Cari soci, nel salutare il nuovo anno e il quarantesimo anniversario della fondazione del Centro Studi vogliamo condividere con Voi e con la cittadinanza eoliana l'ultima scoperta dello storico Giuseppe La Greca, una lettera di Giuseppe Garibaldi ai cittadini di Lipari. La lettera è stata inviata dal Comando Generale dell'Esercito Nazionale in Sicilia, da Milazzo il 23 luglio 1860:
Ai cittadini di Lipari
Io vi ringrazio il nome della Patria per la generosa risoluzione.
Proclamate il Governo Italiano di Vittorio Emanuele ed eleggetevi un governatore alla maggioranza dei voti, al quale io conferisco temporaneamente poteri illimitati.
Mantenetevi in corrispondenza col Prodittatore in Palermo per via di Milazzo, e con me, mentre soggiornerò in quest'isola.
Vostro
Giuseppe Garibaldi
La lettera era conservata e trascritta dal notaio eoliano Don Rosario Rodriguez e fa parte dei documenti del fascicolo relativo alle indagini sull'omicidio di Giuseppe Policastro che Pino sta studiando per poter riscrivere una delle pagine più oscure della nostra storia più recente.
LIPARI - Nel 1860 Giuseppe Garibaldi inviò una lettera ai cittadini di Lipari, rimasta finora inedita e scoperta dallo storico eoliano Pino la Greca.
Lo rende noto Nino Saltalamacchia, presidente del Centro studi eoliano che quest'anno compie 40 anni dalla fondazione. La lettera è stata inviata il 23 luglio di 160 anni fa dal comando generale di Milazzo dell'Esercito nazionale in Sicilia.
Garibaldi ringrazia i cittadini di Lipari "per la generosa risoluzione. Proclamate il governo italiano di Vittorio Emanuele ed eleggetevi un governatore alla maggioranza dei voti, al quale io conferisco temporaneamente poteri illimitati. Mantenetevi in corrispondenza col Prodittatore in Palermo per via di Milazzo, e con me, mentre soggiornerò in quest'isola. Vostro Giuseppe Garibaldi”.
La lettera era stata conservata e trascritta dal notaio eoliano Don Rosario Rodriguez e fa parte dei documenti del fascicolo relativo alle indagini sull'omicidio dell'ex sindaco borbonico Giuseppe Policastro, avvenuto nell'autunno del 1860, che La Greca sta studiando.
Dopo la vittoria di Milazzo, il 25 luglio Garibaldi partì per Messina e diede disposizioni per l’occupazione di Lipari e delle isole dell'arcipelago a un gruppo di eoliani che avevano combattuto a Milazzo, guidato dal maggiore Giovanni Canale, nominato a governatore dallo stesso Garibaldi. Da lì a poco si svolsero le elezioni comunali.(ANSA)
GRAZIE AL NOTIZIARIO ED ALL'ANSA ECCO LA RASSEGNA STAMPA
repubblica.it/cronaca/2020/12/29/news/quando_garibaldi_ringrazio_lipari_trovata_una_lettera_inedita
dagospia.com/rubrica-29/cronache/ma-che-cosa-avra-rsquo-scritto-garibaldi-cittadini-lipari
lasicilia.it/news/cultura/381848/lettera-di-garibaldi-ai-cittadini-di-lipari-scoperta-dopo-160-anni
msn.com/it-it/notizie/politica/storia-ritrovata-lettera-da-garibaldi-ai-cittadini-di-lipari
livesicilia.it/2020/12/29/quando-garibaldi-scrisse-agli-eoliani-quel-grazie-delleroe-dei-due-mondi
GARIBALDI&LA RICOSTRUZIONE DI MICHELE GIACOMANTONIO. Del rapporto "Garibaldi-Eolie" scrive nel sito “Archiviostoricoeoliano”
di Michele Giacomantonio
Quando il 25 luglio Garibaldi, dopo la vittoria di Milazzo, parte per Messina chiama a se il maggiore Giovanni Canale e gli dà disposizioni per l’occupazione di Lipari e delle Eolie. Il contingente militare che era di guardia ai coatti non avrebbe opposto resistenza, se qualche preoccupazione ci poteva essere riguardava la Regia Marina che sorvegliava l’intera area dello Stretto, ma visto che la capitolazione era stata firmata dal colonnello Anzani dello stato maggiore borbonico, anche questa eventualità appariva improbabile. Quindi il Canale prendesse il gruppetto di liparesi che avevano combattuto a Milazzo ed un altro gruppetto della guarnigione locale e andasse a Lipari assumendo le funzioni di governatore provvisorio delle Eolie e lo comunicasse a tutte le autorità.
E così avviene. Tra il 26 ed il 28 il maggiore Giovanni Canale parte per il Lipari con il suo gruppetto, indossando la camicia rossa, un poncho grigio- marrone, un berretto di velluto scuro ricamato. La prima visita sarà per il vescovo Ideo, quindi si recò al municipio sul Timparozzo dove incontrò quelli dei decurioni che non si erano nascosti, i gentiluomini del paese, gli ufficiali borbonici del Castello. Ad essi Canale comunicò la decadenza del Sindaco e del decurionato borbonico, lo scioglimento del corpo delle guardie municipali con il passaggio dell’incarico di pubblica sicurezza alla guardia nazionale e mostrò la sua nomina a Governatore e Presidente del Municipio, firmata da Garibaldi.
Dichiarò che riceveva ordini solo dal Governatore della Provincia. Emanò alcune urgenti ordinanze di polizia compreso quella che aboliva la pena del bastone nei confronti dei relegati coatti e infine firmò il primo atto anagrafico, una registrazione di nascita. Era il 29 luglio 1960. Il Canali annunciò che presto vi sarebbero state le elezioni per il nuovo Consiglio comunale che sarebbe stato presieduto da un Presidente del Consiglio e il Consiglio avrebbe eletto il Magistrato Giuratorio che doveva comprendere il Predente del municipio e due giurati. Il Consiglio comunale sarebbe stato eletto da elettori che sapessero leggere e scrivere e fossero iscritti ai ruoli dei contribuenti con un certo censo: una settantina o poco più. I comizi furono indetti per i primi giorni di agosto.
Furono eletti quarantesi consiglieri di cui sette canonici ed un sacerdote, cinque erano i confermati rispetto alla precedente assise, il più anziano e quindi presidente provvisorio era il dott. Antonino Megna.. Fra i consiglieri vi era anche Giovanni Canale.
IL PUNTO E VIRGOLA
Alle Eolie il 2020 si è chiuso col botto, anzi con le lettere. Una è quella di Garibaldi, scoperta da Pino La Greca e che Il Notiziario e l’Ansa hanno divulgato non solo in tutta Italia. Fu scritta a Milazzo il 23-7-1860 per gli eoliani e conservata da un notaio liparoto che in casa sua riceveva tutti. Era chiamato don Rosario Rodriquez. Gli archivi del dr. Edoardo Bongiorno messi in bella mostra “dallo storico degli storici” prof. Giuseppe Iacolino e dal prof. Angelo Raffa, altro storico di naturalezza eoliana, compreso il dr. Michele Giacomantonio che per finezza di risorse non tralascia niente. Il delitto Giuseppe Policastro non resta un mistero ma solo un fatto.
La commissione che fu chiamata a fare l’esame del conto morale e materiale del 1860 dice: “La Giunta [del 1860] ha agito con tutta legalità ed ha adempiuto tutti gli obblighi che la legge metteva a suo carico. Non mancò mai di solerzia e di operosità nell’immigliamento dell’Amministrazione e miglioramento del paese. Gli sconvolgimenti politici avvenuti in quel tempo non permettevano fare più di quanto fecero. Si trattò di un moto spontaneo fino al delitto di Giuseppe Policastro con esecutori e mandanti, o meglio, un mandante che è rimasto dietro le quinte. Il prof. Iacolino aveva trovato fra le carte della famiglia Bongiorno la minuta di una lettera senza data, senza firma, senza destinatario e per di più rosicchiata dai topi e quindi in alcune parti illeggibile. La calligrafia è quella di don Giovanni Bongiorno e fu scritta nell’arco degli ultimi due mesi del 1860. Don Giovanni Bongiorno aveva la stessa età di Giuseppe Policastro.
L’altra lettera è arrivata dal Canada, spedita da Bartolo Monaco, scritta a Winnipeg per un compagno di scuola elementare. C’è un carico di storica umanità senza camicia rossa, che arriva con 62 anni di emigrazione alle spalle. Senza misteri e senza segreti, senza delitti e senza giri di parole. Due lettere che fanno storia. Fra la prima e la seconda solo un secolo di differenza.
Il mistero dell’assassinio di Giuseppe Policastro, ultimo sindaco borbonico di Lipari
di Michele Giacomantonio
Le Eolie di Fronte ai moti rivoluzionari
I moti del 1848 e soprattutto quelli del 1860 che sfociarono nella cacciata dei Borboni e nell’ingesso delle Due Sicilie nell’Italia unita non videro le Eolie caratterizzarsi per un chiaro sentimento rivoluzionario anche se le mobilitazioni sfociarono nell’assassinio dell’ultimo sindaco borbonico[1]. Dietro il richiamo patriottico, tuttavia, ed intrecciati con esso fino a determinarlo, qualificarlo e degradarlo, vi furono malumori e tensioni legati al lievitare dei costi, al ribellismo degli strati del proletariato urbano e contadino verso le classi agiate e, non ultimo, allo scontro sotterraneo, sordido e misterioso degli ottimati locali per posizionarsi nella formazione della nuova élite dirigente.
