di Giovanna Corradini
Lieta di inviare il link di un seminario in streaming tenuto dal prof. Carlo Ruta, direttore del Laboratorio degli Annali di storia, intitolato La guerra nucleare: perché è entrata nell'ordine delle cose, con invito a rilanciarlo attraverso il suo giornale.
Ecco il link, e un saluto cordialissimo
https://www.facebook.com/carlo.ruta/videos/6179629162052008
Lipari&Comune, dopo il rigetto del ricorso da parte del tar l'avv Gaetano Orto, candidato a sindaco, sta valutando la presentazione di una istanza anche al Cga (Consiglio di Giustizia Amministrativa) di Palermo. Sulle scorse elezioni amministrative il tribunale regionale amministrativo il 25 gennaio invece dovrà valutare il ricorso presentato da Ersilia Pajno e Giovanni Di Vincenzo relativamente alle contestazioni che riguardano il seggio n2.
---Milazzo, sabato convegno anche per ricordare Giuseppe Persiani il comunista di Lipari che sfidò il fascismo
Lipari, avviso per la nomina di 2 Autorità Garanti per disabili e...
A cura di Diego Protani
Come nasce il saggio Gli equivoci del medioevo, appena uscito in libreria, e quale è stata l’esigenza per affrontare questo tema?
Questo ragionamento sul medioevo nasce con lo scopo di fare chiarezza e porre un argine al dilagare dei luoghi comuni. Si fa ancora fatica a conoscere e a riconoscere quei secoli, che ancora oggi sono visti come sinonimo di decadenza, superstizione, ignoranza e pregiudizi. In realtà il medioevo fu un’età straordinariamente colta e l’età logica per eccellenza. Ereditò la logica dagli antichi, ma con pensatori come Anselmo d’Aosta e Duns Scoto portò il ragionamento deduttivo alle soglie di una logica che oggi, ripensata da studiosi del del XX secolo, viene considerata la più dirompente e complessa. Anselmo ebbe dimestichezza con il concetto di «necessità» portandolo molto avanti, nel Proslogion, rispetto alle concettualizzazioni del pensiero antico. Scoto, che la Chiesa chiamava non a caso il doctor subtilis, si arrovellò sul concetto di «possibilità», che, cosa davvero sorprendente, è l’elemento cardine della logica modale di Godel e altri studiosi più recenti. Con le dispute sugli «Universali», Abelardo, Giovanni di Salisbury, Tommaso d’Aquino e altri investigavano inoltre i costrutti sottili dei nomi, dei generi, del linguaggio e le nervature della dialettica. Il Medioevo è da considerare già per questo, è il caso di ribadirlo, una età propriamente logica.
Quali altri motivi mettono in luce un medioevo straordinariamente colto?
Fu in quei secoli che nacquero, per «sedimentazione» secolare e infine per progetto, tra Duecento e il Trecento, le lingue che ancora oggi parliamo: l’italiano, il francese, il castigliano, il portoghese e altre. La strutturazione di una lingua, che in quei casi si arricchì appunto di progettazioni consapevoli, è qualcosa di dirompente, che genera quesiti, visioni del mondo, argomenti, percorsi sintattici e altro ancora. E tutto questo richiama ancora le virtualità progressive di quel mondo. Da quel travaglio linguistico e letterario, che nel caso italiano raggiungeva il clou con lo Stil Novo e con Dante, prorompevano di lì a poco l’Umanesimo e il Rinascimento. Da quel lavorio logico e dialettico, durato per secoli, venivano inoltre sollecitazioni al pensiero scientifico, rivitalizzato intorno al XIII secolo attraverso l’impegno dei pensatori scolastici, che rileggevano l’aristotelismo, in virtù delle nuove traduzioni disponibili, e azzardavano visioni originali del mondo empirico, come nel caso di Ruggiero Bacone.
Cos’altro propone il medioevo sotto questo profilo?
