nei giorni scorsi ha visto riprendere il dialogo tra il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez e il presidente della Catalogna Pere Aragonès per riavviare i negoziati sulla crisi politica legata alla spinta separatista. Argomento frusto, logoro, trito e ritrito in Sicilia dove l’aspirazione separatista prese altra forma nel ’46 con lo Statuto talmente speciale da farne una regione con pari dignità istituzionale della Nazione. Peccato che di quella specialità il risultato sia oggi di un’Isola più povera anche di abitanti, e che delle affinità con gli autonomisti spagnoli ci sia eco solo nei dibattiti tra studiosi.

Da un humus socio-politico assimilabile, come è possibile che col passare dei decenni, segnatamente negli ultimi 50 anni, si sia pervenuti a risultati così opposti, incomparabili? Barcellona che corre, visibilmente cresce, si espande, moltiplica i numeri nel porto e nel centro, si presenta più bella e accogliente, spaziosa, elegante, organizzata, pulita, vivace, allegra; Palermo caotica, porto asfittico, rumorosa, disordinata urbanisticamente, degrado abitativo abbondante in centro quanto in periferia, città quasi rassegnata nel contemplare le pur numerose bellezze monumentali, architettoniche, artistiche che può vantare.

Il confronto tra le due metropoli potrebbe apparire ardito visto che quella siciliana conta poco meno di 700 mila abitanti a fronte dei due milioni catalani ma è la mancanza di visione di città e di Regione che obbliga a riflettere. Siamo indietro di mezzo secolo, manca un’idea di prospettiva, un disegno progettuale di insieme, né si sa chi dovrebbe approntarlo tra la pletora di competenze e la moltitudine di governanti distratti dalla ricerca del consenso elettorale.

E siccome è di moda il termine “semplificazione” produciamo un’ipertrofia normativa e di uffici burocratici da scoraggiare qualsiasi intrapresa; il parlamento siciliano perde tempo su provvedimenti insignificanti; le nove ex province incluse le tre città metropolitane a cominciare dal capoluogo dell’Isola consumano lustri di legislature a dibattere sul nulla, a coniare nuovi enti senza che si migliori alcunché; si fanno comunicati stampa, si organizzano tagli del nastro per una rotatoria, una panchina, o i gazebo piazzati agli imbarcaderi aliscafi… piuttosto che provare vergogna di aver provveduto con decenni di ritardo a un minimo di decoro.

Ancora oggi non ci si indigna per quella ferraglia che invade le invasature dei traghetti, a Messina come a Villa S. Giovanni e Reggio: a parte qualche articolo di giornali o sterili dichiarazioni di assessori e deputati, non c’è stata né ci sarà alcuna severa levata di scudi per dire basta alla telenovela del Ponte. Le Università… “latitanti”. Tolleriamo come normale una condizione di arretratezza che appare ormai incolmabile se parametrata all’accelerazione impressa altrove.

Hola, Hola… sveglia! L’intero patrimonio siciliano in parte griffato Unesco incassa forse quanto la sola Sagrada Familia; il lungomare già distrutto pressoché ovunque continua a essere aggredito dalla cementificazione invece di essere liberato per restituirlo alla fruibilità, con accesso agevole e organizzato per bagnanti e diportisti.

L’esatto contrario di come Barcellona si presenta ai visitatori: estesi vialoni pedonali affiancati alla ampissima pista ciclabile che a sua volta costeggia l’arenile per chilometri; qui e là grandi aree a verde; e poi niente soprelevazioni posticce, tettoie abusive, baracche o ruderi abbandonati.

Allora, dove abbiamo sbagliato? E soprattutto perché ci ostiniamo a sbagliare ancora, ingessando il presente, compromettendo ulteriormente il futuro? Qualcuno dovrà porsi l’interrogativo.

Un esempio lampante a Messina, per antonomasia città di due mari: come si può pensare oggi di coprire lo spazio dell’ex Teatro in Fiera, asfissiando la passeggiata a mare già striminzita? E’ pura follia! Far sorgere un edificio multipiano quando ci sarebbe da demolire tanto altro all’interno del recinto di quell’area fieristica. La stessa recinzione è un oltraggio alla città, al paesaggio, al godimento del mare, al senso di libertà che invece Barcellona fa percepire a chiunque si avvicina alla costa. Dalle nostre parti sono una costante le cancellate che imprigionano.

Il senso di libertà nella regione iberica si coglie anche nelle realizzazioni artistiche e costruttive: un mix di colori, materiali, sculture, vetrate come se ciascun architetto avesse operato con fantasia e in piena libertà espressiva senza l’assillo del centimetro di regolamenti, regi decreti, Soprintendenze, Uffici comunali… enti tempestivi in Sicilia nel bloccare sine die al primo mattone e persino quando è tutto è già bello e definito ma che non sono stati capaci di impedire tante brutture.

Dove sbagliamo se altrove realizzano cose belle, o magari discutibili, ma le fanno e pure in velocità, arricchendo comunque il paesaggio reso più attraente. Non saranno forse tante regole sciocche ed enti inutili che si accompagnano a una serie infinita di autorizzazioni a castigare pure l’arte e la bellezza?

Fatto sta che chi torna a Barcellona dopo 30 anni trova una città irriconoscibilmente nuova, deliziosa, affascinante specie sul waterfront. In Sicilia il tempo sembra essersi fermato, tutto è uguale a prima e se qualcosa è cambiato… lo è in peggio.

 

In una fase storica caratterizzata da disorientamenti, indeterminazione, ambiguità, precarietà, Mario Draghi riesce, pur tra tanti dubbi, a rappresentare una certezza.

L’approccio pacato e convincente con cui affronta le questioni, il concentrarsi sulle cose serie rifuggendo dalle baruffe di scarso interesse, crea ovviamente risentimento e disagio tra i politici di professione che sulle bagarre campano fino ad agitare la minaccia di possibile crisi all’orizzonte vuoi se Matteo Salvini attacca il ministro dell’Interno Lamorgese sull’immigrazione; o perché Enrico Letta si rivolta contro la Lega che non vota in commissione il green pass dunque sarebbe fuori dalla maggioranza. Questioni aggressivamente sbandierate ed esaltate per scuotere gli animi all’interno delle coalizioni, impegnare titoloni sui giornali, far credere che si stia parlando di cose importanti.

Poi capita che il Premier convochi una conferenza stampa, per informare sul lavoro in corso e sui provvedimenti in itinere, questi sì cose serie, e ci si accorge d’emblée che i vari big cercano ambiziosa visibilità a tutti i costi… sul nulla. E a smontarli è proprio lui, il super Mario iniziatore di un modo di dirigere Palazzo Chigi così austero, sobrio, competente e pure ironico che sarà difficile per qualsiasi successore tenere il raffronto col caposcuola quando, prima o poi, lascerà la guida dell’Esecutivo.

Così ieri, dopo aver snocciolato le varie misure in campo per contenere la pandemia, aprendo all’obbligo vaccinale e al green pass, bocciando la protesta dei no vax come odiosa e vigliacca, ha risposto ai giornalisti su diversi argomenti. E ha confermato che nel governo c’è sintonia tra i ministri, ricordando che il Parlamento ha espresso fiducia nel suo operato; che le polemiche dei leader appartengono ai partiti e alla dialettica politica, ma il Governo è un’altra cosa.

Non si è tirato indietro comunque a dire la sua sullo scontro Salvini-Lamorgese: potrebbe essere utile a entrambi incontrarsi e chiarire i motivi, magari raffrontando i numeri dei migranti di quest’anno con quelli di anni precedenti. Non lo ha detto ma si riferiva anche al periodo in cui è stato ministro dell’Interno proprio Salvini. Quanto alla durata dell’attuale gabinetto, il suo sorriso sornione tradiva un sottinteso… ma chi potrebbe mai intestarsi un capovolgimento che farebbe sprofondare il Paese proprio nel momento in cui finalmente Roma ha cominciato a rappresentare un riferimento affidabile conquistandosi credibilità tra i partner occidentali e non solo. Vedi da ultimo la vicenda Afghanistan.

Nella conferenza infatti la crisi afghana non è rimasta estranea. Al tavolo con il premier c’erano i ministri Gelmini (Affari regionali), Bianchi (Scuola), Speranza (Sanità) e Giovannini (Trasporti) perché il tema era l’ampio tema delle misure anti pandemia, quindi non aveva un ruolo il ministro degli Esteri Di Maio. Però era scontato che i giornalisti avrebbero posto domande sul dopo Kabul, tanto più che in serata Draghi si sarebbe recato a Marsiglia per incontrare il presidente francese Macron.

Il premier sugli affari internazionali vola alto, si muove con la sicurezza di chi sa di essere ascoltato; lo sta dimostrando. Con padronanza assoluta e visione del futuro, gli bastano due battute per delineare quella che sarebbe auspicabile diventi la linea dell’Europa: accogliere i profughi afghani come rifugiati politici cui far conseguire la cittadinanza piena; coordinare le rispettive politiche sull’immigrazione. Pur avvertendo che lo scenario è complesso e nessuno ha la soluzione in tasca, sfida gli alleati su ciò che nell’immediato si deve certamente fare sul piano umanitario: garantire una prospettiva di vita dignitosa a chi ha collaborato in questi venti anni con gli occidentali e vuole fuggire dai talebani.

Insomma Salvini, Letta, Meloni, Conte e company se ne facciano una ragione: semestre bianco o no, Draghi non si tocca. Il non avere un suo partito, e non pensarci minimamente a fondarlo; il parlare poco, a volte con monosillabi eppure con straordinaria efficacia e conoscenza degli argomenti; la gestione delle emergenze; la possibilità di condizionare le scelte dei suoi omologhi dentro e fuori l’Europa ne fanno un premier di straordinaria capacità. Intoccabile.

 

Lo stile Draghi, che speriamo insegni qualcosa alla Politica e lasci traccia di un altro modo di intendere il rispetto e la serietà istituzionale, incide ovviamente anche nella comunicazione: siamo passati dalle esternazioni a tutte le ore e dalle tv sintonizzate quasi quotidianamente con Palazzo Chigi alle conferenze stampa essenziali, minimaliste. Talvolta esageratamente telegrafiche.

E’ il caso della vicenda Ponte sullo Stretto: il premier l’ha liquidata con una battuta a Montecitorio nel presentare il Piano nazionale di ripresa e resilienza collegato a quel Recovery Plan da 200 e passa miliardi dell’Europa. Ha delegato il tutto al ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini che già qualche settimana prima aveva annunciato come imminente l’esito della commissione di studio (insediata ad hoc, quasi un anno fa). Sono passate settimane ma fino a ieri il ministro non ha voluto anticipare nulla.

Dunque non si sa ancora cosa c’è scritto, nonostante mesi di attesa che si sommano ai decenni precedenti: troppi rinvii, mezze dichiarazioni, silenzi che non si giustificano più. Ambiguo appare pure l’annuncio di ulteriore dibattito allorché sarà noto il testo della commissione, quasi che non si fosse discusso abbastanza finora.

Dice Giovannini: “La Commissione istituita dall’ex ministra De Micheli per l’attraversamento stabile dello Stretto ha ultimato i suoi lavori e, come annunciato dal presidente Draghi, la relazione verrà inviata quanto prima al Parlamento. La mancata inclusione dell’opera nel Pnrr dipende dal fatto che i tempi a disposizione per realizzarla, entro cioè il 2026, sono troppo brevi. Questo non vuol dire che, se si decidesse di procedere, non si possano usare altri fondi. La Commissione ha preso in esame diverse tipologie di tunnel e di ponti: sulla base di questo lavoro si aprirà un dibattito politico e pubblico e si esamineranno tutti gli aspetti legati alla fattibilità, non solo economica”. Precisando poi che la relazione non è ancora finalizzata, va letta attentamente perché la commissione ha messo insieme evidenze molto importanti, riflettendo sugli aspetti trasportistici, vulcanologici, economici e il dibattito che si svilupperà dovrà basarsi sui fatti citati nella relazione.

I rumors nei Palazzi fanno ritenere però che sia stata scartata l’opzione tunnel per preferire quella del ponte, difatti ieri sera l’assessore regionale Marco Falcone si è spinto oltre: “Le ultime notizie che giungono da Roma ci danno ragione. La Commissione di esperti, istituita dall’ex ministro De Micheli, conferma quello che sosteniamo da sempre, cioè la bontà del progetto già esistente del Ponte sullo Stretto come unica strada per scrivere una nuova storia di Sicilia e Sud Italia. Per altro verso, l’ipotesi alternativa di Italferr del ponte a tre campate, ancorché valida e ritenuta fattibile, sarebbe però tutta ancora da impostare. Ecco perché dobbiamo partire subito dal progetto di Eurolink che WeBuild, assieme a Sicilia e Calabria, si è detta pronta a realizzare da subito. Un progetto chiavi in mano, già munito dei necessari pareri e relative autorizzazioni. Il governo Musumeci chiede che non si perda più tempo, facendo anche appello alla chiara maggioranza pro-Ponte presente in Parlamento. Oggi ci sono tutte le condizioni per passare dalle parole ai fatti”.

Non sappiamo se l’assessore Falcone ha notizie di prima mano o se le sue esternazioni sono un commento di notizie lette sui giornali.

In attesa di questa benedetta relazione, annunciata da dicembre come imminente, proviamo allora a sintetizzare lo stato dell’arte, sulla base di dati concreti per capire come stanno realmente le cose e spiegare perché di cantierabile non vi è nulla ed entrambe le ipotesi ponte richiedono un nuovo progetto.

 

 

 

 

Povera politica, ridottasi a inseguire il monologo del rapper Fedez per sollecitare l’approvazione di una norma su diritti da tutelare e per scoprire che in Rai ci sono dirigenti condizionati dal potere politico. Ma va? La Rai del servizio pubblico, la più grande azienda culturale del paese pagata da tutti con il canone, è influenzata dalla politica? E c’è qualche vicedirettrice, più realista del re, che si preoccupa se sul palco del Primo Maggio a Roma vengano usate certe parole o che si facciano nomi di politici?

Nella fattispecie si trattava di un attacco di Fedez per condannare le sprezzanti espressioni razziste usate da qualche esponente della Lega e che la direttrice di Rai 3 avrebbe voluto non venissero citate: per fare un favore a chi? A Salvini? Al sistema Rai?

Pronti allora a insorgere il Pd col segretario Enrico Letta e il Movimento 5 stelle con Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, indignati per il tentativo di censura: «Ci aspettiamo parole chiare dalla Rai, di scuse e di chiarimento» ha dichiarato Letta che ha pure ringraziato Fedez «per le sue parole forti che condividiamo in pieno e rendono possibile rompere un tabù, cioè che non si può parlare di diritti perché siamo in pandemia. Occuparsi di pandemia non vuol dire che non si possono fare battaglie per i diritti, ius soli, come ddl Zan».

E Di Maio: «Il Paese non può accettare alcuna forma di censura. La musica è libertà, trasmette emozioni e ci aiuta a comprendere, analizzare, maturare. Penso che il rispetto sia la cosa più importante e stia alla base di tutto, significa saper accettare le critiche e le idee diverse dalle nostre. E un Paese democratico non può accettare alcuna forma di censura» ha scritto su Facebook il ministro degli esteri grillino».

Censure in Rai… scoperte e contestate oggi?

Ma non c’è nulla di cui meravigliarsi, se non fosse che a dolersi sono proprio i leader di partiti che sotto il loro governo hanno rinnovato la dirigenza Rai. Insomma le nomine dei direttori di rete sono state avallate da loro stessi.

Nel caso Fedez la presunta censura sarebbe venuta dalla vice direttrice di Rai 3 Ilaria Capitani, già capo ufficio stampa di Walter Veltroni sindaco di Roma. E la direzione di Rai-3, storicamente legata ai partiti di sinistra, è stata affidata a Franco di Mare a maggio 2020. Proprio lui adesso dovrebbe chiarire l’accaduto, davanti alla commissione di Vigilanza della Rai dove il presidente forzista Alberto Barachini lo ha convocato con urgenza “per avviare un’indagine conoscitiva completa”, dopo il discusso discorso al Concertone del Primo Maggio da parte di Fedez, che ha parlato di una tentativo di censura prima che gli fosse permesso di parlare liberamente.

Mentre nel frattempo la fidanzata di Di Mare, Giulia Berdini, su Instagram definisce Fedez “nullità del mainstream” che opera grazie a qualche non meglio specificato “paraculo occulto”, “innocuo come un omogeneizzato plasmon”.

 

Alla fine, la parola ponte il premier l’ha pronunciata, sia pure per levarsi pilatescamente dall’impiccio. In sede di replica ai vari interventi alla Camera, Mario Draghi è stato laconico: «Sul Ponte sullo Stretto non posso dire altro che c’è una relazione pronta ormai, terminata nei giorni scorsi, e sarà inviata dal Ministro delle Infrastrutture al Parlamento per una discussione».

E siamo praticamente fermi da quasi un anno, a voler considerare solo le ultime vicissitudini, ossia da quando l’ex ministro Paola De Micheli insediò il gruppo di studio che ha studiato tanto ma tanto, fino a passare la palla al successore Enrico Giovannini che a sua volta da settimane annuncia questo esito di cui ancora non si vede traccia. Mentre lo stesso ministro pensa nelle more di ammodernare la flotta con traghetti meno inquinanti e capaci di trasbordare “treni corti”.

Il problema non è da poco perché collegato proprio a quell’alta velocità di cui si discute e che, nelle assicurazioni di Draghi, sarà un’alta velocità vera anche da Salerno a Reggio anche se non interamente realizzata entro il 2026, scadenza del Recovery Plan: nel programma Rfi il completamento dell’intero nuovo tracciato è previsto infatti entro il 2030. Scadenza temporale che autorizza un paio di interrogativi.

1) Alcuni tratti non saranno ultimati entro il 2026, tuttavia la parte rimanente viene ricompresa nel Recovery, il che vuol dire che è possibile sdoppiare l’intervento. Ma allora perché non si può seguire la stessa strategia per il Ponte, se il motivo dell’esclusione è motivato dal fatto che il collegamento stabile non verrebbe ultimato entro il 2026?

2) L’ultimo tratto dell’alta velocità, che in Calabria oggi si ferma nella progettazione a Cannitello, è stato concepito in funzione di un futuribile Ponte o no?

3) E’ stato considerato il manufatto con pile in acqua, a campata massima di 2 km che, secondo il prof. Aurelio Misiti, sarebbe pronto in tre anni e con un costo massimo di 2 miliardi? Progetto questo che, nel rifarsi al modello di Akashi, utilizzerebbe tutti gli studi già fatti per il ponte originario tra Scilla e Cariddi ma non ricadrebbe più nella riserva naturale del Peloro, perché il tracciato si sposta a ridosso del centro di Messina e meglio risponde anche all’idea di conurbazione tra le città dello Stretto.

4) Tra Messina-Palermo-Catania, neppure nel 2030 ci sarà l’alta velocità, occorrerà aspettare ancora, chissà se nel 2050: dunque per raggiungere una città del valore mondiale di Agrigento ci vorranno sempre quattro ore?

Speriamo che qualcuno in Parlamento vorrà porre i quesiti al ministro Giovannini e che non arrivino risposte elusive.

Intanto ci sarebbe da rimanere attoniti che mentre si parla di questioni decisive, essenziali per il futuro, l’Ars si preoccupi degli impianti boschivi. Ma non sorprende.

La Sicilia con competenza speciale ed esclusiva in fatto di strade non fa sentire la sua voce neppure in questi momenti cruciali.

Quasi tutti i deputati del parlamento regionale hanno riferimenti di partito al Governo della Nazione, cosa aspettano a insorgere, ribellarsi contro un divario tollerato troppo a lungo? A Sala d’Ercole non potranno più accampare scuse per giustificare che i più importanti capoluoghi sono tagliati fuori dall’alta velocità: se non progettata adesso, penalizzerà l’Isola nei decenni a venire. L’argomento dovrebbe essere quotidianamente nell’agenda lavori a Palazzo dei Normanni come a Palazzo d’Orleans, tutto il resto non vale nulla se non si risolve il problema trasporti.

Ci sono già le prime proteste: i sindaci dell’Agrigentino si recheranno oggi davanti a Palazzo Chigi perché dall’elenco del Recovery è escluso l’anello autostradale Gela – Castelvetrano. Al loro fianco non accorreranno i cento parlamentari (regionali, nazionali, europei) che dovrebbero rappresentare il territorio: loro ricompariranno fra un po’, alla vigilia elettorale, quando però le le jeux sont fait rien ne va plus.

 

 

 

 

Sarà vera svolta? Ai posteri l’ardua sentenza.

Il Piano da oltre 248 miliardi cui è legata la ripresa dell’Italia destina un buon 40% al Sud. Dopo mezzo secolo di arretratezza rispetto al Nord, si delinea un disegno di sviluppo che potrebbe far giustizia di decenni di scippi e disinvestimenti. Recupereremo in fretta ritardi infrastrutturali e socio-economici capaci di far decollare il Mezzogiorno?

Mah! C’è da rimanere frastornati con le cifre da capogiro, la mole sbalorditiva dai cambiamenti radicali che incideranno nel mondo del lavoro, negli aiuti alle famiglie, su Ambiente, Giustizia, Pubblica amministrazione, transizione digitale, consumi energetici, fisco.

C’è tantissimo in questo Pnrr, d’altra parte sono tanti i miliardi per rifondare e riconsiderare tutto. Consistenti le poste per la crescita del Mezzogiorno supportate dal bel preambolo del premier Mario Draghi: “Il potenziale del Sud in termini di sviluppo, competitività e occupazione è tanto ampio quanto è grande il suo divario dal resto del Paese. Non è una questione di campanili: se cresce il sud, cresce anche l’Italia”.

Allora, siamo all’alba di un rinascimento del Mezzogiorno?

Le linee guida sono state tracciate, i progetti seguiranno. Intanto qualcosa si può dire sulle infrastrutture, più percepibili nell’immediato come sinonimo di inversione di tendenza. E qui registriamo al momento una notizia buona, un’altra meno buona, la terza a risposta multipla ritardata, evanescente: da dove cominciamo?

Per essere ottimisti, partiamo dalla prima. Il presidente del Consiglio illustrando ieri alla Camera dei deputati il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” ha rimarcato che l’alta velocità ferroviaria da Salerno a Reggio Calabria è prioritaria e sarà un’alta velocità “vera”. Ecco, questo aggettivo è stato l’elemento più rassicurante della relazione perché spazza via i timori. In verità ad alimentare i sospetti sono alcuni acronimi presenti pure nella stesura finale del Pnrr: si fa riferimento ad un’alta velocità Avr, che sta a indicare velocità di rete cioè ridotta, che non viaggia oltre i 200 km. Comunque il programma delle Ferrovie si completerà entro il 2030, quindi ben oltre la scadenza del Pnrr.

E’ stata la deputata siracusana di Forza Italia, Stefania Prestigiacomo, a sollevare dubbi: si tratta di refusi? Ha chiesto al premier di smentirli e probabilmente Draghi lo farà oggi in sede di replica. Nella fretta di aggiornare, qualche svarione è scappato ma le carte progettuali indicano che in Calabria si lavora a un nuovo tracciato parallelo all’Autosole; abbandona la vecchia linea costiera, passa in gran parte in galleria (specie a Gioia Tauro, Seminara, Scilla) e vede come terminal Cannitello, non più Villa San Giovanni. Qui si annebbia l’ultimo miglio.

La notizia meno buona: niente alta velocità in Sicilia. Nell’Isola è già stata appaltata alla Webuild (per intenderci la società risultante dalla fusione tra il gruppo Salini e Impregilo) la tratta che da Giampilieri arriva a Fiumefreddo per la velocizzazione di rete: la vecchia linea verrà abbandonata, la stazione di Taormina sarà in galleria, all’altezza di Mazzarò, con ascensori che porteranno alla perla dello Ionio. Sempre velocità di rete da Messina a Palermo e da Palermo a Catania: si viaggerà quindi a 160 km orari con punte massime di 200 in alcuni tratti (progettazione peraltro prevista nel decreto “sblocca Italia” varato quando al governo c’era Matteo Renzi).

La terza notizia, più attesa ma inevasa e avvolta nel mistero, riguarda ovviamente il Ponte sullo Stretto. Il premier non ha fatto il minimo cenno, come se non fosse la risposta che massimamente il Sud aspetta ab immemore, la madre di tutte le infrastrutture che il Mezzogiorno sogna da generazioni e al centro del dibattito quotidiano.

Da Draghi niente, neppure una parola, nessun richiamo a quel gruppo di studio insediato lo scorso anno dall’allora ministro Paola de Michele e che il successore Enrico Giovannini aveva preannunciato come imminente già dieci giorni fa. Avremmo scommesso che il silenzio sarebbe stato rotto ieri nella sede più deputata per comunicazioni di tale portata, ossia il Parlamento: invece l’Italia ieri si è fermata a Cannitello. Il premier ci riserva sorprese? Vedremo.

Anche perché Forza Italia come la Lega e Italia Viva da tempo puntano sul Ponte e ieri la Prestigiacomo ha posto una serie di questioni cui il premier Draghi dovrebbe dare oggi una risposta.

“La svolta vera dovrebbe essere collegare la Sicilia a Roma in cinque ore invece delle attuali 12 – ha detto Prestigiacomo – cioè lo stesso tempo che con l’alta velocità del Nord si va da Salerno a Milano, che distano esattamente quanto Roma dista da Siracusa. I cittadini di mezza Italia non meritano nel 2021 un piano di infrastrutture che li mantiene 50 anni indietro. Questa è una straordinaria opportunità che difficilmente si ripeterà. Manca un netto segnale di coraggio, mi riferisco al Ponte, progetto completo e volano economico, turistico, culturale. Cinque milioni di siciliani, l’8% della popolazione nazionale non possono ritenersi integrati nel sistema nazionale ed europeo se ogni mezzo si ferma a Villa e per arrivare a Messina, deve aspettare il ferry boat come ai primi del Novecento, per poi trovare in Sicilia un sistema stradale degna del ferry boat. Il Recovery offre l’unica possibile sostenibilità per realizzare il Ponte; rientrerebbero le opere a terra, e il manufatto da finanziare con le risorse aggiuntive. La beffa? Nel Recovery è inserita la metropolitana di Messina, realizzazione prevista inizialmente tra le opere compensative proprio del Ponte”.

Oggi il premier Draghi dovrà rispondere agli alleati di governo. Esprimere con chiarezza cosa pensa lui del Ponte, tirare fuori al cassetto la relazione conclusiva del gruppo di studio che avrà prodotto qualcosa. Ecco, almeno il diritto sapere.

 

 

 

 

Niente web, tutto in presenza.. tranne l’Odisseo ossia Ulisse “l’irritato” che idealmente, quasi tremila anni dopo, da Itaca è tornato a fare capolino da queste parti per dare il suo nome a qualcosa che rimane ancora leggendario.

E’ già buona cosa l’aver visto insieme i governatori di Sicilia e Calabria, con rispettivi assessori alle infrastrutture, e l’amministratore della più importante società di costruzioni italiane, l’odierna Webuild nata dalla fusione di due colossi del settore come Salini e Impregilo. Doveva accadere molto prima e non solo per il collegamento stabile nello Stretto, posto che le due regioni dirimpettaie hanno tanto da concordare per non rimanere relegate agli ultimi posti tra i territori d’Europa, ma tant’è. Guardiamo adesso al futuro che finalmente le vede insieme per delineare un’unica strategia, partendo proprio da quel tratto di mare di tre chilometri che ha segnato soprattutto gli ultimi trent’anni incidendo nello sviluppo di quest’area, prigioniera di un’opera più volte riproposta e altrettante accantonata.

Oggi la vicenda Ponte diventa “Vertenza Ulisse”: vertenza perché Sicilia e Calabria intendono aprire una controversia con lo Stato puntando all’obiettivo della realizzazione; Ulisse perché col nome del mitico eroe greco d’ora in poi i due presidenti di Regione, Nello Musumeci per la Sicilia e Antonio Spirlì per la Calabria, indicheranno il ponte tra Scilla e Cariddi. In sintonia pure Pietro Salini, pronto da domani a partire con i cantieri se arriverà un via libera.

L’incontro è servito per dire “basta col babbìo del ponte” e rivendicare nel cuore del Mediterraneo, il ruolo di piattaforma naturale per i traffici mercantili che ci passano davanti e si dirigono a Gibilterra finché non ci sarà quell’alta velocità del corridoio Berlino-Palermo che implica la possibilità di attraversare in tre minuti lo Stretto di Messina.

Musumeci è determinato, graffiante: “Il governo Draghi ci dica cosa vuole fare del Ponte sullo Stretto, abbiamo diritto a una risposta definitiva. Basta con gli eterni rinvii e i balletti, altrimenti siamo pronti a farlo da soli. Siamo stanchi di essere considerati marginali rispetto al continente europeo. Per le persone in buona fede i problemi sono tecnici, per quelli in malafede e sono tante nella politica dei palazzi romani, c’è la volontà di mantenere il sistema Italia diviso in due, da una parte il Nord ricco e opulento che produce, dall’altra un Sud povero che arranca e consuma i prodotti del Nord. Finiamola con questa farsa”.

Spirlì non ha risparmiato la sua solita colorita espressione sul Governo che “sta annacando il pecoro”, per dire che continua a tergiversare su un’infrastruttura attesa, dovuta in quanto “porta d’ingresso in Europa per chi arriva dal Canale di Suez e dai Paesi che oggi detengono un grande potere economico, come Cina e India, ormai ago della bilancia dell’economia mondiale, e il continente africano che, nei prossimi decenni, sarà l’interfaccia naturale con l’Europa. Non è dunque ammissibile che i primi territori europei non siano tra loro collegati. L’Europa ha l’obbligo di crearlo”.

Manca insomma solo la volontà politica, perché a sentire l’ad di Webuild Pietro Salini, sul piano della fattibilità tutto è stato studiato, l’iter burocratico già perfezionato, pagine di approvazioni, il progetto esecutivo c’è dal 2013, e la capacità operativa del suo Gruppo, testimoniata dai numerosi ponti costruiti in giro per il globo, è garanzia di affidabilità nonostante le difficoltà che un’arcata di oltre 3 km presenta indubbiamente, non essendoci al mondo niente di simile: “La differenza tra i Paesi che crescono e quelli che annaspano – sottolinea – è anche nella capacità di creare le grandi opere, di creare prospettive e di essere attrattivi”. E a rimarcare la valenza del Ponte ha messo sul piatto un aspetto non proprio marginale: ventimila posti di lavoro nell’immediato, cioè entro un anno; quasi centomila nel prosieguo.

Non si è fatto cenno ad altre ipotesi di ponte: come quello proposto dall’ing. Aurelio Misiti con pile in mare e un’arcata centrale di 2 km che lo renderebbe più sicuro almeno per i treni; né al tunnel in alveo. O meglio una battuta tranchant sul primo è arrivata da Salini: proporre nuove opzioni significa riparlarne tra dieci anni. Il tunnel non è stato proprio considerato.