[1] Molte delle informazioni che hanno contribuito alla stesura di questo saggio sono tratte dai quaderni dattiloscritti del prof. Giuseppe Iacolino ed in particolare dal Quaderno VII, Lipari nell’impresa garibaldina e assassinio di Giuseppe Policastro. Iacolino a volte cita la fonte e in questo caso ci facciamo dovere di comunicarla, altre volte invece si avvale di ricostruzioni raccolte da conversazioni con i protagonisti o testimoni. Quindi . se non diversamente indicato, le informazioni riferite nel saggio provengono dall’inedito citato.
Non si può dire che mancasse l’iniziativa politica dei democratici e dei liberali che miravano alle libertà costituzionali ed all’Unità d’Italia ma essa era minoritaria e più di facciata che di sostanza. Più corpose erano, invece, le rivendicazioni sociali di bisogni anche elementari dei popolani e dei contadini ed il modo di sentire di molti borghesi che fiutavano il clima e – per dirla con Tommasi di Lampedusa - stavano attenti a che nel cambiamento, nulla cambiasse della loro condizione.
Quando nel mese di aprile del 1860 corre la notizia in ogni parte della Sicilia che Palermo e Messina sono insorte, anche a Lipari cominciano le tensioni che presto sfociano in manifestazioni anche forti e violente. In precedenza, Il 17 marzo, prima quindi dell’occupazione della Gancia, c’era già stata una manifestazione di liberali liparesi che avevano esposto il tricolore fissandolo al braccio della statua di S.Bartolomeo, nella Marina di San Giovanni, ribattezzata Piazza del Commercio[1].
PER LA LETTURA COMPLETA CLICCARE NEL LINK CHE SEGUE LEGGI TUTTO
A Lipari vi era una situazione particolare. Da una parte, i confinati della colonia coatta fra cui diversi politici che speravano nel
[1]Elpis Melena – In Calabria ed alle isole Eolie nell’anno 1860 , Soveria Mannelli 1997, pag. 116.
cambiamento per poter tornare liberi, e dall’altra una forte guarnigione militare che oltre l’incombenza di sorveglianza dei coatti aveva il problema di contrastare il brigantaggio che, soprattutto negli ultimi tempi aveva avuto una netta recrudescenza. Ed in questa cornice, gli atti di insofferenza che nelle manifestazioni, assumevano una fisionomia non solo violenta ma anche delittuosa, da parte dei locali borghesi e benestanti si meritavano l’accusa di atti di brigantaggio.
E i briganti a Lipari c’erano davvero. Da qualche anno, si erano manifestati soprattutto nell’area di Quattropani dove si erano fatti sempre più arditi e intraprendenti. Si trattava di caprai ignoranti e analfabeti – almeno cosi si diceva - che avevano dato vita ad una sorta di potere illegale facendo taglieggiamenti, grassazioni, minacce e, di tanto in tanto, anche qualche omicidio. Appartenevano quasi tutti alla banda dei Cannistrà, meglio conosciuta come la banda dei Marii. Erano sei o sette famiglie nelle quali frequentemente, soprattutto nelle generazioni più giovani dei ventenni o giù di lì, , ricorreva il nome di Mario. C’era Mario Cannistrà figlio di
Andrea, del 1834, Mario Cannistrà di Giuseppe del 1841, Mario Cannistrà di Giovanni, sempre del 1841, Mario Cannistrà di Bartolo del 1847, e con loro, Antonino Cannistrà, Mario Vanni Cannistrà ed altri.
Il capo sembrava essere Mario Vanni, marito di Grazia Rijitano, dotato di un fisico possente, andava in giro con un abbigliamento rustico e stravagante. Un giaccone, cosciali di pelle di pecora, barba incolta e capelli lunghissimi che fuoriuscivano da un berrettone di lana grezza conferivano alla sua figura un che di selvaggio. Eppure, contrariamente a quanto si diceva, Mario Vanni non solo sapeva leggere e scrivere, così come altri membri del gruppo, ma teneva in casa molti libri dai quali attingeva idee di giustizia e libertà che professava e per le quali godeva di considerazione e di rispetto fra i contadini della contrada e delle campagne vicine. E qui era diventato famoso assieme agli altri del suo gruppo[1].
[1] Mario Cannistrà di Andrea nato a Quiattropani il il 25 aprile 1834 nel 1870 sarà condannato a venticinque anni di lavori forzati per grassazione. Morirà nel bagno penale di Procisa il 22 luglio del 1871. Un altro Mario Cannistrà detto anche Mariano di Bartolo, nato il 4 ottobre del 1847 verso il 1867 trovandosi in servizio di leva ucciderà un capitano dell’esercito. Sconterà trent’anni in un carcere romano. Tornato a Lipari verso il 1900 vivrà sin oltre il 1920. Queste notizie sui Marii come altre riguardo a Lipari in questo periodo, dove non diversamente indicato, sono prese da Giuseppe Iacolino, manoscritto inedito. Quaderno VII, pp 312-314 e pag. 348.
I Marii non erano, tuttavia, i soli nell’isola ad avere fama di essere irrequieti e violenti. In città si mormorava di appartenenti alle casate dei Cappadona[1] e dei Ventrice[2] che avevano la lingua facile, ma facili spesso anche la mano
[1] Un Nicola Cappadona, diciannovenne, sarà a Milazzo a combattere con i garibaldini. Faceva parte di una famiglia numerosa giacché la madre, Nicolina Mellina, aveva messo al mondo tredici figli e una decina erano viventi nel 1860. Il padre Nicola, detto Sabina, era calzolaio e guardia municipale. Vivevano in una casupola in una stradina sotto le mura del Castello. Oltre a Nicola fra i più attivi vi era il fratello Antonino più anziano di sei anni.
[2] I Ventrice erano un clan di sei o sette famiglie dislocate in vari quartieri della città ed esercitavano i più svariati mestieri. Qualcuno aveva fatto il militare nell’esercito borbonico, vi erano sarti, calzolai, fabbri e agricoltori. Probabilmente erano originari di Ustica e avevano vissuto per qualche tempo a Palermo.
ed il coltello. Che tutti costoro c’entrassero o no, tra il 1858 ed il 1860 si erano registrati a Lipari ben sei “morti violente”, fatti tutt’altro che usuali per una comunità solitamente tranquilla.
Era sindaco di Lipari a quel tempo don Giuseppe Policastro[1], un trentaseienne avvocato colto e facoltoso che aveva cercato di barcamenarsi, in una situazione che, con i fatti del 1860, diventava sempre più difficile e all’epoca, nell’isolamento più completo, senza notizie di quello che avveniva all’esterno, era impegnato a dare la caccia ai Marii e soprattutto a Vanni Mario che era latitante.
Sul versante dei democratici che nelle Eolie si battevano per le libertà costituzionali e l’Unità d’Italia, vi erano alcuni volontari reduci da pochissimo dalla vittoriosa battaglia di Milazzo. Innanzitutto Giovanni Canale[2], principale animatore della
[1] Giuseppe Carlo Bartolomeo Policastro era nato a Lipari il 12 maggio 1823 dal settantenne don Antonio, dottore in legge e grosso proprietario terriero, e da donna Francesca Salpietro, una fanciulla di venticinque anni ed anche lei erede di grosse fortune patrimoniali. Era cugino di don Filippo De Pasquale, sindaco di Lipari e partecipante a Palermo all’insurrezione del 1848 e alla conquista di Palermo da parte di Garibaldi. Era imparentato anche con don Onofrio Paino meglio conosciuto come don Nofriu ‘u pirata.
[2] Giovanni Canale, di Zaccaria e Maria Rodriquez, era nato a Lipari il 28 settembre 1823. Vi morirà il 26 aprile 1887. Aveva fatto parte di un gruppo rivoluzionario clandestino sorto in occasione dei moti del 1848 e in contatto con il comitato rivoluzionario di Palermo. Proprio il 28 novembre del 1848, fuori da Lipari, - probabilmente impegnato con don Filippo De Pasquale a Palermo a stringere legami con leader democratici regionali e nazionali impegnati nella costituzione del nuovo Parlamento Siciliano -, si sposa per procura con donna Marianna Favaloro. Torna a Lipari solo nei primi mesi del 1949 per dichiarare la nascita della primogenita. Cfr. Michele Giacomantonio, Navigando nella storia delle Eolie, Marina di Patti, 2010, pagg. 293-294.
cellula rivoluzionaria di Lipari, che era tornato con due ferite e con i gradi di Maggiore, dategli sul campo direttamente da Garibaldi che lo aveva nominato anche governatore provvisorio delle isole Eolie mettendo ai suoi ordini un gruppo di garibaldini per sostenerlo nella liberazione di Lipari.
Con Canale, altri volontari erano stati Domenico Pirejra del 1831, Nicola Cappadona che all’epoca aveva 19 anni e Giuseppe Palamara che di anni ne aveva 21 ed era studente in chimica all’Università di Messina.
Avvenuta la capitolazione dei borbonici, il Palamara (ma probabilmente anche gli altri), tornati a a Lipari, avevano affiancato Canali nella liberazione delle isole e nella costituzione della nuova amministrazione.