Le università. Proprio in quei secoli nasceva e si diffondeva in Europa lo Studium generale, destinato a modificare in profondo gli assetti degli studi e gli statuti della conoscenza, con effetti che ancora persistono nelle fondamenta dell’odierna organizzazione degli studi universitari. Non era esistito mai nulla di simile nel mondo antico, e il mondo moderno ne ha assunto in toto l’eredità. Insieme ai monasteri benedettini, gli Studia si possono considerare perciò la struttura portante del tempo logico. Tali istituzioni culturali ebbero in realtà una incubazione lunghissima, che risale per certi versi al periodo tardo antico, quando cominciavano formarsi le scuole delle cattedrali, che non prevedevano solo insegnamenti canonico-religiosi ma anche scientifici e dialettici. Studia come quelli di Parigi, Cambridge, Oxford, Tolosa, Bologna, Padova e Napoli, nati tutti nel XIII secolo, costituiscono il grumo profondo che rese possibile i rovesciamenti paradigmatici del pensiero scientifico della prima modernità. La formazione di Copernico fu, ad esempio, eminentemente universitaria, maturata nelle prime fasi soprattutto in Italia, presso lo Studium ferrarese, sorto nel 1391.
Lei parla di Boezio: quanto è stata importante la sua figura?
La figura di Severino Boezio, pensatore dell’aristocrazia romana e politico di primo piano nel regno goto di Teoderico, costituì il punto di raccordo tra il pensiero antico e quello che, in maniera anche tenace e originale, avrebbe acceso i «secoli bui». È da considerare quindi come primo rappresentante di un’età che già in quegli esordi andava logicizzandosi, malgrado le difficili condizioni materiali in cui versava l’Europa, attraversata da guerre e tensioni etnico-religiose. Boezio tradusse in latino e annotò, rendendole disponibili ai pensatori del tempo e dei secoli a venire, opere-chiave dell’analitica aristotelica, selezionando e focalizzando i temi logico-dialettici che più riteneva importanti. C’è poi il Boezio in disgrazia, tenuto in una prigione di Pavia negli anni venti del VI secolo, che prima di essere giustiziato, nel 526, stendeva De consolazione philosophiae, un dialogo incalzante con la filosofia, resa con le sembianze di donna: di fatto un dialogo con se stesso, una autoanalisi a tutto campo oltre che una impietosa e sottile critica della politica, che rimane una pietra miliare del pensiero morale.
Tommaso d’Aquino, Francesco d’Assisi: quanto erano distanti dalla Chiesa dell’epoca e quale fu il ruolo assunto dagli ordini mendicanti?
Entrambi, da postazioni molto diverse, erano in realtà parte attiva della Chiesa e ne difendevano l’unità, diversamente dai movimenti cosiddetti pauperistici, che si ponevano fuori dal sistema. In quel secolo, il XIII, la Chiesa romana era nel pieno della sua egemonia, che le permetteva di rivendicare con pienezza la primazia formalizzata nel dictatus papae dell’XI secolo, di epoca cioè gregoriana. Senza temere lo scontro con i poteri temporali, a partire da quello imperiale, essa andava ricomponendosi quindi, di volta in volta, di riforma in riforma, di scomunica in scomunica, in un universalismo plenario e funzionale. Traeva quindi a sé, approvandone la regula, diversi ordini mendicanti, tra cui i frati minori di Francesco e i domenicani assunsero presto ruoli «strategici». Per la Chiesa di Gregorio IX si trattava in realtà di una risorsa organizzativa su cui puntare, perché montava proprio allora l’invettiva contro i costumi del pontificato romano, ritenuti indecorosi. Era il tempo, ad esempio, in cui dilagava nel sud della Francia l’eresia cataro-albigese, contro cui Gregorio poté mobilitare soprattutto i domenicani. E l’ordine fu presto ristabilito, anche perché proprio allora veniva istituito il tribunale dell’inquisizione proprio in funzione antiereticale. Francesco e il suo movimento in questo quadro costituivano un mondo a sé, nello spirito di una religiosità dal basso che tuttavia permise al sistema ecclesiale di essere al passo con i tempi, più forse di quanto lo fossero alcuni regni potenti. Con l’impegno di questi frati, evangelizzatori e predicatori, la Chiesa di Gregorio IX, di Innocenzo IV e di altri papi poté stabilire relazioni con alterità che si affacciavano, anche in maniera traumatica, alla storia dell’Europa, come, ad esempio, quella mongolo-cinese. E gli esiti in questo caso, come si evince da numerosi rapporti dell’epoca, come quello del francescano Giovanni dal Pian del Carpine, furono molto produttivi. Dal canto suo, Tommaso, il doctor angelicus, che era domenicano, non si accontentava in fondo della fede e interpellava la scienza. Entrambi erano espressione allora di una Chiesa che sotto l’avanzata della steppa mongola, che apriva il mondo come una melagrana, riusciva a leggere i fatti e a restare in un equilibrio quasi perfetto tra le rigidità formali della tradizione e la necessità di misurarsi con i nuovi profili, materiali e politici, della temporalità.