All’iniziativa catanese del network “Lettera150”, rappresentato da Felice Giuffré, hanno partecipato l’ex ministro Pietro Lunardi, il prof. Enzo Siviero di Venezia e gli assessori alle Infrastrutture delle due Regioni, Marco Falcone e Domenica Catalfamo, e il sindaco di Villa San Giovanni, ad attestare che si vuole fare squadra in modo serio e mutato rispetto a prima. Un dialogo appena cominciato e si vedrà quanto foriero di risultati. Sarebbe già qualcosa se, nelle more, si potesse sbarcare e trovare stazioni non da terzo mondo e magari una scala mobile funzionante a Villa San Giovanni per non dover portare a spalla i bagagli fino al binario.

Riconoscendo con schiettezza che ad “annacare il pecoro” per tanto tempo e in mille situazioni non sono stati solo i governanti a Roma.

 

 

Sono annunciati in arrivo al Sud tanti di quei miliardi da rimanere storditi. Mai prima d’ora si erano affacciate all’orizzonte opportunità simili e tutte in una volta. Così importanti nelle cifre e stringenti sui tempi che appare quasi difficile crederci. E’ vero che se ne parla da mesi e ancora non si è visto il “Piano nazionale di rilancio e resilienza” da consegnare a fine mese a Bruxelles nell’ambito del Recovery Fund, ma è altrettanto vero che ormai è alle battute finali e già oggi dovrebbe approdare in Consiglio dei ministri per essere poi varato domani e presentato alle Camere la prossima settimana.

Un percorso tormentato cui in gran fretta ha dovuto rimediare il governo di Mario Draghi per riconsiderare la prima e seconda bozza del predecessore Giuseppe Conte, entrambe carenti di quelle riforme che l’Europa sollecita per scucire i quattrini: un intreccio tra interventi, infrastrutture, investimenti e progetti riformatori a cominciare da Pubblica amministrazione e Giustizia.

Il Pnrr dovrebbe portare insomma a una riscrittura dell’organizzazione statale e porre le premesse per quella semplificazione invocata e troppo spesso annunciata senza alcun esito, ai vari livelli centrale e regionale.

Tra Recovery Fund (oltre 220 miliardi); React-Eu (13,5); fondi strutturali 2021-2027 (43 miliardi più altri 40 di cofinanziamento nazionale e regionale; programmazione 2021-2027 del Fondo di sviluppo e coesione con l’80% riservato al Sud, si tratta di cifre da capogiro. Non a caso si è fatto riferimento per la mole di investimenti al Piano Marshall che nel Dopoguerra modernizzò il Paese ed ebbe un ruolo rilevante nel diffondere una nuova mentalità imprenditoriale, dare lavoro, far ripartire l’economia.

C’è però una non trascurabile diversità di contesto: negli anni ‘50 l’intero Paese si ritrovò unito nella ripartenza, oggi il punctum dolens è proprio la pubblica amministrazione, il rapporto centro-periferia, la normativa sugli appalti, le responsabilità, le competenze, i contenziosi che seguono a ogni cantiere. C’è allora da chiedersi se siamo pronti per impiegare le risorse che arriveranno. Perché se in condizioni di ordinaria gestione non riusciamo a utilizzare per intero i fondi e spesso si rischia di restituirli, che ne sarà nel momento in cui tutto d’un tratto in poco tempo si dovrà progettare, aprire i cantieri, realizzare le opere fino al compimento?

In questo giornale abbiamo citato il caso dei lavori per la via don Blasco a Messina, con definanziamento dell’importo perché a dire del Ministero delle Infrastrutture la Regione non ha proceduto a presentare la documentazione sugli stati di avanzamento. Oggi, su viale Europa, a Messina, in quel cantiere campeggia il cartellone “Strada di collegamento tra il viale Gazzi e l’approdo Fs per via Don Blasco”: consegna lavori 3 dicembre 2018; fine lavori 11 marzo 2020”.

Come fine lavori? Il cantiere è lì, recintato, fermo ancora un anno dopo. Nel cartellone, i nomi del responsabile del procedimento (ing. Silvana Mondello), del direttore e progettista (ing. Antonio Rizzo), dell’impresa appaltatrice (Consorzio stabile Medil) sono sovrastati dai loghi di Autorità Portuale, Comune di Messina, Regione-Assessorato infrastrutture e mobilità: qualcuno potrà dire che fine ha fatto il programma, se dopo un anno dalla prevista fine dei lavori, tutto è bloccato.

L’Ars che si trastulla a parlare in modo inconcludente, dove si presentano 50 interrogazioni sull’organizzazione Covid per chiedere le dimissioni del governatore Musumeci, non ritiene di affrontare questi temi molto più seri? Non è forse il momento di pensare a come strutturarsi per sfruttare i prossimi finanziamenti ed essere pronti al nuovo Piano Marshall?

 

Che bella e specialissima Sicilia, qui dove il tempo sembra essersi fermato… al carretto!

Come venti anni fa siamo ancora al dilemma: ponte o tunnel… o meglio qualcos’altro? Ed ecco che in una visione “euromediterranea” si fa largo la proposta di un’ennesima moratoria. Insomma: sì, no, ni.

Intendiamoci, parliamo di un’infrastruttura ineludibile, perché è nell’essere umano collegarsi, comunicare, unire due sponde, agevolare il transito. Ma come si fa a immaginare un’opera di tale ingegno e complessità affidata alla discussione di un Parlamento, che dovrebbe pronunciarsi per approdare a uno scontato nulla di fatto? Mentre nella Sicilia azzoppata da decenni di abbandono si viaggia ancora a scartamento ridotto. E di sessennio in sessennio opere fondamentali come ferrovie, portualità, autostrade rientrano nell’Agenda europea… per rimanervi solo scritte.

L’interrogativo ponte o tunnel riaffiora nelle dichiarazioni dell’attuale ministro Enrico Giovannini che annuncia come imminente l’ufficializzazione del responso della commissione di studi insediata dal suo predecessore Paola De Micheli; esito atteso da mesi e che a quanto pare lascia aperta la conclusione persino a una terza via, quella dei treni-corti da imbarcare sui ferryboat.

Che mirabolante coup de théatre!

Diciamo pure che la Sicilia, da sempre, ci ha messo di suo per non farsi valere: troppo a lungo si è trastullata in dibattiti inutili all’Ars, continua a farlo senza prendere consapevolezza che i trasporti sono la pre-condizione di qualsiasi ipotesi di sviluppo. Dalla salute alla mobilità, dall’economia alla protezione civile, dai beni culturali al turismo, all’industria, all’agricoltura: senza un’efficiente rete ogni iniziativa è destinata al flop. Infatti, carenti ancor oggi di strade e ferrovie, siamo all’anno zero. A Sala d’Ercole si parla, straparla, dibattiti fiume sul nulla, a volte talmente surreali da non sembrare veri, mentre le due sole autostrade Me-Pa e Pa-Ct sono tali sulla carta ma nella realtà percorribili per lunghi tratti ad unica carreggiata.

I dirigenti dei vari rami dell’amministrazione non dialogano, se lo fanno pare che ragionino nella logica dell’unicuique suum, talvolta con l’antica filosofia del “fotticompagno” nel senso di non mollare competenze, rivendicarle, accapigliarsi quando si tratta di drenare risorse, senza contribuire a obiettivi comuni di crescita, senza pensare in grande, lavorare in squadra a programmi di prospettiva. Alla fine tutto si annacqua nel groviglio di competenze. Per rimanere in tema di trasporti: tra assessorati Territorio e Ambiente con la Protezione civile; Infrastrutture con i Geni civili; Presidenza con il Cas e poi Anas, Ferrovie, ex Province, Comuni.. c’è mai stata una cabina di regia?

Qualche anno fa si è pure brindato a bordo di un Minuetto che entrava in servizio nella tratta Palermo-Catania per coprire i 200 km in tre ore… quanto da Roma a Milano (per il triplo di distanza)!

Sul Ponte, negli ultimi due decenni, la Regione non ha mai prodotto uno studio politico-programmatico che valorizzando il ruolo della Sicilia piattaforma strategica nel Mediterraneo ne disegnasse la prospettiva di medio-lungo termine per rivendicare a Roma e Bruxelles prerogative esclusive e diritti, con tanto di atti di Giunta e determinazioni del Parlamento.

Per non dire che le due regioni dirimpettaie, fino a un paio di anni fa si sono guardate senza parlarsi: su entrambe le sponde si è preferito disporre l’animo alla rassegnazione.

Adesso il Recovery Plan ha suonato la sveglia e qualcosa, seppure in ritardo, si muove.

Giovedì 22 pomeriggio, nella sede catanese della Regione, il governatore siciliano Nello Musumeci e il presidente facente funzioni in Calabria Antonino Spirlì firmeranno il protocollo per il Ponte da consegnare al premier Mario Draghi. Un passo significativo che fa seguito all’incontro web di Palazzo Chigi coi presidenti di Regione, occasione in cui Musumeci non ha risparmiato critiche nel metodo e nel merito per come è stata gestita da Roma la fase preparatoria. Si arriva sul filo di lana ma è un primo procedere insieme, foriero di progressi se sarà accompagnato dalla fermezza dei propositi di portare comunque avanti il progetto di collegamento stabile, a costo di giocare il jolly della competenza esclusiva siciliana in tema di Trasporti. E far valere almeno una volta la specialità dello Statuto.

 

 

Il previsto arrivo di tanti soldi col Recovery Plan sembra finalmente aver svegliato gli amministratori del Sud. Si coglie un sussulto di orgoglio, di legittima rivendicazione di diritti come mai prima. Sarà perché l’appiattimento nei confronti dei capi partito va scemando dal momento che sono scomparsi i partiti dai territori; sarà la potenza di una messe di risorse come non accadeva dal Dopoguerra e inimmaginabile prima della pandemia; sarà infine che l’asfissiante condizione di arretratezza infrastrutturale e socio-economica rispetto al Nord del Paese ha fatto esplodere l’inaccettabile divario; sarà perché il mondo attorno corre e si è presa consapevolezza che qui siamo fermi a mezzo secolo fa.

La lettera di cinquecento sindaci meridionali indirizzata direttamente alla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen (che ieri si è vaccinata) è una misurata ma ferma richiesta di porre fine allo squilibrio tra due pezzi del Paese per rimediare all’iniquo intervento statale che dall’Unità d’Italia si perpetua a vantaggio del Nord e consentire al Mezzogiorno di decollare. La richiesta è molto semplice e netta: rispettare il vincolo di destinare due terzi dell’intero budget di oltre 200 miliardi al Mezzogiorno. Qual è il timore? Che invece del 70% ne arrivi la metà, ove si decidesse di distribuirli sulla base della popolazione come alcune voci farebbero paventare.

L’appello dei 500 a Bruxelles, fa il paio con le dichiarazioni di alcuni governatori regionali che nel recente incontro web col premier Mario Draghi non hanno risparmiato critiche al modo di procedere del Governo precedente in tema di Recovery.

L’iniziativa partita da Davide Carlucci, sindaco di Acquaviva delle Fonti, nel barese, sposata dai primi cittadini delle grandi città (Napoli, Palermo, Catania, Taranto, Reggio Calabria ecc.) che rappresentano sei milioni di cittadini, arriva a ridosso della consegna a Bruxelles del Piano nazionale di spesa da parte dell’Italia, prevista entro il 30 aprile.

C’è da aggiungere che nelle more del mega piano europeo, il Ministero della funzione pubblica ha varato un programma di assunzione di 2800 unità tra tecnici, ingegneri, informatici per dotare i comuni di personale adeguato riconoscendo che la limitatezza dei bilanci comunali non ha consentito lo svecchiamento della pubblica amministrazione che a maggior ragione adesso, nella prospettiva di far fronte a nuove importanti azioni di rilancio, ha bisogno di poter contare su organici più giovani e qualificati nell’utilizzo delle nuove tecnologie che concorrano all’obiettivo primario imposto dal Piano Recovery: “spendere e spendere bene”.

Il Sud ha bisogno di colmare troppi ritardi: dall’alta velocità alla banda larga, da strade adeguate ai collegamenti marittimi. Si tratta di cogliere appieno questa occasione unica, favoriti dalla presenza alla guida del Governo di un uomo di straordinario livello, estraneo alle logiche dei partiti e quindi garanzia per portare avanti una rivoluzione che nell’invertire davvero la strategia nordista finora prevalente, faccia recuperare al Sud il secolare abbandono per riallinearsi a

 

 

Con la furbizia politica che gli è propria Gianfranco Miccichè ha cercato di anticipare le mosse degli alleati e gettato il primo sassolino nello stagno per cominciare a smuovere le acque dal momento che si prepara già la campagna elettorale per il prossimo anno.

Si è votato a novembre 2017, i cinque anni scadono nell’autunno 2022 dunque è tempo per pensare all’avvenire del quinquennio successivo con nomi e alleanze possibili da mettere in campo. E per il presidente dell’Ars, il primo interrogativo è se l’attuale presidente della Regione Nello Musumeci è intenzionato a ricandidarsi… di fatto escludendolo, dal momento che si è affrettato a dichiarare in un’intervista: “sembra che non voglia più fare il governatore”. Dichiarazione inserita in un contesto di critiche alla gestione di alcuni assessorati, al recente discorso di Musumeci sulla vicenda Sanità e quindi sulle dimissioni dell’assessore Ruggero Razza, sulla poca capacità di ascolto da parte di Palazzo d’Orleans rispetto a Palazzo dei Normanni cioè del Parlamento.

Da qui un secondo affondo: «È necessaria una riunione di maggioranza, e sarò io a convocarla, perché se qualcuno pensa che a un anno e mezzo dalle elezioni noi possiamo dare questo spettacolo si sbaglia. Così non si può andare avanti. Ci vuole più capacità, ma prima ancora più disponibilità, di ascolto da parte del governo regionale e del presidente Musumeci”.

Prese di posizione che nel Centrodestra suonano come note stonate, quindi la reazione: Miccichè parla da presidente dell’Ars, da capo partito, da capo corrente o addirittura da capo coalizione? E gli contestano quella mancanza di terzietà che da presidente dell’Assemblea regionale dovrebbe assumere, senza arrogarsi ruoli di parte e ancor meno la pretesa di essere lui a convocare una riunione di maggioranza.

I giochi sono aperti, intanto per manovre preliminari. Sembra presto ipotizzare accordi, quando nel mezzo ci sarà l’elezione del Capo dello Stato, a inizio 2022, e a livello nazionale i rapporti tra i partiti registreranno nuovi assetti che inevitabilmente, per cascata, avranno ripercussioni.

Sin dalla campagna elettorale precedente, i rapporti Musumeci-Miccichè non sono stati mai idilliaci, i due si sono sopportati vicendevolmente e il tandem ha funzionato. Altrettanto si può dire dell’ormai consolidata avversione per l’assessore all’Economia Gaetano Armao che Micciché avrebbe voluto liquidare da tempo (“il Gruppo di Forza Italia non lo sopporta perché non si è mai fatto il mazzo per candidarsi, prendere voti ed essere eletto”), cui si aggiungono le non gradite pressioni esercitate dall’assessore Falcone sul referente per gli enti locali Maurizio Gasparri volte a un intervento diretto di Berlusconi per evitare quel rimpasto di giunta che Gianfranco avrebbe voluto, e stoppato proprio da Arcore.

Forza Italia all’Ars è cresciuta, diventando il primo partito ma tradurre i nuovi acquisti in numeri elettorali è azzardato: troppe variabili si combinano nel percorso accidentato che seguirà in questo anno.

Incognite che caratterizzano anche il bis di Musumeci il quale dovrà rafforzare la propria leadership trovando altri consensi, forse in ambito Lega o con i centristi-renziani che si stanno riorganizzando.

 

L’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, nella vicenda dello sbarco dei migranti da nave Gregoretti al centro dell’udienza preliminare nell’aula bunker di Catania, “non ha violato alcuna delle convenzioni internazionali”, le sue scelte sono state “condivise dal governo” e la sua posizione “non integra gli estremi del reato di sequestro di persona” perché “il fatto non sussiste”. Lo ha detto il Pm Andrea Bonomo che, a conclusione del suo intervento in aula davanti al Gup Nunzio Sarpietro, ha ribadito la richiesta di non luogo a procedere nei confronti dell’ex ministro.

La Procura di Catania – riferisce l’Ansa – nella richiesta di archiviazione aveva scritto che “l’attesa di tre giorni non può considerarsi una illegittima privazione della “libertà”, visto che le “limitazioni sono proseguite nell’hot spot di Pozzallo” e che “manca un obbligo per lo Stato di uno sbarco immediato”.

Inoltre, aveva osservato il pm, “le direttive politiche erano cambiate” e dal 28 novembre il Viminale aveva espresso la volontà di assegnare il Pos e di “farlo in tempi brevi”, giustificando “i tempi amministrativi” per attuare lo sbarco dei migranti “con la volontà del ministro Salvini di ottenere una ridistribuzione in sede europea”. Inoltre sulla nave “sono stati garantiti assistenza medica, viveri e beni di prima necessità” e “lo sbarco immediato di malati e minorenni”.

Si chiude una vicenda il cui esito era già scritto dall’inizio, ancor prima che la giunta per le autorizzazioni a procedere lo spedisse a giudizio. Povera politica, che squallore! Persino davanti all’evidenza, per vili calcoli d tornaconto, se ne lava le mani, rinunzia a far valere il proprio ruolo, delega ai pm salvo a dolersi quando poi un avviso di garanzia sfiora i “giustizialisti”.

Povera politica! Ancora ieri sera in tv il dem Gianni Cuperlo, deputato dal 2006, arrampicandosi sugli specchi, ha cercato di giustificare il rinvio del leader della Lega Salvini al cospetto di un tribunale per un reato inesistente. Quando si dice più realisti del re: i colleghi parlamentari, renziani compresi, si sono sentiti talmente custodi della legalità da risultare più severi dei pm! Tutti sapevano che Salvini aveva operato con l’avallo dell’intero Governo Conte-1, anche se in un’udienza l’ex ministro grillino Toninelli si era trincerato dietro un “non ricordo, è passato tanto tempo”.

Ma quale tempo? Certo è passato il tempo da un governo all’altro di colore diverso e l’ex alleato andava demonizzato. Ma che politica è questa?

Tante udienze, viaggi su e giù di imputato e ministri testimoni per e da Catania, spese varie e un inutile teatrino dall’esito scontato. Quale senso doveva avere il processo a un ex ministro dell’Interno per sequestro di persona, se non quello di colpirlo politicamente per via giudiziaria?

Nessuno ha riflettuto sulla figuraccia dell’intero governo, semmai fosse passata la tesi che Salvini aveva operato di testa sua, ad insaputa degli altri ministri e dello stesso premier?

E ora che il non luogo a procedere si è tradotto in un boomerang per Pd e Cinquestelle, neppure il pudore del silenzio.

 

L’incidente nel Canale di Suez, con la mega porta container arenatasi, ha riacceso l’attenzione sul ruolo determinante della logistica nel governo dell’economia mondiale per gli scambi, per la movimentazione delle merci, la logistica “è la chiave che può garantire o bloccare la crescita”.

Nel piano cinese della Via della seta, solo Genova viene preso in considerazione come hub portuale strategico e quindi l’intero traffico che passa dal Mediterraneo, transita e basta; non vi sono porti, piattaforme adeguate a intercettare tale flusso né previsioni capaci di far intravedere una diversa strategia per il futuro. Negli ultimi decenni è mancata qualsiasi visione di sviluppo mentre un programma serio di investimenti va preparato per tempo e deve guardare ai decenni successivi. Lo hanno capito alcuni paesi africani che si stanno attrezzando, candidandosi nel medio termine ad assumere protagonismo, quasi una beffa per la Sicilia che, nonostante la sua naturale centralità nell’area, si vede scavalcata a nord e a sud. E quando mai a Sala d’Ercole si è discusso di questi problemi, pensando alla Sicilia e non al vile tornaconto dei singoli?

Adesso si spera nel Recovery Plan per recuperare ritardi e influenza ma col passare delle settimane e il sovrapporsi di tesi e dichiarazioni, si ha l’impressione che ancora una volta sarà mancato l’obiettivo di dotare il Mezzogiorno di quanto serve in una visione internazionale che vada ben oltre il 2026, anno di fine lavori per il Recovery che, come dice il premier Mario Draghi, deve proiettarci al 2050. E fa rabbia vedere imprese italiane che realizzano imponenti infrastrutture altrove, incontrano accoglienza e facilità operative in governi stranieri mentre qui ci trastulliamo ancora, dopo mezzo secolo, a dire meglio fare prima questo e non quello e in attesa di scegliere, paralizzarsi senza fare nulla, soprattutto per mancanza di un piano di prospettiva e di decisioni che pure quando assunte vengono continuamente ridiscusse.

Il rimpallo Stato-Regioni non ha aiutato e continua a essere motivo frenante, probabilmente funziona anche da comodo per rinviare e pilatescamente non operare.

Fa rabbia allora assistere ai dibattiti che si consumano all’Ars sul nulla. Sedute con dibattiti evanescenti, sterili, inconcludenti, utili solo al protagonismo inane dei deputati che si alternano al podio per pontificare persino in modo sgrammaticato.

Di questo passo, dal 15 maggio 1946 quando re Umberto II, su proposta del consiglio dei ministri presieduto da De Gasperi, approvò lo Statuto della Regione siciliana quando la Repubblica doveva ancora nascere, sono passati 75 anni e la riflessione su cosa ne è stato di quella specialissima autonomia, appare mero esercizio storico. Doveva tradursi in un quid pluris ma la differenza è rimasta nel nome: quel “siciliana” e non Regione Sicilia. Un suffisso costato atti di eroismo, ma nulla di più. Adesso parlarne, in una regione che di speciale somma una serie di primati negativi, appare ridicolo.

Eppure in quel “siciliana” analogo di repubblica “italiana” si racchiudeva un rapporto paritario, l’amplissimo potere normativo e gestionale che ne faceva una nazione nella nazione: lo Stato ci ha lasciato fare… e il gap infrastrutturale è divenuto incolmabile. Eppure l’autonomia ci riconosceva potestà esclusiva pure nei trasporti e sarebbe bastato dirottare i soldi della formazione su opere indispensabili alla crescita e allo sviluppo per invertire la rotta.

Nell’Isola prevale un’altra “visione”, la strategia utilitaristica da decenni, cioè il circuito perverso politica-consenso elettorale-poltronismo-nominificio. Il resto è tuttora pantomima.

Si va avanti di emergenza in emergenza tra un’elezione e l’altra. Con questo andazzo elemosinante, è utopia ogni anelito di riscatto, meno che mai pensare di attrarre investimenti: sceicchi, manager cinesi o russi in visita, apprezzano la Cappella Palatina, un buon bicchiere di Etna rosso o di Alcamo bianco e vanno via.

Rinunciatari sono gli stessi imprenditori locali che credono poco negli annunci, nei fumosi programmi di trasporti marittimi, internazionalizzazione, potenziamento della viabilità, valorizzazione di territorio, turismo, beni culturali… quando persino arrivare nella Valle dei Templi è ancora oggi un viaggio interminabile, ovviamente da fare solo in auto perché il treno non esiste.

Non avrebbe scandalizzato il costo dei nostri burocrati se almeno avessero aiutato l’Ars e Palazzo d’Orleans a parlare di cose serie, varare riforme, programmi impegnativi.

Invece, seguitiamo ad aspettare che altri decida per noi e ad accontentarci di briciole e rattoppi.

 

 

 

 

Da dieci anni combatte una battaglia in solitario contro la Corte dei conti, l’unico ramo di giustizia assieme al Tar che non è suscettibile di giudizio terzo di garanzia, cioè da parte della Cassazione come avviene per le pronunce del giudice ordinario e di tutti gli altri giudici anche speciali. La Corte esaurisce la funzione al suo interno: un’abnormità giuridica ma così è!

Si tratta di verdetti che toccano il portafogli non la libertà personale degli amministratori pubblici non per questo meno logoranti sull’esistenza di una persona quando, per un diabolico incidente, finisce per vedersi pignorare l’intero patrimonio frutto di una vita, e magari quello ereditato. E’ il caso dell’on. Carmelo Incardona, già presidente della Commissione Antimafia e assessore regionale al lavoro “vittima di una delle più grandi porcate della storia giudiziaria contabile” come lui stesso si definisce.

Sappiamo bene che se la Giustizia si accanisce, altro che summum jus summa iniuria, resta solo l’iniuria, come è accaduto nella vicenda degli extra budget agli enti di formazione della Regione siciliana su cui posero gli occhi la Corte dei Conti e la Procura di Palermo: quest’ultima escluse qualsiasi illecito penale mentre i giudici contabili ritennero che alcuni enti formativi, pur senza scopo di lucro, avessero intascato per i corsi negli anni 2007-2009 somme non dovute; sebbene in sede di rendicontazione fossero state giustificate da maggiori spese, conseguenti a surplus di crediti del personale rispetto al progetto originario.

Tali spese peraltro erano state valutate ammissibili dagli uffici amministrativi periferici e centrali della Regione che approvarono il pagamento dietro parere favorevole di vari organi interessati dal procedimento.

Niente da fare: la Corte dei conti ha condannato i vari assessori succedutisi in quel periodo, cioè Luigi Gentile, Santi Formica e Carmelo Incardona, a rimborsare quanto era stato liquidato in più agli enti: il primo per la somma di circa 200mila, il secondo 360mila e Incardona 850mila (calcolo derivante da una percentuale in base agli importi firmati).

Secondo la Procura regionale della Corte dei conti nessuna integrazione del finanziamento originario è mai possibile, perché nessuna norma primaria o secondaria legittima l’ente privato a richiedere (e la Regione ad erogare) somme ulteriori rispetto a quelle oggetto della richiesta di finanziamento e predeterminate nel decreto di finanziamento.

Siamo nel 2015, l’intransigenza giudiziaria si abbatte come una ghigliottina sugli amministratori pubblici ed è impresa improba far prevalere che si tratta di una tesi infondata; a nulla vale il riferimento specifico ai precedenti orientamenti giurisprudenziali della Corte di cassazione, del Giudice ordinario e della stessa Corte dei conti, tutti pacifici e costanti da circa trent’anni confermati anche dalla giurisprudenza palermitana.

Per inciso, nel frattempo l’Assessorato si è attivato per ottenere dagli enti beneficiari la restituzione, cosa avvenuta per compensazione. L’ente però, seppur rifocillato dal recupero, non ha fermato l’azione risarcitoria nei confronti dei tre assessori che intanto erano stati condannati a pagare.

Doppia ingiustizia? No… tripla!

Perché anni dopo, esattamente nel 2019 un Giudice del Tribunale di Palermo, con sentenza a firma della dottoressa Alida Marinuzzi, stabiliva in esito ad altri casi, esattamente quanto Incardona ha sostenuto nei vari ricorsi e cioè che il provvedimento delle integrazioni extra-budget era ed è tutt’ora un atto dovuto. Un’identica questione, dunque, valutata e definita in modo diametralmente opposto, questa volta dal giudice ordinario.

Quindi l’atto originario, da cui è scaturito il procedimento, era legittimo? Sì.

Ma ormai per Incardona, che si è visto pignorare tutto a garanzia degli oltre 850mila euro richiesti, quella sentenza è definitiva: la Corte dei Conti non ammette appelli e giudizi di legittimità sul suo operato.

Qui non soccorre neppure la vicenda del mugnaio Arnold, non ci sono soprusi per sperare in un giudice a Berlino. C’è di peggio: l’irragionevolezza di una giurisdizione che nel negare la revisione di una sentenza, pervicacemente impone l’intangibilità delle sue regole anche quando l’errore marchiano è imperdonabile e catastrofico per chi incappa nelle sue maglie. Così, dopo dieci anni di tormento e un debito che ha già sfiorato il milione, ingiustizia è fatta!

 

 

Prime conseguenze della Brexit nei paesi europei rimasti fedeli alla bandiera unica azzurra: dopo l’uscita della Gran Bretagna, l’Unione europea ha deciso improvvisamente, come ripicca, di modificare il codice della strada in tutti i Paesi dell’Unione, passando dalla guida a sinistra a quella a destra, così da non lasciare al regno unito questa peculiarità. Il provvedimento è operativo dal primo aprile, proprio quando un eccezionale allineamento di Plutone e Giove previsto per le 9:47 annullerà per qualche istante gli effetti della gravità terrestre, facendo fluttuare per pochi attimi tutti gli abitanti del Vecchio continente che proveranno così l’ebrezza degli astronauti.

Ma non è tutto, perché sempre l’Ue ha stabilito che da oggi gli animali per strada dovranno essere muniti di targa per poter circolare e quindi essere riconoscibili.

Di questo passo da decenni sorridiamo prevalentemente su giornali e tv del primo aprile, anche se ormai sui social tutto l’anno è primo aprile.

Al pesciolino in salsa siciliana ha abboccato “mg” dell’ufficio stampa della Regione. Si è indignata per la nota dell’addetto stampa M5S che riportava una lunga dichiarazione del presidente Nello Musumeci, e poi in calce il seguente annuncio bomba di Antonello Musumeci: “è ora di dire la verità ai Siciliani: se Roma continua a dare i numeri per nascondere la propria volontà di non finanziare il Ponte sullo Stretto, faremo da soli, utilizzando gli avanzi del bilancio 2020 già certificati dalla Corte dei Conti. Il ponte è oggi più che mai lo strumento per sconfiggere il virus del sottosviluppo. Vedranno con che cavalli di Razza hanno a che fare”.

Immediata la reazione di mg: “Apprendiamo di una nota diffusa dalla email di tale Pietro Nomade Galluccio, contenente false dichiarazioni attribuite al presidente Musumeci. Se le false dichiarazioni non dovessero essere immediatamente smentite, si procederà per le vie legali”.

Che?

Sì, proprio così! Nella foga mg ha letto in Antonello Musumeci il nome del suo presidente che tutti sappiamo chiamarsi Sebastiano, detto Nello. Certo, si poteva equivocare… ma oggi è primo aprile!

L’autore in risposta non si è limitato a farglielo notare. No. Chiede ora conto a Palazzo d’Orleans chi sia “mg” visto che le iniziali non corrispondono ad alcun nome fra quelli che ufficialmente risultano avere titolo a parlare per conto dell’ufficio stampa o come consulenti del Presidente.

Che trattasi della neo portavoce Michela Giuffrida l’hanno capito tutti. Vuoi vedere che ancora non c’è stato il tempo di annotare il suo nome nel sito “Amministrazione trasparente”?

Ahi… tempi della burocrazia!

 

Gianfranco Micciché ricorda lo slogan della grappa Candolini: è come appare. Chi lo conosce sa che la prorompente spontaneità lo porta a essere sempre se stesso in privato e in pubblico, a tavola o in salotto, per strada o al microfono, nel chiuso della sua stanza o assiso sullo scranno di presidente dell’Ars. Soprattutto quando perde la trebisonda dà il meglio, esterna l’innata esuberanza, si produce in scatti irruenti e fa emergere il carattere focoso, ardente, impulsivo, sanguigno che stordisce i flemmatici ma appassiona i calienti. E gli uomini con forte personalità non sempre tornano graditi e sono apprezzati.

L’ultimo episodio è dell’altro ieri in Aula, quando gli hanno comunicato la notizia che il Covid era entrato nel Palazzo con un contagiato, cioè l’autista del ragioniere generale, e forse altri specie negli uffici della Commissione Bilancio in questi giorni al lavoro anche di notte per esitare la Finanziaria e porre fine all’esercizio provvisorio.