Nell’ ultimo anno, dopo gli eventi del forte temporale che il 19 febbraio 1859 con un fulmine alle 7 della sera aveva distrutto un timpano della Cattedrale facendolo rovinare e provocando diverse crepe nella volta prontamente riparate dal vescovo mons. Ideo[1] con somme inviate da re Ferdinando[2], e fino all’aprile del 1860 al municipio ed al vescovato la vita aveva avuto un corso piuttosto lineare. Nell’ottobre e nel novembre del 1859 in Cattedrale si erano celebrate con rito religioso le ultime due ricorrenze borboniche: l’onomastico di Francesco II e la commemorazione per il sesto mese dalla morte di Federico II; ed in Comune, nelle sedute consiliari del 1860 si era discusso ritualmente dei collegamenti marittimi e dei prezzi annonari. Sui collegamenti marittimi, il 13 febbraio, era stata avanzata la
[1] Mons. Ludovico Maria Ideo, domenicano, era nato a Pietraporzia in provincia di Enna il 21 aprile 1811. Era un predicatore eccellente e nel 1852 aveva pubblicato a Palermo il quaresimale predicato nel 1840, Venne nominato vescovo di Lipari il 25 giugno 1858 e prende possesso della diocesi l’8 ottobre. Il problema più grave che il nuovo vescovo si trovò di fronte era quello di una diocesi distribuita fra tante isole così distanti fra loro mentre la sua salute era cagionevole e non gli permetteva di sopportare gli strapazzi del viaggio e dei soggiorni disagiati. Per questo aveva chiesto subito al papa di essere dispensato dalle visite pastorali nelle isole in prima persona e di potere delegare qualcuno per le cresime.(Archivio vescovile, Corrispondenza, carp.E).Sera anche un letterato e poeta. Nel 1880 uscì a Palermo un suo libro dal titolo “Poesie edite ed inedite di Monsignor F.Ludovico Maria Ideo dell’Ordine dei Predicatori Vescovo di Lipari”. Collaborò a diverse riviste fra cui “Vera Buona Novella” di Firenze e “Sicilia Cattolica”. Morì il 3 dicembre 1880.
[2] Dal Manoscritto anonimo di proprietà della famiglia di Luigi Mancuso, p.636.
richiesta al governo di aggiungere altre due corse di vapore a settimana alle due esistenti della tratta Lipari- Messina; [1] e sui prezzi annonari si era tentato di porre rimedio ai diffusi malumori. I macellai avevano prodotto addirittura una serrata che aveva dato molto fastidio alla popolazione e nella seduta dell’1 aprile, l’ultima presieduta da Policastro, si era discusso della penuria delle merci nei negozi per la quale si era attribuita la responsabilità al sindaco che aveva ritenuto di doversi “discaricare per la responsabilità … dopo aver fatto noto al Colleggio lo stato di deficienza in cui attualmente trovasi il paese”.
Che la rivoluzione era ormai vicina, tuttavia i liparesi lo avevano intuito già il 10 luglio quando si era sparsa la voce che il vapore “Duca di Calabria”, proveniente da Messina e diretto a Napoli proprio nei pressi di Lipari era stato catturato da una corvetta della Marina Dittatoriale Siciliana e dirottato a Palermo.
Era il momento in cui in tutta la Sicilia i sindaci si dileguavano e qualcuno
[1] Probabilmente due corse Lipari-Messina si effettuavano già da qualche anno ed erano inserite nella linea bisettimanale Napoli –Messina una della Compagnia Calabro Sicula ed una della Compagnia delle Due Sicilie. Una volta al mese un vapore faceva il viaggio da Palermo per Lipari. S.Lanza, Guida del viaggiatore in Sicilia, Palermo 1859.
che non faceva in tempo aveva la peggio sotto il maglio delle folle tumultuanti[1].
Così, alle prime avvisaglie di rivoluzione anche Giuseppe Policastro aveva pensato di dileguarsi andandosene a Salina nelle sue terre sia per sfuggire alle proteste annonarie ed al malcontento dei cittadini in genere, sia temendo una vendetta da parte dei Marii. Ed in effetti, dal 13 luglio non compare più la sua firma nei registri del Comune.
Dopo “la fuga” del sindaco, il 23 luglio Garibaldi, chiusa la vittoriosa battaglia di Milazzo, e prima di partire per Messina chiama a se il maggiore Giovanni Canale e gli dà disposizioni per l’occupazione di Lipari e delle Eolie ed in quella occasione gli consegna una lettera rivolta “Ai cittadini di Lipari” in cui li invita “ a proclamare il Governo Italiano di Vittorio Emanuele “ e ad accogliere il governatore “ al quale conferiva “temporaneamente poteri illimitati”[2]. Inoltre la stessa lettera
[1] F. Ioli, Roccavaldina, Torino 1972, p.86. Il 19 luglio a Roccavaldina i patrioti avevano ucciso il sindaco Carmelo Bottaro ed un suo messo. Entrambi sgozzati e lasciati in mezzo alla piazza del paese in un lago di sangue.
[2] Devo copia della lettera alla cortesia del dott. Giuseppe La Greca. Questa è stata pubblicata nella Edizione Nazionale degli scritti di Giuseppe Garibaldi, vol. XI a cura di Massimo De Leonardis, per conto dell'istituto per la storia del Risorgimento Italiano nel 1988 e si trova a pagina 176-177.
La trascrizione dall'originale, a cura del notaio Rosario Rodriquez per conto del Comune di Lipari, fa parte dei documenti del fascicolo relativo alle indagini sull'omicidio di Giuseppe Policastro.
comincia con “un ringraziamento in nome della Patria per la generosa risoluzione” di cui non conosciamo il testo, ma che con tutta probabilità era stata a lui inviata dai liberali liparesi poco prima della battaglia di Milazzo con uno dei volontari che era partito dall’arcipelago per unirsi a lui.
La missione a cui si accingeva il drappello di garibaldini per l’occupazione delle Eolie non presentava particolari difficoltà. Il contingente militare di guardia ai coatti, non avrebbe opposto resistenza. Se qualche preoccupazione ci poteva essere riguardava la Regia Marina che sorvegliava l’intera area dello Stretto, ma visto che la capitolazione era stata firmata dal colonnello Anzani dello stato maggiore borbonico, anche questa eventualità appariva davvero improbabile. Così il Canale riceveva disposizione di guidare il gruppetto di liparesi che aveva combattuto a Milazzo ed un altro della guarnigione locale per assumere a Lipari - in attesa delle auspicate elezioni - le funzioni di governatore provvisorio delle Eolie,
comunicando i suoi poteri a tutte le autorità.
E così avviene . Tra il 26 ed il 28 il maggiore Giovanni Canale, alla testa del suo piccolo esercito, indossando la camicia rossa, un poncho grigio- marrone e un berretto di velluto scuro ricamato, giunge a Lipari e dopo aver reso omaggio al vescovo Ideo, si reca al municipio sul “Timparozzo” dove incontra i decurioni che non si erano nascosti, i gentiluomini del paese e gli ufficiali borbonici del Castello. A tutti mostra la sua nomina di Governatore e presidente del Municipio firmata da Garibaldi, comunica la decadenza del Sindaco e del decurionato borbonico, lo scioglimento del corpo delle guardie municipali ed il passaggio dell’incarico di pubblica sicurezza alla guardia nazionale
Con molta enfasi, dichiara inoltre di ricevere ordini solo dal Governatore della Provincia ed emana alcune urgenti ordinanze di polizia compreso quella che aboliva la pena del bastone nei confronti dei relegati coatti. Firma, infine, il suo primo atto anagrafico: una registrazione di nascita. Si era al 29 luglio 1860.
Nei giorni successivi, Canali annunciava che presto si sarebbero svolte le elezioni per il nuovo
Consiglio comunale che sarebbe stato eletto da chi, in grado di leggere e scrivere, era iscritto ai ruoli dei contribuenti con un certo censo[1] . Ed in effetti, i comizi, indetti per i primi giorni di agosto, eleggevano quarantasei consiglieri di cui sette canonici ed un sacerdote. Della precedente assise, ne venivano confermati cinque. Il dott. Antonino Megna che era il più anziano, veniva eletto presidente provvisorio del Municipio mentre tra i consiglieri sedeva anche Giovanni Canale.
Il Consiglio si riuniva per la prima volta il 25 agosto ed per la seconda il 31 successivo agosto senza affrontare né il tema del corpo dei vigili urbani né altri specifici problemi amministrativi.
Sia a Lipari che nelle isole adiacenti aveva cominciato ad operare la guardia nazionale[2] mentre Giovanni
[1] La lista degli elettori alle elezioni del 12 maggio 1864 erano 72, quindi supergiù lo stesso numero del 1860.
[2] Sappiamo che a Salina era già operante prima del 10 ottobre da una lettera che il governatore Giovanni Canale scrive a don Giovanni Aricò, capitano della terza compagnia dei Militi Nazionali in Santa Marina e in cui si parla del luogotenente Domenico Giuffré e dei sottotenenti Gaetano Favazza e Giuseppe Lo Schiavo, insieme ai quali l’Aricò deve procedere alla nomina dei “bassi ufficiali” e cioè un sergente foriere, sei sergenti, dodici caporali ed un caporale forire. Forse Giovanni Arico era uno dei volontari che aveva combattuto a Milazzo. Documenti riguardanti Giovanni Aricò sono di proprietà della dott.ssa Giulia Mammana in Amendola.
Canale era dovuto partire lasciando il suo incarico ad interim al giurato don Antonino Aricò.
Settembre si apriva con notizie contraddittorie dalla Sicilia e dall’Italia sulla coscrizione obbligatoria che era stata imposta dai piemontesi e per la quale qualche mese prima il Governatore della Sicilia, non potendo fare affidamento sulla pubblica amministrazione ancora pressocchè inesistente, aveva scritto ai vescovi chiedendo la loro collaborazione e quella del clero “acciocché con la predicazione – si fosse insinuato - negli animi de’ cittadini d’abbracciar questa misura [quella della leva dell’esercito] non come una gravezza, ma come un sacro dovere, gloria vera e degna d’un popolo che vuole conservare la sua libertà[1]”.