Lei parla degli anni bui dei roghi. Il 70-75% dei casi furono donne: si può parlare di femminicidio?
Il termine, legato alla realtà attuale, può fornire un’idea, ma non una chiara messa a fuoco di quel che accadde non nei «secoli bui» bensì, si badi bene, nel pieno della modernità. È documentata a sufficienza una violenza lunga e continuata con significative caratterizzazioni di genere, che attraversò il continente con virulenza e con caratteri distinguibili dal XV secolo, quando fu sperimentata l’Inquisizione di rito spagnolo al XVIII secolo. Non si può parlare allora di un lascito del medioevo. Ciò avveniva quando in Europa i più potenti regni nazionali, ormai di vocazione imperiale e di proiezione oltreoceanica, e l’ascesa delle borghesie ponevano argini ormai incontrastabili alle mire universalistiche della Chiesa. Si apriva allora l’età dei grandi scismi della cristianità, della controriforma, del gesuitismo di Ignazio da Lojola e della Congregazione del Santo Uffizio, che rielaborava e radicalizzava le pratiche dell’inquisizione. Era il tempo delle grandi e lunghe guerre di religione, che si sarebbero succedute fino alla metà del XVII secolo, quando venne sottoscritto il trattato di Vestfalia che definiva nuove regole riguardanti le relazioni degli Stati e le differenze religiose. Naturalmente anche nelle aree delle religioni riformate si ebbero fenomeni di «caccia alle streghe». Anche Stati e poteri laici dell’Europa e di altri continenti ne furono a vari livelli coinvolti. L’epicentro è ravvisabile tuttavia nei nuovi orientamenti della Chiesa, in un orizzonte complesso, che non manca ancora oggi di zone d’ombra significative in sede storica e antropologica.
Giovanna d’Arco è forse il nome più famoso. Perché questa storia è rimasta così impressa nonostante siano passati secoli?
Gli scenari sono quelli di un Quattrocento europeo scosso e travagliato da tensioni dinastiche e guerre tra nazioni. La vicenda è quella di una giovanissima francese che dava al suo accostamento con il trascendente una forte connotazione politica e militare, di liberazione nazionale. Giovanna d’Arco assunse infatti, con il consenso di Carlo VII, la guida delle armate francesi portandole alla liberazione dell’Orleans e di altre aree del paese già assoggettate all’Inghilterra. Catturata infine dagli Inglesi venne messa al rogo, nel 1431, all’età di appena 19 anni, per eresia e stregoneria, con un processo riconosciuto poi, anche ufficialmente, come una farsa. Può essere considerata una vicenda emblematica perché introduceva introduceva in qualche modo, per i modi in cui fu imbastita l’accusa e il tipo condanna inflitta alla giovane condottiera, il paradigma di quella che sarebbe diventata, appunto, la moderna «caccia alle streghe».