Nello schizzare fuori dalla pelle, ha tuonato in Sala d’Ercole con eloquio non proprio forbito dato l’alto magistero ma il tanto efficace per un aulico “vaffa” ai rivoluzionari della casta: “Quando dicevo che i politici dovevano farsi il vaccino qualcuno obiettava che sono uno st****o capitalista che vuole ammazzare i giovani e le altre categorie… ne parleremo in altro momento. Sono talmente inc****to… perché quando ho detto che dovevamo vaccinarci, sono stato preso per il c**o; sono talmente inc****o che vorrei ammazzare qualcuno. Lasciatemi stare, parliamo serenamente perché non possiamo far altro che questo, perché era sicuro che col tipo di lavoro che facciamo saremmo stati contagiati, era matematico. Ma siamo la casta e guai a chi tocca la casta!… ci sono i poveri, gli altri, gli avvocati, i magistrati, ci sono tutti e quindi noi siamo la casta di m***a che non dobbiamo ottenere niente. Scusate se ve lo dico ma io rischio la vita. come il presidente Savona (Commissione Bilancio) e tanti di voi, su questo maledetto argomento. La seduta è conclusa”.

Andate in pace? Macché, è già guerra!

Guerra aperta ai grillini. Con loro ce l’ha Micciché e a buon ragione. Sono stati i Cinquestelle nelle scorse settimane a insorgere contro la possibilità di vaccinare i parlamentari. Adesso questo sciocco senso del pudore, del sentirsi “cittadini” che non devono chiedere mai, umili tra gli umili; di interpretare il ruolo di servizio, come se qualsiasi prerogativa fosse un insulto, rischia di paralizzare per altri 30 giorni l’attività degli enti ai vari livelli, compresi privati e aziende che dall’approvazione della Finanziaria attendono risposte e pagamenti.

Ben altre cose potrebbero scandalizzare gli inquilini di Palazzo dei Normanni, non certo l’opportunità di vaccinarsi rapidamente, come accordato ad altri che svolgono compiti magari meno delicati di chi è chiamato a legiferare nell’interesse generale.

“Io ho 67 anni e se mi becco il Covid sono a rischio e come me il presidente della Regione Nello Musumeci qui al mio fianco e con qualche mese in più”, sbotta poi Micciché lasciando la seduta.

Lavori sospesi, in attesa dei tamponi a tutti; per alcuni quarantena prudenziale.

 

 

E’ argomento di grande dibattito tra amministratori, consiglieri e soprattutto tra i cittadini: l’area dell’ex Teatro in Fiera, ormai liberata da quell’edificio orrendo, può essere salvata da una nuova costruzione? Vale la pena abbandonare il progetto dell’Autorità portuale che intende recuperare la volumetria per insediare i propri uffici oltre a sale congressuali?

L’aver scoperto un affaccio sullo Stretto di tale eccellente valore merita di riconsiderare la scelta fatta a tavolino, sulla base di planimetrie e di rendering che non hanno potuto tenere in conto la potenza del paesaggio nella sua esplosione di bellezza per come si è appalesata una volta raso al suolo quello scatolone brutto e inutile. Un colpo d’occhio di rara attrattiva che abbraccia l’azzurro spaziando fino alla Calabria senza alcuna alberatura o ostacolo alla visuale totalizzante; naturale estensione e ampliamento dell’affaccio a mare che, proprio nell’ottica del recupero urbanistico in chiave ecologica, va riconsiderato.

Tanto più che in posizione contigua esiste un altro edificio, perfettamente idoneo con interventi di modesto importo, a essere destinato all’uso programmato, cioè gli uffici dell’ente, somma di gran lunga inferiore al costo previsto per la nuova realizzazione (sette milioni). Poiché si tratta di un progetto già appaltato, andrebbe rescisso il contratto e si dovrebbe pagare una penale all’impresa aggiudicatrice, a quanto pare circa 700 mila euro, cioè il 10% dei lavori.

L’area riconquistata, così com’è oggi, con l’affresco naturale che ipnotizza chiunque si trovi a passare da viale Libertà vale 700mila euro?

Trincerarsi dietro distinguo e commi burocratici, tirando in ballo un Piano del porto che una volta approvato non può essere modificato perché aprirebbe altre problematiche, sarebbe catastrofico per la Città che ha bisogno di tornare a riappropriarsi del suo affaccio, di guardare al mare non dare le spalle. Ciò vale anche per l’area dell’ex gasometro dove si paventa un’altra follia: un parcheggio multipiano!

 

Strepitoso Nello Musumeci. Con la passione che lo contraddistingue quando prende a cuore un problema, ieri nell’incontro web “Sud progetti per ripartire” promosso dalla ministra Mara Carfagna ha magnificato la sua eloquenza, stregato, stupito gli interlocutori. Nel condensare in pochi minuti l’orgoglio di chi rappresenta un’Isola preziosa e strategica, ricca di cultura, storia, risorse, grande quanto la Danimarca, ha espresso lo sdegno per come sia stata bistrattata, emarginata, dimenticata dai Palazzi centrali del potere; ha fotografato lo stato dell’arte in fatto di infrastrutture e arretratezza, di gangli vitali per l’economia, di logorante burocrazia, di supponente altezzosità con cui da Roma e anche da Bruxelles si guarda al Mezzogiorno.

Un’intemerata di incisiva efficacia mirata al cuore del problema: la questione Sud è sentita come nazionale ed europea?

Qualcuno mostri coi fatti che è così. Convochi un immediato tavolo tecnico, non di quelli a scadenza ritardata utili a eludere più che a trovare soluzioni: “una riunione con tempi certi per disegnare il futuro di quest’area, affrontare con serietà i vari temi collegati al Recovery Plan di cui le Regioni non hanno notizie perché tutto è stato deciso a Roma”.

Scioccante, kafkiano: dalle parole del governatore si è appreso che da gennaio a oggi le Regioni meridionali sono state tenute al buio sull’utilizzo delle risorse europee di cui in gran parte dovrebbero beneficiare. (Sic!).

Ministri e viceministri siciliani del governo precedente non hanno nulla da dire in merito?

Musumeci, con palmare evidenza, ha pure demolito luoghi comuni come le problematiche sulla legalità, stucchevole refrain tirato in ballo anche sulla vicenda Ponte nello Stretto: “oggi il fattore criminalità, che c’è ed è presente, non può essere più considerato una diseconomia se paragonato alla paurosa carenza di infrastrutture e alle procedure burocratiche che da Bruxelles, e a Roma, non sembrano concepite per accelerare la spesa pubblica ma quasi per frenarla”.

Infine, l’affondo sull’alta velocità che inchioda parimenti lo Stato e in specie Anas e Rfi bollati come pachidermi: “Come si può parlare di alta velocità se bisogna fermare i treni veloci a Reggio Calabria, fare scendere i passeggeri e farli salire su un traghetto? Ancora si discute su “ponte sì o ponte no”: il ponte per i siciliani e per i calabresi è forse un capriccio? O, invece, una necessità fin troppo evidente? In altre parti del mondo un ponte si fa in due anni e qui se ne parla da cento”.

Un crescendo di j’accuse, espresso con impeto e accalorata partecipazione, che ha spaziato sulla situazione geopolitica per concludere in modo propositivo ed esasperato: “Dateci gli strumenti, diteci qual è la prospettiva euromediterranea della Sicilia, o se dobbiamo continuare solo a salutare le navi che passano da Suez senza fermarsi nei nostri porti. Non è possibile che i siciliani debbano pagare 600 o 700 euro il biglietto aereo per recarsi a Milano. Il Sud non vuole, e non può più, essere considerato una zavorra”.

Esponenti di governo, parlamentari siciliani e calabresi ora sono avvertiti: basta cincischiare. Bugie, compiacenze, tradimenti prima o poi affiorano e avranno nomi e cognomi. La crisi del Sud precede la pandemia e si è aggravata. Oggi c’è l’ultima chiama e nessuno può tirarsi fuori o farsi di lato mancando all’appello.

Lo diciamo anche perché oggi in commissione Trasporti alla Camera si torna a parlare di Ponte. Ne ha discusso già ieri sera e l’acceso dibattito si è stoppato sull’opportunità di inserire l’opera nel parere da esprimere: quando i componenti Cinquestelle e Pd hanno capito di essere in minoranza hanno chiesto una pausa di riflessione, rinviando tutto a stamattina. Riflettere? …non sono bastati decenni di dibattito e di commissioni di studio?

Sul Ponte, sempre ieri, si è parlato in videoconferenza tra l’assessore alle Infrastrutture della Regione Siciliana, Marco Falcone, l’assessore alle Infrastrutture della Regione Calabria, Mimma Catalfamo e Webuild, il gruppo che ha acquisito il progetto di Eurolink, approvato nel 2003 e poi accantonato. I tecnici del gruppo Webuild hanno ribadito la piena sostenibilità dell’opera e presentato le peculiarità tecnico-progettuali.

 

Con la campanella a Mario Draghi nel Salone dei galeoni, un mese fa esattamente il 13 febbraio, i tromboni orfani del Conte-ter, seppur storditi dall’esito degli eventi che in un paio di settimane avevano visto il subito sparir di tanto raggio, lo svanire della trepida gioia di un gran disegno… non si sono zittiti né hanno preso consapevolezza ch’era follia sperar.

I più irriducibili nostalgici dell’uno-due si aspettavano al massimo un sommesso andantino dai primi solfeggi di Palazzo Chigi data l’improvvisata orchestra ma, spiazzati dall’immediato andante-veloce, hanno ripreso a tromboneggiare e via con gli striduli acuti sull’operato del neo Premier al quale non perdonano il reset che ha interrotto il bel sogno, rivoluzionato in un mese il sistema, silurato riferimenti inossidabili, smantellato assetti precedenti, restituito prestigio extra moenia, ricondotto il Paese su un sentiero di progettualità e speranza. Da ultimo, non gli perdonano di aver riaperto il capitolo Sud che… udite udite! potrebbe essere in pochi anni attraversato dall’alta velocità: uno scandalo insomma per gli apostoli infelici della decrescita felice.

Con approccio santommasiano aspettiamo di vedere i doppi binari per credere. Intanto, par di notare che la paccottiglia dei pregiudiziali no che zavorravano alcune scelte sembra archiviata, con buona pace dei paladini degli impedimenti, degli intralci a ogni costo più per incompetenza che per convinta adesione alla politica del non fare, talvolta per non disturbare i manovratori, tal altra per preconcetta adesione a uno schieramento o per compiacere i megafoni mediatici contigui.

Di questo andazzo ha fatto sommamente le spese il Mezzogiorno, già indietro di suo, che con le opportunità del Recovery plan oggi sarebbe stato condannato all’abbandono definitivo.

Potremmo parlare delle imprescindibili Zes (Zone economiche speciali) rimaste da anni sulla carta, delle politiche sulle infrastrutture, del porto hub di Augusta decisivo per la portualità nel Mediterraneo e strategico nella relazione dei traffici mercantili sud-nord ma preferiamo soffermarci sulla vicenda Ponte, di attualità da 50 anni, perché segna un elemento di novità: la nascita di un Intergruppo in Parlamento per chiedere la realizzazione dell’opera.

E’ sicuramente una buona notizia. Quanto incisiva non sappiamo, anche se l’immediata stizzita reazione dei soliti detrattori lo fa pensare: con tempestiva diligenza, infatti, si sono precipitati a beffeggiare gli intrepidi onorevoli e a bollare il collegamento nello Stretto icona di sperpero, malaffare, inutilità. Gli stessi che non si sono mai indignati per le diseguaglianze che penalizzavano mezzo Stivale.

A farsi interpreti della voglia di riscatto del territorio, a rappresentare la dignità dei meridionali stanchi di essere inutili portatori di consensi, sono una quarantina di coraggiosi primi firmatari dell’Intergruppo formato da Italia Viva (Vono, Faraone, Magorno, Scoma, Sudano, Ungaro); Forza Italia (Barboni, Barachini, Bartolozzi, Berardi, Caligiuri, Cannizzaro, Cesaro, D’Attis, Gallone, Giammanco, Mallegni, Mazzetti, Occhiuto, Papatheu, Paroli, Perosino, Prestigiacomo, Rizzotti, Russo, Schifani, Siclari, Siracusano, Sozzani); Lega (Furgiuele, Pagano, Pepe, Rixi, Rufa, Minardo);  Pd (Navarra); Cinquestelle (Trizzino) cui si stanno per aggiungere altri.

E’ la prima volta di un sì trasversale di tanti parlamentari, di destra e sinistra. L’aria che tira insomma è cambiata, complice l’irripetibile occasione di avere alla guida del Governo un capo super partes che, grazie anche all’esperienza maturata in ambito europeo, sa guardare alle cose con ragionevole pragmatismo, affrancandosi dagli idealismi melensi che fin qui hanno negato qualsiasi disegno di sviluppo stoppandolo al capolinea Frecciarossa di Salerno. Draghi sa bene del deserto che da lì in giù connota il sistema trasportistico e forse anche il Nord ha finalmente compreso l’utilità di rivitalizzare questa parte d’Italia per la propria sopravvivenza, perché senza il Sud non andrà da nessuna parte.

Il nuovo clima politico favorirà un migliore rapporto di ciascun eletto col proprio elettorato? Non potendo più trovare sponda assicurativa in partiti e leader, in vista dei prossimi appuntamenti con le urne occorre darsi da fare, recuperare pensiero autonomo, credibilità, tenere in conto le istanze che si levano dalle aree rappresentate, smetterla con l’ossequio.

E’ presto però per dire che sia la volta buona. Certo ci piacerebbe che dopo decenni di chiacchiere sul Ponte, divenuto una “barzelletta di Stato”, se ne riparli come orgoglio nazionale frutto di una progettualità seria in una logica mediterranea, oltre che di riequilibrio territoriale. L’aria che tira è propizia: più del gruppo trasversale interforze o delle dichiarazioni di capi partito (da Berlusconi a Salvini, Meloni, Renzi) è di buon auspicio che si siano allarmati i lodatori delle “infrastrutture elementari che ancora languono” ossia i contrari all’alta velocità fino in Sicilia perché sarebbe “un affarone”! Si sottintende… per le coppole dei baciamo le mani.

Beati beoni! Se nel business planetario le holding mafiose investissero nell’Isola, e non al Nord, in Olanda, Lussemburgo o altrove, il ponte sarebbe già transitabile.

 

 

 

 

E’ immediatamente operativo il Gruppo di lavoro sulla riforma penale istituito dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia.

Sarà presieduto dal presidente emerito della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi; suoi vice il docente di diritto penale alla Statale di Milano Gian Luigi Gatta e l’ex primo presidente della Cassazione Ernesto Lupo. Ne fanno parte: Vittorio Manes, esponente delle Camere penali e docente di diritto penale; gli avvocati Francesco Arata (docente di diritto penale), Luca Luparia (docente di procedura penale); i magistrati Luigi Orsi, Carlo Citterio, Fabrizio D’Arcangelo, Rodolfo Sabelli; i professori Mitja Gialus (procedura penale), Grazia Mannozzi (diritto penale), Serena Quattrocollo (procedura penale); il costituzionalista Andrea Simoncini.

A loro il compito di preparare entro fine aprile un insieme di proposte al ministro per il disegno di legge delega sul processo penale in discussione alla Camera dei deputati che, fra l’altro, riguarderà la riforma della prescrizione dopo le novità introdotte e ritenute pessime sotto vari profili e lesive sul pano della garanzia dei diritti.

L’elevato livello dei componenti del Gruppo di lavoro, la specifica competenza in materia unita alla saggezza, misura, imparzialità dimostrate neri rispettivi ruoli sono motivi che preludono a un risultato efficace e di buon senso che confermi il valore della certezza del diritto.

 

 

I problemi della Giustizia non sono solo quelli che descrive “Il sistema”, libro intervista di Alessandro Sallusti a Luca Palamara, dove si parla di potere, politica, affari e di intrecci in una sorta di storia segreta della magistratura.

Lo sanno i tanti cittadini che per un motivo o per l’altro devono ricorrere al servizio Giustizia per il riconoscimento di un diritto, difendersi da un torto, ottenere insomma l’applicazione della legge. “Dura lex sed lex” recita l’antico brocardo che si fa risalire a Ulpiano… ma quanto dura ci si chiede oggi, visto che quel motto ha perso quasi del tutto il suo significato originario, per assumerne uno più attuale, quello della lentezza. La risposta è nota: dura, dura tanto ma tanto che spesso non basta una vita.

Non ha potuto rendersene conto il buon Tanino Saja, classe 1932, che dopo una vita spesa da ragioniere generale della Provincia, una volta andato in pensione venne chiamato nel 1995 dal Comune di Messina a mettere ordine nei conti dissestati dell’ente, data la sua riconosciuta esperienza a districarsi tra bilanci per cassa e per competenza, residui attivi e passivi, debiti e crediti, rimesse nazionali, regionali, entrate tributarie e amenità varie della complicata contabilità pubblica.

A un certo punto, per il suo lavoro protrattosi fino al 2000 nel ruolo di direttore della Ripartizione servizi finanziari e di ragioneria, aveva maturato oltre 50mila euro di spettanze per via di una norma nazionale sulla “retribuzione di posizione” che Palazzo Zanca non volle corrispondergli. Saja provò a far valere bonariamente le sue ragioni senza riuscirvi, dunque attivò il giudizio davanti al Tribunale di Messina che però dette ragione al Comune. Ricorse in appello e questa volta con esito favorevole. Fine della storia? No. Il Comune impugnò la sentenza e toccò alla Cassazione dire una parola definitiva: Saja aveva ragione a pretendere quella somma e il Comune condannato a pagare. Gennaio 2013.

Si sa che quando un ente deve scucire denari attiva tutta la burocrazia di cui è capace, consumando anni come fossero giorni. Intanto era cambiato il sindaco, la nuova amministrazione Accorinti chiedeva tempo per raccapezzarsi e trovare i capitoli appropriati su cui caricare quei quattrini in uscita. A trovarli! Infatti non si trovarono. Fioccavano intanto decreti ingiuntivi, opposizioni, notifiche a gogò e “accussì di sta manera” si è arrivati al 2017 col ricorso per riassunzione. Comune sempre soccombente e Saja sempre creditore… insoddisfatto, costretto a pignorare somme di qua e di là, spendere altri soldi ma senza incassare un euro.

Nel 2018, altro cambio al vertice: si insedia Cateno De Luca che manifesta disponibilità a chiudere la faccenda e propone a Saja un accordo. Sostanzialmente una somma minore pari a circa 30 mila euro di cui 7mila subito e il resto dilazionato. Avrebbe accettato l’intero importo, seppure dimezzato, ma quella rateazione a un uomo di 86 anni parve una beffa. Resistette. E fu la sua ultima… soddisfazione.

Se ne andò in pace l’anno successivo, nel 2019.

Tocca adesso alla vedova, Maria Saja riassumere di nuovo tutto e ricominciare: più giovane di lui, spera di avere ancora sufficiente vita davanti per farcela. Sempre che nel frattempo, tra scadenze di termini e& nuove notifiche, non inciampi in qualche altra lex che duri più di lei. E se la fortuna la assisterà, incombe sempre quel rischio fifty fifty insito in ogni giudizio… che dipende dal vasetto di bosso.

 

 

Leggiamo insieme l’Agenzia Italia che peraltro ripropone quanto si legge sul sito di Blogsicilia. E’ la sintesi di quanto detto ieri dal nisseno sottosegretario ai Trasporti Giancarlo Cancelleri, ospite di “Casa Minutella”: “Il collegamento stabile sullo Stretto di Messina si farà”. Non usa la parola ponte, parla di “collegamento stabile”. A domanda diretta, precisa: “Dovremo valutare se sia meglio il ponte o il tunnel visto che ci sono progetti Saipem molto promettenti. L’unica certezza è che un collegamento stabile si farà. Non c’è la possibilità di decidere di non fare nulla”.

Ma intanto Cancelleri pensa di portare ugualmente l’alta velocità in Sicilia “Stiamo lavorando per un freccia rossa da 5 vagoni, più corto. Questo perché si tratta di un treno che non si può montare e smontare come tutti gli altri ma nasce in una conformazione e lunghezza e tale resta. Un treno da 5 vagoni può entrare per intero nel traghetto e questo ci permetterebbe di far arrivare l’alta velocità in Sicilia”. E ancora: “Stiamo lavorando per portare la rete in condizione di garantire una velocità fra i 10 e i 200 chilometri orari e per le opere ferroviarie in Sicilia abbiamo scelto un commissario siciliano e molto competente. Si tratta dell’Ingegnere Filippo Palazzo, un tecnico Rfi molto noto anche in Sicilia. Un uomo del fare”.

Fin qui il flash dell’Agi, che lascia frastornati, confusi, attoniti: da settembre 2020 attendiamo la risposta del Gruppo di studio insediato al Ministero delle infrastrutture (allora capeggiato da Paola De Micheli) che avrebbe dovuto pronunciarsi in merito e dirimere la vexata quaestio e siamo ancora al punto di partenza? La ministra aveva rinviato a dicembre il verdetto e da allora non se ne è saputo più nulla: ora, a marzo 2021, il sottosegretario grillino ripropone il dilemma ponte o tunnel.

Ma scherza, dice sul serio, ci prende in giro? Dopo trent’anni di blablablà… sette mesi per un setti bau bau?

Come si fa a parlare di alta velocità fino in Sicilia senza aver deciso che tipo di collegamento verrà fuori? La linea dei binari seguirà la curva da naso aquilino all’ingiù (tunnel), alla francese all’insù (ponte)… o si è preferito il disegno senza struttura definita, dunque mencio, molle, cedevole?

E’ chiaro a chiunque che il piano delle Ferrovie dipende da cosa si intende fare.

La commissione di studio non ha deciso; ha profuso poche idee ma confuse? Oppure è stata insediata proprio per divagare e non decidere?

Si sa che nelle situazioni ingarbugliate il miglior modo per rinviare di prendere posizione è quella di insediare un tavolo tecnico: si perde tempo, le questioni si annacquano al pari delle responsabilità… e addio soluzione.

Qui però la faccenda è fondamentale, vitale; il Sud si gioca tutto per i prossimi decenni, non può assistere indifferente al divagare, al baloccarsi nell’ondivago ora sì ora no. Il tempo ormai sta per scadere: se questo è il metodo con cui si va a definire il Recovery Plan, siamo spacciati!

Il presidente della Regione siciliana Nello Musumeci e il suo omologo calabrese Antonino Spirlì non hanno nulla da recriminare?

Stamattina nel question-time a Montecitorio previsto alle ore 10 (si può seguire collegandosi alla webtv Camera), il vice ministro Alessandro Morelli (Lega) risponderà a un’interrogazione urgente presentata dalla deputata messinese Matilde Siracusano di Forza Italia che da tempo conduce una battaglia “perché il Ponte sullo Stretto di Messina è un’opera indispensabile per il Mezzogiorno e per l’intero Paese, che ha già un progetto approvato anche a livello internazionale, immediatamente cantierabile, e che porterebbe al Sud lavoro, turismo e sviluppo”.

Sentiremo in diretta cosa dirà Morelli che, al pari della collega viceministro Teresa Bellanova (Italia Viva), dovrebbe esprimersi a favore del Ponte perché entrambi i partiti di appartenenza sostengono la centralità di questa opera in un quadro di riequilibrio economico e strategico nord-sud.

Mezzo secolo dopo, non vorremmo ritrovarci a parlare del Ponte come miraggio da fumetto. Ci avevano pensato già la Domenica del Corriere e Topolino… non era il caso scomodare fior di scienziati e commissioni di esperti.

 

 

 

Con quel suo aspetto serafico e tranquillizzante, grugno paffuto, sopravvissuto al cambio di guardia a Palazzo Chigi, il già viceministro e ora sottosegretario alla Sanità, Pierpaolo Sileri suscita simpatia. Non si scompone mai, persino davanti alle immagini che conclamano una serie di fallimenti in un anno di pandemia, se la cava amabilmente alla Totò: …e che, so’ io Pasquale? Tutto gli scivola addosso, trasparente.

Onnipresente in tv, a volte pure ubiquo, non si bagna mai: se ti perdi qualche sua frase durante una trasmissione, cambi canale e la risenti nell’altro programma. Invece di rispondere le domande le fa, quando si pronuncia sembra elargire pillole di saggezza a futura memoria perché sul presente lui è più indignato di noi: …la campagna vaccinazione iniziata male, andata avanti peggio presenta tuttora disfunzioni incredibili? torto delle Regioni e di quel diavolo di Titolo Quinto della Costituzione che le ha dotate di troppa autonomia; sull’opacità dei contratti di approvvigionamento delle dosi? ci colpa Bruxelles. Se poi gli si fa notare che le cose andavano così male che il premier Draghi ha liquidato il super commissario Domenico Arcuri, allora s’inalbera, corrucciato: “Lo dico da tempo che occorre cambiare! Abbiamo a livello territoriale dirigenti senza “attributi” che gestiscono la sanità”. In periferia insomma sono incapaci, dimostrano l’ingenio degli stupidi.

Ma al Ministero, dove certamente gli “attributi” li hanno… il peggiorare delle cose si rivela molto più facile che migliorarle. Non c’è traccia di correttivi per impedire le disfunzioni. In assenza di regole precise e univoche per fare il vaccino, sta prevalendo quella antica e sempre valida dell’ “io può”. E chi, se non il ministro e il suo vice, dovrebbe rimediare?

Sileri si mostra così convintamente risentito che alla fine ci fa sentire pure in difetto: vuoi vedere che è colpa nostra?

La tecnica dello scaricabarile, contagiosa più del virus, non risparmia nessuno. Da ultima ieri sera, ospite a “Non è l’arena”, Pina Picierno deputata del Pd dal 2008 e dal 2014 europarlamentare, ciancica sulla fornitura di vaccini: dove erano i nostri onorevoli quando sono stati stipulati dall’Europa i contratti con le case farmaceutiche? La deputata glissa, devia il discorso su quanto di buono ha fatto l’Ue; minimizza sulla segretazione degli accordi e avverte: attenti, perché senza la scelta di centralizzare la governance da parte di Bruxelles ci saremmo trovati nei guai. Lei, deputata di sinistra, non gradisce quel video della collega, pure di sinistra, che gira da giorni sui social: l’intervento a muso duro in Parlamento europeo della trentunenne Manon Aubry, francese, copresidente del gruppo della Sinistra Unitaria Europea-Sinistra Verde Nordica, che il 10 febbraio con dichiarazioni sferzanti bocciava su tutta la linea l’operato di Ursula von der Leyen chiedendo l’istituzione di una commissione d’inchiesta “sulla responsabilità della Commissione europea per questo disastro”.

Quale sarebbe il disastro secondo Aubry, che la Picierno ha ignorato? Che i grandi leader farmaceutici hanno stabilito le norme. Punto chiave è la trasparenza: “Nessuna informazione sui negoziati nonostante le richieste del Parlamento. Solo tre contratti resi pubblici, grazie alla pressione dei cittadini, ma tutte le informazioni più importanti come prezzo, programma di consegna, o anche i dettagli delle clausole di responsabilità sono nascoste. Per gli altri contratti dovremo aspettare che i laboratori si degnino di pubblicarli perché sono loro che decidono”.

Certo che per ciò che accade a Roma come a Bruxelles, un senso di colpa noi tutti dovremmo avvertirlo: per averli mandati in Parlamento.

 

 

Perseverance è atterrato su Marte: che sfida epocale e fantastica! Un nome bellissimo per un magnifico sogno diventato realtà: “la perseveranza – affermava Robert Half – è ciò che rende l’impossibile possibile, il possibile probabile, e il probabile certo”.

Siamo andati sul Pianeta rosso a cercare acqua, tracce di vita non i marziani, quelli abitano la nostra politica, li conosciamo da tempo, stanno in mezzo a noi e sono gli stessi che a fasi alterne si avvicendano nello spazio della storia tra narratore eterodiegetico o narratore omodiegetico, sia che parlino cioè per conto di altri o da protagonista, e da decenni ci riempiono di obiettivi possibili, probabili, certi che puntualmente rimangono impossibili, improbabili, indefiniti e incerti.

Cosa c’entra Perseverance con il Recovery? Non lo so ma nel sentire la pioggia di miliardi che sta per riversarsi sul Sud, viene da pensare che sia roba da marziani stare ancora a discutere di tre chilometri di un varco che, almeno da mezzo secolo, paralizza i nostri epigoni su un minuscolo palcoscenico che si chiama Stretto.

Quale che sia la maschera del narratore, il racconto non cambia e abbiamo perso il conto sulle percentuali e sul totale dei miliardi in arrivo per il Meridione. I numeri più attuali dicono che si tratta del 50% sul quantum dei 209 miliardi ex Recovery Plan, quindi 100 e passa; cui si aggiungono i soldi europei per il settennato 2021-2027 e quindi molti di più; non basta, ci sono pure i quattrini del Fondo nazionale di sviluppo e coesione, e allora si raddoppia? Tenetevi forte: sono duecento miliardi. Lo assicura la ministra per il Sud Mara Carfagna. Dunque c’è da credere?

Boh! A occhio, fior di miliardi per il Mezzogiorno negli ultimi lustri li avevano annunciati nel 1998 il premier Romano Prodi; nel 2007 l’allora ministro per lo sviluppo economico Pierluigi Bersani; nel 2010 Silvio Berlusconi; nel 2015 Matteo Renzi.

Terra chiama Marte: o voi di Perseverance, da lassù riscontrate tracce di tutti questi miliardi, notate che sia cambiato qualcosa, che si sia modificato il divario Nord-Sud, che ferrovie e autostrade siano le stesse da Salerno in giù? E soprattutto vi sembra tanto invalicabile quel trattino di mare che separa la Sicilia dall’Italia?

E allora: se i 200 miliardi sono possibili, probabili, certi… su quali progetti si investiranno? Le Regioni sono state coinvolte e hanno presentato programmi ed elaborati? Del Ponte sullo Stretto o comunque dell’attraversamento stabile sappiamo che esistono almeno un paio di ipotesi di fattibilità rapidamente cantierabili; un costo di quattro miliardi circa che fa ridere se comparato alla mole dell’impegno complessivo. Peraltro proprio alla scelta Ponte è condizionato il tracciato dell’alta velocità da Salerno a Reggio e da Messina verso Palermo e Catania, dunque è imprescindibile decidere cosa ne sarà per portare in riva allo Stretto rotaie moderne.

Il tempo sta per scadere, entro il prossimo mese il piano Recovery dovrà approdare a Bruxelles completo di ogni dettaglio. La stagione del dibattito si è esaurita, la sopportazione pure. La perseveranza è finita su Marte.

 

Compie oggi novanta anni l’ultimo segretario generale vivente del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (dal 1985 al 1991), propugnatore dei processi di riforma legati alla perestrojka e alla glasnost, cioè rivoluzione e trasparenza, protagonista degli eventi che portarono alla dissoluzione dell’URSS e alla riunificazione della Germania.

Il comunista che seppellì il comunismo; artefice, con la sua politica, della fine della guerra fredda, è nato il 3 marzo 1931. Un uomo che al suo apparire sulla scena del potere sovietico, liberò dall’oppressione i paesi satellite consegnandoli alla democrazia, conquistò la simpatia dell’Occidente in obbligo di gratitudine per ciò che ha fatto: il volto migliore del Novecento può ben essere rappresentato da lui.