Si parlava però anche dello Statuto Albertino che Depretis aveva esteso all’isola, del re Francesco II che si era rinchiuso a Gaeta e di Garibaldi che aveva occupato Napoli, e anche delle camice rosse che erano state sconfitte a Caiazzo.
Note dolenti particolarmente avvertite dalla popolazione erano però quelle sui beni di prima
[1] Lettera del 19 giugno 1860 della “Segreteria di Stato dell’Istruzione Pubblica e del Culto” al Vescovo di Lipari, Archivio Vescovile, Corrispondenza, Carp.C.
necessità che scarseggiavano, sui prezzi giunti alle stelle per colpa dei bottegai, degli speculatori e dell’anarchia che sembrava ormai impossessarsi del paese.
Intanto, il 23 settembre si riuniva il Consiglio sotto la presidenza di don Felice De Gregorio con all’ordine del giorno la nomina delle guardie municipali e la nomina del Magistrato municipale. Presidente a maggioranza veniva eletto don Giuseppe La Rosa mentre al dott. Michele Scafidi e al dott. Antonino Megna andavano le cariche di primo e secondo giurato. Veniva composto anche il corpo di Guardia municipale con individui che erano stati assunti nel 1848 e qualche mese dopo dimessi. Ne risultava quindi un corpo di vigili piuttosto anziano con guardie in gran parte analfabete e di età superiore ai cinquant’anni.
La vita del nuovo municipio era tuttavia scossa dal grave problema della penuria di beni alimentari e dei loro prezzi. Che fare? Gli amministratori sapevano che la mancanza di grano, olio e carne dipendeva dallo stato di guerra che ancora affliggeva il territorio del regno per cui l’unica strada, se vera strada si poteva chiamare, era quella del blocco dei prezzi a dettaglio pur
con qualche aggiustamento con il fine di “togliere qualunque attentato all’ordine per l’imprudenza dei venditori”.
Ed è con questo obiettivo che, convocato d’urgenza il Consiglio in seduta straordinaria solo una settimana dopo, il 30 settembre, su proposta del giurato dott. Scafidi venivano definiti i prezzi di: pane, vino, olio, pasta, carne di vacca, di montone e becco, di capra e pecora, e dei pesci dalla cernia, al dentice,alle occhiate, agli scorfani, alle ope, alle morene e mostine, alle aragostee al al tonno sotto sale.
L’uccisione di Giuseppe Policastro nella versione di “don Salvatore”.
Le misure adottate dal Consiglio, tuttavia non risolvevano i problemi e la tensione sull’Isola continuava a salire determinando anche gravi fatti di sangue. Già il 28 agosto, per cause tutt’altro che chiare e mai chiarite era stato ucciso don Giovanni Amendola, ex consigliere e drammaturgo, che si era ritirato nella sua casa di Quattropani. Ma la misura viene ampiamente superata poco più di un mese dopo, il due ottobre, il giorno dopo l’applicazione delle misure annonarie, quando la
folla inferocita uccide tre persone tra cui l’avvocato Don Giuseppe Policastro, ultimo sindaco borbonico che da pochi giorni era rientrato da Salina.
Con le vicende annonarie Policastro non c’entrava per niente ed era ormai fuori dal Comune da parecchi mesi. Perché e come viene quindi ucciso.
Una testimonianza preziosa ci viene da Elpis Melena, pseudonimo di Marie Esperance Brandt von Schwartz, giornalista e scrittrice, legata a Garibaldi da una affettuosa amicizia, che visita le Eolie dal 7 al 13 ottobre del 1860. Giunta a Lipari 9 giorni dopo i tragici fatti, facendo il suo mestiere di giornalista, tenta di raccogliere ciò che può e ci offre un racconto di un certo interesse riportando la testimonianza di uno dei protagonisti della assalto alla casa di Policastro: un non meglio precisato don Salvatore, liberale e antiborbonico[1].
Policastro racconta costui “si era trincerato con trenta seguaci ben
[1] A.Raffa nella nota n. 124 ( idem, pag.182) al testo crede di identificare con don Salvatore Amendola, che alla fine del 1861 compare negli atti del Comune come “assessore funzionante da Sindaco”, oppure don Salvatore Favaloro che sarà Sindaco dal 1864 al 1865.
armati, e non accontentandosi di dare l’ordine di sparare sulla popolazione, fu anche colui che fece fuoco per primo e più frequentemente. L’esasperazione cresceva ogni istante da tutte e due le parti, finché il conflitto non degenerò in una generale lotta politica, in cui prevalsero gli odi partitici a lungo repressi. Quando infine il sindaco riuscì a stendere al suolo, con un colpo ben mirato, il capo dei liberali[1] – uno dei nostri cittadini più insigni – allora per lui fu finita. Egli tentò di salvarsi saltando da una finestra; ma nello stesso momento fu afferrato dal popolo e letteralmente fatto a pezzi. Sua madre fuggì in campagna, i suoi seguaci si dispersero, e la popolazione, placata da questa terribile, anche se ben meritata vendetta, si preoccupò soltanto di curare i feriti e seppellire i morti”.
Secondo l’interlocutore di Elphis Melena, la causa dello scontro, era l’accusa fatta al Policastro di essersi appropriato della “cassa di San Bartolomeo” e cioè di un fondo costituito con i soldi pagati al proprietario del vascello di nome
[1] Angelo Raffa nella nota n. 120 (idem, pag.181) osserva che dovrebbe trattarsi di Luigi Ventrice, sarto di 38 anni, perché era l’unico dei tre uccisi che sia morto per strada.
Bartolomeo che nel 1672 aveva portato a Lipari miracolosamente un carico di grano, ripartendo poi di notte senza riscuotere il corrispettivo. Si tratta di una versione di un episodio narrato dal Campis[1] che però non parla né del corrispettivo né di questa “cassa di S.Bartolomeo”[2]. Secondo la giornalista anglo – tedesca, tuttavia il suo intervistato affermava che “l’amministrazione di questa “cassa” era stata affidata al Sindaco e doveva servire ai liparesi come sostentamento in caso di rincaro dei prezzi annonari.
“Questo momento era giunto. L’aumentata tassa sull’olio e sul grano spinse il popolo a chiedere l’aiuto della ‘cassa di San
[1] P. Campis, Disegno Historico della nobile e fedelissima Città di Lipari. 1694. A cura di Giuseppe Iacolino, Messina, 1991. Del Campis non si sa niente ed anche la grafia del cognome risulta incerta. Scrisse questo manoscritto - che negli ultimi secoli è diventato un punto di riferimento per chi si avventura nella storia delle Eolie – nel 1694 ed è andato alle stampe per la prima volta nel 1991 per l’impegno del prof. Giuseppe Iacolino che ne ha curato la presentazione ed le note e del dott. Bartolo Famularo, imprenditore turistico, che ha curato ed ha provveduto alla stampa.
[2] Angelo Raffa nella nota n.119 al testo della E.Melena (pag.180) osserva che l’ esistenza del Peculio Frumentario, a cui riconduce la cosiddetta “cassa di S. Bartolomeo”, è comunque documentata nell’800 da alcuni atti notarili.. Il Peculio Frumentario era un deposito per il grano per i periodi di carestia, distribuito in cambio di una piccola somma di denaro. Dai documenti citati da Raffa si deduce che a Lipari il Peculio aveva un “depositario della cassa”, un “magazeniero delle fromenti” che a Lipari si trovavano nel Borgo, quartiere il Pozzo, e due “deputati”.
Bartolomeo’, ma invano. E poiché negli ultimi vent’anni ogni aiuto è stato sempre negato e l’ultimo sindaco [ il Policastro] (…) affermò persino che nella cassa non vi era più alcun denaro, il popolo fu condotto all’ira e all’esasperazione. Gli abitanti della città e della campagna si armarono e si unirono per assalire la casa del sindaco, per impossessarsi della cassa trattenuta ingiustamente e compiere vendetta contro l’amministratore infedele e disonesto”.
Continuava il racconto don Salvatore affermando che nella casa del Policastro veniva finalmente trovata “la cassa di San Bartolomeo” con settemila once; e “ Il sindaco che era un uomo di ancora neanche 36 anni ed aveva rivestito già da circa undici anni la carica a lui affidata da Francesco II, per la sua dipendenza dalla dinastia borbonica si era reso odioso presso molti uomini illuminati della nostra cittadina. Con lui si è estinta la sua famiglia, cosa che non è certo da considerare una sventura, visto che essa ha portato da secoli soltanto miseria e dolore su quest’isola. Tre volte i suoi antenati hanno commesso tradimento contro Lipari e l’hanno consegnata al
saccheggio dei pirati. Mio padre mi raccontava spesso che Policastro, il nonno di questo sindaco assassinato, non ha fatto nulla di meglio, per favorire certi interessi privati, che far pervenire segretamente al nemico assediante le chiavi della fortezza, in cui si era rifugiata la spaventata popolazione, e lasciare, col peggiore tradimento, tutti gli isolani in balia dei pirati”[1].
Com’è evidente, il fantasioso racconto è poco credibile ed è condito da una serie di leggende e luoghi comuni diffusi a Lipari sull’assedio e la razzia del 1544 da parte del pirata barbaresco Ariadeno Barbarossa o come abbiamo prima visto dai racconti distorti tratti testo di Pietro Campis. Peraltro al tempo della “ruina” del Barbarossa, non vi era nessun Policastro fra le famiglie “cospicue” di Lipari prima della distruzione[2]. I sospetti allora, circa chi avesse venduto la città al Barbarossa, si appuntarono soprattutto su Jacopo Camagna[3] –
[1] E. Melena, op. cit., pp.115-116.