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Di altrettanta simpatia fu la moglie Raissa, scomparsa a 67 anni. In patria criticata per il suo presenzialismo ma energica e semplice, sempre sorridente. Nella visita ufficiale a Roma nel 1989, per esempio, preferì inserire una tappa a Messina per onorare i Marinai russi primi soccorritori nel terremoto del 1908 e inaugurare una mostra fotografica piuttosto che partecipare nella capitale a sfilate di moda da Valentino o ad aperitivi nel Caffè Greco di via Condotti mentre il marito era impegnato in incontri di Stato. In suo onore ci fu un rinfresco al Palazzo di Città dopo la visita in piazza Duomo per ammirare l’orologio astronomico del campanile. Dalla Russia con amore… senza 007!

Erano gli anni di massino fulgore della coppia che faceva parlare di sé in positivo la stampa mondiale. Gli inviti si susseguivano, chiunque li avrebbe voluti ospiti, al di qua e oltre Oceano. Fioccavano pure i premi, il più considerevole ovviamente fu il Nobel ma non mancarono altri appuntamenti altrettanto ragguardevoli. Uno in particolare richiamò l’attenzione nostrana e della madre Russia perché rischiò di compromettere i rapporti bilaterali e rimase impresso nella memoria di molti ma soprattutto dello stesso Gorbaciov, dell’allora ministro degli Esteri Andreotti e di… Pippo Baudo.

Cosa c’entra il Pippo? Onnipresente com’era dal Moncenisio al Valdemone, il gran padron di Sanremo fu chiamato nel 1990, auspice il coeterno Andreotti, a presentare il Premio Fiuggi, organizzato dall’imprenditore andreottiano e presidente dell’Ente Fiuggi, Giuseppe Ciarrapico. Inutile sottolineare con quale enfasi fu annunciato quell’evento che precedeva il Nobel per la pace a Stoccolma e, pur trattandosi di visita privata dell’uomo con la voglia in testa, avrebbe richiamato dignitari da Parigi, Bonn, Madrid oltre a giornalisti di tutto il mondo.

E venne il giorno del Premio. Il Pippo nazionale nonostante la sua assidua falcata sui palchi era emozionatissimo. Concertisti, balletti, cantanti precedettero il momento clou: Andreotti chiamato al microfono a introdurre, con un discorso di politica internazionale, l’ospite d’onore destinatario del premio consistente in una cospicua somma in contante: 500 milioni di lire. Inutile fare il raffronto con l’euro di oggi: 500 milioni nel 1990 erano una cifrona, l’equivalente di una mega villa in zone prestigiosa.

Squillo di trombe, sul proscenio fa ingresso la bella valletta col cuscinetto su cui è appoggiata la busta di valore; sale sul palco Gorbaciov risoluto e compiaciuto, ringrazia in russo (c’è la traduttrice), tiene d’occhio (la busta), pochi attimi ancora per la standing ovation ed ecco il momento culminante (del finale travolgente): la consegna del prezioso cadeau. Andreotti porge la busta, Gorbaciov con elegante gesto la fa presto sua riponendola al sicuro nella tasca della giacca. Sa del consistente contenuto, ha pure immaginato come impiegarla. Si consuma il rituale con i fotografi italo russi che affollano la platea. Scroscio di applausi, calorosi arrivederci all’anno successivo e sipario, mentre all’esterno si accendono i lampeggianti blu del corteo che avrebbe riportato il grande Michail in aeroporto diretto in Urss. Tutto è andato alla perfezione. Dopo aver ossequiato il suo divo amico, se ne va baldanzoso pure il Pippo ripresosi dalla sudata. Ma…

Alle 6,50 dell’indomani, trillo del telefono dalla segreteria del sommo Giulio e una voce femminile con tono allarmato: “il presidente vuole che venga subito qui”. Il Pippo si precipita: che sarà mai; minuti concitati, era accaduto che fosse convocato d’urgenza ma non così bruscamente.

“Baudo… dove sono i 500 milioni destinati a Gorbaciov? La busta era vuota”. Smarrito, senza più voce… stenta a credere. Ripercorre i momenti che hanno preceduto la consegna, lui quella busta l’ha vista solo sul palco, non sa chi l’ha maneggiata prima. Non si raccapezzano neppure Ciarrapico e i fiduciari dell’Ente Fiuggi; è passata da troppe mani, vattelappesca in quale passaggio si è svuotata. Ammesso si abbiano certezze che fosse stata riempita.

Gorbaciov ormai è a Mosca furibondo, non si dà pace: l’uomo più potente della Terra, a capo del potentissimo Kgb con 007 disseminati per il globo, turlupinato per mezzo miliardo da un mariuolo sotto i riflettori di mezzo pianeta. Meglio tacere; infatti per un bel po’ non se ne parla e Roma eterna custodisce l’arcano.

Chi ha trafugato le banconote? Un mistero mai risolto.

 

Un mese fa si cercavano i “responsabili” con una caccia all’uomo disperata; si era approntato un Recovery Plan incongruo; si dava per imminente un Conte-ter; la cultura grillina sembrava aver irretito l’intero Pd; tra aperture e improvvise chiusure la Protezione civile nel pallone; la campagna vaccinazione affidata a una primula e alla comunicazione top social di Palazzo Chigi lasciava passare il messaggio di timori per la resistenza degli italiani a vaccinarsi.

Sappiamo com’è finita: quel diavolo di Matteo Renzi ha fatto saltare il banco e d’un colpo sono stati disarcionati Giuseppe Conte, il suo portavoce Casalino, il ministro dell’Economia Gualtieri, il guardasigilli Bonafede, ora pure il capo della Protezione civile Borrelli e in parte il super commissario Arcuri.

Un cambio di uomini a segnare la discontinuità con le politiche precedenti, anche se non sono ancora chiare le intenzioni sul prossimo procedere. Quanto al fronte pandemia, in attesa di sapere in che modo si risolverà il problema della fornitura vaccini cui è legata la possibilità di tornare a un minimo di normalità, si può dire che i campioni della comunicazione hanno toppato: altro che resistenze a vaccinarsi, c’è la corsa a poterlo fare e neppure gli ottantenni ci riescono.

Scarseggiano le dosi ma sovrabbondano le iniezioni in tv. Una beffa! Per favore, basta con quelle telecamere puntate sulla siringa… funziona anche senza foto e video! Il virus si è modificato con più varianti, il modo di fare informazione rimane identico.

A ogni ora e in tutti i tg ci mostrano quell’ago che penetra nel braccio… avvertendo però che non è possibile prenotarsi. Servizi fotocopia che suonano provocazione, e poi identiche immagini e i soliti esperti come se non esistessero altri virologi, infettivologi, direttori sanitari oltre a quei quattro o cinque onnipresenti.

A proposito di presenze assillanti, a spadroneggiare nelle ultime settimane è chi negli ultimi due anni da Palazzo Chigi ha dettato le regole della comunicazione, stabilendo quale ministro o parlamentare grillino doveva partecipare a questo o quel programma: Rocco Casalino.

Il quarantottenne capo ufficio stampa di Giuseppe Conte, portandosi appresso il suo libro “Il portavoce” imperversa su tutte le reti quasi quanto le iniezioni. Lui si racconta autoincensandosi, esaltando il lavoro svolto accanto al premier, prefigura un rilancio del Movimento cinquestelle a guida Giuseppi, arriva a quantificare un gradimento superiore al 20%. Ammette qualche svarione di troppo, come la folcloristica balconata con Di Maio che dal palazzo del potere in Piazza Colonna annunciava la fine della povertà o come le dichiarazioni in libertà sul reddito di cittadinanza allorché Rocco minacciava di far fuori i dirigenti del Ministero dell’Economia che avessero opposto resistenza.

Oggi gli manca quell’ufficio e, immaginiamo, anche lo stipendio di quasi 170mila euro l’anno, cioè più del presidente del consiglio e di un senatore. Archiviate le esperienze passate di conduttore e la partecipazione al Grande Fratello, vorrebbe riprendere il suo impegno nel M5S e segnatamente al fianco di Conte. Da infaticabile ottimista prepara il gran rientro di entrambi, intanto arrotonda con la promozione quotidiana dell’autobiografia.

Rassegniamoci dunque ad altre iniezioni di vaccino e Casalino… in attesa di Sanremo.

 

 

Adesso niente più scuse. I meridionali al governo ci sono, una pattuglia di ben undici esponenti di vari partiti che avranno la possibilità di far parlare il proprio io, di dire in cosa credono e come intendono onorare il loro impegno per il Sud. Dopo troppe chiacchiere vogliamo vedere fatti.

Com’era prevedibile, la riunione del Consiglio dei ministri per la nomina dei sottosegretari è stata piuttosto turbolenta perché oltre al manuale Cencelli si è dovuto fare i conti con antipatie personali e veti incrociati, ma alla fine sono stati accontentati un po’ tutti anche il Centro democratico di Bruno Tabacci, Più Europa di Emma Bonino e Noi con l’Italia di Maurizio Lupi. Tra accese discussioni, sospensione per far sbollire gli animi, spostamenti da un ministero all’altro, alla fine il quadro è stato completato con un modesto risparmio rispetto al precedente Governo: 39 in tutto tra viceministri e sottosegretari (erano 42), una maggiore presenza femminile (19) e di meridionali (11). Tra questi ultimi confermati i grillini Giancarlo Cancelleri di Caltanissetta ai Trasporti (era viceministro), il palermitano Manlio Di Stefano agli Affari esteri. New entry la senatrice Barbara Floridia messinese di Venetico, docente di lettere nella scuola secondaria che va a ricoprire l’incarico di sottosegretaria al ministero dell’Istruzione.

Alla calabrese di Tropea Dalila Nesci la delega per il Sud. Il forzista palermitano Giorgio Mulè, che avrebbe voluto la delega all’Editoria è stato spostato alla Difesa.

Secondo alcuni la caratura politica del sotto governo è stata un regalo del premier Mario Draghi ai partiti nella consapevolezza di dover dare loro visibilità da spendere sui territori, anche in vista di prossime scadenze elettorali, ma con scarsa incidenza sulle decisioni importanti. Come dire: indicate chi volete tanto conteranno poco o nulla.

Se non sarà così lo vedremo molto presto. L’attesa è legata ai sottosegretari confermati e a quelli di prima nomina espressione della Sicilia e della Calabria. A tutti rivogliamo l’invito a scorrere le pagine del Report presentato a novembre dalla Svimez in cui sono indicati con abbondanza di dati e approfondite analisi le principali linee d intervento per riscattare il Mezzogiorno e affrancarlo da quella marginalità di cui soffre da decenni. A cominciare dalle infrastrutture: il confermato Giancarlo Cancellieri vorrà finalmente tirare fuori dai cassetti il pronunciamento cui sono pervenuti gli esperti del Gruppo di studio sul tema Ponte nello Stretto?

E’ già imperdonabile il ritardo di alcuni mesi (attendiamo da ottobre di sapere cosa ne è stato) ma sarebbe irreparabile il danno del protrarsi di questa “barzelletta di Stato”. Il Sud, non solo la Sicilia e la Calabria o Messina e Reggio, pretende di sapere cosa si intende fare. In gioco non c’è solo l’attraversamento stabile ma l’alta velocità ferroviaria che dovrà avvicinare l’Isola al resto d’Italia e all’Europa.

Niente più scuse perché l’occasione irripetibile delle risorse a disposizione consente oggi di fare quel che non si è fatto nei decenni passati. Cancellieri da cittadino di Caltanissetta, al pari di Dalila Nesci di Tropea chiamata ad occuparsi di Sud, dovranno dimostrare di aver a cuore le sorti delle due regioni.

Niente più scuse per un’operazione di verità, di chiarezza di intenti, di concretezza senza riserbi timorosi e ipocriti. La ministra per il Sud, Mara Carfagna è di Salerno, proprio la città capolinea dell’alta velocità, dove si ferma il Freccia rossa e si è spezzato in due il Paese.

Gli interrogativi aperti sono diversi: Rfi ha in programma di ammodernare la linea fino a Villa San Giovanni? Saranno rotaie per l’alta velocità o di alta capacità, cioè con marcia ridotta?

Come sarà possibile progettare i binari da Praia in giù se non sarà chiara la scelta del Ponte?

Per il bene del Paese Draghi è riuscito a mettere insieme forze diverse che, rinunciando a interessi di parte, hanno sposato la causa comune. Con lo stesso intento, i Nostri sapranno spendersi per fare fronte compatto nel rivendicare quanto dovuto a Sicilia e Calabria? Niente scuse: ora o mai più.

 

 

 

ULTIMORA. Ecco tutte le nomine dei sottosegretari: Presidenza del consiglio Deborah Bergamini, Simona Malpezzi (rapporti con il parlamento) Dalila nesci (sud e coesione territoriale) Assuntela Messina (innovazione tecnologica e transizione digitale) Vincenzo Amendola (affari europei) Giuseppe Moles (informazione ed editoria) Bruno Tabacci (coordinamento della politica economica) Franco Gabrielli (sicurezza della repubblica) Esteri e cooperazione internazionale Marina Sereni - viceministro Manlio Di Stefano Benedetto della Vedova Interno Nicola Molteni Ivan Scalfarotto Carlo Sibilia Giustizia Anna Macina Francesco Paolo Sisto Difesa Giorgio Mulè Stefania Pucciarelli Economia Laura Castelli - viceministro Claudio Durigon Maria Cecilia Guerra Alessandra Sartore Sviluppo economico Gilberto Pichetto Fratin - viceministro Alessandra Todde - viceministro Anna Ascani Politiche agricole alimentari e forestali Francesco battistoni Gian Marco Centinaio Transizione ecologica Ilaria Fontana Vannia Gava Infrastrutture e trasporti Teresa Bellanova - viceministro Alessandro Morelli - viceministro Giancarlo Cancelleri Lavoro e politiche sociali Rossella Accoto Tiziana Nisini Istruzione Barbara Floridia Rossano Sasso Beni e attività culturali Lucia Borgonzoni Salute Pierpaolo Sileri Andrea Costa

Il premier Mario Draghi ha completato la squadra di governo con la nomina dei sottosegretari, un puzzle in faticosa composizione per il bilanciamento secondo manuale Cencelli da applicare sulla base dei rapporti di forza dell’esapartito che sostiene questo Esecutivo.

Il toto-nomi si modifica di ora in ora, si sa già che i nominati conteranno poco o nulla ma ogni partito è stato alle prese con fibrillazioni interne e soprattutto il Movimento cinque stelle fa i conti con la scissione ormai formalizzata: tredici deputati hanno già costituito un Gruppo autonomo, si chiama “L’alternativa c’è” e dovrebbe aumentare di numero stando alle dichiarazioni d alcuni dei dissidenti che hanno votato no alla fiducia e sono stati espulsi. La pattuglia dei ribelli replicherà la formula al Senato dove, raggiunto l’accordo col partito di Antonio Di Pietro “Italia dei valori”, sarà possibile dar vita alla costituzione utilizzandone il simbolo (il regolamento a Palazzo Madama impone che si spossano formare nuovi gruppi se già partecipanti alla competizione elettorale). A Montecitorio il simbolo de “L’alternativa c’è” sarà una ruota dentata con all’interno una stella tricolore.

Che strano: il nome scelto dai grillini contestatori non è proprio una novità. Alle Amministrative del 2013 in provincia di Messina, esattamente a Terme Vigliatore “L’alternativa c’è” era una lista con un proprio candidato sindaco, il farmacista Santi La Maestra; accanto a lui come vice, l’assemblea dell’Alternativa C’è aveva indicato la dottoressa Maria Alesci. Il logo depositato raffigurava tre scimmiette per “rappresentare i cittadini stanchi di subire passivamente le scelte di pochi eletti nel palazzo comunale. L’Alternativa C’è pretendeva di sovvertire questo ordine di cose, presentarsi come innovazione e cambiamento del sistema.

Che succede adesso, scatterà un diritto di copyrigt?

Sarebbe un problema per il nuovo Movimento che grane ne ha già altre a cominciare da quelle col partito di provenienza, cioè il M5S contro il quale fioccano i ricorsi e le richieste di risarcimento danni. Gli ex deputati cinquestelle che hanno dato vita alla componente del Gruppo Misto a Montecitorio sono: Baroni, Cabras, Colletti, Corda, Giuliodori, Maniero, Paxia, Sapia, Spessotto, Testamento, Trano, e Vallascas, cui dovrebbe aggiungersi Paolo Romano. “L’alternativa c’è” si porrebbe all’opposizione con Fratelli d’Italia.

In tutto, sono 21 i deputati ex M5S espulsi per non aver votato la fiducia al nuovo esecutivo. La decisione è stata riferita all’Aula della Camera dal presidente di turno, Fabio Rampelli: “Comunico che, con lettera pervenuta il 19 febbraio, il presidente del gruppo Movimento 5 Stelle ha comunicato l’espulsione dei deputati Massimo Enrico Baroni, Pino Cabras, Andrea Colletti, Emanuela Corda, Jessica Costanzo, Francesco Forciniti, Paolo Giuliodori, Alvise Maniero, Rosa Menga, Maria Laura Paxia, Raphael Raduzzi, Giovanni Russo, Francesco Sapia, Doriana Sarli, Michele Sodano, Arianna Spessotto, Guia Termini, Rosa Alba Testamento, Andrea Vallascas, Alessio Villarosa, Leda Volpi, ai sensi dell’articolo 21 dello statuto del gruppo. Pertanto, a decorrere dalla medesima data, i deputati suddetti cessano di far parte del gruppo Movimento 5 Stelle e si intendono conseguentemente iscritti al gruppo Misto”.

Discorso a parte per i senatori Nicola Morra e Barbara Lezzi che seppure cacciati e ignorati dal vertice del Movimento puntano ad avere un ruolo nella nuova governance. Entrambi non si rassegnano ma la stessa piattaforma Rousseau precisa che non sono candidabili “gli iscritti che siano sottoposti ad un procedimento disciplinare o abbiano subito la sanzione (eventualmente anche in via cautelare) della sospensione”.

In attesa che la situazione si chiarisca e il Movimento cinquestelle trovi il nuovo assetto, l’ex premier Giuseppe Conte ha pensato bene di riprendere il lavoro di docente della Facoltà di Giurisprudenza e tornarsene all’Università d Firenze: venerdì pomeriggio terrà una lectio magistralis in streaming, senza pubblico. 

 

Primi di settembre 2004, sulla terrazza del Mazzarò Sea Palace davanti al mare di Taormina. Lo riconosco subito, è il comico beniamino degli italiani; non mi ero perso un solo spettacolo al Teatro Vittorio Emanuele di Messina: ogni battuta un applauso scrosciante, satira politica da diletto massimo, così pure l’approfondimento in chiave ironica e spassosa di vizi e virtù degli italiani, dei disastri ambientali, dell’industria che pur di massimizzare i profitti se ne infischiava di riconvertire la produzione in chiave ecologica. Beppe Grillo è sdraiato su un lettino prendisole con accanto un paio di volumi, immerso nella lettura. Lo distolgo, mi incuriosisce il titolo di un libro sull’energia green e dopo pochi convenevoli la chiacchierata verte sull’importanza dell’idrogeno e come nell’alimentazione delle auto potrebbe prendere il posto del petrolio che ammorba l’aria.

E’ un convincente visionario, parla come durante gli spettacoli, con la stessa passione, quel fervore che trasmette in un crescendo di toni, sudore, mimica e risate. E’ determinato, sicuro delle teorie che divorava leggendo. E io a domandarmi: ma se l’auto può muoversi a idrogeno perché nessuno ci ha pensato? La sua risposta è decisa: non spendono in ricerca e alle case automobilistiche conviene sfruttare le solite linee di produzione, sono lobby così potenti da incidere anche sulle scelte dei governi.

Quell’incontro mi è tornato in mente dopo le dichiarazioni programmatiche di Mario Draghi al Parlamento che si rifanno alle conclusioni del Consiglio e della Commissione europea in cui si sollecita la creazione di un mercato dell’idrogeno per l’Europa, al fine di aiutare l’UE a rispettare il proprio impegno di conseguire la neutralità carbonica nel 2050. Nelle conclusioni il Consiglio riconosce l’importante ruolo svolto dall’idrogeno, in particolare quello prodotto da fonti rinnovabili, nella realizzazione degli obiettivi dell’UE in materia di decarbonizzazione, nella rapida ripresa economica dopo il COVID-19 e nella competitività dell’UE sulla scena mondiale.

Eravamo nel 2004, quante cose sono cambiate. Chi poteva prevedere che quel comico fuoriclasse, una forza trascinante, avrebbe calcato altri palchi per diventare un capo politico; non lo immaginava neppure lui. Da comico incantava tutti, da attore nella nuova scena ha conquistato e deluso, ha dato una sferzata ai vecchi partiti salvo poi a emularli; dal nulla ha creato un esercito di sostenitori e metà li ha già persi per strada; ha annientato presidenti incaricati e inventato carriere di esordienti; ha inneggiato al merito annullandolo con l’uno vale uno; oggi maledetto dagli espulsi e benedetto dai miracolati del suo Movimento. Ma diciassette anni dopo, sui temi ambientali, c’è da riconoscere che quel sognatore aveva ragione.

Adesso ci credono in molti, Unione Europea compresa.

Spulciando qua e là vediamo che è l’ora dell’idrogeno, l’elemento più abbondante dell’universo è diventato fonte di interesse e di investimenti nel mondo perché può essere la chiave “per un futuro energetico pulito, sicuro ed economico”.

La Cina è avanti: attualmente il Paese si sta concentrando principalmente sull’uso dell’idrogeno nei trasporti, ma guarda con interesse anche su altre applicazioni, come il riscaldamento degli edifici.

Sono ambiziosi i piani della Corea del Sud per lo sviluppo di una rete di trasporti a idrogenoi. Nel suo programma dedicato, l’obiettivo del governo di Seul prevede di promuovere un aumento del numero di auto alimentate a celle combustibili, passando dalle duemila circolanti nel 2018 a 6,2 milioni entro il 2040, diventando il primo Paese produttore di auto fuel cell a livello globale già entro il 2030.

Il Giappone è stato il primo paese al mondo a crederci, soprattutto per i trasporti: il governo ha stilato per primo un piano strategico per la tecnologia dell’idrogeno e delle celle a combustibile. Ora punta a un nuovo primato: aprire la strada alla creazione delle prime rotte commerciali internazionali per la spedizione di idrogeno pulito dall’Australia e dal Brunei.

In Australia, il governo ha istituito un fondo di finanziamenti per sostenere progetti dedicati allo sviluppo specifico.

L’Unione Europea punta a essere il primo continente al mondo emissioni zero entro il 2050. Per questo la Commissione europea, nel Next generation EU, il progetto di recovery fund da 750 miliardi di euro, pone la lotta al cambiamento climatico al centro della ripresa dalla crisi innescata dal Covid-19.

 

 

 

 

 

Incassato il sì di un ampio arco parlamentare, adesso l’Esecutivo di Mario Draghi può procedere al galoppo: sono tali e tante le emergenze da fronteggiare che i nuovi ministri, quelli veri chiamati ad occuparsi della ricostruzione, dovranno legarsi alla scrivania per capire da dove cominciare, e farsi affiancare da uno staff di qualità che non sia il raccogliticcio manipolo di improvvisati, carenti di specifica esperienza che spesso abbiamo visto.

Cosa ha detto in fondo Mario Draghi per stupire deputati, senatori ma pure i cittadini? Nulla di strepitoso, niente frasi a effetto: solo riflessioni di comune buon senso che hanno assunto valore per la sua storia personale, la credibilità, la fiducia che ciascuno ha riposto a scatola chiusa, prima ancora di vedere cammello. La convinzione di consegnarsi in mani sicure, di affidarsi a chi sa fare ciò che lo aspetta è la garanzia che ha ammaliato. L’esatto contrario di quanto avvenuto negli ultimi due anni con l’arrivo dei grillini, cioè dell’improvvisazione al governo, a cominciare dal capo imposto per guidarlo: un docente auto definitosi “avvocato del popolo”, senza cognizione, dimestichezza, padronanza, perizia, pratica di un ruolo così ponderoso. L’ubriacatura del voto ha generato nel M5S la presunzione di poter supplire con l’entusiasmo del principiante la mancanza assoluta di competenza, occupando i ministeri con lo stesso fervore che li aveva visti conquistare le piazze. Dall’Istruzione alla Giustizia fino a Palazzo Chigi ha prevalso quella logica ominosa dell’uno vale uno. L’ebbrezza a cinquestelle esternata dal balcone del potere in Piazza Colonna, ora è finita.

De hoc satis. Abbiamo voltato pagina, i neofiti avranno tutto il tempo per tornare agli studi e imparare; gli stessi partiti dovranno fare i conti con una realtà che in giro per le città è cambiata anche se stentano a rendersene conto e prendere atto della voglia di merito, di vedere cioè persone capaci al posto giusto per dare risposte di serietà non slogan vuoti né finzioni, imposture spacciate per verità. Gli esponenti politici non sanno trattenersi, si espongono a un eccesso di visibilità e di dichiarazioni melense che stride con la drammaticità del momento.

Sono in ballo la salute e l’economia, cioè la vita delle persone, e i gonzi ci riempiono di rassicurazioni inconcludenti. La campagna vaccinazione è un flop, le strutture dedicate non funzionano e vanno avanti con lo scaricabarile delle responsabilità a livello centrale e periferico: sono state inventate strutture nuove ma qualcuno verifica la reale efficienza? Il mondo produttivo è allo sbando, nessun imprenditore riesce a pianificare la propria attività, l’incertezza genera stallo.

In questa situazione è piombato l’Esecutivo Draghi. Gli effetti dovrebbero presto essere percepibili, intanto l’aver rappresentato un’iniezione di speranza è già un primo passo. Altra conseguenza benefica è il terremoto che ha scosso le forze politiche con riassetti in atto e altri prossimi a consumarsi nelle segreterie e dentro il Parlamento dove si è modificata la geografia dei Gruppi con distacchi, trasmigrazioni, nascita di Intergruppi. L’abbandono più copioso investe il M5S: un “grillino fino al midollo” come si definisce il presidente dell’Antimafia Nicola Morra, espulso in 24 ore dal reggente Vito Crimi, prepara la carta bollata al pari di una decina di colleghi dissidenti. Sboccerà un clone a Palazzo Madama e a Montecitorio?

Sono passate poche settimane e sembra cambiato il mondo.

 

 

Dalla sua somma autorità ha parlato al colto e all’inclita, alle imprese e ai cittadini, agli apparati e ai mercati, alla pubblica amministrazione interna e ai partner esterni, a Roma e a Bruxelles. Chi si era mostrato deluso dal profilo non proprio alto di mezzo governo, ha trovato ristoro nel sentire Mario Draghi stamattina al Senato.

Un discorso condito di saggezza del tecnocrate illuminato e del pragmatismo dell’amministratore consapevole di dover fare il pane con la farina disponibile; di carezzevole considerazione per il ruolo del Parlamento e per il lavoro svolto dal predecessore, al tempo stesso di severo richiamo alla necessità di cambiare registro per fare spazio all’attitudine e alla competenza; di guardare con lungimiranza alle cose da fare, di compiere scelte decisive per i nostri figli e nipoti; di avviare la nuova Ricostruzione. Nella sua parlata aria d’altro luogo, d’altro mese, d’altra vita… C’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico.

Ipse dixit e l’orizzonte d’improvviso si è allungato al 2050. Un arco temporale inimmaginabile fino a qualche settimana addietro, quando le politiche economiche in campo erano appena abbozzate sull’immediato e da calibrare in funzione del Recovery plan in scadenza nel 2026. Una data divenuta oggi prima tappa nel disegno di opere e di riforme che dovranno segnare il decennio a venire e incidere nei prossimi trenta.

L’Aula ha ascoltato ammutolita; un eloquio pacato e sicuro, senza enfasi e non ridondante di luoghi comuni. Qualche stereotipo era pure d’obbligo in un’esposizione formale ispirata alla crescita e all’unità d’intenti che deve accomunare da destra a sinistra in una fase di emergenza. Interrotto da applausi, circa 25.

Solo un refuso, e il beffardo diavoletto ha voluto che si sostanziasse proprio sui numeri, laddove il mago dei conti non aveva mai sbagliato una virgola: i ricoverati in terapia intensiva diventati per un attimo… due milioni! Doveva dire duemila ma, chissà se per la voglia di moltiplicare pani e pesci o per la consuetudine a dimensionarsi con grandi cifre, alcuni zeri di troppo lo hanno tradito. Istantaneo il borbottamento tra i deputati, ma con nonchalance si è corretto subito.

Per il resto molti dati utili e tanto buon senso: fratellanza nazionale, riscatto civile e morale, consegnare un Paese migliore e più giusto, dare risposte ai giovani promuovendo al meglio il capitale umano attraverso la scuola, l’università, la cultura; irreversibilità della scelta europeista e dell’euro; non c’è sovranità nella solitudine; fermare l’aumento della povertà e della disoccupazione. Poi le priorità per ripartire, a cominciare dal piano vaccini ricorrendo a tutte le strutture disponibili, pubbliche e private; per passare alla trasformazione digitale e alla transizione ecologica; agli investimenti nel Mezzogiorno.

Enunciazione di intenti che, articolati da un capo dell’Esecutivo come Draghi preceduto dal giubilo collettivo, fanno sperare in un rigoglioso sviluppo, in un’abbondante grascia capace di affrancarci dal timore dei tempi. Un’aspettativa ricolma di fiducia: cogliere l’attimo per credere nel domani.

Tra continuità e discontinuità, tra fedeltà al passato e desiderio di futuro, il domani si riempirà di contenuti già dalla prossima settimana quando, accantonati i buoni propositi, il premier dovrà dirci cosa si è scritto nelle pagine del Next generation Eu. Con tommasiano approccio aspettiamo di vedere il libro aperto, niente segreti nel cassetto anzi sarebbe bene che quelli riposti vengano tirati fuori. Ne citiamo uno per tutti: l’esito del Gruppo di studio di 15 esperti insediati dall’ex ministro De Micheli per il Ponte sullo Stretto. Lo chiediamo da mesi. Dopo tanta nebbia sull’infrastruttura divenuta una barzelletta di Stato, nel nome della credibilità delle istituzioni, il premier dia immediatamente prova del cambio di passo e si pronunci.

 

 

 

Pierluigi Bersani e la damnatio memoriae. L’ex segretario Pd, politico di esperienza, mancato premier per colpa di Grillo ma con lui alleato nel sostenere Giuseppe Conte, salvo a ritrovarsi adesso solo a incensarlo, ieri sera ha recriminato per la facilità con cui ci si è dimenticati delle tante cose buone fatte. Sarà, ma con tutta la simpatia per Bersani non può ancora accreditare la tesi che la crisi con cui si è mandato a casa il governo giallorosso sia il frutto del capriccio diabolico dell’abile e cinico Matteo Renzi, lo stesso rottamatore che aveva scompigliato il Pd per poi sbattere la porta e farsi un partito.

Bersani, ospite a “Di martedì”, ha parlato di attacco politico, di una forzatura che ha liquidato un’esperienza meritoria con a capo un Conte dimostratosi all’altezza del compito in una fase drammatica investita dalla pandemia, e al quale va riconosciuto il risultato degli oltre 200 miliardi in arrivo dall’Ue. Sarà, ma pure su questo punto vale la pena ricordare che la somma deliberata dall’Ue è frutto di una serie di parametri; che quando si è approfondito il come si intendeva spendere quei soldi è stato scoperto un contenitore vuoto; che l’emergenza sanitaria prima, la gestione commissariale e la campagna vaccini poi hanno dato la chiara percezione di una guida senza bussola.