[2] G.La Rosa, Pyroologia..ecc., op. cit., vol II, v. “Rollo delle famiglie cospicue de’ Gentiluomini di Lipari, che si trovarono esistenti nella città di Lipari, in tempo della sempre memorabile invasione del barbaresco Ariadeno Barbarossa l’anno di nostra salute 1544” , pp.19-22.
[3] Una delle persone più facoltose ed in vista della Lipari del tempo. In un elenco delle “famiglie cospicue de’ Gentiluomini di Lipari” che vi erano prima della “ruina” del Barbarossa del 1544, che Giuseppe La Rosa pubblica nel suo “Pyrologia Topostorigrafica dell’Isole di Lipari” che è del 1783 ( a cura di Alfredo Adornato, vol. II, pp19-20), Iacopo Camagna è al secondo posto subito dopo “la nobilissima famiglia de Franco”. Proprietario terriero ed anche armatore e navigatore con diverse imbarcazioni che operavano su un buon tratto di Marina lunga che si chiamava appunto “Plaia di Camagna”. I suoi commerci lo portavano spesso lontano da Lipari fino nelle terre più lontane, come Costantinopoli e col Barbarossa aveva acquisito una certa familiarità, né conosceva la furbizia, la spietatezza ma anche l’attenzione a concludere dei buoni affari.
che non risulta appartenesse alla casata dei Policastro -, ma anche di queste dicerie è stata dimostrata l’inconsistenza. I Policastro risultano invece fra le famiglie che esistevano al principio dell’anno 1600[1] e quindi potrebbero essere fra quelle immigrate a Lipari subito dopo la “ruina” e visto il cognome, potrebbero essere di origine calabra.
Un altro punto dell’esposizione ci sembra di poter confutare: il Policastro era divenuto sindaco il 18 maggio 1859 ed era rimasto in carica sino all’8 luglio 1860 non può quindi aver ricoperto la carica – come sostiene don Pasquale - per gli ultimi undici anni che avevano visto avvicendarsi sullo scranno molti altri tra cui dal 1848 al 1855, il barone Leopoldo Rodriquez. [2],
E probabile che la credenza popolare faccia in qualche modo riferimento
[1] G. La Rosa, op.cit., vol II, pp.30-31. dove si dice che la famiglia Policastro è diramata in diverse casate.
[2] G. Iacolino, La fondazione della Communitas Eoliana agli albori della Rinascenza (1095- 1995), Lipari 1995, pag. 91
ad un episodio effettivamente occorso al sindaco Policastro quando nella seduta consiliare dell’11 maggio 1859 e ancora in altre successive si discusse della pretesa dell’Intendente di Messina di riavere 3.600 ducati che il governo aveva inviato al vescovo “a sollievo dei poveri delle isole Eolie”. Pretesa alla quale Sindaco e consiglio si erano opposti energicamente. Potrebbe essere stato questo episodio, mal interpretato e distorto, alla base della diceria secondo la quale il Policastro si sarebbe appropriato del denaro destinato ai poveri. Oppure – come sostiene Iacolino – si sarebbe trattato del denaro della cassa dell’amministrazione di S. Bartolomeo confusa o identificata con la cassa della Mensa vescovile[1].
Quale che sia la musa ispiratrice delle fantasie di don Pasquale, tuttavia, di una cosa è indicativo il racconto: del fatto che la folla che aveva assaltato la casa dell’ex sindaco non sapeva perché l’aveva fatto e si comprende benissimo che alle spalle ci doveva essere stata l’istigazione di qualcuno.
[1] G. Iacolino, manoscritto inedito cit., quaderno VI, pag. 312 a.
I fatti del 2 ottobre 1860 nella ricostruzione di Iacolino
Ed è questa la convinzione di Giuseppe Iacolino che in un manoscritto rimasto inedito ma che vale la pena di fare conoscere ai lettori - tinge di giallo l’intera vicenda[1].
Non solo il compianto storico liparese definisce il contesto ed in qualche modo precisa gli attori ma addirittura suggerisce che dietro l’assassinio di Policastro ci sia la regia di un personaggio di spicco della Lipari d’allora, rimasto nell’ombra. Ma procediamo con ordine.
“ Quando morì il padre don Antonio Policastro scrive Iacolino - Giuseppino (così è indicato nel testamento del genitore) aveva appena tre anni, e la madre donna Francesca, ventottenne, lasciò la propria abitazione di vico Sant’Antonio ( il signorile edificio che
[1] G.Iacolino, manoscrtto inedito cit., Quaderno VII, pp.344 e ss. ”Nel tentativo che ci proponiamo di ricostruire la dinamica dei fatti di quel martedì di sangue, noi ci affidiamo ai pochi documenti che avanzano ( in primo luogo i registri anagrafici del Comune di Lipari) e a quelle frammentarie notizie – spesso anche contraddittorie e di scarsa attendibilità – che abbiamo raccolto dalla bocca di concittadini non più giovani i quali ci assicurano di avere appreso a loro volta dai più antichi ascendenti. Nostro compito darà esclusivamente quello di vagliare e di legare le varie informazioni in un ordine il più possibile logico e consequenziale”.
guarda su Marina San Giovanni ) per ritirarsi in un’altra casa Salpietro, parte della quale era abitata dal cognato Bartolo De Pasquale. Codesta casa è quel severo palazzetto, il penultimo a sinistra, che si scorge salendo per l’odierna via Umberto. A quel tempo la via Umberto era detta la strada del Fosso a causa di un modesto slargo, il Fosso appunto, che s’apriva lì accanto, nel bel mezzo di quel fitto reticolato di vicoletti e povere abitazioni che ricadevano nell’area dell’odierna piazza Arciduca d’Austria. Sul retro, il palazzetto dava sul tratto iniziale del vico Milio, oggi chiamato vico Montebello. Del fabbricato donna Francesca venne ad occupare il primo piano.
Educato con ogni amorevole cura, Giuseppe Policastro concluse gli studi laureandosi in giurisprudenza. Poi, oltre che interessarsi dell’amministrazione dei beni e delle vaste tenute ( ma in siffatte cose - e, a quanto si dice, nella pratica dell’usura – dava ottima prova l’abilità di mamma Francesca) egli, “come si conveniva ad un giovane del suo rango, attivamente partecipò al gioco della politica paesana”[1]nel
[1] G.Iacolino, manoscritto inedito cit., Quaderno VI pp. 345- 345 a.quale ebbe successo divenendo sindaco. Sindaco dei Borboni e quindi teoricamente tagliato fuori dei nuovi giochi che si andavano aprendo. Ma il nostro era giovane, era dinamico, era fattivo e quindi aveva ancora molte carte che si potevano giocare. E poi in quei giorni erano in molti a convertirsi al nuovo corso e quindi il futuro poteva ancora riservagli delle prospettive. E magari un futuro non troppo lontano visto che presto si sarebbe andati alle elezioni per il nuovo sindaco. Quindi Policastro poteva essere un avversario temibile in una eventuale competizione elettorale… Avversario temibile o capro espiatorio di un regime che si era macchiato certo di abusi e aveva lasciato dietro le sue spalle odi e rancori? Rancori magari nemmeno legati a fatti specifici ma coltivati da giovani che avevano assaporato l’aria nuova partecipando anche alle lotte delle ultime settimane nella vicina Milazzo e ritenevano che la rivoluzione dovesse essere portata più a fondo al di là delle istituzioni, nei confronti dei ceti aristocratici e borghesi che avevano comunque fatto parte del vecchio potere. Ritenevano che andando a sparare a Milazzo avevano acquisito un credito che dovesse essere messo
all’incasso, superando le disparità sociali che a lungo avevano subito.
Tutto questo certamente era presente quella mattina del martedì 2 ottobre quando, di buon’ora, gli uomini cominciarono a raccogliersi dinnanzi alla porta del Municipio che allora era in via Garibaldi di fronte alla gradinata che porta alla Cattedrale.
Prima una ventina, poi una trentina, poi circa cinquanta. A gruppetti e sparpagliati. E c’era chi andava su e giù per la via del Timparozzo, da Sopra la Civita a Marina San Giovanni, a via del Pozzo per incontrarsi con chi arrivava dal Vallone, da Diana, da Marina San Nicolò e con cui si erano dati appuntamenti fin dal pomeriggio precedente quando la manifestazione era stata decisa. Si doveva manifestare contro il caro prezzi, contro una amministrazione che sembrava immobile, che non risolveva il problema. I benestanti ed i galantuomini – i Marchese, gli Scolarici, i Tricoli, i Bongiorno, i Maggiore, i De Mauro, i Florio, i La Rosa, i Peluso, i Morsillo, i Palamara, i Rodriquez, i Favaloro - se ne stavano chiusi nelle loro case che davano sulla via del Timparozzo che ora si chiamava via del Municipio, spiando
da dietro le persiane dei balconi la gente che andava crescendo e che era sempre più rumorosa. Appena più in là vi erano i De Pasquale ed i Policastro. Ma rimanevano chiusi nelle loro case della Marina San Giovanni, anche i Carnevale, gli Aricò, i Rossi, gli Amendola, come in attesa di qualcosa che doveva succedere. Mentre don Onofrio Paino era asserragliato nella sua casa in via Santo Petro, oggi via Maurolico.
Tutti guardavano nelle strade per vedere chi c’era fra i manifestanti. E c’erano i Marii con a capo Vanni Mario Cannistrà, c’erano i Cappadona, Antonino e suo fratello Nicola che da quando era tornato da Milazzo si credeva chissàcchi, c’erano Giovanni e Giuseppe Ventrici. C’erano insomma tutte le teste più calde dell’isola e molti altri ancora, gente che in città non era mai venuta e scendeva ora dalle campagne per protestare.
Erano chiusi i balconi con le persiane abbassate, i portoni sprangati, serrate le botteghe. Solo don Piddu Maggiore, lo speziale, che era anche un grosso proprietario di terre alla Vitusa, a valle S. Angelo, nella contrada ‘U voscu, ad un certo punto aprì la farmacia. E poco dopo anche don Antonio Incorvaja decise di
andare al suo Caffè pubblico dove d’estate serviva una granita al limone e all’amarena fatta con la neve che d’inverno infossava a Monte Sant’Angelo in buche nel terreno rivestite di erba fresca e ben coperte da frasche e terriccio.
Finalmente alle dieci, quando il cicaleccio si era fatto assordante, sul portone del municipio apparve il presidente don Giuseppe La Rosa accompagnato dai due giurati don Michele Scafidi e don Antonino Megna. Subito dalla folla si levarono urla di minacce e il clamore aumentò ma dopo un po’ subentrò il silenzio perché la gente voleva sentire quello che veniva detto. Il presidente disse parole, invitando alla calma ed alla responsabilità e subito passo la parola a don Michele Scafidi che ripetè il discorso che aveva fatto in Consiglio. La penuria dei beni alimentari dipende dalla situazione in cui si trova la nazione che per le isole sono accresciute dalla difficoltà di approvvigionarsi in Sicilia. L’Amministrazione può fare ben poco. Ha calmierato i prezzi e controllerà che questo venga rispettato. Si spera che la situazione migliorerà nei prossimi giorni.
Le parole di don Michele ebbero il potere di far abbassare in qualche
modo la tensione. La gente si mise a discutere del calmiere interrogandosi se avesse funzionato e se si era in grado di farlo rispettare. Si discuteva a gruppetti, a capannelli e la gente cominciò lentamente a disperdersi in ogni direzione.
Esplode la tragedia in via del Fosso
Ma c’era chi non era soddisfatto della piega che stavano prendendo le cose. Che cosa avevano risolto? Valeva la pena aver portato centinaia di persone d’avanti al municipio per ascoltare quello che si sapeva già? Era possibile che a Lipari i signori l’avessero sempre vinta e non dovevano pagare mai? Fra i più loquaci c’era Nicola Cappadona che raccontava come in altre parti della Sicilia la rivoluzione era stata più coraggiosa e ai signori ed ai borghesi avevano messo addosso la paura. Intorno a lui si era formato un gruppetto dei più giovani che lo ascoltava come se fosse un oracolo. Intanto più in là Vanni Mario Cannistrà e Antonio Cappadona avevano formato un crocchio in un vicolo e parlavano fitto fitto.
Dopo un pò le voci si alzarono di tono e fu chiaro che si era cambiato registro. Non era più solo il problema
del caro prezzi e del funzionamento del calmiere. Ora si parlava dei borbonici che volevano passarla liscia. Che volevano continuare a comandare ed a profittare come se niente fosse successo. Era loro la colpa se la gente pativa la fame, se le merci erano care, se non si trovava il pane e la carne. Ed ecco il giovane Cappadona gridare forte “Viva l’Italia e viva la Libertà! Abbasso ai borboniani e morte ai regressisti” che aveva sentito ed imparato per le strade di Milazzo. E con lui, a cominciare dai più giovani, il grido fu ripreso e divenne assordante fra la mura di via del Timaparozzo, filtrò fra le persiane delle finestre, raggiunse le case e i vicoli. E poi subito dopo: ”Andiamo alle case dei padroni! Prendiamoci quello che ci spetta e che hanno nascosto!”, “Andiamo da don Piddu Maggiore chissà quanto grano e quanti gioielli ha in casa!”, “Andiamo da don Giuseppe Policastro che si è rubato i soldi della cassa di San Bartolo!” “Andiamo da….”.
Ancora le grida non si erano calmate che già don Piddu non c’era più dinnanzi alla farmacia e questa era già chiusa e sprangata. Ma non fece a tempo a raggiungere il portone di casa sua, che era qualche decina di
metri distante, che una legnata lo prese sulla fronte e lo stordì. Si riprese subito e guadagnò il portone che era ormai a due passi barricandosi dentro. Ma i protestatari non lasciavano la presa e cominciarono a picchiare sul portone minacciando di gettarlo giù. E così don Piddu si fece le scale di corsa raggiungendo il terrazzo e di là, tetti tetti, raggiunse l’abbaino di una casa di amici e vi si rifuggiò.
“Lasciate stare quello!” gridò una voce mentre l’orologio del Seminario suonava le undici “Se l’è già fatta sotto. Andiamo a casa di Policastro che ha rubato i soldi dei poveri. La ci sono già i Marii e gli altri che stanno dando l’assalto”. E subito la turba si diresse verso l’abitazione dell’ex sindaco che era a un centinaio di metri.
Quando vide che smettevano di pestare al suo portone e gridando si dirigevano verso la casa di Policastro, don Piddu gridò che era scoppiata la rivoluzione e che appena finito con Policastro sarebbero tornati da lui per ammazzarlo. Nella casa dove s’era riparato c’era anche don Antonino Ziino, il cappellano di San Giuseppe. “Non si preoccupi don Piddu - gli disse - ora la mettiamo in salvo”. E mandò a prendere a casa
sua una tonaca ed un cappello da prete, che gli fece indossare e così lo speziale potè uscire indisturbato facendo perdere le sue tracce e rifugiandosi in campagna da suoi parenti.
Intanto la folla era tutta intorno alla casa di Policastro ma la furia sembrava essersi calmata.
“Don Giuseppe, si affacci al balcone – dicevano da sotto – nessuno vuole farle del male. Vogliamo solo discutere”. Ma proprio sotto il balcone, in prima fila, c’era Vanni Mario e don Giuseppe non si fidava. Intanto temeva che dagli inviti suadenti si passasse ad azioni più risolute e che alla fine sfasciassero il portone entrandogli in casa. “Dove posso nascondermi? “ andava dicendo ”Dove posso rifugiarmi?” Ed ad un certo punto gli venne in mente che aveva una cisterna che aveva fatta riparare da poco e che non era stata ancora riempita. E così si fece calare dentro e raccomandò che rimettessero il coperchio e se ne tornassero sopra a parlare con i ribelli e cercare di tenerli buoni dicendo che don Giuseppe stava male e si era messo a letto.
E così mentre don Giuseppe se ne stava acquattato nella cisterna mamma Francesca andò sul balcone
e prese a supplicare la gente che cingeva d’assedio l’edificio. Ed insieme a mamma Francesca anche i loro servitori ed i mezzadri che erano venuti in città, facevano di tutto, dall’interno e dall’esterno per fare ragionare gli assedianti, implorandoli di tornare a casa loro.
Guardie municipali ufficiali non ce n’erano perché il nuovo corpo non era stato ancora investito di autorità. Vi erano quelle designate che ad un certo punto intervennero in forma privata cercando di rabbonire la gente.
Ma malgrado tutto la tensione continuava a rimanere alta e ad un certo punto scoppiò il “casus belli”. Un colono di Policastro, Domenico Barbuto di Canneto, stava discutendo con Giuseppe Ventrice e via via i toni divennero sempre più alti. Ad un certo punto dalle parole si passò alle mani ed il Barbuto si avventò sul Ventrice e gli assestò una coltellata allo stomaco.
Per un momento ci fu un silenzio di tomba come se improvvisamente il tempo si fosse fermato. Poi si udì un grido “Assassini! Assassini! ci vogliono ammazzare! Non basta che ci hanno derubato vogliono anche il nostro sangue!”. E scoppiò il finimondo. Qualcuno si chinò sul
ferito e lo trasportò sull’alto ciglio della strada cercando di fermargli il sangue che usciva dalla ferita. Ma altri si gettarono sul Barbuto che tentava di scappare, lo agguantarono ed uno con una roncola gli squarciò il fianco. Barbuto cadde a terra in un lago di sangue e nello scompiglio che ne seguì qualcuno riuscì a trascinare in casa il corpo del ferito che dava ancora segni di vita malgrado continuasse a perdere tanto sangue. Il Barbuto e il Ventrice spirarono nello stesso momento, uno nel magazzino della casa di Policastro, l’altro sul ciglio della strada ‘u Fossu che non era ancora suonata la mezza.
E malgrado il bilancio fosse ora di un morto per parte la calma e il buon senso non si facevano strada. Anzi la ressa si fece più serrata e il vociare più forte. Qualcuno gridò: “Vogliamo Policastro vivo o morto!” e poco dopo arrivarono dei giovani con due grossi fasci di sterpi secchi che poggiarono al portone cercando un acciarino per dar loro fuoco. Un altro gruppo cercava di scardinare la porta di servizio che dava sulla stradina.
A questo punto i servitori pensarono che era meglio cercare per don Giuseppe una via di fuga attraverso i tetti. E mentre veniva sistemata una scala a pioli a mo’ di ponte con il
vicino terrazzo del Municipio, l’ex sindaco veniva issato dalla cisterna e portato sul terrazzino basso della casa. Da lì, attraverso la scala doveva scappare per i tetti.
Mentre si studiava il modo migliore di organizzarsi per questa impresa, mamma Francesca dal balcone, in lacrime, col volto disfatto, protendendo le falde del grembiale nero ricolmo di ori e denaro di grosso taglio, implorava: ”Prendetevi tutto! Ecco è quello che abbiamo! Ma lasciate stare mio figlio! Vi prego, lasciate stare mio figlio!”.