Su un paio di aspetti concordiamo con il leader di Leu: Renzi egocentrista e inorgoglito rivendica l’esito della svolta ma non riscuote consenso; Conte lo ha surclassato in popolarità per il suo perbenismo, è uscito di scena con apprezzabile aplomb.

Cosa ne sarà dell’uno e dell’altro è presto per dirlo: Renzi riserverà altre sorprese? Conte, dopo il messaggio ai Cinquestelle “io ci sono e ci sarò” si rassegnerà temporaneamente a fare il docente a Firenze? Il tempo anche in politica incide: nonostante la loro smania di comunicazione e di presenzialismo in tv, la damnatio memoriae è contagiosa. Su entrambi intanto, sipario.

Oggi si apre la nuova pagina parlamentare con lo splashdown del governo a Palazzo Madama per incassare il primo sì del Senato, con replica domani alla Camera. Da Palazzo Chigi nessuna anticipazione su cosa dirà Mario Draghi, cifra che ha caratterizzato il premier dal giorno dell’incarico: “noi vogliamo comunicare fatti, siccome non abbiamo ancora fatto nulla, c’è poco da dire”. Ineccepibile fin qui. Dai prossimi giorni il silenzio impenetrabile dovrà però essere interrotto dalla graduale illustrazione di quelle misure che saranno inserite nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, quel Recovery Plan da 209 miliardi di cui si parla da mesi, bocciato nella prima e nella seconda bozza, tuttora un link inutile nel sito del Ministero. In gran fretta dovrà essere riscritto. Le scelte dei nuovi solisti ai vertici dell’economia segneranno la prospettiva del prossimo decennio, diranno come cambierà il Paese sul fronte dell’innovazione e della trasformazione ecologica, quale progetto di riforma scuoterà la Pubblica amministrazione, come si intende colmare il divario Nord-Sud da cui dipenderà il futuro delle regioni meridionali. Siamo arrivati a metà febbraio ed entro il 30 aprile il Piano dovrà pervenire a Bruxelles. Ritardi intollerabili se si guarda ai cugini d’Oltralpe.

La Francia, in lockdown, ha presentato a settembre il suo dettagliato “France relance” da 100 miliardi: 296 pagine in cui sono descritte le misure settore per settore; indicati l’impatto, la cifra stanziata, il beneficiario e il calendario di attuazione. Ma soprattutto è già operativo e i primi miliardi sono stati spesi. Sul sito del Governo di Parigi si può seguire lo stato di avanzamento dei progetti; cittadini, enti locali, imprese possono con un click avanzare la candidatura per ottenere finanziamenti e seguire sul calendario l’apertura dei bandi. Sul sito italiano niente: generici riferimenti a strategie, priorità, missioni, nessun intervento specifico. Aria fritta.

 

 

Varcato il Rubicone, alias Pisciatello… alea iacta est.

E’ stato scomodato Giotto… per pitturare le strisce pedonali? Il cambiamento copernicano ci ha riproposto un esapartito old style con la logica cencelliniana del 4-3-2-1? Dal Conte-bis a trazione sudista, alla carambola nordista?

La prima impressione allo scorrere dei nomi del nuovo Governo è che l’effetto shock atteso non ci sia stato; l’alto profilo per caratura e competenza, nella scelta dei politici, neanche; la discontinuità col precedente Esecutivo, ritenuto inadeguato, neppure; non convincono le riconferme nei ministeri chiave come Sanità, Interno, Esteri, Difesa. L’unica esponente meridionale della nuova squadra è la salernitana Mara Carfagna, che dovrà occuparsi di Sud e Coesione territoriale non si sa con quale esperienza specifica.

Comunque ci fidiamo. Vogliamo credere che, nelle circostanze date, siano stati scelti i migliori. Seguiranno a giorni viceministri e sottosegretari a completare la dosatura.

Mario Draghi ha ragionato da tecnico e da politico: ha chiamato nei dicasteri economici personalità prestigiose che ci rassicurano sull’aspetto prioritario, cioè la sapiente gestione del Recovery Plan. Al contempo ha voluto dare un premio di consolazione ai partiti che, usciti malconci dall’ultima crisi, hanno necessità di garantire in Parlamento i voti necessari, devono riorganizzarsi e riaccreditarsi in vista dei vari appuntamenti con le urne, a cominciare dalle prossime Amministrative.

Quanto sarà stabile questo bilanciamento si vedrà presto ma adesso stare a ragionare se poteva osare di più è puro esercizio di pensiero, senza avere tutti gli elementi con cui si è misurato il Premier costretto a non ignorare le dinamiche degli attuali partiti che, per quanto disorientati e messi ko, esistono e non se ne può prescindere. L’ultimo governo tecnico docet: Mario Monti li aveva estromessi e non ha avuto vita facile né lunga. Se si aggiunge che, nel mezzo del cammino, il Parlamento dovrà eleggere il nuovo Capo dello Stato, si può capire il complesso equilibrio messo in campo da SuperMario.

Rimane la connotazione nordista. Ma pure su questo versante vale la pena rilevare che spesso i nostri nemici si sono rivelati proprio gli uomini del Sud; i parlamentari di Sicilia e Calabria non hanno mai brillato per impegno, altrimenti le due regioni non sarebbero le ultime d’Europa; il Conte-bis, affollato di meridionali non ci pare abbia invertito la tendenza (aspettiamo ancora di sapere che fine ha fatto quel Gruppo di studio sul Ponte nello Stretto); non si sa di progetti avviati per portare un vera Alta Velocità a sud di Salerno; la portualità è al palo.

Non abbiamo ottenuto nulla dai meridionali, riproviamo coi ministri del Nord. Li aspettiamo sui fatti: grazie all’Europa, metà delle risorse del Recovery Plan dovranno servire a colmare il gap non solo infrastrutturale; numerosi report, da ultimo della Svimez, hanno evidenziato gli interventi possibili per il recupero delle diseguaglianze; le cose da fare sono note e messe nero su bianco.

La prima sfida in assoluto è quella di restituire pari condizioni infrastrutturali, premessa di qualsiasi disegno di crescita. Forza Italia, partito della Carfagna, si è espressa a favore del Ponte; lo stesso ha fatto ripetutamente la Lega di Giancarlo Giorgetti nuovo ministro allo Sviluppo economico. Dopo i pronunciamenti di ideali in tv, dicano subito cosa intendono fare. La Carfagna conosce bene il detto napoletano “chiacchiere e tabacchere ‘e lignamm ‘o banco nun ‘e ‘impegna”: parlare di coesione significa porre fine alla telenovela, sapendo che non ha senso tirare in ballo la storiella del Recovery con le opere da ultimare entro il 2026: coi soldi europei si possono realizzare l’alta velocità e le opere connesse fra le due sponde, caricando gli oneri del ponte sul bilancio normale. Si tratta di un costo inferiore ai 4 miliardi, somma insignificante rispetto ai giganteschi effetti che produrrebbe. Lo prevede il Corridoio Berlino-Sicilia, asse nevralgico per il riscatto del Mezzogiorno e vitale pure per il Nord. Con treni a scartamento ridotto, senza ponte e con porti da bambolina di che coesione parliamo? Marocco e Algeria ci hanno già superato, fra non molto l’emigrazione sarà all’incontrario.

Il premier Draghi, dall’alto del suo osservatorio europeo, sa bene che sul fronte Sud si vince la scommessa della rinascita complessiva del Paese. Ora i soldi ci sono, addurre pretesti per rinviare sarebbe imperdonabile.

 

um tum autem. Gli oltranzisti pentastellati, i superstiti barricaderi grillini custodi dell’uno vale uno, ieri sera con un’iniziativa velleitaria, si sono rintanati sulla piattaforma Zoom per l’ultimo defedato ”vaffa”, questa volta diretto proprio al Movimento, il M5S dell’iniziale “soli contro tutti” che rimeditando si è poi tradotto in nozze con Salvini e con successivo ripensamento nell’ibrida relazione con Zingaretti, per finire adesso tra le braccia di quelli che hanno sempre indicato come il caimano (Berlusconi) e l’innominabile (Renzi).

Infiammati dal furore rivoluzionario del Di Battista, a sua volta rincuorato da menestrelli mediatici, Barbara Lezzi e una ventina di “portavoce” hanno affollato la webinar per il “vaffa day 2021” mentre a Montecitorio i “portavoce” più stellati e il capo-garante Beppe Grillo recitavano la promessa del terzo imeneo.

I riottosi, fedeli al loro credo, hanno urlato in cuffia il venir meno di un minimo di coerenza. Dimentichi che, già umiliata due volte, erano propensi a sacrificarla ancora sull’altare del non c’è due senza ter. Il ter però è sprofondato nell’abisso e ora non ci stanno a chinarsi al terzo sì. Coerenza o timore di imbarcarsi in un Governo presieduto da un big dell’oligarchia finanziaria mondiale come Mario Draghi per il quale l’uno=uno… vale zero?

Coerenza! Quanto fervore indifendibile, sconveniente da invocare da parte di chi passo passo stava conducendo il Paese sull’orlo del baratro, gli stessi che tentavano di resistere pronti a rimanere incollati negli snodi del potere se un paio di senatori transfughi avessero rafforzato il Conte-Ter.

La provvida intemerata del Capo dello Stato Mattarella, d’un colpo, ha spazzato via l’inadeguatezza dai ministeri, restituendo la speranza di vedere alla guida persone capaci e di comprovata competenza. I rivoltosi non si rassegnano all’idea che sia finita, che non c’è più tolleranza per gli improvvisati; che non si ripeterà, per dirla alla Trilussa, quella crescita di potenza e di valore con gli zero che vanno appresso. Il più lucido, al solito, si è dimostrato Grillo nel consigliare ai malpancisti un Malox: il partito ormai è imploso, gli irriducibili stiano pure a scambiarsi il vaffa uno=uno, nel mentre lui con i suoi lusingatori più ragionevoli non si tirerà fuori dalla compartizione del Recovery fund. Trecento miliardi non sono semi di zucca.

Per il resto, la giornata di ieri ha segnato la gran rentrée di Silvio Berlusconi capelli a specchio e sorriso condiscendente, dopo otto anni in cui tutto “ei provò, la fuga e la vittoria, la reggia e il tristo esiglio”: si è presentato da primattore di intatta brillantezza per dire un tondo sì a Draghi e poi offrirsi alla folla di tv.

Oggi tocca a sindacati e confederazioni alternarsi nelle consultazioni. Il presidente incaricato vola comunque verso Palazzo Chigi. Chi si agita nel toto ministri sottovaluta che il nuovo premier farà valere la sua autorevolezza e la Costituzione: i componenti del Governo sono una sua esclusiva prerogativa e siamo certi che li sceglierà tra i più qualificati. Niente zeri appresso.

 

 

Ha ancora ragion d’essere la speranza in una giustizia imparziale su cui può contare l’uomo comune? Forse sì. Diventa meno solida, più dubbiosa, incerta se si è personaggio pubblico, politico o amministratore, se si esercita un ruolo in qualche modo influente, se si viene riconosciuti come capaci di incidere nella società. In questo caso le opinioni sono generalmente contrastanti, antitetiche: chi ritiene che la rendita di posizione possa più efficacemente produrre verdetti favorevoli; e chi per converso rileva che in troppi casi la funzione sia stata il presupposto di presunta colpevolezza. In entrambi in casi una distorsione perniciosa che ha portato a esiti aberranti di cui la cronaca giudiziaria è colma e i casi clamorosi in Sicilia e a Messina non mancano.

Credibilità allo stremo dopo la pubblicazione del recente libro-intervista di Sallusti e Palamara “Il Sistema” (edizione Rizzoli): spietata ricostruzione, dall’interno della magistratura, sul modo di interpretare e applicare la legge che non è mai stata uguale per tutti. Nel nome del popolo si è infranto il più sacro dei capisaldi della civiltà del diritto, quella fiducia appunto di poter contare sull’imparzialità della Giustizia.

Con geniale espressione, Vittorio Sgarbi ha definito Luca Palamara il “Buscetta dei togati”: definizione che rende con immediatezza la sintesi del volume in cui sono raccontati episodi di inaudita rilevanza e il come ai livelli apicali sono state gestite promozioni di procuratori capo o indagini sconvolgenti; l’origine di attacchi al governo della Repubblica, ai partiti o a singoli esponenti, a manager di alto e medio rango; le composizioni delle commissioni per il concorso in magistratura favorendo qualche figliolo. Un impetuoso torrente velenoso che investe i vertici della Suprema Corte di Cassazione; il Csm, ossia l’organo di autocontrollo dei giudici; le varie associazioni cui aderiscono i magistrati; e arriva a sfiorare persino il Quirinale.

Per certi versi verrebbe da dire nihil novi sub sole, se non fosse che la ieraticità di tocco e spada ha sempre preteso ammirazione per i suoi sacerdoti, a prescindere. Pochi hanno osato sfidarne il potere, intaccarne la solennità, mettere in discussione l’operato. Adesso a spingersi tanto in alto è chi quei ruolo di vertice lo ha ricoperto a lungo, ha partecipato a incontri carbonari, ha contribuito da un Hotel Champagne a determinare nomine dei massimi capi del potere giudiziario, si è prestato a manovre ambigue e ad azioni spregiudicate, è stato riferimento di colleghi, da Trento a Trapani, in grado di tessere le trame all’interno della corporazione e i rapporti col mondo politico dominante. Per finire in un trojan canarino.

Un attacco frontale all’Associazione nazionale magistrati in verità lo aveva scatenato l’ex Capo dello Stato Francesco Cossiga in un arcinoto intervento tv del 2008 in cui paragonò l’Anm ad un’associazione tra “sovversiva e di stampo mafioso”. Non accadde nulla, nonostante il pulpito.

Con buon realismo sarà così pure questa volta: “Il Sistema” offrirà lo spunto per eruditi quanto infiniti dibattiti, esercizio in cui eccelliamo. Niente di più, il tempo assorbe. Ma i fatti raccontati sono ormai consegnati alla storia giudiziaria e descrivono il clima da notte dei coltelli che ha attraversato gli ultimi decenni. Quelli che il canarino ha scoperchiato.

La formazione professionale da pm del calabrese Palamara, anch’egli figlio di magistrato, comincia a Reggio Calabria e lui ricorda così il suo esordio: “Rimango subito coinvolto in una rissa che diventa guerra tra il nuovo procuratore, Antonio Catanese, un onesto magistrato di Messina (era stato a lungo giudice istruttore, oggi si direbbe gip) che nella vita aveva fatto di tutto meno che il pubblico ministero, e il suo vice Salvatore Boemi, uno che si era intestato grandi inchieste e che aspirava a diventare il capo. Inesperto, per poco ci lascio le penne perché mi schiero contro il vertice.

Capisco che ho bisogno di una protezione e per questo mi iscrivo alla corrente di Magistratura democratica (corrente di sinistra molto influente). Ecco, in quel momento, anche se ancora non ne ho piena coscienza, varco la porta ed entro nel “Sistema”. Il clima a Reggio Calabria in quegli anni è particolarmente incandescente, perché i vertici della magistratura reggina sono stati investiti dal ciclone delle dichiarazioni rese dal notaio Marrapodi, che in un drammatico confronto con il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro accuserà tra gli altri l’allora procuratore Giuliano Gaeta di aver protetto le cosche mafiose. «Siamo arrivati insieme in una realtà molto difficile» mi dice il nuovo procuratore Antonio Catanese quando ci incontriamo per la prima volta”.

Palamara fiuta che non era il caso rimanere e che per fare carriera doveva puntare sulla capitale e si raccomanda per ottenere il trasferimento. Il posto libero non c’era ma d’incanto si rende disponibile grazie al suo potente collega che si era dato da fare per accontentarlo e che infatti lo chiama al telefono: “Caro Luca, quel posto a Roma per te si è liberato, auguri e buon lavoro”. C’entrava il merito? Può essere; io la vissi come una cooptazione del leader più potente dei duri e puri della sinistra giudiziaria, al quale sono rimasto sempre affezionato: restituiva un piacere ricevuto e nello stesso tempo mi arruolava in modo ancora più stretto alla causa. In quel momento ebbi la certezza di come funziona un tassello del sistema: io do una cosa a te, tu al momento opportuno la darai a me.

Ma avevo chiara anche un’altra cosa. E cioè che io dovevo trovare il modo di farle, le telefonate, non riceverle. E per questo mi serviva essere a Roma e non a Reggio Calabria, non in Magistratura democratica, corrente ideologica e non scalabile da uno con la mia storia, ma in una corrente meno strutturata e più pragmatica”.

Passa infatti a Unità per la Costituzione (Unicost), corrente di centro “ma che ha al suo interno un’organizzazione di tipo feudale, è soprannominata nel nostro mondo «Unità per la prostituzione», data la sua propensione al clientelismo e alla lottizzazione, soprattutto nelle sue roccaforti tradizionali, che sono nell’ordine Napoli, Catania e Roma”.

Tra i vari inediti, eloquenti, ecco un altro passaggio del libro in cui si parla della “tecnica dei pacchettoni”, in cui Palamara si definisce un vero maestro. Vediamo di cosa si tratta:

“Quando in tanti colleghi dicono, come è accaduto dopo che è esploso il mio caso: io con il metodo Palamara non c’entro, io sono stato nominato nel posto che occupo all’unanimità dal Csm? Tutte frottole. Ci sono, faccio un esempio, quaranta posti da assegnare tra giudici della Cassazione e procuratori generali. Bene. I quattro capicorrente si siedono informalmente e prima di qualsiasi votazione ufficiale attorno a un tavolo (normalmente quello del capogruppo della corrente più importante, ubicato al primo piano del palazzo del Csm), ognuno con il suo elenco che agli altri non deve interessare. E si comincia: a me ne spettano quindici, all’altro dieci, al terzo sette e così via fino a riempire tutte le caselle.

Parliamo di candidati bravi e preparati? Può essere, a volte sì, altre meno. È che non si va per curriculum, come si dovrebbe; si va per mera spartizione e un magistrato altrettanto bravo ma non iscritto a una corrente è fuori, non ha speranza che la sua domanda venga accolta. Alla fine i nomi scelti finiscono blindati in una delibera del plenum del Csm che approva all’unanimità, il gioco è fatto e la faccia è salva. Dirò di più: normalmente i curricula confluiscono in un librone che viene mestamente abbandonato su qualche scaffale senza mai essere aperto”.

Mai incidenti di percorso? (domanda l’intervistatore):

“Il sistema è rodato e si inceppa raramente, tipo quando sul tavolo viene messo il nome del cosiddetto “impresentabile”, che il più delle volte però la sfanga perché il proponente minaccia di dichiarare “impresentabile” uno dei tuoi e ci si infila in un tunnel senza fine. Questo per dire…”

Per dire che è una schifezza…sbotta Sallusti. E per ora ci fermiamo qui.

 

L’attenzione in queste ore è concentrata su chi affiancherà Mario Draghi nel Governo che si avvia a formare. Esercizio di poco significato se calibrato sulle vecchie logiche. Non ci vuole molto per capire che la politica degli attuali partiti ha esaurito la sua forza attrattiva; si va verso nuove aggregazioni, la mutazione è già in atto. La pandemia, l’arrivo di notevoli risorse e la leadership di Draghi accelereranno i nuovi assetti. E in questa prospettiva si muove SuperMario, al cui apparire come d’incanto è andato giù lo spread e dalle cancellerie internazionali è venuto un unanime chapeau.

Ovviamente si dà per scontato che scioglierà in modo positivo e rapidamente la riserva, dopo aver soddisfatto il rituale che vuole la procedura delle consultazioni. Una formalità canonica irrinunciabile, più per dare un senso al ruolo dei partiti, associazioni private e senza regolamentazione che tuttavia concorrono all’architettura istituzionale, nel solco di quell’ipocrisia tacitamente tollerata che non prevede norme, dettami, criteri sull’organizzazione interna e sulla rappresentanza. Sarà per questo che si parla di… gioco democratico.

Digressione suggerita dal fatto che oggi, nell’incontro di rito dei 5Stelle, ci sarà Beppe Grillo. Finora a comporre le delegazioni sono stati i segretari dei partiti con i capigruppo di Camera e Senato, in questo caso si materializza anche la figura del “garante” che non ha rilievo formale e tuttavia è il fondatore-capo indiscusso, l’unico che può prendere impegno per tutti. Cosa dirà Grillo a Draghi? Nelle due esperienze precedenti con Bersani e Renzi, in streaming, egemonizzò la discussione e chi lo accompagnava obtorto collo relegato al ruolo di comparsa; il risultato fu un duplice e secco no. Sono passati quasi sette anni, il Movimento è cresciuto, Crimi e gli altri avranno diritto di parola? E la posizione passerà al vaglio dei quisque della rete Rousseau?

Ne giorni scorsi la trattativa-scontro con Matteo Renzi è stata condotta all’insegna di “Avanti-ConTe”, slogan coniato da Grillo il quale, forse perché fiducioso o perché non voleva sedersi di nuovo al tavolo col fiorentino, ha preferito starsene nella sua Genova. Grillini e Pd omogeneizzati in modo indistinguibile sul nome del premier hanno cercato di resistere ma è finita a carte quarantotto col leader di Italia Viva dominatore durante e vittorioso alla fine. Adesso Grillo, il più esacerbato dalla sconfitta e ardente dalla voglia di vendicarsi, è sceso a Roma per restituirgli indirettamente la pariglia?

Cosa c’entra il naufragio del Conte-ter di martedì con oggi? Non lo so ma l’insieme di più pensieri genera un sospetto. Eccolo: Renzi da premier è stato artefice della candidatura Mattarella al Quirinale e ci ha visto bene; prima ancora da rottamatore del Pd ha centrato l’obiettivo della segreteria; nello sposare il governo giallo-rosso si è tolto dall’angolo e un mese fa quando ha scatenato l’assalto a Conte, con un’unica azione ha ottenuto risultati multipli (mandare a casa Conte, scompaginare i partner entrati d’un colpo nel pallone, riguadagnare smalto). Da ultimo, l’auspicio espresso da Renzi di vedere a Palazzo Chigi Mario Draghi… si sta realizzando.

A fronte di questo clamoroso bingo, sarà capace Grillo di lucidità razionale, di accantonare livore e rivalsa per raccogliere l’appello all’unità nazionale del Capo dello Stato, assecondare il nuovo premier incaricato… di prendere il posto di Conte?

Difficile immaginare che, come ha fatto a suo tempo con Bersani e Renzi candidati a Palazzo Chigi, anche questa volta opporrà un netto rifiuto. Quale che sarà l’esito della consultazione, Draghi comunque andrà avanti, “Whatever it takes”: sta incassando uno alla volta il sì, dal Pd alla Lega. E’ vero che alla Camera M5S conta su numeri importanti, però al momento del voto non tutti i deputati saranno pronti ad appiattirsi sulla decisione del capo. Grillo lo sa e dovrà castigare l’impeto di far saltare il tavolo, altrimenti diverrebbe bersaglio incrociato, si inimicherebbe l’alleato Zingaretti, anticiperebbe l’implosione del suo Movimento e segnerebbe la fine di “Avanti-ConTe”. Sarebbe pure un risultato multiplo… ma da sconfitto.

 

 

 

Palazzo Chigi non sarà più un set; niente sussiego di televisioni, dichiarazioni e videate a tutte le ore che hanno finito col trasformare il presidente del Consiglio in una star da esibire al pubblico per commenti live sul ciuffo o sull’incedere tra un caffè in via Condotti e un passaggio in galleria Colonna.

Con Draghi calerà il sipario sulla politica da talent: c’è da lavorare, occorre farlo studiando le carte, dedicandosi senza l’incomodo di riflettori non stop e l’assillo di compiacere i social. Basta al rovello di ricette salvifiche elargite a ripetizione da ciascun ministro magari tra un cocktail e il piano bar mentre la nave affonda. Se non assisteremo più a queste scene sarà già un merito, un valore, una virtù.

Ovviamente non è soffermandosi sullo stile che si risolvono i problemi, si guarderà ai contenuti… ma la forma è presupposto di sostanza. Il presidente incaricato Mario Draghi sa di costituire la scommessa dell’Italia, che tutto è puntato su di lui e sulla squadra che lo affiancherà: ecco allora che se, come probabile, chiamerà all’Economia Fabio Panetta (membro italiano dell’esecutivo Bce, su cu graverebbe la stesura del Recovery plan) e alla Giustizia l’ex presidente della Consulta Marta Cartabia, basterebbero questi nomi per dare l’imprinting del Governo di alto profilo sollecitato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Al Capo dello Stato va rinnovato il plauso corale per aver coniugato grande rispetto delle procedure istituzionali e urgenza nelle determinazioni, senza comprimere gli spazi della politica.

La politica ha fallito, ora è in ambasce. I quattro partiti che componevano la maggioranza uscente si sono annientati per il prunaio su cui si era formata: un inciucio poco convincente, tra divergenze dichiarate e latenti, esorcizzate sull’altare della convenienza e del potere a tutti i costi. Al redde rationem provocato dal baldanzoso Matteo Renzi, i vari leader si sono incartati, hanno dato ulteriore prova di pochezza politica e si sono arenati a ridosso dell’approdo, cui comunque erano destinati a non arrivare mai. Renzi ab initio meditava di disarcionare il premier Giuseppe Conte e ci è riuscito; doveva essere “asfaltato” ed è andata diversamente, forse non sperava di scombinare tanto i partner ma ha ottenuto pure questo. Il che oggi gli fa dire: tre a zero.

Parlare ancora di crisi immotivata significa fare le tre scimmiette. L’intrico è andato a rotoli perché non aveva costrutto, semmai stupisce la durata di un anno e mezzo che, sommata all’anno precedente, fa tanto. Una compagine caratterizzata da inadeguatezza a tratti spassosa.

Stare adesso a chiedersi se il Governo Draghi sarà politico o tecnico, è un esercizio da stolti. Chissenefrega, l’Italia va disinquinata e ci trastulliamo sulle etichette?

Mattarella, fin troppo paziente, ha tollerato come tutti noi e alla fine ha detto basta a goffi e gaffe. Serve un riepilogo per ricordare chi ci ha governato? Da Luigi Di Maio che diceva di Draghi numero uno della finanza mondiale…”mi ha fatto una buona impressione”; ad Alfonso Bonafede guardasigilli col suo farfugliare lezioni di giurisprudenza (“dalle indagini si passa al processo che poi si conclude con la condanna”; e ancora “gli innocenti non finiscono in carcere”); alla Paola De Micheli dai cassetti segreti in cui custodire gli esiti della commissione Ponte sullo Stretto mai resi noti.

Quanto al Parlamento, abbiamo già visto chi lo abita ma il dopo Conte offrirà un quadro più ampio, allargato al Centrodestra.

 

Grande Mattarella. E’ suo il tocco da fuoriclasse, nel bel mezzo di un’aporia in cui non ne potevamo più dello stucchevole batti e ribatti tra i quattro capponi ingegnatisi a beccarsi l’uno con l’altro fino a dissolversi in un tiritiritù suicida.

Il Capo dello Stato con inusuale tempestività ha assunto la decisione che ormai la maggior parte auspicava: un Esecutivo di alto profilo in grado di riprendere in mano la situazione, governare la fase cruciale che allarma il Paese liberandolo da un’accozzaglia d figure incerte e poco rassicuranti.

Dopo aver concesso tutto il tempo possibile ai quattro litiganti e aver assistito come tutti noi al fallimentare spettacolo andato in scena, il presidente Sergio Mattarella ha troncato ogni indugio ponendosi all’istane in sintonia col sentimento comune: mandare alla malora i compagni di sventura, restituire dignità e prestigio alle istituzioni. Oggi al Quirinale salirà Mario Draghi, la cui esperienza e caratura internazionale sono garanzia di affidabilità, competenza, acribia. Qualità che gli ultimi due governi a guida Giuseppe Conte non hanno espresso.

Si cambia, cambieranno i ministri e i loro staff; d’un colpo torna a casa uno sterminato stuolo di improvvisati, ritrovatisi in posti di comando senza preparazione adeguata né idee chiare sul cosa fare. Lo abbiamo visto col piano pandemia, la campagna di vaccinazione, la scuola, i commissariamenti, la confusione che ha caratterizzato l’Esecutivo solo per rimanere sul terreno dell’emergenza. Altrettanto per le riforme, l’ordinaria amministrazione, gli interventi nel sociale, la giustizia, la rilevanza e credibilità all’estero e in Europa.

La nomina di Draghi segna il fallimento della politica tout court assolutamente impreparata a misurarsi con i problemi reali del Paese in tempi normali, implosa in modo clamoroso. Draghi segna un nuovo inizio di grandi attese, di quell’unità nazionale che potrà solo beneficiare dalla sua guida autorevole e distante dalle manfrine cui sono abituati i politici. Sarà anche una salutare scossa per i partiti, chiamati ex abrupto a fare i conti con un capo dell’Esecutivo che finalmente, come vuole la Costituzione, si sceglierà i ministri e non se li farà suggerire con cencelliani pizzini, né si piegherà ai desiderata di questa o quella corrente per galleggiare.

Nel tentativo di rimanere a galla si è inabissato il Conte bis: Renzi col suo “ciao” ne aveva anticipato la fine ma il premier, tremebondo, si è lasciato rosolare standosene in silenzio arroccato a Palazzo Chigi, senza profferire verbo mentre altri parlavano per suo conto relegandolo a convitato di pietra. Che triste epilogo anche per Pd e Cinquestelle, rivelatisi campioni di trasformismo, fino a ripiegare in un ruolo di subalternità. Renzi se non ha vinto è di certo il miglior perdente: ha ottenuto il risultato di stoppare il Conte-ter e di sbaragliare i partner, lasciandoli con le pive nel sacco, allo sbando, disorientati, confusi.

E pensare che un tale accosto meditava di tornare in sella, avrebbe dovuto fronteggiare l’emergenza, progettare, ricostruire l’Italia con mega piani, spendere centinaia di miliardi!

La scelta, provvidenzialmente tempestiva di Mattarella, fa esultare il mondo produttivo; ha posto fine alla pericolosa deriva che ci stava trascinando verso il baratro. Sarà interessante vedere adesso come risponderanno i singoli parlamentari quando Draghi si presenterà alle Camere per ottenere la fiducia: chi oserà dire no. Alcuni leader, spiazzati dal Colle, hanno già reagito stizziti: poverini, non sanno tacere neppure quando il silenzio e un passo indietro sarebbero d’obbligo. Sono impauriti dal confronto, terrorizzati dalla novità e dai riverberi nel mondo ottuso della politica. Almeno di questa politica, su cui finalmente è piombato un benefico… The End.

Messina, è deceduto il comandante Nino Cama

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Messina, è deceduto Nino Cama comandante traghetto Siremar.
Aveva 48 anni.
Ai familiari le condoglianze del Notiziario

LIPARI, IN 24 ORE TRE INTERVENTI DELL'ELISOCCORSO

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Lipari - Occlusione intestinale per un isolano e con l'elisoccorso è stato trasferito all'ospedale di Milazzo. Il velivolo del 118 è stato richiesto dai medici dell'ospedale.

Una donna gravida è stata trasferita nel nosocomio mamertino.

Altro intervento ieri dell'elisoccorso per un isolano con problema cardiologico e ricoverato a MIlazzo.

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Se non stessimo assistendo alla rappresentazione plastica del fallimento di un sistema, sembrerebbe il set di scherzi a parte con finale a sorpresa. Sui social infatti impazzano vignette e video esilaranti.

Come si fa a spiegare che gli stessi partiti che da quasi due anni reggono le sorti del Paese, abbiano bisogno di tavoli ininterrotti di discussione e magari di tempi supplementari per mettere nero su bianco le cose da fare, abbozzare programmi, decidere come andare avanti? Ma stando insieme al governo della Nazione, cosa hanno fatto finora? Di cosa si sono o non si sono occupati se adesso c’è urgenza di condensare in pochi giorni l’agenda, approfondirla e ritrattarla ex novo? Per ripartire da zero.

E come si fa a commentare l’assenza negli incontri del convitato di pietra, cioè Giuseppe Conte, il premier uscente candidato a subentrare a se stesso, incombente ma distante nelle trattative tra i capi partito che lo chiamano in causa? Sul suo nome Renzi ha spezzato l’asse ma è proprio Conte il perno su cui si cerca di tessere il nuovo orlato, il punto di riferimento irrinunciabile per trequarti dei partner. E il quarto giocatore… fa cip, rilancia, passa? Sul piatto ci sono oltre 200 miliardi, le fiche del Recovery, il più imponente piano di rilancio dal Dopoguerra.

M5S-Pd-Iv-Leu si rendono conto che non è un gioco e stanno celebrando in diretta una sorta di suicidio politico? Quale che sarà oggi la svolta al Quirinale.

Che dignità e autorevolezza potrà avere un Governo frutto di accomodamenti e di rappezzi per spuntare questo o quel ministero in cui piazzare bandierine? Quale solidità parlamentare avrà via via che ci si avvicinerà ad agosto, data fatidica in cui le Camere non potranno più essere sciolte e ogni deputato si sentirà al sicuro e libero da vincoli?

Torniamo ai tavoli dove siedono giocatori che sembrano la caricatura di se stessi, come in un quadro di Cézanne, tra il conduttore, gli sfidanti e il palo. Nessuno ha il poker, qualcuno strizza l’occhio, qualche altro aspetta una soffiata, l’altro ancora ha un asso di troppo. Il bluff salta, le carte sono truccate. Basterà rimescolarle?

 

Dovremo farcene una ragione del coonestare dei quattro partiti impegnati nel cerimoniale di questi giorni e del loro tentativo di ammantare di perbenismo un’ipocrisia di fondo: le cose da fare sono ben note agli attori che da mesi conoscono i punti di contrasto, il vero perché si sono divise le strade, gli incarichi da cui ripartire. Per discuterne non serviva ricorrere al secondo “confessionale” di Montecitorio dopo quello al Quirinale. Oggi finalmente faccia a faccia scopriranno le carte, notaio sempre il presidente della Camera Roberto Fico incaricato dal Capo dello Stato di verificare l’affidabilità dei contraenti M5S,Pd, Leu, Italia Viva.

Due gli scenari: si metteranno d’accordo, o attaccheranno i loghi al chiodo per lasciar posto all’ Esecutivo istituzionale?

Se avanza, come pare, la prima ipotesi si andrà verso il Conte-ter. Patto scritto o no importa poco nella sostanza (come si è visto col primo contratto giallo-verde M5S-Lega) ma serve a galvanizzare il set mediatico; sulle cose prevarrà il chi deve portarle avanti. Ed eccoci al punto cruciale: i nomi. Conte per farcela dovrà rinunciare espressamente a un proprio partito, dichiararsi espressione dei cinquestelle, rinnovare la squadra (si scaldano anche i senatori Bruno Tabacci, promotore del neo Gruppo nato in soccorso all’ultimo momento e quindi da ricompensare, e Pierferdinando Casini spesosi non solo in tv in favore di Renzi, dopo averlo recuperato dall’iniziale isolamento. Conte uscirebbe ridimensionato, Renzi ha già ottenuto tanto tra Roma e Riad, nessun cappone paffutello finirà per fare lo spiedino. La “quadruplice”, già tormentata dal rischio liquidazione, potrà sopravvivere e ipotecare fra un anno il settennato al Quirinale. Che ne sarà alle urne si vedrà, intanto non si spreca tanta grazia.

Secondo quadro: l’accordo non si chiude per l’incaponirsi di qualcuno davanti a un carneade qualsiasi, allora Mattarella assume finalmente l’iniziativa da più parti invocata, cioè un Governo istituzionale di alto profilo da mandare in Parlamento per ottenere la fiducia. Un esito scontato: chi potrebbe non votarla sapendo che l’alternativa è tornare a casa? Su questo collante hanno giocato un po’ tutti per compattare i propri Gruppi. In questo caso il nome più accreditato è quello di Mario Draghi, il “Ronaldo” della finanza europea, la cui caratura sarebbe garanzia assoluta nella gestione della mole enorme di risorse in arrivo col Recovery plan. Ridondante soffermarsi sull’utilità di ricorrere a professionalità di tale livello in una situazione drammatica.

Quale sarà l’epilogo lo scopriremo forse oggi stesso: prepararsi a rimanere di princisbecco col Conte-ter, magnificazione funambolica del trasformismo, che si potrà pure edulcorare ma direbbe Camilleri… cònsala comu voi, sempre cucuzza è.

Da più parti si ripete che siamo in guerra; lo stesso Presidente della Repubblica ne ha sottolineato la gravità, concordano i vari leader e sicuramente lo testimonierebbe un sondaggio imparziale tra i cittadini. Con queste premesse, c’è da stupirsi che non si sia già ricorso in tutta fretta a un “gabinetto di guerra”, senza tempi supplementari al teatrino attuale. Non si arriverà, il tocco a fin della licenza è: non cincischiare oltre e firmare di corsa per salvarsi e non perire. E Dio salvi il Paese.

 

Non dialogano, non si fidano, si contrastano a distanza in una sorta di lotta per la sopravvivenza: un darwinismo spinto alle estreme conseguenze in cui si salverà solo la maratona-mentana.

Sono gli ex alleati che, buttata via una perturbata convivenza, dovrebbero ora tornare micio-micio, giurarsi fedeltà, andare avanti fino a che prossima legislatura non li separi (e rimpiccolisca). I presupposti sono giornalmente sotto gli occhi: Matteo Renzi, imbaldanzito dalla momentanea débacle del premier Giuseppe Conte suo bersaglio dall’inizio, continua a essere l’unico mattatore. Sta tonificando Italia Viva del 3%, tiene in scacco gli appannati partner, si mostra sicuro delle sue ragioni, le espone con minuziosità, non si sottrae alle domande anzi le sollecita. Di contro: tremulo silenzio o quasi, come se timorosi di incespicare, di rispondere ai giornalisti, di scoprirsi sul merito delle questioni.

Piaccia o no ai detrattori, ai giornali amplificatori del grillismo integralista, agli urloni del “mai più con lui” è proprio lui ad accomodarsi da leader, a dare le carte, dettare l’agenda. Così è parso anche ieri sera, all’uscita dall’incontro col presidente della Camera Roberto Fico incaricato dal Capo dello Stato Mattarella di verificare se sussistono le condizioni per tirare a campare altri due anni.

Renzi (a parte la stancante nenia sulle poltrone lasciate dalle sue due ministre Teresa ed Elena) ha elencato la serie di argomenti che lo hanno portato alla spaccatura: vaccini piuttosto che inutili primule; più risorse alla sanità; riscrittura del Recovery Plan con garanzie sull’operatività; niente veti sulle infrastrutture importanti e poi la solita tiritera sulla gravità del momento, la pandemia, la credibilità internazionale, la necessità di far presto, la sofferenza delle aziende, il lavoro, la scuola ecc. Ripetizioni tautologiche che accomunano i vari esponenti dei partiti dell’ex governo come se non toccasse esattamente a loro rimediare e dare conto del cosa non si è fatto bene e prima; anzi, quasi ad alimentare subdolamente l’idea che se non ci fosse stata la pandemia sarebbe andata diversamente. Perissologia tipica quando scarseggiano argomenti di rilievo.

C’è di più: adesso è Renzi che non si fida e pretende un patto scritto, vuole che siano messi nero su bianco gli accordi affinché nessuno domani possa esimersi da responsabilità o ribaltarle e fa risuonare nell’aere parole come disciplina, onore, lealtà. E’ la sua rivalsa all’accusa di essere inaffidabile, ganzo; ha reso la pariglia, aggrava il solco.

In sostanza, dopo un anno e mezzo che stanno insieme, i quattro partiti non si parlano, si incontrano separatamente, sono diffidenti. Dopo le brucianti ultimissime esperienze Conte-Renzi e Mastella-Calenda, nessuno si azzarda a prendere il telefono e chiamare; comunicano tramite l‘intermediario Fico. E ancora non sono scesi sul terreno sdrucciolevole dei nomi e degli incarichi, soprattutto non si è accennato a chi eventualmente dovrà guidare il nuovo Esecutivo, ammesso che arrivino all’altare.

E se mai non dovessero ritrovarsi? Volerebbero stracci fino in quota, da investire il lussuoso jet degli Emirati che ha ospitato Renzi da Roma a Riyad e ritorno nel clou delle consultazioni (un viaggio lampo ma in suite di pelle… e buon per lui se, come pare, è stato pure ricompensato profumatamente dal principe).

La diretta sulla crisi prosegue, almeno fino a martedì. L’inferenza che intanto se ne trae è di cauto… pessimismo: sono questi gli intrepidi condottieri che dovrebbero portare il Paese fuori dalle secche?

 

La storia si ripete. Bis per il presidente della Camera Roberto Fico, il napoletano esponente del Movimento Cinquestelle, deputato dal 2012 e già a capo della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai, al vertice di Montecitorio da marzo 2018 e in tale ruolo incaricato un mese dopo dal Capo dello Stato Sergio Mattarella di esplorare la possibilità di un governo Pd-M5S che non ebbe buon esito, l’accordo si strinse infatti fra M5S e Lega. Ora ci riprova, anche questa volta su mandato di Mattarella per verificare la possibilità di far rinascere un governo con la stessa maggioranza di quella uscente.

L’imperativo di far presto lo ha sottolineato intanto Mattarella dandone immediata dimostrazione con la convocazione di Fico entro un’ora dalla conclusione degli incontri, invitandolo a ritornare martedì col responso. Adesso il punto è se ci sono le condizioni per ripartire con i renziani di Italia Viva, visto che è caduto da parte del M5S quel “mai più” opposto all’indomani della crisi. Fin qui si potrebbe dire che Matteo Renzi ha ottenuto ciò che voleva: ridiscutere il programma, stilare un nuovo Recovery Plan, azzerare l’Esecutivo, depotenziare il premier uscente, recuperare centralità per il suo partito e risollevarlo da quel 3% in cui è fermo da tempo.

Primo effetto delle braccia aperte da parte di Crimi e Di Maio, è stata l’implosione del M5S: l’ala intransigente Di Battista-Lezzi-Morra non vuole saperne e con ultimatum di fuoco preannunciano il prossimo abbandono. La crisi ha fatto deflagrare contrapposizioni da tempo motivo di dissenso fra i propugnatori degli iniziali “vaffa” e i tanti convertitisi via via ad una politica meno aggressiva, disponibile al confronto e pure alle mediazioni che lo stare dentro una coalizione di governo impone. I ribelli accusano i compagni di snaturare la fisionomia e di smentire le origini del Movimento. Sono una minoranza? Su quali numeri possono contare, soprattutto al Senato? Perché, se come pare, potrebbero essere una decina i senatori grillini pronti a dissociarsi dalla linea dell’accordo con Renzi, verrebbe vanificato il soccorso dei “responsabili” messi insieme dal neo Gruppo Maie-Centro democratico, nato per blindare Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Intanto il fronte dei ribelli esce sconfitto e con esso il megafono mediatico che ne aveva enfatizzato le gesta: l’obiettivo di emarginare Italia Viva si è tradotto in un boomerang con la resa dei conti ormai in atto nel Movimento.

Rimane l’incognita Conte. La ribellione degli integralisti grillini nel fare fuoco ha finito per indebolire lo stesso premier che da giorni colleziona flop a ripetizione: ha sottovalutato la sfida di Renzi, lo ha ignorato fiducioso di poterlo isolare e di “asfaltarlo” con la chiamata a raccolta dei “responsabili”; fallita questa operazione è entrato nel pallone e da quel momento non si è più ripreso, né gli ha giovato l’ultima telefonata all’ex premier nel tentativo di rabbonirlo mentre si recava al Quirinale per le consultazioni. Lo sbarramento di Iv al Conte-ter c’è stato e da qui deve ripartire Fico.

Non è più un problema di numeri che ci sono, quanto di premier, di composizione del Governo, di deleghe. Lo hanno evidenziato, prima ancora delle consultazioni, politici navigati come Bruno Tabacci e Clemente Mastella riemersi nelle ultime convulse settimane per puntellare Conte. Ne è convinto pure il sen. Enzo Palumbo, parlamentare liberale della prima repubblica: “In politica la linea che congiunge due punti non è mai retta. Renzi è stato abile a rilanciare la palla in campo M5S; di rimbalzo è arrivato un assist, quindi si metteranno d’accordo. Oggi Conte è fuori, per rientrare servirebbe un ripensamento dell’agenda e un Esecutivo totalmente rinnovato in cui Bonafede non può essere guardasigilli e che preveda innesti dall’esterno”.

Di certo nessuno vuole andare alle urne, neppure chi le invoca. Perché una cosa sono i sondaggi, tutt’altra cosa i voti. Se le percentuali che circolano dovessero essere affidabili, le vorrebbe per primo Conte, accreditato com’è di una popolarità trasversale. Ma analoghe prove di predecessori suggeriscono di… desistere.

E’ di tutta evidenza che la rilevanza storica delle scelte da fare esclude qualsiasi ipotesi di Esecutivo-fotocopia o modificato in qualche casella. Serve una poderosa accelerazione che può venire solo da competenze di alto profilo e di sicura collaudata esperienza specifica nei settori in cui si va a operare. Anche per questo alcune forze politiche hanno chiesto a Mattarella di valutare un Governo di unità nazionale… che ci salvi dal rischio di restare a lungo intrappolati tra crisi sanitaria ed economica. 

 

 

Giubilo di maggioranza nell’interesse del Paese… benvenuti nella commedia dell’arte! Si recita a soggetto, niente copione; il canovaccio è quello del tornaconto ad horas. Alla faccia di chi si sbrodola in roboanti impegni di legislatura, di chi invoca coerenza avendo dato dimostrazione di macchiettistica contraddizione, dei cheguevara che, al fiuto del potere, da rivoluzionari si scoprono conservatorissimi gelosi custodi di logore pratiche.

Il politico più lucido che non è sceso in politica ci aveva avvertiti… laqualunque, purchessia. Ed ecco che nella seconda o terza repubblica, l’invocata stabilità è riposta nelle affidabili mani di quis de senatoribus disponibile solo a dichiararsi cittadino d’Europa, nessun’altra credenziale o dimostrazione di ardore; neppure una firma, basta una dichiarazione senza impegno, ritrattabile in qualsiasi momento.

Si è prestato, da ultimo, il senatore di Forza Italia Luigi Vitali convinto, non sappiamo da chi, a transitare frettolosamente nel Gruppo Europeisti in soccorso del premier Conte, salvo a ripensarci dopo una notte, che come si sa porta consiglio. E al risveglio, rimangiarsi tutto in diretta tv raggelando Palazzo Chigi alle prese con l’ansiosa conta aritmetica di arrivi e abbandoni: Vitali ha fatto prevalere gli affetti che lo legano a Berlusconi & company sul timore di elezioni anticipate. Che bello! Una scelta deamicisiana in cui predomina il cuore: suscita tenerezza!

E non è l’unico. Prima di lui ulteriori dimostrazioni di grande cuore ce le ha riservate Nicola Zingaretti, non nuovo a slanci filantropici: non voleva che saperne dei Cinquestelle ma altruisticamente si è alleato; “mai più con Renzi” e lo ha già reimbarcato. Lo spirito solidaristico lo ha portato persino a “prestare” una sua senatrice, Tatjana Rojc, al Maie pur di consentire la costituzione del Gruppo dei “responsabili” al Senato pro-Conte. Che bello! Sacrificarsi per gli altri.

Non poteva essere da meno Matteo Renzi: da “Enrico stai sereno” a “se perdo il referendum non solo vado a casa ma smetto di far politica” si è ripreso la scena con la crisi di governo per disarcionare il premier Giuseppe Conte, salvo a riconsiderare l’ipotesi. Ha posto obiettivamente questioni serie sull’immobilismo dell’attuale Esecutivo, e gli sono state riconosciute ma è pronto a un passo indietro pur di non rimanere fuori. Prova di coraggio e di coerenza!

Di molti dei rivoluzionari grillini che hanno affollato la Camera dei deputati, si sono perse le tracce; alcuni hanno preferito sottrarsi al “taglio” degli stipendi aderendo al Misto, qualcuno è approdato altrove e i rimanenti sono spaccati tra possibilisti e intransigenti. Campioni di velocità nel passare dalla Lega al Pd, dal “porta chiusa” al porta aperta, si sono accomodati nei Palazzi e hanno metabolizzato in fretta le dinamiche del trasformismo alla bisogna, edulcorandone le motivazioni, coniando neologismi ingannevoli. Opposizione da “noantri”.

Questa la farina con cui al Quirinale si tenterà di fare il pane.

Ma nulla di sbalorditivo di cui stupirsi in una fase del mondo che ci ha mostrato un presidente Usa dare la carica… per l’invasione di Capitol Hill; la delegazione Oms recarsi a Wuhan per accertare l’origine della pandemia e… sentire separatamente pipistrello e pangolino ma senza ficcare il naso nei laboratori; il fiorire nelle piazze italiane di gazebo a forma di primula per la vaccinazione… in mancanza dei vaccini.

 

 

Eppur si muove. Le consultazioni dei partiti al Quirinale, finiti gli incontri istituzionali con i presidenti di Senato e Camera, ed entrati nel vivo e già si colgono segnali di una possibile svolta col rientro di Italia Viva, nei cui confronti è caduto il veto dei Dem (e di parte del M5S).

Cancellato il “mai più con Renzi”, il segretario Nicola Zingaretti al termine della direzione Pd gli ha teso la mano manifestando disponibilità a riprendere il dialogo. Poche parole ed è venuto giù quel muro insormontabile dei giorni scorsi che aveva isolato e messo fuori gioco i renziani. Con la “redenzione” si ripropone la precedente alleanza, allargata al neo Gruppo degli “Europeisti-Maie-Centro democratico” promosso da Bruno Tabacci, senza ipoteche sul nome del premier anche se in prima battuta i Dem, non si sa con quanta convinzione, riproporranno Giuseppe Conte e il M5S dovrebbe far quadrato.

Zingaretti riapre dunque a Renzi e quest’ultimo coglie al volo l’opportunità di riallacciare il rapporto, seppure indispettito dall’operazione Europeisti con cui si è tentato di metterlo all’angolo. Una sola pretesa, peraltro condivisa dal Pd: che si vada verso un Esecutivo rinnovato nelle competenze, in grado di dare garanzie all’altezza dell’imponente lavoro che si prospetta a cominciare dalla riscrittura del Recovery Plan, capace di progettare il futuro. Questioni poste da Italia Viva al momento di provocare la crisi e in buona misura fatte proprie dai Dem sia prima che adesso. A questo punto, dando assicurazioni di affidabilità, rimarrebbe solo l’interrogativo sulla guida del Governo. Il toto premier appassiona in queste ore in cui tutto è da definire perché lo scenario non è nitido; entrano in ballo ripicche personali, ipotesi di allargare la maggioranza a Forza Italia, minacce di abbandono dentro M5S che potrebbero compromettere la tenuta di qualsiasi accordo.

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La campagna acquisti di senatori non è andata come sperato, i numeri non sono cresciuti granché e gli Europeisti, per raggiungere il minimo di dieci imposto dal regolamento dei Gruppi di Palazzo Madama, hanno dovuto chiedere il soccorso del Pd col “prestito” di una propria senatrice (Tatjana Rojc); in serata è sopraggiunto anche il senatore Vitali, già in forse dentro FI. Non vi è stata l’annunciata adesione di Alessandrina Lonardo Mastella, moglie dell’ex ministro Clemente il quale ha mal digerito che nella denominazione e nel logo del neo gruppo figurasse il nome del Centro democratico di Tabacci e non anche quello del suo movimento campano.

Il sospetto che i numeri non si rivelino stabili (e per non rimanere sotto scacco dei renziani), suggerirebbe l’allargamento ulteriore, da qui l’ipotizzato ingresso di Forza Italia che, pur tra mille indecisioni sulla convenienza di imbarcarsi nell’avventura, potrebbe starci se si profilasse un Governo di durata e sicura garanzia, guidato da personalità di prestigio. In fondo, il partito di Berlusconi pareggerebbe il conto con la Lega di Salvini che due anni fa non indugiò a staccarsi dal Centrodestra per dar vita all’Esecutivo giallo-verde.

Infine l’incognita cinquestelle. Al ventilarsi della possibile ricucitura, nel bel mezzo della giornata cruciale, è piombata la staffilata della senatrice pugliese Barbara Lezzi, grillina dell’ala più ortodossa, preludio all’implosione del Movimento. Già ministro per il Sud nel primo governo con la Lega, la Lezzi con fulmineo tempismo ha scatenato ieri la sua ira contro i colleghi M5S possibilisti a ricucire con Matteo Renzi. Una sferzante esternazione a sorpresa per opporre un veto assoluto premessa di una spaccatura nel Movimento dagli esiti insondabili in questo momento in cui tutto rischia di essere rimesso in discussione dalla sera alla mattina. Paradossalmente, nel volere blindare Conte per il reincarico gli ha creato un ulteriore intralcio.

 

Alla fine la secchiata di Santippe è servita, almeno per dar luogo al proverbiale “tanto tuonò che piovve”: sette giorni dopo il “Ciao” di Matteo Renzi al premier Giuseppe Conte, per indurlo a dimettersi e ripartire da zero, è servito a liquidare il Conte-bis. Il voto al Senato di una settimana fa segnava la sconfitta di Renzi, oggi questo epilogo potrebbe apparire come la sua rivincita. Dunque vittoria pirrica di Conte prima o di Renzi adesso?

Di certo, si è perso solo tempo, troppo tempo proprio mentre la gravità dell’attuale condizione non permetteva di attardarsi su manovre di palazzo. Ieri persino il cauto commissario europeo Paolo Gentiloni ha avvertito sulla pericolosa deriva e sui rischi per il Recovery plan, il mega piano di rilancio che dovrebbe far ripartire il Paese con oltre duecento miliardi, tutt’oggi al livello di seconda bozza da completare, concordare, definire.

Si potrebbe dire mali principii malus exitus… ma speriamo proprio di no per l’Italia. Il paio di esperienze precedenti non hanno avuto esito brillante, infatti la buona notizia è il the end-bis. Oggi si apre un’altra pagina.

Il Capo dello Stato ha temporeggiato a lungo, adesso ha fatto suonare il gong in un momento salvifico per il Governo che mercoledì sarebbe stato soccombente in Parlamento sulla relazione del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Conte ieri sera ha annunciato le dimissioni e stamattina si recherà al Quirinale a rassegnarle. Irrituale che Palazzo Chigi le abbia comunicate prima di informare il Presidente della Repubblica ma contano i prossimi passi e da subito si capirà l’intendimento di Sergio Mattarella.

A giudicare dalla tempistica, dai sorrisi, dai silenzi, l’ipotesi più accreditata è di un Conte-ter: nuovo governo con Pd-M5S-Leu più pattuglia dei “responsabili” in sostituzione di Italia Viva il partito di Renzi che si è sfilato dalla maggioranza. Le dimissioni consentiranno di varare un Esecutivo con cambi (Bonafede costretto a lasciare la Giustizia) e potenziamento dei ministeri così da dare spazio a new entry (si fa il nome del socialista Nencini, il senatore che col grillino Ciampolillo in extremis ha votato sì alla fiducia). Se sono fondati i rumor di una crisi pilotata, il teatrino dovrebbe concludersi rapidamente, col premier tre volte nella polvere, tre voltesull’altar.

Un margine di rischio tuttavia va messo nel conto quando si aprono le consultazioni al Quirinale, infatti fino all’ultimo voleva sottrarsi Conte. Tanto più che nelle trattative per ricomporre il Governo non rimarrà sullo sfondo il riferimento all’elezione del nuovo capo dello Stato, su cui dovrebbe convergere compatta la maggioranza che si andrà a formare con l’attuale accordo. Sarà tale da garantire passaggi così fondamentali?

Non sappiamo cosa ha determinato l’improvvisa accelerazione di ieri, sta di fatto che Il Governo, ritenuto inadeguato dagli stessi alleati, non poteva più andare avanti in uno stato di incertezza e paralisi. Troppi errori, indecisioni, rinvii, indugi mentre c’è bisogno di provata competenza e credibilità al vertice dei ministeri e non solo. Quanto si è sentito domenica sera nella trasmissione di Giletti è stata la goccia traboccante? L’aver scoperchiato una vicenda ancora tutta da chiarire sul miliardario acquisto di mascherine in piena pandemia da parte dell’Ufficio commissariale capeggiato da Domenico Arcuri, può aver indotto a correre ai ripari? Il sospetto di un modo di procedere poco limpido si somma a inefficienze organizzative, ai vaccini che forse arrivano forse no, alle scuole che forse aprono forse no, al Recovery Plan che cestinata la prima bozza e contestata la seconda forse non c’è ancora, al disorientamento della linea di azione dell’Esecutivo.

Rimane sullo sfondo l’opzione di un Governo di unità nazionale a guida Mario Draghi, gradito al centrodestra e ai renziani ma escluso dai cinquestelle che, già in difficoltà al proprio interno, non riuscirebbero a tenere unito il gruppo (i loro numeri contano eccome alla Camera). Un Governo di altissimo profilo sarebbe quello che una politica saggia dovrebbe auspicare non solo per recepire le attese del Paese quanto per mettere in mani affidabili ed esperte la gestione delicatissima delle prossime settimane in cui si gioca l’avvenire dei prossimi venti anni. Sarebbe una soluzione logica e utile… quindi da scartare! Il quadro appare ormai delineato e quando al Colle si avvicenderanno le figure istituzionali per il rituale copione, sarà febbrile il lavoro dei registi dell’operazione responsabili, cioè i navigati ex democristiani Bruno Tabacci e Clemente Mastella impegnati nel mettere in sicurezza il perimetro della maggioranza con arruolamenti est-ovest.

Mentre l’Italia si trastulla in questa ricerca scilipotiana, a Bruxelles attendono nero su bianco l’elenco di ciò che intendiamo realizzare col Recovery Plan. Dovrà essere verificata la coerenza con le linee guida e la fattibilità, altrimenti il programma sarà bocciato in toto o in parte e non vedremo i quattrini. Sono in gioco risorse che neppure il Piano Marshall del Dopoguerra aveva messo in campo. E più delle altre regioni, soprattutto il Sud dovrebbe stare in allerta, preoccuparsi delle opere e delle scelte che si vanno a delineare perché non ci sarà possibilità di recupero, non c’è una fase successiva né una chance di riserva. Ora o mai più.

 

 

----Il precipitarsi di quei due salvifici voti al Senato, a campanella suonata, rende l’idea di questo Paese: dopo settimane di logorante attesa, avendo avuto tutto il tempo per maturare la convinzione sul voto, i due senatori Nencini e Ciampolillo hanno ignorato la prima e la seconda chiama per materializzarsi in Aula praticamente a tempo scaduto. E’ questo il modo di procedere, attendere l’ultimo istante; non programmare lasciando tutto nell’incertezza; cincischiare per mesi e ritrovarsi alla fine a rattoppare in fretta. Sta accadendo così con la crisi di Governo e con il Recovery Plan, due piani di valutazione distinti ma stesso andazzo.

Vediamo di raccapezzarci sulle due questioni che hanno superato il limite della decenza.
Per la crisi l’attesa si protrae, adesso si guarda alle prossime mosse del premier Giuseppe Conte che oggi vedrà i sindacati nel merito del Recovery plan, argomento di cui si riparlerà in un vertice anche martedì; mercoledì poi l’atteso dibattito in Parlamento dove il ministro Bonafede relazionerà sullo stato della giustizia. Sono due momenti di una stessa partita che si gioca intanto sul terreno della ricerca febbrile di adesioni che possano in qualche modo assicurare la sopravvivenza della maggioranza e quindi del Governo, ritrovatisi davanti a una prospettiva incerta che non consente sic stantibus rebus di capire quale scenario si profila, per giunta in una fase drammatica sul piano sanitario e su quello economico.

I confronti sul Recovery dovrebbero contribuire alla definizione di quell’impegnativo programma di spesa per oltre 200 miliardi provenienti dall’Europa che sono stati in buona parte il motivo della crisi aperta da Italia Viva, la componente renziana che ha scelto l’attacco al capo dell’Esecutivo per indurlo a dimettersi non ritenendo il Governo all’altezza di guidare una fase così decisiva. Il dibattito sulla Giustizia si ridurrà a un voto sul ministro Alfonso Bonafede, salvatosi una prima volta da una mozione di sfiducia (legge sulla prescrizione) ma in questa occasione destinato a essere impallinato. Con evidenti ricadute.

La sicumera della settimana scorsa, da una parte e dall’altra dei principali protagonisti dell’attuale scontro Conte-Renzi, d’un colpo è sparita dal volto di entrambi nello scorrere sul tabellone di Palazzo Madama dei dati che istante per istante dava nomi e numeri dei sì, dei no e degli astenuti. Le cose non sono andate per come avevano ipotizzato i contendenti, i problemi si sono ingigantiti, il destro che ciascuno dei due pensava di assestare all’altro non c’è stato, le contromosse hanno finito per ingarbugliare il quadro e trascinare questa crisi che praticamente tiene ostaggio l’Esecutivo da mesi, senza che si intraveda l’exit strategy. Raccattare una decina di senatori di varia provenienza per compensare i voti di Iv venuti meno sta dimostrando di non funzionare, almeno finora.

Al Quirinale ieri si sono recati i leader del Centrodestra a rappresentare la gravità di tale stato di sospensione, sollecitando un governo istituzionale. Difficile capire se si tratti di una posizione unitaria fino in fondo e solida o se le diverse sensibilità potranno far emergere sfumature importanti in una prossima fase. Così si rincorrono voci di una minore intransigenza del partito di Berlusconi, dopo il passaggio della senatrice Maria Rosaria Rossi a lui più vicina. Un abbandono autonomo o in qualche modo avallato dal Cavaliere?

I renziani, più duttili dopo la conta, tendono ancora la mano ma la pace presuppone la sostituzione di Conte, espresso dal Movimento Cinquestelle e al quale mostrano di essersi ormai legati indissolubilmente Zingaretti e i suoi. Ma Conte è indisponibile a fare un passo indietro, significherebbe darla vinta a Renzi e forse fare implodere in anticipo il movimento grillino.