Nessuno fece un gesto di pietà. Nessuno pareva dare ascolto. E la scena della madre implorante sul balcone e della folla sorda nella strada rimase a lungo nella mente degli eoliani.
In prima fila, sotto il balcone c’era sempre Vanni Mario con il suo clan, ma non c’erano più i fratelli Cappadona. Appena aveva visto la scala a pioli sul terrazzo al più giovane era venuta un’idea. Era corso a casa a prendere lo “scopettone” che aveva portato da Milazzo e aveva raggiunto il fratello che lo aspettava all’angolo di un vicoletto da dove potevano vedere il terrazzo della casa senza essere visti. E lì appostati caricano il fucile con
polvere da sparo e una manciata di brecciame.
Ad un certo punto videro comparire sul terrazzo don Giuseppe che incerto, avanzando carponi sulla scala si apprestava a passare da un terrazzo all’altro. Quando Policastro fu nel mezzo del cammino, sospeso in aria, Nicola Cappadona prese la mira e sparò. Ciò che la gente ricordò di quel momento fu l’urlo disperato della madre che, mentre il figlio precipitava nella strada, si lanciò per le scale per raggiungerlo. Don Giuseppe non era morto sul colpo, era ancora in terra e rantolava. E su di lui infieriva a parole con pedate Vanni Mario Cannistrà.
“Hai fatto la fine che meritavi, porco!” gli gridava il ribelle di Quattropani. Fu a quel punto che Angelo Megna e Bartolo D’Albora, le due guardie, che per tutto il tempo avevano cercato di sedare gli animi pur non avendo un ruolo ufficiale, si sentirono in dovere di intervenire e bloccarono il Cannistrà insieme a Nicola Cappadona che aveva ancora in mano lo schioppo fumante e lo sguardo allucinato. Antonino Cappadona invece fuggì via e di lui non si seppe più nulla per diverse settimane.
La folla era come di sasso, inebetita. Automaticamente si scansò per fare spazio a mamma Francesca che, il viso bagnato dalle lacrime e i capelli scarmigliati, si getto sul corpo del figlio.
“Giuseppino, Giuseppino mio che ti hanno fatto! Oh figlio, figlio..”. E gli asciugava con lo scialle il volto insanguinato e lo baciava sugli occhi e sulla fronte.
A questo punto, richiamato dallo sparo giunse sulla strada del Fosso lo studente Giuseppe Palamara, anche lui un reduce della battaglia di Milazzo, e per questo autorevole fra i giovani liberali liparesi con una fama di persona assennata e aliena dagli eccessi.
Palamara si fece largo fra la folla e vista la scena straziante della madre col figlio moribondo, girò gli occhi verso quelli della prima fila e puntandoli su Vanni Mario e Nicola gridò loro: ”Vigliacchi, almeno scopritevi dinanzi al dolore di una madre”. E tutti, Vanni Mario e Nicola per primi, si tolsero la coppola del capo.
Il corpo di don Policastro fu sollevato da terra e portato, agonizzante, in casa e adagiato sul letto grande. Ed alle quattro del pomeriggio il giovane
cessava di vivere fra lo strazio della madre ed il pianto dei congiunti.
Spirato il Policastro, le due guardie Angelo Megna e Bartolo D’Albora, si recarono al Municipio per dichiarare i decessi. Negli atti del Comune è scritto che il Policastro morì alle 22, il Ventrice alle 18 ed il Barbuto alle 18,30.
Potrebbe essere che gli orari scritti nei documenti ufficiali siano ancora con l’ora siciliana e non con l’ora italiana. Altra stranezza è che negli atti del municipio è detto che sia il Barbuto che il Policastro erano morti, non nella casa di via del Fosso dove la memoria di chi ha riferito li colloca, ma nella casa del dott. don Filippo De Pasquale che, come abbiamo detto, doveva trovarsi in vico Sant’Antonio dietro la Marina San Giovanni[1]e quindi abbastanza lontano da dove si sarebbero svolti i fatti.”
Fin qui il racconto di Giuseppe Iacolino che secondo il suo stile fa il phanflet storico e lo ricostruisce romanzandolo con preciso riferimento agli elementi che è riuscito a trovare. Noi riteniamo che nonostante riecheggino nel racconto le vicende sicuramente lette da
[1] Archivio del Comune di Lipari, Registro ad annum degli atti morte del Comune di Lipari, annotazione n.78, n. 79, n.80.
Iacolino nella novella Libertà di Giovanni Verga, riteniamo che la sua ricostruzione non sia molto distante dal vero ed offre certamente uno spaccato più che credibile della Lipari d’allora.
Tornando agli elementi storici probanti, tuttavia, dobbiamo annotare che l’unico segno tangibile che rimane di questo drammatico evento è la lapide sulla tomba posta nella chiesa dei Cappuccini. Essa dice: “Il 2 ottobre 1860, mano assassina, giovandosi dell’anarchia nell’isola, trucidava sotto gli occhi materni Giuseppe Policastro di animo nobile e costumi semplici onesti, la inconsolabile madre Francesca Salpietro a perpetuare la memoria del suo unico figlio ucciso a 37 anni lacrimando pose”.
Nel Consiglio comunale che si tenne l’11 ottobre nessuno osò dire una parola di commemorazione o proporre un momento di raccoglimento.
All’indomani dell’eccidio giunse a Lipari un distaccamento di carabinieri reali comandati da un capitano che prese alloggio in via Santo Pietro – oggi via Maurolico - in un appartamento di don Onofrio Paino. Il primo atto che compirono fu quello di prendere in consegna e di
inviare alle carceri di Milazzo Nicola Cappadona, Vanni Mario Cannistrà e Giovanni Ventrice imputati di omicidio e di concorso in omicidio[1]. Nicola e Vanni Mario saranno anche condannati[2].
Possiamo concludere che giustizia fu fatta per questo orrendo episodio? Non ne saremmo così sicuri. Certo stando alla ricostruzione i maggiori responsabili sarebbero stati arrestati e condannati. Compreso Antonino Cappadona che aveva fatto perdere
[1] Nulla si sa della sorte del Ventrice. Quanto agli altri Iacolino riporta informazioni raccolte dai ricordi dei vecchi ma non documentate. Giovanni Mario Cannistrà sarebbe stato condannato ad una decina di anni nel bagno penale di Milazzo. Riuscito ad evadere e a tornare clandestinamente a Lipari, per un paio d’anni tenne in scacco le forze dell’ordine. Soltanto dopo che furono arrestati alcuni suoi congiunti, egli si decise a costituirsi. Nicola Cappadona invece sarebbe stato condannato a circa trent’anni da scontare nel bagno penale di Milazzo. Ne uscì nel 1890. Trasferitosi a S. Marina Salina, dove esercitò il mestiere di sarto, si sposò nel 1903. Morì a ottantatrè anni il 25 gennaio del 1924. Di Antonino Cappadona i carabinieri non trovarono alcuna traccia e su di lui si fantasticò a lungo. Qualcuno avanzò anche il sospetto che fosse stato lui a sparare e non il fratello.
[2] Di parere diverso è Angelo Raffa (E. Melena, op. cit., nota n. 122, pag. 181. “Non si sono rintracciati documenti relativi all’inchiesta e al procedimento penale che avrebbero dovuto aver luogo. Ma se l’inchiesta vi fu, e se gli uccisori vennero individuati, ad essi sicuramente non toccò alcuna condanna. Infatti, con Decreto dittatoriale firmato da Garibaldi a Caserta il 29 ottobre 1860 si dichiarava all’art.1 “abolita l’azione penale a favore degli autori e complici di reati di sangue commessi durante l’insurrezione o in conseguenza dell’insurrezione”: v. Giornale Officiale di Sicilia, Palermo 4 novembre 1860, n. 127 – Parte Officiale. L’Unico onere che incombeva ai processati per delitti di sangue durante l’insurrezione, era la presentazione di apposita domanda al Procuratore generale del re, affinché la Corte dichiarasse estinta l’azione penale per l’applicazione dell’indulto”. Il problema è: i fatti della strada del Fosso potevano rientrare nei delitti di sangue durante l’insurrezione?
le sue tracce e poi fu arrestato a Lipari il 23 novembre[1].
Il problema non è questo. Il problema è di capire se si trattò di un moto spontaneo che andò via via crescendo, episodio che innesca un altro episodio o il delitto di Giuseppe Policastro era premeditato ed aveva non solo degli esecutori ma anche dei mandanti, o meglio, un mandante rimasto dietro le quinte.
E torniamo a Iacolino che trova fra le carte della famiglia Bongiorno la minuta di una lettera senza data, senza firma, senza destinatario e per di più rosicchiata dai topi e quindi in alcune parti illeggibile.
L’unica cosa certa – afferma Iacolino - è che la calligrafia è quella di don Giovanni Bongiorno e che fu scritta nell’arco degli ultimi due mesi del 1860. Don Giovanni Bongiorno aveva nel 1860 la stessa età di Giuseppe Policastro ed era stato nel 1848
[1] Da una lettera di don Giuseppe Aricò a suo figlio Giovanni del 24 novembre 1860 in G.Iacolino, manoscritto inedito cit., pag. 454 a-d. A proposito di questa vicenda nella lettera si dice “Il figlio di maestro Nicola Capadona Sabbino arrestato fu qui spedito, e l’altro fratello Antonino, che dicesi essere stato colui che vibrò il colpo mortale al miserando Policastro, ieri sera alle 5 arrestato fu tradotto in carcere dai Carabinieri sorpreso ed occultato da quelli potentissimi buttani delle sorelle Cafarella che ne è il Direttore il Canonico Bonica Cartella.”.
caporale della Guardia nazionale ora, con ogni probabilità era ufficiale postale.