Come se ne esce? Basterà la stampella dei raccogliticci transfughi disponibili a formare quella “quarta gamba” che con M5S, Pd, Leu dovrebbe sorreggere i prossimi due anni e mezzo di legislatura? E se il Gruppo si costituirà, il Governo riuscirà a prendere l’abbrivio auspicato, ritrovare nuova energia da spendere nell’immediato, gestire la poderosa complessità del Recovery plan e con quale governance?

Il Colle quanti tempi supplementari concederà a questa condizione di stallo?
Tanti interrogativi congelati. Non più eludibili ma gli stessi che caratterizzano l’utilizzo del Recovery Plan mentre il tempo scorre, le emergenze aumentano, i programmi sono fumosi, gli interventi abbozzati e senza visione d’insieme. Eppure lo sappiamo da mesi e l’Unione europea è stata chiara: i soldi arriveranno dopo che Bruxelles avrà valutato il Piano ritenendolo appropriato e rispondente alle Linee guida cui è condizionato. Fra queste indicazioni vi è il recupero del divario territoriale Nord-Sud in tema di infrastrutturazione, svantaggi, pari opportunità di crescita. E per il Sud, oscurato nell’ultimo trentennio, crollato con la crisi finanziaria 2007-2011 quanto a produzione industriale, lavoro, consumi il Governo cosa ha previsto?

Nel rapporto Svimez consegnato a dicembre al Capo dello Sato Mattarella e al premier Conte sono analizzati i dati del territorio nazionale, il rapporto tra aree, gli indicatori che danno le regioni del Nord avanti a quelle del Sud ma in forte calo nella graduatoria delle regioni europee. La conclusione, ribadita in più occasioni, è di un Nord più povero se il Sud non cresce.

Adesso che la stessa Unione europea indica il Mezzogiorno come priorità in una politica di riqualificazione produttiva, non vi sono più alibi per non concepire il Recovery Plan come l’occasione della svolta. Non un regalo ma la restituzione del dovuto, nello stesso interesse delle regioni più industrializzate. Sappiamo ancora poco di questo Piano. Figurano opere trasportistiche strategiche come il Ponte sullo stretto? Vi sono porti meridionali, rilevanti in un programma di logistica? Vi è l’Alta velocità uguale a quella da Napoli in su, o una rete “minore”?

Il programma abbozzato dalla Regione siciliana è stato bocciato perché non rispondente a quella visione di insieme che il Recovery impone. E’ stato modificato o stiamo aspettando che sia Roma a farlo?
Ecco allora prevalere l’angoscia di trovarsi in presenza di una classe politica affaccendata in diatribe che appaiono dispute da cortile rispetto alla rilevanza del momento storico del post pandemia. Idem con il Recovery, unica gigantesca opportunità per affrancarci dalla secolare arretratezza: siamo quasi fuori tempo massimo e troppi gli interrogativi da sciogliere.
Sottovalutando che a Bruxelles non ci sarà una provvidenziale moviola per riammetterci a tempo scaduto.

 

Matteo uno, già archiviato; Matteo due, abbattuto. Se contano i fatti, come sosteniamo sempre, stiamo ai risultati prima di inseguire le interpretazioni o fare comparazioni con esperienze analoghe di un’altra era politica: il governo con Giuseppe Conte, si è presentato lunedì alla Camera e ieri al Senato per ottenere la fiducia. L’ha ottenuta.

Matteo Renzi, leader di Italia Viva, componente della coalizione che a un certo punto ha deciso di togliere l’appoggio, facendo leva sul malcontento diffuso anche all’interno della stessa maggioranza, confidava in un diverso esito ma ha fatto male i conti. Ha perso.

Fine della cronaca di due lunghe giornate parlamentari che hanno calamitato l’attenzione su una conta al fotofinish, rivelatasi largamente prevista nel risultato che alla vigilia dava una forbice tra 154 e 156 sì. Numeri entrambi rivelatisi esatti, perché a votazione chiusa al Senato il numero era di 154, diventato nel finale 156 dopo un’irrituale “riapertura del voto” per consentire a due “ritardatari” di pronunciarsi.

Fin qui la prova muscolare. Il Governo proverà a tirar innanzi come prima in uno scenario profondamente mutato: i perdenti rimarranno tali e magari rischieranno una disfatta ancora più pesante; i vincitori, dalla posizione di forza capace di attrarre con lusinghe varie, beneficeranno della logica che il potere logora… chi non ce l’ha. Ma andrà proprio così?

Il potere oggi si chiama Giuseppe Conte, un outsider affacciatosi alla politica da avvocato proposto dai “grillini” e ritrovatosi improvvisamente a capo dell’Esecutivo con un accordo M5S-Lega di Matteo Salvini. Un’esperienza durata poco, per la rottura da parte del Matteo leghista anche lui speranzoso di ribaltare il tavolo, salvo a ritrovarsi fuori. Poche settimane di trame politiche, si ribaltano le alleanze e Giuseppi si ripropone alla guida di un’alleanza con il Pd di Nicola Zingaretti, con il Movimento Cinquestelle di Crimi-di Maio e con il partito di Matteo Renzi. Questa volta è stato il secondo Matteo a tentare l’affondo ma il risultato si è ripetuto: abbattuto.

Estromesso il “rottamatore”, adesso il Governo senza più spina nel fianco potrà veleggiare con tranquillità e vigore? Vedremo. In molti sono convinti che le cose si complicheranno, per l’instabilità che segnerà le prossime settimane, per le ripercussioni che il voto inevitabilmente comporterà, per l’azione interdittiva che qui e là nelle Commissioni parlamentari ostacolerà il percorso. Di certo, archiviata questa pagina apparsa come un duello parlamentare, tutti i problemi che l’hanno preceduta e seguiranno rimangono sul tavolo. Di scarso significato fare parallelismi con crisi analoghe pre e post berlusconiane, in un mondo cambiato, investito da una pandemia mai vista, pur se la politica impermeabile reagisce riproponendo le sue logore dinamiche che infatti incideranno nel prosieguo della legislatura. Intanto il voto di ieri mette al riparo i parlamentari dal rischio, in verità remoto, di tornare anticipatamente alle urne e autorizza l’Esecutivo a procedere, con la benedizione del Quirinale.

Basterà un restyling? Il Governo finora non si è dimostrato all’altezza: cosa sta producendo e con quale disegno d’insieme, in presenza di un’occasione irripetibile data dal flusso di risorse che si chiama Recovery Plan? Renzi ha posto temi che nel merito non potranno essere elusi: come impiegare gli oltre duecento miliardi per evitare che siano uno sperpero a pioggia di interventi scombinati, chi presiederà alle scelte strategiche perché siano in sintonia con le Line guida dettate da Bruxelles, chi controllerà la governance; con quali certezze sulla tempistica. Altrimenti il rischio è di ritrovarsi un Piano a rischio bocciatura, cioè il disastro.

Sappiamo che metà delle risorse dovrebbero riguardare il riequilibrio Nord-Sud, quindi soldi da destinare a far recuperare alle regioni meridionali quel gap che da decenni le penalizza. Ma si sa poco o nulla degli interventi, a parte generiche assicurazioni sull’alta velocità, sulla rivoluzione digitale, sullo sviluppo ecosostenibile. Molta astrattezza, sommarie indicazioni, niente di preciso, mirato, analitico per dare il senso di un programma serio e immediatamente operativo con ricadute che siano nel loro insieme tendenti a quell’obiettivo di coesione tale da segnare una vera ripartenza dell’Italia nella sua interezza. Se i parlamentari del Sud si mostreranno distratti o interessati solo a compiacere i rispettivi capi, a non disturbare i manovratori, non ci sarà altra chance.

Ecco allora che francamente interessa poco quella conta al Senato, ancor meno le riunioni di maggioranza e di opposizione che impegneranno i prossimi giorni per le rese dei conti interne destinate a produrre ulteriori inevitabili lacerazioni. Siamo preoccupati piuttosto di capire se il Governo che non ha più alibi per rinviare decisioni, tentennerà ancora sul da farsi; se ha le idee chiare su come organizzarsi per superare la pandemia con sufficienti vaccini, se riuscirà a garantire la vaccinazione in tempi ragionevoli dopo le allarmanti notizie delle ultime ore; come si prepara a riavviare i motori del sistema produttivo, qual è la direzione di marcia.

Basta col gingillarsi su slogan del tipo dobbiamo incentivare il turismo, occorre sburocratizzare, ammodernare la macchina amministrativa, semplificare: terminologia vacua, stancante, improduttiva, fastidiosa. A dire che non c’è un minuto da perdere, che serve accelerazione sono i cittadini, non possono essere i governanti.

Contano i fatti, e non si vedono. Anzi, registriamo l’opposto. Solo per citare qualche esempio: che ne è stato del Gruppo di studio insediato dalla ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli per il Ponte sullo Stretto? Sarebbe ora che dicesse a quale valutazione è pervenuto. L’aspettiamo inutilmente da mesi. E poi, c’è un ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, siciliano: dica quali sono i programmi per l’alta velocità, a che punto sono i progetti, quando sarà completata questa rete e dove arriva.

 

Prosegue il teatrino poco edificante dei leader politici della sfilacciata maggioranza, preoccupati di trattare adesioni di parlamentari per salvare il Governo, indifferenti all’immagine che ne consegue di una deriva senza limite, di scadimento della politica ai minimi storici. Scioccante che Pd e Cinquestelle, dopo aver biasimato analoghi siparietti precedenti, non se ne rendano conto. Si guarda a martedì come giorno risolutivo con la conta al Senato, nella speranza che sancisca la possibilità del tirare a campare. Ma potrebbe accadere che, proprio per evitare di contarsi dato il traballante esito, il premier si decida prima a presentarsi dimissionario al Quirinale.

Questa vigilia comunque dà la cifra della classe dirigente nelle cui mani c’è il presente e il futuro del Paese. Uno spettacolo offensivo, segno che neppure la pandemia è servita a modificare l’andazzo. Tutta la tensione non è sui numeri del Covid, sulle terapie intensive, su chi non sa se potrà farsi il richiamo del vaccino perché ci scopriamo vulnerabili anche su un fronte che fino all’altro ieri vedeva il super commissario Arcuri vantarsi di primati che francamente suonano beffa.

Passa in second’ordine l’angoscia del mondo produttivo che non sa come organizzarsi; la preoccupazione di famiglie, scuola, università, esercenti. Per tutti… una bella pacca sulla spalla con l’annuncio di congrui ristori, di vaccinazione super organizzata che ci salverà, di interventi salvifici e straordinari mentre gli aiuti non arrivano, la rottamazione di milioni di cartelle esattoriali va avanti a singhiozzo, le banche cominciano già ad applicare le nuove normative che puniscono e mettono ko i correntisti in rosso.

Dopo l’attacco dei renziani al Governo, dal premier Giuseppe Conte e con lui dal segretario del Pd Nicola Zingaretti e dai referenti dei Cinquestelle Crimi e Di Maio sono venute parole rassicuranti sulla ripartenza ma con espressioni vuote, affermazioni scontate, ritornelli stonati. Di valutazioni serie su ciò che non va nella programmazione del Recovery Plan non si sente nulla; non emerge il merito delle questioni, non viene chiarito come si intende procedere, quali sono i punti tuttora dolenti di quel piano da 200 miliardi che dovrebbe rilanciare l’economia.

Contano i numeri della sfida al Senato? Sì, per scommettitori e appassionati di duelli oltre che per i partiti e per i parlamentari, entrambi sempre più distanti dalla realtà.

I numeri che interessano ai comuni cittadini sono altri, sono quelli dei programmi concreti, della certezza di date, dei progetti veri in cantiere. Quanto al Recovery, la più imponente opportunità di spesa dal Dopoguerra, ci limitiamo a rilevare che da più parti si levano dubbi sull’impianto, anche dopo la riformulazione. Perché se quello iniziale era un contenitore vuoto, la seconda stesura appare insufficiente e a giudizio di alcuni esperti destinata ad essere bocciata dall’Europa.

Ma possibile che, dopo due elaborazioni, siamo ancora al punto di prima? Qualcuno ha sollevato il dubbio che chi ha scritto il Piano non abbia letto né il Regolamento né le Linee d’indirizzo della Commissione.

Chi si è assunto la responsabilità di firmarlo risponda agli esperti nel merito, non con slogan superficiali e inutili.

I rilievi sono molteplici, nella quasi totalità riferiti a un elenco di misure previste senza che venga indicato con quali riforme o con quale governance ottenere il risultato; si parla di una pubblica amministrazione da rendere più efficiente, efficace ma non si dice come; riforma fiscale subito e non una parola sul riequilibrio dei carichi.

E così via mentre le Linee guida della Commissione aggiungono altri requisiti: gli Stati membri devono descrivere la natura istituzionale del Piano, il ruolo dei parlamenti e degli enti regionali e lo­cali di governo, i processi di consulta­zione delle parti sociali (e non saranno certo le sfilate degli Stati Generali dell’estate scorsa); se è pronta una lista di pro­getti maturi o quali passi si intendano compiere per creare tale lista; come si provvede all’obbligo preciso per cia­scun Paese di identificare un’autorità capofila che abbia la responsabilità generale per l’attuazione dei pro­grammi.

Se sono obiezioni infondate lo si dica. Ma basta con la retorica vacua, sfuggente.

E non ci addentriamo nel capitolo grandi opere, perché attendiamo da ottobre che sia reso noto l’esito del Gruppo di studio insediato dalla ministra Paola De Micheli al Ministero delle infrastrutture per il Ponte sullo Stretto.

 

Buongiorno… Ter. Da intendere come terzo giorno post crisi; come sabato agitato dalla possibilità di ricomporre i cocci dell’attuale maggioranza e quindi dal bis passare al tris; infine, come tentativo di sperimentare dopo il genitore uno e il genitore due, ossia dopo il giallo-verde e il giallo-rosso, sperimentare un’altra sfumatura: il giallo-tertium datur, con nuova identità o meglio senza precisa identità.

Che brutta legislatura, all’insegna dell’approssimazione, della contraddizione e dell’inadeguatezza: partita male, proseguita peggio, non più rispondente alla realtà e adesso alle prese con una situazione drammatica che vede il Paese sull’orlo di un precipizio sanitario ed economico, davanti a una crisi di credibilità intra ed extra moenia; la stessa legislatura che, con profili di dubbia legittimità, dovrebbe eleggere il prossimo Capo dello Stato.

A prescindere dalle dichiarazioni di propaganda di queste ore sulla campagna acquisti, non sappiamo come finirà questa impasse, di fatto ma non formalmente crisi di governo; non lo sanno gli stessi protagonisti, dal premier Giuseppe Conte al rivale Matteo Renzi prodottosi nella stoccata che ha tramortito l’Esecutivo; non lo sanno i partiti di maggioranza e di opposizione, dove ciascun giorno ha la sua pena e i leader fanno fatica a presidiare i recinti; ci stanno provando a raccapezzarsi le eminenze grigie che, per consolidata esperienza, vengono richiamati a ogni codice rosso e così spuntano i nomi di Gianni Letta l’intramontabile consigliere dell’evergreen Berlusconi, o del più volte ministro e oggi sindaco Clemente Mastella, ma pure del perpetuo Pierferdinando Casini in Parlamento dall’83.

Tra i giocatori al tavolo c’è chi azzarda di più, nessuno dei due sfidanti ha il poker e con buona probabilità, entrambi spavaldamente bluffano dicendo “ho fatto jardin”… che non vuol dire nulla.

Vediamo i fatti che poi sono gli unici a contare e alla lunga a fare la differenza, con tanto di effetti sulla vita di ogni giorno. Senza indulgere sui dati caratteriali dei principali protagonisti, sulla simpatia che pure conta e ne determina la popolarità, valore così caduco da portare dalla gloria all’infamia in un “vidiri e svidiri” come direbbe Camilleri: Renzi, campione di primati (il più giovane primo ministro, primo premer non parlamentare, leader del Pd al massimo dei consensi) precipitato al 3% nei sondaggi; Conte, illustre sconosciuto (nominato e mai eletto, resistente e resiliente, abile slalomista) balzato al 40%.

I Fatti. Archiviata la prima avventura da neofita con l’alleato Matteo Salvini, il premier Giuseppe Conte si è metamorfosato, e con una compagine di segno opposto ha ripreso la guida, auspice proprio Matteo Renzi. C’è stato il consueto iter dimissionario, il reincarico dal Colle e una convivenza a strattoni, supportata da decine di voti di fiducia in un anno e mezzo. I due, che non si sono mai amati fino a odiarsi, cosa avevano in comune? Niente, solo la necessità di sopravvivere politicamente. Dalle critiche alla legge sulla prescrizione, al reddito di cittadinanza, al susseguirsi dei Dpcm, alle opere pubbliche, alla gestione della pandemia, al programma Recovery è stato un crescendo di contestazioni da parte di Iv sfociate nell’affondo più eclatante al Governo: inidoneo.

In verità nel merito sono in tanti a condividere tale critica, è di tutta trasparenza l’elenco delle cose che non vanno; solo pochi servizievoli cantori assolvono l’operato dell’Esecutivo persino tra gli stessi alleati, Pd in primis. Resta però l’antipatia verso chi ha avuto il coraggio di dirle in modo scioccante, ancorché non inatteso; di aver impresso una sferzante accelerazione verso una crisi che ciascun parlamentare teme possa scivolare nelle urne anticipate. Andare a casa con biglietto di sola andata, due anni prima del previsto, è una sciagura per gli interessati. De hoc satis.

Per molti, Renzi risulterebbe antipatico perché troppo ambizioso, astuto e inaffidabile nella sua voglia di restare al centro della scena che lo ha portato più volte a smentirsi, dire bugie, accettare compromessi, votare a favore quando era contrario, e viceversa. Pure i detrattori, tuttavia, gli riconoscono capacità di visione, intraprendenza, determinazione tant’è che sulle questioni poste si sono detti d’accordo.

Il premier Conte, affrettatosi a riscrivere l’intero Recovery con le proposte suggeritegli, di contro si mostra più duttile, adattabile alla bisogna, daltonico, assistito dalla buona sorte di resistere più che per meriti propri per demeriti altrui e per la condizione di emergenza che imprigiona tutti.

Cosa sta accadendo adesso? E’ nato oggi al Senato il gruppo MAIE-Italia23, per costruire uno spazio politico che ha lui come punto di riferimento. Lo spiega Ricardo Merlo, presidente MAIE e Sottosegretario agli Esteri, annunciando che così il gruppo MAIE a palazzo Madama cambia denominazione: “Non cerchiamo responsabili – ha precisato – ma costruttori, a cui l’unica cosa che offriamo è una prospettiva politica per il futuro, per poter costruire un percorso di rinascita e resilienza, nell’interesse dell’Italia, soprattutto in un momento difficile come quello che stiamo vivendo”.

Nell’era berlusconiana sono stati definiti “gli scilipoti”, ossia i transfughi opportunisti e trasformisti, precursori dei nobilitati “costruttori” di oggi. Il che fa presumere che al Senato arriveranno in soccorso i voti sufficienti a sorreggere l’attuale Governo. Peraltro i numeri che circolano come soglia minima (161) non sono attendibili in quanto all’Esecutivo basterà la metà più uno dei presenti in Aula per avere la fiducia, quindi inciderà e sarà significativa anche l’assenza. Di converso in area renziana, è decisivo il pronunciamento dei socialisti che fanno capo a Riccardo Nencini, depositario del logo che legittima la presenza a Palazzo Madama come gruppo e che a Renzi avrebbe detto: “Io penso che tu abbia sbagliato a chiudere al premier, io penso che sia giusto andare al Conte ter, ma dobbiamo andarci tutti, non accetterei una scissione del nostro gruppo”.

Il problema resta al Senato, perché alla Camera la maggioranza marcia tranquilla anche senza i voti dei renziani. E a Montecitorio è stato stabilito che nella seduta di lunedì 18 avranno luogo le comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri a mezzogiorno; seguirà la discussione sulle comunicazioni del Governo, saranno presentate risoluzioni; a partire dalle 17, interverrà, in sede di replica, il Presidente del Consiglio che porrà la questione di fiducia su uno degli atti di indirizzo presentati. Seguiranno le dichiarazioni di voto sulla fiducia e la votazione per appello nominale. L’intero dibattito, compresa la fase dell’appello nominale, sarà oggetto di ripresa televisiva diretta.

Cliché che si ripeterà all’indomani a Palazzo Madama, ovviamente con maggiore suspense.

Sarà questa conta a dirimere la questione, attraversare in modo indenne il guado e procedere verso un “rimpastino”? C’è chi dice sì. In questo caso il Capo dello Stato si limiterà ad assistere alla diretta, o meglio non avrà bisogno neppure di seguirla perché anticipatamente informato sulle intenzioni di Palazzo Chigi, avallandole. E avrebbe vinto Conte.

C’è invece chi ritiene che una terza metamorfosi in due anni, un esco io ed entri tu, vedrebbe il Colle per nulla confortato dalla somma numerica del tabellone, quindi propenso a verificarne la solidità essendosi modificato il quadro politico delle alleanze. E, proprio complice la pandemia sanitaria ed economica, proteso ad assicurare da subito un Governo stabile e duraturo che guidi il Paese al 2023, verificato da lui stesso nelle consultazioni, quindi ergersi a garante nell’esercizio delle sue prerogative. Presupposto, le dimissioni di Conte. Ma a quel punto qualsiasi scenario sarebbe ipotizzabile. E avrebbe vinto Renzi.

 

Ultime ore per la schermaglia politica che vede al centro lo scontro tra il premier Giuseppe Conte e l’incalzante alleato Matteo Renzi, non domo finché non avrà ottenuto che l’altro salga al Colle dimissionario, quindi ripartire da zero nella formazione del Governo; a quel punto, con tutti gli interrogativi che si aprirebbero.

Una condizione di stallo che ha di fatto paralizzato il già lento procedere dell’Esecutivo. Adesso il Consiglio dei ministri annunciato per oggi dovrebbe finalmente esitare il Recovery Plan, teoricamente motivo della disputa perché ritenuto inadeguato. In proposito, c’è un aspetto che merita di essere attenzionato: nella riunione fra ministri e rappresentanti dei partiti di maggioranza svoltasi a Palazzo Chigi, la delegazione renziana con il sottosegretario Davide Faraone ha riproposto tra le priorità il Ponte sullo Stretto che però, secondo il leader Renzi, non rientrerà nel Recovery plan in quanto le opere ammesse sono quelle che possono essere completate entro il 2026.

Recovery o no, ci domandiamo cosa importa? Perché mai il Ponte non dovrebbe essere parte fondante della discussione complessiva? Oltre al programma Recovery, esistono altre realizzazioni che lo Stato si accinge a finanziare con fondi diversi a prescindere da quel regime di procedura Ue: allora è il caso di rilevare che il Ponte è un pezzo di quell’alta velocità che da Salerno deve portare a Palermo e Augusta; che Rfi ha già previsto il collegamento e acquisito il progetto; che il costo non supera i 2 miliardi e potrebbe essere pronto in 4 anni; che la modesta entità della spesa consentirebbe a Rfi di procedere in proprio se non intervenissero veti.

Dunque qual è l’impedimento? Forse il solito approccio penalizzante che vuole il perpetuarsi di una condizione di marginalità del Sud? Le remore sono sempre dell’oligarchia imprenditoriale nordista che mira a calamitare ogni risorsa? Non ci si rende conto che proprio in ragione dell’arretratezza dell’area meridionale il Paese da 25 anni non cresce e nel Mezzogiorno il Pil è la metà della media nazionale?

Poiché, come ormai è di tutta evidenza, solo una grande svolta con l’ammodernamento delle infrastrutture, ferme a un secolo fa, e grandi opere come il Ponte è possibile segnare un’inversione, c’è da domandarsi cosa la Sicilia e la Calabria stiano facendo per imporsi nel dialogo con Roma.

E’ tempo che la Sicilia si svegli, acquisisca consapevolezza di essere al centro della più proficua rete di traffici intercontinentali, non continui a sciupare una strategica centralità capace da sola di creare ricchezza.

La Sicilia, grande quanto la Danimarca ma tanto più povera e ininfluente, deve trovare uno scatto d’orgoglio; rivendicare subito il Ponte, il raddoppio dei binari, una più efficiente portualità; pretendere di essere collegata al cuore dell’Europa, di liberare dall’emarginazione interi territori come Agrigento, la cui maestosità subisce ancora oggi l’onta di una malmessa strada statale, unica arteria per potersi inoltrare tra vestigia superbe quanto ignorate mentre da sole giustificherebbero un adeguato sforzo finanziario per restituirle all’attenzione del mondo.

 

Se in politica le parole hanno un senso, e spesso non lo hanno almeno nelle schermaglie tra partiti, i toni ultimativi delle due rappresentanti di Italia Viva ieri sera, prima che a Palazzo Chigi si aprisse la riunione con ministri e capi delegazione di maggioranza sul Recovery, sono di fatto un annuncio di crisi.

Una posizione inflessibile assunta sin dalle prime battute da Matteo Renzi, peraltro tonificato ora dalla brezza americana dell’amico Joe Biden prossimo a insediarsi alla Casa Bianca.

Espressioni come “Conte non è indispensabile” o “se viene al Senato ci troverà all’opposizione” “Conte al capolinea” depongono per una fine corsa a… 24 ore, cioè il tempo chiesto da Iv per leggere e valutare il testo del Recovery plan finalmente approntato e consegnato in serata ai partecipanti alla riunione con invito a pronunciarsi in fretta.

Renzi affatto disponibile a chiudere la partita nel senso auspicato dal premier e come sembrerebbero volere i dem di Zingaretti, non mette in discussione il ricomporsi della maggioranza per scongiurare il rischio di tornare alle urne ma vuole sbalzare di sella il timoniere. Italia Viva ha intrapreso questo percorso con determinazione e, giorno dopo giorno, ha alzato il livello dello scontro: non è più un problema di governo da rivedere o ampliare per dare più spazio ai renziani; neppure di modificare il Recovery Plan con i suggerimenti dell’alleato scomodo e in gran parte già recepiti.

Pone un problema di credibilità dell’Esecutivo, di efficacia della sua azione, di immobilismo mentre ci sarebbe da correre. E mira dritto al cuore del problema, cioè al direttore d’orchestra perché si presenti dimissionario al Quirinale. Renzi infatti non intende mollare sul Mes, ossia sull’utilizzo del prestito europeo per la Sanità (respinto dal Movimento cinque stelle, irremovibile dall’inizio talché una marcia indietro sarebbe una clamorosa sconfessione). Infine, la delega sui Servizi segreti che il premier non intende cedere e sul punto potrebbe stopparsi ogni dialogo.

Un insieme di questioni che fanno traballare ancora l’Esecutivo, cui si contesta di aver tergiversato per troppo tempo nonostante l’urgenza, riducendosi all’ultimo giorno utile col Bilancio e adesso col Recovery, sollecitato da luglio e oggi abbozzato mentre altri Paesi lo hanno consegnato in Europa.

Renzi, ospite della Palombelli su Rete 4, ha fatto un elenco delle inefficienze per chiosare: “sono bravi solo a rinviare, eppure ci sono a disposizione risorse che non abbiamo mai avuto negli ultimi trent’anni e non si vedranno nei prossimi 30, basterebbero a risistemare il Paese. “Si va avanti senza decidere, è stato così su tutto: dalla revoca ad Autostrade, ai cantieri per le infrastrutture, alle politiche del lavoro coi benedetti navigator. E ora segnatamente su scuola e vaccini, il Governo è allo sbando, non si sa cosa succederà lunedì, se gli studenti potranno tornare in classe; non si capisce perché non vacciniamo i 435mila docenti; consentire di vaccinarsi in farmacia, perché non ci vuole un master per un’iniezione. Potremmo avere domattina 36 miliardi sulla sanità, una cifra incredibile, invece preferiscono rinunciare mentre abbiamo la sanità in panne e la percentuale di mortalità più alta al mondo. Su scuola e sanità non si stanno facendo tutti gli sforzi. Siamo un Paese del G7, non si può governare con questa approssimazione”.

Poi su input della giornalista un accenno al Ponte sullo Stretto: “Il Ponte l’ho tirato fuori io da una vita, non può starci nel Recovery in quanto opera non completabile entro il 2026, ma serve, lo dicevo anche da premier”.

Infine, sulla delega per gli 007, il leader di Italia Viva pone un problema di determinante rispetto delle forme democratiche, altrimenti può finire come in America e ricorda che tutti i predecessori si sono regolati delegando la guida dei Servizi.

E allora si ripartirà con un altro Conte? Renzi non si scopre e insiste: “Non possiamo perdere tempo Governo Conte o non Conte, vogliamo un governo che dia il senso dell’urgenza delle cose, in questo momento è fermo. A parole tutti dicono di voler accelerare ma nei fatti mentre noi chiediamo di sbloccare le infrastrutture, ad altri piacciono il reddito di cittadinanza e i navigator. Se non ascoltano le nostre idee lasciamo le poltrone, come ha già annunciato la ministra Bellanova grandissima donna. Spero che torni il buon senso”.

Sule battute finali restituisce quindi la palla al premier che in corso di intervista gli mette fretta e lancia messaggi concilianti.In conclusione? Neppure l’ennesima intervista è stata risolutiva e riemerge il dubbio: Iv mollerà le poltrone o prevarrà il volemose bene?

Ancora 24 ore.

 

Possibile che nel pieno del ciclone, nella crisi più drammatica dal dopoguerra, le dichiarazioni che si ascoltano da esponenti di primo piano siano improntate alla melliflua ambiguità del “ni”, al lascio e prendo, al non ci sto ma resto?

E’ scoraggiante ma la surreale situazione politica che viene raccontata ogni giorno lascia attoniti. Si sentono dichiarazioni ipocrite, sfuggenti, un dire e non dire da cui traspare una sfrontata indifferenza della gravità del momento, un distacco con sufficienza dalla realtà, come ignari che l’Italia si sta allontanando in modo pericoloso dal resto d’Europa sul fronte sanitario e su quello economico.

Per il primo basta solo registrare che in Italia l’indice Rt cresce, si contano ottantamila vaccinati a fronte di oltre un milione in Gran Bretagna e in Israele, con drammatici flop persino in regioni come la Lombardia che si accreditavano da esempi modello. Per la verità ci siamo vantati per lungo tempo di essere un Paese modello, senza renderci conto che i nostri vicini europei correvano mentre noi restavamo al palo, finché non è piombata l’emergenza a evidenziare tutte le clamorose carenze.

Adesso, precipitati in una condizione allarmante, assistiamo a un rimpallo che non aiuta: se il meteo è in grado di dirci che tempo farà domani e la previsione a due settimane, noi di giorno in giorno apprendiamo di sapere che “colore” regolerà all’indomani attività e movimenti quindi senza possibilità di programmare alcunché. L’incontro Governo-Regioni di ieri sera è andato avanti in notturna, le opinioni divergono e al solito non c’è un Esecutivo in grado di fornire soluzioni nette e inequivocabilmente sostenute da dati indiscutibili. Persino sulla scuola non è chiaro se si tornerà in aula, quando e come: i dati restano preoccupanti, si è impreparati a riaccogliere gli studenti.