Don Giovanni sul finire del 1860 scrive una lettera ad un personaggio che rimane sconosciuto e riporta quanto gli aveva detto don Rosario Rodriquez, un eminente personaggio di Lipari che “in casa sua riceveva tutti”, e cioè “essere cosa notoria a tutti che il principale autore dei luttuosi fatti del due ottobre 1860 siete stato voi per soddisfare la vostra sciocca e smodata ambizione e per sfogare pravi sentimenti di vendetta, ma pure vi ha egli perdonato nel suo animo. Questo perdono rimane sopito dalla pietosa memoria del sangue dell’innocente Policastro, il quale grida vendetta dinnanzi Iddio ed agli uomini, e le perenni lagrime di quella infelice madre devono anche laniarvi il cuore e logorarvi il pensiero mentre un’ombra di sentimento in voi rimane !!”.
Per quello che si capisce dal resto della lettera, in certi passaggi illeggibile, e che questo ignoto personaggio era stato preso in società da padre di don Rosario, beneficato dallo stesso che lo aveva soccorso nelle più “ dure emergenze” ed ora quindi lo accusa di “indicibile
ingratitudine”. Ma Bongiorno rassicura il suo ignoto interlocutore. Don Rosario non ha mai pensato alla vendetta e si è meravigliato quando ha sentito che gli si attribuisce la volontà di portare il caso alla luce. Questa potrebbe essere una preoccupazione dei cognati dello sconosciuto interlocutore ma “egli non ne sa una iot. Anzi mi soggiunse che in ottobre ultimo …parlato di questo affare dai vostri cognati egli rispose evasivamente, nel fermo proposito di non far nulla”[1].
Secondo don Giuseppe Aricò l’arresto dei fratelli Cappadona ha sicuramento creato problemi in certi ambienti liparesi infatti “più individui sono accuratissimi perché temono che detti fratelli la contassero bene”[2].
Un ultima considerazione. Sulla correttezza dell’amministrazione Policastro – che “don Salvatore” ed alcuni manifestanti mettevano in discussione - vi è un giudizio della commissione che fu chiamata a fare l’”esame del conto morale e materiale del 1860” che dice: “La Giunta [del 1860] ha agito con tutta
[1] Dall’Archivio priv. Del dott. Edoardo Bongiorno, riportata da G. Iacolino, manoscritto inedito cit. Quaderno VII, pp. 358 a-b.
[2] G. Iacolino, inedito cit., p.354 b, lettera citata.
legalità ed ha adempiuto tutti gli obblighi che la legge metteva a suo carico. Non mancò mai di solerzia e di operosità nell’immigliamento dell’Amministrazione e miglioramento del paese. Si conviene inoltre che gli sconvolgimenti politici avvenuti in quel tempo non permettevano fare più di quanto fece[1]”.
A mo’ di Conclusione: Fra prudenza e patriottismo
Il Consiglio comunale dell’11 ottobre oltre a non commemorare Policastro– stando a quello che emerge dai verbali – non parla neppure dell’impresa di Garibaldi. Né nei consigli del 17 , 31 ottobre e 8 novembre parlano del plebiscito per l’annessione della Sicilia malgrado il 4 novembre fossero stati proclamati i risultati[2]. Le prime manifestazioni di “entusiasmo patriottico” si hanno il 13 novembre quando il Consiglio è convocato in seduta straordinaria
[1] Archivio Comune di Lipari. Seduta del Consiglio comunale del 25 nov. 1863.
[2] I risultati per la Sicilia furono 432.053 favorevoli e 667 contrari. In questi consigli comunali niente si dice sul ritiro del Governatore e Presidente del Consiglio Comunale don Giuseppe La Rosa che dovette avvenire verso il 22 ottobre e della successione di don Mariano Pisano che rimarrà in carica sino al 27 marzo 1861.
per eleggere tre persone da inviare a Palermo per rendere omaggio a Vittorio Emanuele in visita ufficiale; ed echi di patriottismo si percepiscono anche nell’ordine del giorno di qualche settimana dopo quando il consiglio si unisce a quello di Messina perché “ il nostro Dittatore Generale Garibaldi si benigni acconsentire alla demolizione delle fortezze” della Cittadella di Messina e dei Porti Salvatore, Lanterna, Don Blasco, “allorché saranno abbandonate dalle truppe borboniche”, oltre a quelle di Gonzaga e Castellaccio.
L’impressione che si ha è che Lipari è un po’ attonita ed incerta di fronte ai nuovi eventi. D’altronde i Borboni sono ancora dentro la cittadella di Messina ( che abbandoneranno il 13 marzo del 1861) ed il re Francesco non ha ancora abdicato. Andrà in esilio il 13 febbraio 1861 dopo la caduta di Gaeta. E fino ad allora, la cittadinanza era sempre assillata dalla penuria dei beni di prima necessità e dal caro vita anche per via del contrabbando e della speculazione che in quel periodo oltre ad avere riflessi sulla qualità e quantità dei consumi, produceva
anche, soprattutto a Salina, guasti gravi all’ambiente.[1].
Ma non erano solo le condizioni di vita a preoccupare la gente ed a renderla scettica nei confronti del nuovo governo ma anche provvedimenti nuovi che la gente non capiva e viveva come delle vere e proprie angherie. Uno di questi era la leva obbligatoria a causa della quale spesso avvenivano delle vere e proprie discriminazioni a carico dei più deboli e favoritismi nei confronti
[1] Sono problemi che emergono chiaramente dalle lettere e dalla documentazione della famiglia Aricò che il prof. Giuseppe Iacolino cita nel suo dattiloscritto inedito, quaderno VIII, pp. 354 a- f, 355, 357 a,b .” Per riguardo a ciò che scrivi voler conoscere per li prezzi di carne in Lipari ti posso assicurare che qui siamo nel vero Caos, e molto più per li prezzi dei generi… La carne vaccina sono più di venti giorni che non se ne vede…insomma tutto con scarsezza e caro; che perciò la condizione di cotesta Isola [Salina] è migliore di quella di Lipari”( Lettera del 24 novembre 1860 di don Giuseppe Aricò al figlio Giovanni capitano della milizia nazionale in Salina). Il 5 luglio 1861 il Sindaco di Lipari A. Natoli scrive al capitano Giovanni Aricò. “E’ venuta alla mia conoscenza che in cotesta Isola [Salina] sono enormi le contravvenzioni che si commettono contro le leggi forestali tagliandosi una gran quantità di legna non per il consumo ordinario della povera gente, ma per farne speculazione ad uso delli forni di calce, che continuamente si bruciano in cotesta: ed inoltre si trasmoda tanto nell’uso di legname in cotesto bosco che ne emerge fortissimo pericolo di riversamento d’acque e di ogni gravi sconvolgimenti per li fondi e le case sottomesse alle montagne di costesta Isola”. Il 21 novembre dello stesso anno è l’Assessore delegato Salvadore Amendola che denuncia il contrabbando di animali: “Essendo pervenuta a nostra notizia che una barchetta costì approdata proveniente da Palermo procura estrarsi da cotesta Isola degli animali porcini, caprini e bovini senzacché assoggettito si fosse alle formalità di legge, io credo indispensabile pregar lei affinché con ogni possibile modo procuri inibire siffatta estrazione, essendo ciò di pregiudizio al consumo e bisogno della nostra comune intera”.
di chi era pronto a pagare il proprio esonero.
Se questo era il clima generale che si respirava a Lipari, all’indomani dell’Unità, è difficile affermare che l’assassinio di Policastro abbia una matrice ideologica o che sia frutto di un sentimento politico ben definito da parte delle masse popolari e neanche che si era trattato di una delle tipiche Jaquerie contadine. Ed in questo quadro l’intuizione di Iacolino che abbia avuto alle spalle una matrice politica “borghese” ci sta tutta.
Tornando comunque al modo di sentire del popolo, l’apatia e l’indifferenza verso la politica nel trapasso tra i due regimi, non oscura del tutto gli aneliti verso il nuovo da parte delle giovani generazioni. E quando nel 1862 giunge il momento di rispondere alle mobilitazioni che fanno appello agli ideali di patria e libertà da parte di Giuseppe Garibaldi in procinto di andare a Roma per liberarla dal giogo pontificio in nome dell’Unità italiana, partono con lui Giovanni Di Mattina di Stromboli e Giuseppe Natoli figlio di Antonino Natoli che aveva combattuto con i garibaldini nella battaglia di Milazzo. Giuseppe Natoli, ventiduenne, viene
ferito nello scontro d’Aspromonte e muore il giorno dopo.
Alcuni anni più avanti, nel corso della terza guerra di indipendenza – contro l’impero austriaco – le isole Eolie pagano un pesante tributo di sangue. Il 20 luglio 1866, nello scontro navale di Lissa, due corazzate italiane vengono affondate e fra le centinaia di morti diciassette ragazzi eoliani perdono la vita e altri tre, sempre in quella guerra, muoiono per cause diverse[1].
[1] A Raffa, Venti eoliani morirono nella prima grande guerra navale del regno, in Notiziario delle Isole Eolie, giugno 1878, pag. 3.Archivio Comune di Lipari, Registro dei morti, anno 1886, dal n. 111 al n. 141. Unico superstite dei liparesi nella battaglia di Lissa fu il marinaio Giovanni Paternò che tornò con una gamba in meno.