Un quadro di incertezza aggravato dall’instabilità del governo da tempo ormai in stallo, con una componente fondamentale come i renziani di Italia Viva che si sono di fatto sfilati dalla maggioranza senza però che i due ministri abbiano formalizzato le loro dimissioni: non condividono l’azione del premier sull’impiego del Recovery fund, non accettano il mancato utilizzo del Mes sulla sanità, contestano il resto ma non hanno dichiarato il loro abbandono. Una doppiezza che va risolta, non è tollerabile alcun ritardo pena la perdita di credibilità di quell’iniziativa di contestazione che Renzi si è intestato dando per imminente il suo sfilarsi dalla coalizione: se ha deciso di staccare la spina, lo faccia hic et nunc, basta tergiversare e prender tempo con lo stucchevole refrain di non essere interessati alle poltrone, ripetuto ieri stancamente in tv anche dalla capogruppo Maria Elena Boschi.

La misura è colma. Ogni giorno accresce lo sbandamento in una fase di piena pandemia che imporrebbe azioni energiche, decise, scelte senza tentennamenti. Serve un Esecutivo legittimato e coeso, la Camera dei deputati convocata per il 7 gennaio dovrà porre fine a questo rimbalzo, dare prova di responsabilità, fare chiarezza, non concedere tempi supplementari ai giochi di palazzo.

Di pari passo il premier Conte risponda con il linguaggio dell’onestà, con la determinazione di chi è al timone e ha il compito di segnare la rotta. Siamo davanti a passaggi decisivi che non giustificano siparietti vecchio stile. Intanto tiri fuori le bozze sul programma di spesa del Recovery, confutando le obiezioni che sono piovute da varie parti, da ultimo anche da docenti della Bocconi, secondo i quali il piano disegnato dal Governo non solo non prelude allo sviluppo ma non è in linea con le direttive dell’Ue, perché elaborato secondo antiche logiche di provvedimenti a pioggia o concependo misure improponibili (bonus sostenibilità ambientale, cashback, fondi assegnati a progetti non contemplati). Dica cosa è previsto per il Sud, quali infrastrutture sono ipotizzate, come si recupererà il gap. Non si tratta di interna corporis, c’è bisogno di evidenza e chiarezza, altrimenti andremo a sbattere nel senso che l’Europa lo boccerà ma a quel punto il Paese si troverebbe nell’abisso.

 

Sfida Conte-Renzi, si avvicina il giorno della conta che potrebbe anche essere all’indomani della Befana quando a Montecitorio è fissata la convocazione per una discussione generale: il tam tam incalzante in queste ore tra i deputati fa preludere all’arrivo del premier in Aula. In tal caso si tratterebbe di un tentativo di giocare d’anticipo, raccogliere il guanto lanciato dallo sfidante e chiedere la fiducia sul governo, proprio nel merito del Recovery fund contestato dai renziani a loro volta pronti al muro contro muro in cui, secondo il motto medievale mors tua vita mea che implica il fallimento di uno per il successo dell’altro, ciascuno si gioca tutto. Dunque Conte-ter o Conte fuori?

Se non sarà il 7, la partita ad exscludendum è rinviata solo di una settimana e cioè il 14 ma non cambierà l’impatto della disputa. I rapporti sono così platealmente lacerati che il recedere di uno, per quanto edulcorato da eventuali aggiustamenti compensativi in corso d’opera, preconizzerebbe la fine di un’esperienza o l’assoggettamento per rassegnazione dettata dalla necessità di sopravvivere altri due anni e mezzo, non essendoci alcun parlamentare disposto ad andare a casa anticipatamente.

Fin qui la diaspora politica. Ma il Governo vuole spiegare agli italiani cosa si sta pianificando per utilizzare le risorse eccezionali previste dal Recovery, oggetto della contesa in corso? Renzi ha parlato di elenco raffazzonato frutto di burocrati, senza visione di Paese; lo stesso presidente del Pd Rossi condivide le critiche. E siccome è il merito che interessa, quando si deciderà l’Esecutivo a dire con chiarezza cosa pensa di fare con gli oltre duecento miliardi in prestito dell’Ue? Qual è la strategia per il Sud? Se è carta straccia il Rapporto Svimez 2020? E l’esito del gruppo di studio insediato al Ministero delle infrastrutture sul Ponte? (Avrebbe dovuto pronunciarsi a ottobre, poi entro dicembre, lo spettiamo ancora).

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel messaggio di fine anno, ha fatto intendere che la gravità della situazione, in piena pandemia, impone di trovare sintonia di intenti e concentrarsi in fretta sulle cose da fare, quindi niente urne anticipate ma neppure continuare a galleggiare. Invece tutto sembra disperdersi nelle nebbie dell’immobilismo. L’unica certezza continua a essere l’incertezza, che alimenta smarrimento, sfiducia, improduttività. Se questa è la ripartenza…!

Intanto, all’insegna del “Iddio salvi la poltrona”, la politica si trastulla in dibattiti infiniti, alla ricerca di chi è disponibile a votare proposte di nuove maggioranze, su cui i decani di alcuni partiti lavorano tra cenacoli riservatissimi ed sms di sondaggio.

Cosa potrà accadere allora? Che Giuseppe Conte, come ha anticipato, si presenti alla Camera per verificare se l’Esecutivo ha ancora il sostegno del Parlamento, se c’è una maggioranza che condivide la sua azione, non necessariamente coincidente con le forze del Conte-due. A questo punto gli oppositori dovranno uscire allo scoperto e si vedrà se i renziani sono compatti col loro leader nella sfiducia, quanti centristi “responsabili” accorreranno in aiuto di Palazzo Chigi e se i numeri in soccorso compenseranno le perdite. Una conta che a Montecitorio non è cruciale, visto che la maggioranza è abbondantemente blindata, diventa tuttavia significativamente propedeutica per la convalida al Senato dove il risicato scarto di voti costituisce un pericoloso banco di prova. Se i rinforzi in arrivo dal gruppo Misto e da Forza Italia saranno pari alle attese, alea iacta est per Conte; con Renzi alle corde, costretto a rimanere fuori da un Conte-ter.

Il quadro si capovolge però se i numeri non dovessero tornare, se i renziani orientati a rientrare nel Pd saranno meno del previsto, se la risposta degli “azzurri” o dei deputati tuttora parcheggiati nel limbo del “Misto” si mostrerà tiepida e non sarà ben accolta da Pd e M5S. Di certo ciascuno dei due contendenti ha pesato gli eventuali “acquisti”, sa bene chi ha il poker e chi bluffa.

A confermare il movimentismo di queste ore, c’è la dichiarazione proprio di ieri sera della senatrice Sandra Lonardo, moglie di Clemente Mastella, eletta in Forza Italia e a capo di un suo gruppetto al “Misto”: “Se in Parlamento il presidente del Consiglio Conte dovesse rivolgere un appello ai ‘Responsabili’ per andare avanti certamente sarei pronta ad accoglierlo, perché aprire una crisi al buio in questo momento sarebbe un atto di grande, grande irresponsabilità”.

Secondo il leader di Azione, Carlo Calenda, competitor di Renzi nella stessa area elettorale, ci sarebbe bisogno di “un esecutivo di amministratori e tecnici, che siano dentro ma anche fuori dalla politica. L’Italia sta correndo rischi enormi e la politica deve essere all’altezza. Serve una figura di grande capacità: penso a Mario Draghi ma non penso sia l’unico”. La crisi innescata da Matteo Renzi, aggiunge Calenda “mi sembra una buffonata: se apri una crisi lo fai per cambiare governo e presidente del consiglio, se tutto questo si chiude con un Conte ter e tre nuovi ministri, assistiamo solo a una sceneggiata”.

Ma nella strategia renziana, con le dimissioni delle due ministre di Italia Viva, l’Esecutivo è già in crisi e l’eventuale mossa di Conte di andare allo scontro in Parlamento sarebbe un boomerang perché cambiare maggioranza sconvolgerebbe il rapporto con Pd e Cinquestelle cui non tornerebbe gradito il suo protagonismo, prologo di un nuovo partito. Renzi considera un passo falso quello del premier che cerca un assist in Parlamento, ritiene che non avrà l’apprezzamento sperato e di tal guisa «non solo non ha messo in sicurezza il Conte bis ma ha messo a rischio anche il Conte ter. E ammesso anche che vincesse, cioè che trovasse i numeri, vorrei vederlo poi…». Punta alle sue dimissioni per cambiare organigramma di governo con tre vicepremier, modificare il Recovery, ricorrere al Mes per la sanità.

Nel Pd l’ipotesi che l’eventuale Conte-ter possa ripartire con l’appoggio di un gruppo di “responsabili” non sembra andare a genio e logora ulteriormente i rapporti non idilliaci.

Pochi giorni e sapremo. Se il 7 gennaio l’Aula di Montecitorio sarà piena, vuol dire che c’è stata la chiama generale a essere presenti, preludio all’arrivo del premier; altrimenti tutto rinviato. In ogni caso già da ora i deputati sono stati invitati dai rispettivi capigruppo a rendersi subito reperibili, a Roma.

 

Il quadro si complica per registi e figuranti, qualsiasi previsione oggi è azzardata perché difficile la lettura di ciò che sta avvenendo all’interno della maggioranza e tra le forze di opposizione. Di certo c’è un movimentismo smaccato non sotto traccia che vede protagonisti i pochi “dottor sottile” dimostratisi abili tessitori in precedenti esperienze, alacri nei contatti coi singoli parlamentari per sondarne la disponibilità su ipotesi praticabili senza interrompere la legislatura. In ballo c’è il governo che, per ammissione dello stesso premier Giuseppe Conte, galleggia, si trova in una situazione sospesa che dura da un po’ e questa inazione forzata rischia di tradursi in un disastro epocale se non si corre immediatamente ai ripari.

Il richiamo è venuto persino dal cauto e filogovernativo commissario europeo Paolo Gentiloni preoccupato del ritardo dell’Italia sul fronte Recovery Fund, risorse di cui si discute da tempo ma al momento cristallizzate solo in bozze con numeri a capocchia, contestate dentro e fuori l’Esecutivo, bocciate in primis dai renziani.

L’alleato Matteo Renzi lanciatosi nell’attacco frontale, ormai non lascia più dubbi sulla crisi di governo imminente; la delegazione di Italia Viva anche ieri all’uscita dall’incontro col ministro dell’Economia Gualtieri ha definito abissali le distanze sul merito del Recovery. Se ne è fatto una ragione il premier che, nella conferenza stampa all’Ordine dei giornalisti, ha previsto questo scenario, escludendo tuttavia sue dimissioni e giudicando invece ineludibile un passaggio parlamentare dove verificare se il suo governo conta ancora su una maggioranza o meno.

Ed eccoci al punto: c’è una diversa maggioranza in Parlamento e a favore di chi? Tra i due litiganti… a godere potrebbe essere un terzo?

I rumors dentro e fuori i Palazzi accreditano situazioni diverse, a seconda della fonte.

La prima: Conte ha accresciuto il favore nei sondaggi, dalla sua vi è già al Senato un nuovo gruppo trasversale “Italia 23” a sostenerlo; peraltro, in tanti danno per scontato che si prepari a fondare un suo partito, il che non è proprio gradito a molti nel Pd e tra i Cinquestelle. Renzi nel silurarlo non voleva certo far loro un favore, ma potrebbe aver sottovalutato questa conseguenza che agevolerebbe un cambio a Palazzo Chigi ma solo per per ridimensionare Giuseppi.

La seconda: l’impulsiva azione di Renzi tornerebbe utile al premier sciente che una decina di renziani, insofferenti ai suoi colpi di scena, sarebbero pronti a mollarlo per rientrare in casa Pd. Isolato l’alleato scomodo, i numeri al Senato sarebbero compensati da appoggi in area centrista, spazio su cui aleggia l’inossidabile Gianni Letta. Potrebbero arrivare quindi rinforzi dai “responsabili” guidati da Brunetta così da arrivare a fine legislatura con un Conte-ter. Gli ammiccamenti non sono mancati negli ultimi tempi e lo stesso rapporto M5S-Forza Italia è ben diverso dall’esordio. Anche nel Centrodestra c’è aria di riposizionamento con una componente azzurra capitanata da Renzulli e Ghedini che dialoga meglio con la Lega di Zaia piuttosto che con Salvini.

La terza: Conte accentratore, premier per altri due anni e candidato a capo partito non andrebbe più giù a chi lo ha proposto, né imbarcare nell’Esecutivo ter esponenti azzurri sarebbe indolore. Mutatis mutandis, Renzi esaurita la sua carica energizzante e per qualcuno inaffidabile, stenterebbe a coagulare adesioni attorno al suo progetto di “governo forte” magari a guida Mario Draghi. In questa impasse nelle ultime ore è riemersa la figura di Dario Franceschini, uomo di mediazione, che nel ridare smalto al Pd avrebbe il compito di imbarcare tutti nella nuova arca. Certo sarebbe inesplicabile dopo aver ammonito Renzi che il dopo Conte sarebbe stato un match tra lo stesso Conte e Salvini. Ma le vie della politica sono infinite. E Palazzo Chigi val bene una sconfessione.

Comunque tutte congetture finora, che si dipanano di notte per complicarsi l’indomani. Di sicuro c’è che il Conte-bis è finito. In attesa della Befana.

 

Sta in questo epigrafico “saluto” la sintesi della giornata politica di ieri: dove Ciao è l’acronimo di quattro capitoli intitolati Cultura, Infrastrutture, Ambiente, Opportunità… ma al contempo è l’ultimo preavviso di Italia Viva al governo.

I quattro titoli sono quelli articolati in 61 punti che costituiscono il pacchetto dei renziani sul Recovery plan, una sintesi per smontare le 103 pagine del “Next generation Eu” elaborato dal premier e dal ministro dell’Economia Gualtieri che, secondo il leader di Iv, è un piano senza ambizione, senz’anima; raffazzonato.
Renzi va a ruota libera nel suo nuovo affondo che praticamente anticipa l’abbandono della maggioranza; dice chiaramente che nel piano “si vede che non c’è un’unica mano che scrive, è un collage di pezzi di diversi ministeri, opera da burocrati”. Ergo, se Palazzo Chigi non lo smonterà per riscriverlo ex novo “le due ministre e il sottosegretario di Italia viva si dimetteranno”.

Renzi parla da Palazzo Madama e usa toni ultimativi. Sa di essere ago della bilancia nella coalizione che sostiene il Conte II, sa pure che senza un’iniziativa dirompente che lo riporti al centro della scena il suo partito finirebbe per essere messo alle corde. Deve giocarsi il tutto per tutto e farlo adesso per sopravvivere e non perire, e l’unico modo è proprio quello di liquidare il governo Pd-Cinquestelle in questa fase delicatissima in cui anche i partner sono deboli; l’Esecutivo si mostra in affanno; non c’è una strategia chiara su come investire i 209 miliardi in arrivo dall’Europa; manca una visione di futuro per il Paese; molti parlamentari sono in cerca di una nuova casa. E’ un azzardo il suo ma non ha altra scelta, né l’alternativa di un rimpasto potrebbe risultargli salvifica, semmai finirebbe per cuocerlo a fuoco lento, indebolirlo fino ad annientare anche quel modesto 3% che, secondo sondaggi, costituisce la sua quotazione attuale. Tenta quindi il sussulto, una reazione brusca e comunque motivata dai troppi tentennamenti che hanno appannato gli ultimi mesi di governo mentre urge adesso un programma serio di lunga prospettiva perché sulle risorse del Recovery si scommette il futuro del Paese.

La delegazione di Iv sarà ricevuta dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. I capigruppo del Senato Davide Faraone e quella della Camera Maria Elena Boschi, assieme alle ministre Elena Bonetti e Teresa Bellanova presenteranno il maxi pacchetto con i 61 punti, animati da intenti bellicosi e per ribadire il loro “Ciao” a 4 voci (Cultura, infrastrutture, ambiente, opportunità) che sono la base del piano Iv.

Il “ciao” mi ricorda quel direttore regionale siciliano che insofferente e più volte sul punto di mandare al diavolo il suo assessore, approfittò di una nota per articolare ogni capoverso con un capolettera scritto in grassetto, in modo che mettendo in fila i capolettera venisse fuori un clamoroso “vaffa…”. In quel caso gli bastò per essere appagato.

Il “ciao” di Renzi non rappresenta sornionamente la levigatezza di un’analisi, per quanto la politica sia pure teatralità, istrionismo, melodrammaticità. Appare piuttosto come il capolinea di un percorso ruvido, sconnesso, senza visuale.

E restiamo in Sicilia perché qui da alcune settimane i renziani sono protagonisti di un’iniziativa tendente ad aggregare forze centriste sulla base di una “Carta dei valori” che ha già ottenuto l’adesione di diversi deputati regionali (Udc, autonomisti, ex grillini, componenti del Gruppo misto all’Ars) oltre ad un centinaio di professionisti e noti imprenditori, tutti ammaliati dalla voglia di “centro” che, secondo i promotori, è nelle corde dell’elettorato cui proporsi come unica sigla al prossimo appuntamento con le urne. Sicilia laboratorio? Presto per dirlo, in passato lo è stato più volte.

Tornando a Renzi, escludiamo che dopo i ripetuti attacchi, le violenti sferzate, le divergenze sostanziali a tuttotondo, il suo si riveli un ennesimo penultimatum o si accontenti di un rimpastino. Cosa ha da dirsi con gli attuali compagni di avventura sul reddito di cittadinanza che non solo non condivide ma reputa un flop? O sulla giustizia, a cominciare dal tema prescrizione? O sul Mes, che lui vuole e i cinquestelle rifiutano. Infine, sulle infrastrutture: una su tutte, il Ponte sullo Stretto, per citare l’opera che massimamente segnerebbe il riscatto del Sud, escluso dal Recovery abbozzato dal premier Conte perché avrebbe un arco di tempo di realizzazione maggiore rispetto al Piano. Renzi sollecitava già la realizzazione quando era premier; più volte lui e i suoi lo hanno indicato come indispensabile, adesso che i soldi ci sono sarebbe imperdonabile accettare il veto di chi si oppone ad un’infrastruttura che proietta il Meridione nel futuro, riportando quest’area al centro dello scacchiere mediterraneo. Le nuove tecnologie, il fatto che si tratterebbe non più di un’opera civile ma “industriale” cioè con componenti prefabbricati, strutture di montaggio preparate, consente di dimezzare i tempi (vedi ponte Morandi), quindi neppure su questo fronte avrebbe giustificazione l’assunto del governo.

Renzi, nell’intestarsi questa scommessa espressamente citata nella “Carta dei valori” dei centristi siciliani, sa di mettere a segno un colpaccio che affranca Sicilia e Calabria dall’emarginazione e di intestarsi una realizzazione di respiro internazionale. Aspetto non trascurabile per chi guarda Oltreoceano, ha fatto delle relazioni all’estero un punto di forza e mira al consenso dentro e fuori casa.

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Presidenti di Regione, parlamentari del Sud, deputati e consiglieri di varia appartenenza: basta sviare, sonnecchiare, tollerare, stare a guardare da remoto lo strazio di un Meridione che si consuma nell’insipiente pochezza di chi governa il territorio, nell’apatica rassegnazione di Comuni, Università, Enti, Ordini professionali, rappresentanze di imprenditori, sindacati, associazioni, club service e così via. Qui si rischia la desertificazione.

Nel post pandemia, non ci sarà spazio per lagnanze e scaricabarile; né per velleitari annunci su autoreferenziali risultati; o per conferenze stampa utili solo, forse, a giustificare il difetto di azioni vere, mirate, efficaci. Vi è a portata di mano un’opportunità epocale: colmare un secolare gap infrastrutturale, mettere insieme le intelligenze di diversi ambiti, attrarre investimenti, rivoluzionare il destino di questa parte del Paese per affrancarsi dall’interminabile oscurantismo e tornare protagonisti in Europa. Questa opportunità si chiama Ponte o, se si preferisce, attraversamento stabile dello Stretto. Più pontifex si sono affacciati tra Scilla e Cariddi con proposte varie su cui 30 anni fa si scelse quella meno attuabile. Ora siamo a una svolta che favorisce pacate e feconde decisioni.

Non è un manufatto per far sopravvivere Messina e Reggio, che già basterebbe a giustificarlo perché così le due città saranno costrette a riorganizzarsi per non perire, ma un’opera che, nel segnare la fine della condizione di arretratezza delle regioni cenerentola d’Europa, darebbe come poche altre sommo lustro all’arditezza nazionale. Si annuncia l’arrivo di una messe straordinaria di risorse; il Governo è alla ricerca di progetti di sviluppo da presentare a Bruxelles ed è in gioco l’ultima chance per affermare la centralità dell’Italia nel Mediterraneo, riaccendere i motori di tante imprese; proiettarsi su orizzonti più ampi che coinvolgono la mobilità e i rapporti commerciali dentro il Vecchio Continente e con il dirimpettaio Maghreb.

Su quest’opera si sono coltivati sogni di gloria che per decenni hanno obnubilato le menti nell’inseguire improbabili primati mondiali con un ponte di tre chilometri e 300 metri a campata unica, che nel mio recente libro “Spalle al mare” ho definito campato in aria e dove non sarebbe transitato alcun treno, forse neppure una carriola. Rincorrere illusori record ha solo fatto perdere tempo e opacizzato una connotazione ben più seria che non è quella dell’orgoglio macho-ingegneristico di mostrarlo più lungo, piuttosto di accreditare un tracciato realizzabile e sicuro per gommato e ferrovia insieme.

Bene, a un paio d’ore di volo da qui, sul Bosforo, la Turchia si è attrezzata con un terzo ponte, a campata unica di 1408 metri. E’ il ponte stradale e ferroviario oggi più lungo al mondo: 1408 mt, praticamente un terzo di quello che si vaneggiava di voler realizzare nello Stretto vent’anni fa, con gli esiti che abbiamo visto: scarsa considerazione a livello comunitario, anni di deliranti previsioni, compiacenti valutazioni e slalom istituzionale fino alla liquidazione della “Stretto di Messina spa” dove eppure si scommetteva sulla tenuta dell’impalcato a prova di sisma, confortati… da modelli matematici, prove di laboratorio, simulazioni in gallerie del vento.

Poiché dal dire al fare… ogni sproposito chimerico svanisce, ecco che il mare con la sua forza e le rotaie con la loro rigidità hanno imposto la logica della realtà: inconcepibile ancora oggi un ponte sospeso a unica campata di oltre tre chilometri, tant’è che non è stato realizzato da nessun’altra parte del globo. E vale la pena rilevare che la costruzione del terzo ponte sul Bosforo porta la firma dell’impresa italiana Astaldi-Impregilo, cioè gli stessi di quel ponte “datato” e probabilmente di quello a venire.

La saggezza dell’esperienza ha riportato qualificati progettisti a più realistiche elaborazioni e l’ipotesi dell’ing. Aurelio Misiti prevede ora un ponte con due pilastri in acqua per ridurre la parte centrale a un massimo di 2 chilometri, che potrebbe accorciarsi ulteriormente nel recepire le raccomandazioni degli ingegneri ferroviari (i nuovi treni sono lunghi in Italia fino a 750 mt ma in Europa anche di più).

Il Ponte assume valenza nel Corridoio Berlino-Sicilia sull’alta velocità ferroviaria (Roma-Catania in tre ore e mezzo!). Va inquadrato infatti nell’ottica di una più rapida connessione dei mercati del Nord all’hub portuale di Augusta e da qui a Malta e alla dirimpettaia Africa. Se si perde di vista il contesto complessivo di una visione macroregionale del Mediterraneo, si svilisce la portata dell’infrastruttura. Sono considerazioni che dovrebbero accomunare tutte le regioni meridionali e lo stesso mondo produttivo nazionale nel volere il collegamento, indispensabile per la conquista di mercati emergenti, proiettato in uno scenario intercontinentale che intercetti l’enorme flusso in transito dal Canale di Suez.

Analogo valore per l’opzione tunnel sub alveo proposto dall’ing. Giovanni Saccà: 4 chilometri in galleria da scavare dentro la “sella dello Stretto” cioè a -100 metri circa. Un’idea progettuale che trova spunto nel fatto che da Gioia Tauro a Villa le Ferrovie hanno già previsto un tracciato in galleria, come pure sul lato messinese: potendo sfruttare tale distanza, basterebbe dare al tracciato la pendenza necessaria per giungere alla quota prevista, a quel punto scavare i 4 chilometri sottomarini e congiungere le due gallerie.Dunque, ponte a tre arcate o tunnel sub alveo sono le due ipotesi in campo… tertium non datur, perché la terza inquietante eventualità sarebbe un ennesimo pretestuoso rinvio. Altri 30 anni? Non ci perdonerebbero neppure in Polonia!

La classe dirigente è avvertita: scongiurare un tradimento sfrontato, perché a nulla dopo varrebbe l’esimersi da corresponsabilità, quale che sia l’imprinting partitico.

Il Gruppo di studio insediato al Ministero si pronuncerà a giorni. Poi toccherà al Governo e alla politica fare la propria parte: i profili tecnici e quelli economici mai come ora convergono e si coniugano con proposte progettuali sostenibili, acquisizioni rigorose della ricerca, bisogno di operosità, bisogno di prospettiva, concretezza lungimirante. Vi sono diversi esponenti siciliani e calabresi nell’Esecutivo: facciano prevalere le ragioni della realizzazione sul chiacchierìo di impreparati e sprovveduti che, inidonei a gestire il presente, arretrano e si dileguano al momento di confrontarsi sul futuro.

 

Le risorse del Recovery Fund offrono un’occasione eccezionale per riposizionarsi, invertire quel trend in discesa che ci ha emarginati, accreditare l’Isola riferimento dell’Europa; intercettare i flussi mercantili provenienti da Suez; assecondare la trasformazione industriale, agganciare lo sviluppo alla rivoluzione green che è già nei fatti (basti pensare alla riconversione di centrali elettriche e degli stessi mezzi pesanti che abbandoneranno il gasolio per le celle a combustibile: a Roma entro il 2025, l’azienda rifiuti convertirà 2500 camion).

Il Ponte serve per arrivare dappertutto prima e meglio. Parliamo del ponte a campata unica “corta” inferiore ai 2mila metri, proposto dall’ing. Aurelio Misiti, non a quello originario di 20 anni fa che supponeva di impiantare fra Scilla e Cariddi un arco di 3km e 200 metri e comunque mai approvato dal Cipe che avendo rilevato una serie di criticità richiedeva approfondimenti e progettazione supplementare (lo ricordiamo a chi sostiene tuttora che potrebbe trattarsi di progetto cantierabile).

Torneranno utili alcuni studi a suo tempo portati avanti dalla società Stretto di Messina, come quelli sui fondali e sui venti: ricerche che, secondo i “pontisti”, sconsiglierebbero l’ipotesi tunnel sia se ancorato al fondo sia subalveo per la violenza delle correnti che provocano sollecitazioni orizzontali e per la faglia che con un terremoto 5.0 Rickter potrebbe squarciare la galleria. Non a caso si fa rilevare che in un contesto sismico analogo come quello di San Francisco, nel 1936, si escluse la galleria per preferire il ponte che resistette al terremoto di 7.1 del 1989. Diversa la valutazione di chi sostiene l’opzione tunnel (che approfondiremo fra qualche giorno con il proponente ing. Giovanni Saccà). Entrambe le soluzioni intanto sono al vaglio del gruppo di studio insediato al Ministero.

Adesso si tratta di affrancarsi dai vecchi tromboni, dai vari nammugghiamu u pani (si dice così?) insomma di chi è spinto da interesse personale o di gruppo, seppur legittimo, nel sostenere un progetto di fatto caducato. Occorre un salto di qualità, fare squadra, capire che il mondo è già cambiato e la pandemia ne accelererà la velocità, scommettere sulle capacità dei meridionali, affrontare le sfide e fare tesoro delle novità anche ingegneristiche che si sono registrate negli ultimi trent’anni, per esempio con la tecnologia off shore dei petrolieri che lavorano a 1600 mt di profondità mentre nello Stretto si opererebbe a quota -80 per le pile da affondare dentro cassoni, ossia i pilastri che reggerebbero la campata centrale che potrebbe ridursi a 1700 mt. Anche i costi, a quanto pare, sarebbero più ridotti rispetto al preventivo originario (fra i due e tre miliardi, ma sui numeri meglio non addentrarci perché sono sempre “ballerini”).

E’ il momento del coraggio della scelta. Palazzo Chigi saprà far trionfare il sistema Italia? La Regione siciliana e le altre Regioni del Sud spingeranno con forza in una visone di Macroregione per coniugare economia e cultura in un unico piano di sviluppo del Mezzogiorno che potrebbe ribaltare l’attuale divario col Nord e far rifiorire aziende meridionali che avevano 5mila dipendenti, operavano in giro per il mondo e si sono liquefatte? Il Ponte si è trasformato da opera civile in opera industriale con prelavorati da commissionare e quindi tali da rivitalizzare comparti industriali sparsi qua e là in Italia e fuori.

In Germania lo sanno bene ed esulterebbero all’idea di poter acquisire commesse ma ancor di più per l’opportunità di avvicinarsi ai mercati africani facendo viaggiare più speditamente le proprie merci. Non solo Germania. Cito solo il caso della svedese Ikea: ha il centro più importante di produzione mobili a Piacenza; i semilavorati arrivano dal Brasile, via Gioia Tauro su nave giungono a Genova, caricati sui Tir vengono consegnati a Piacenza da dove i mobili rifanno lo stesso tragitto per i mercati dell’Asia: una settimana di viaggio che col Ponte si ridurrebbe a 24 ore. Basta per rendersi conto dei tempi e costi incomparabili? E di quali potenzialità si legano al manufatto stabile tra Sicilia e Calabria?

Mancano un paio di settimane al responso del gruppo di studio chiamato a esprimersi sulla valenza economico sociale e sulla scelta ponte o tunnel. La piacentina ministra De Micheli non sembra un’accanita sostenitrice né dell’uno né dell’altro, forse diffidente sui risvolti anche nordisti dell’investimento al Sud. A meno di coup de théatre, dovrebbe emergere con convinzione l’innegabile urgenza di procedere e porre fine alla ridicola telenovela. Confidiamo che sia maturata sufficientemente la consapevolezza di un’opera che simboleggia la ripresa, capace di dare impulso poderoso al decollo del Paese non un semplice raccordo Messina-Reggio. In un sussulto di orgoglio nazionale, il premier Conte superi le esitazioni; assuma su di sé l’ardimento della prodezza: è l’unica chance per riaccendere i motori della fabbrica Italia, attirare l’interesse e lo sguardo del mondo verso di noi.

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Stretto Messina, attesa per fine anno la relazione sul ponte, poi la decisione

A fine anno il gruppo di lavoro incaricato dal Ministero delle infrastrutture e trasporti di valutare le proposte progettuali per la realizzazione di un attraversamento stabile dello Stretto di Messina presenterà la propria relazione conclusiva che conterrà la proposta di migliore soluzione tecnica di collegamento stabile dello Stretto di Messina.

Lo ha confermato la ministra delle infrastrutture e trasporti Paola De Micheli, durante una riunione del gruppo di lavoro per l’audizione dei rappresentanti delle Regioni Sicilia e Calabria e dei Comuni di Messina e Reggio Calabria.

“Da quel momento in poi si aprirà il momento della politica e del dibattito pubblico con il percorso che dovrà portare alla decisione finale, se procedere o meno alla realizzazione dell’opera”, ha detto la ministra, annunciando anche la propria audizione sull’argomento presso le Commissioni Parlamentari competenti il prossimo 15 dicembre. 

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