Eventi e Comunicazioni

agevolazioni_bonus_pubblicità_2024.jpg

"Con il Notiziario delle Eolie Bonus pubblicità con credito d'imposta al 75%"  email bartolino.leone@alice.it

Dettagli...

3200a7d6-f7f1-458b-87dc-a6d06860c557.jpg

finocchiaro.jpg

Lipari - Lo storico eoliano Lelio Finocchiaro grazie al Notiziario ha consegnato il suo ultimo libro dedicato a papà Francesco, all'amministratore delegato della "Gazzetta del Sud" e del "Giornale di Sicilia" Lino Morgante.

Servizi speciali sulla "Gazzetta del Sud" e sull'emittente televisiva "Rtp" di Messina.

c9e29ac5-d744-4597-ad84-955dbe846062.jpg

NOTIZIARIOEOLIE.IT

94d3a164-392e-4bf7-b92d-7be33aeccbf8.jpg 

Francesco Finocchiaro è stato un artista che è vissuto ed ha operato a Messina negli anni del dopo-guerra, in un periodo assolutamente meraviglioso , mai più ripetuto, per la città tutta, tanto da far coniare il termine “messinesità” associato ad un idea di speranza nel futuro e di esplosione di gioia tramite una incredibile serie di manifestazioni sportive, teatrali, musicali, artistiche,e pubblicitarie che per lungo tempo tutta l'Italia ha avuto modo di invidiare.

In quegli anni in cui non si aveva ancora idea di cosa fosse un computer, Finocchiaro ha avuto modo di applicare il suo talento ed il suo intuito grafico in diversi campi come il disegno, la scultura, il cartellonismo, il restauro, ed altro ancora, e molti esempi sono tutt'ora visibili nelle piazze cittadine.

Il libro fotografico, per altro incompleto, in fondo altro non è che un tardivo omaggio che chi il figlio Lelio ha inteso tributare all'uomo, all'artista troppo presto dimenticato, ed alla città che lui ha tanto amato e di cui per molto tempo ha costituito una valida memoria storica.

Disponibile, da oggi il Catalogo d’Arte Cartonato di LELIO FINOCCHIARO creato a celebrazione del padre Francesco Finocchiaro artista messinese

Francesco Finocchiaro e la “sua” Messina edito da Epigraphia è un catalogo d’Arte cartonato creato da Lelio Finocchiaro a celebrazione del padre artista messinese con opere esposte in tutta la città. Francesco Finocchiaro. Vissuto a Messina nel dopoguerra ha percorso il suo cammino culturale in maniera eclettica e differenziata. Si è cimentato nella cartellonistica, nella scultura e nel restauro, sempre tenendo sullo sfondo quella Messina che ancora oggi continua a esibire molte delle sue opere. In un periodo privo di computer evidenzia tutta la versatilità, la tecnica e l’inventiva di un uomo che per poter esprimere appieno la sua spinta artistica sentiva forte il bisogno di avere intorno a sé la sua città.

Lelio Finocchiaro Nasce a Messina ma vive da molti anni a Lipari, nelle Isole Eolie. È sposato ed ha due figli che lavorano nella sua farmacia. Ha due lauree, in Chimica e in Farmacia, ma ha compiuto studi classici; è da sempre un curioso appassionato di storia antica e medioevale e cura da tempo una rubrica di pagine storiche presso NOTIZIARIOEOLIE.IT, da cui ha tratto spunto per Briciole di storia. Nel 2016 ha pubblicato Briciole di storia I e nel 2018 Briciole di storia II; nel 2016 ha pubblicato il noir Le due liste. Nel 2020 ha pubblicato The new beginning – Il nuovo inizio con Epigraphia.

Francesco Finocchiaro e la “sua” Messina

22,00 iva inclusa

LELIO FINOCCHIARO

Francesco Finocchiaro e la “sua” Messina

L’ARTISTA

Formato 23 x 33 cm

A UN BANCHETTO, NEL MEDIOEVO

Il piacere di stare a tavola insieme non è certo una scoperta dei nostri giorni. Spartirsi il cibo, sacro simbolo di unione e continuità, è sempre stato un momento di condivisione, di partecipazione, di unità familiare e non solo.

Ogni epoca , naturalmente, ha però avuto un suo peculiare modo di approcciarsi al cibo.

Ad esempio, come si usava pranzare insieme nel MedioEvo?

In quel periodo , a ben guardare,per chi si sedesse a tavola esisteva una netta divisione tra classi sociali e si poteva consumare il pasto , grosso modo, ad almeno tre livelli diversi.

Il popolino usava nutrirsi con ciò che la campagna e il cortile poteva offrire a buon mercato, come zuppe di verdure e legumi, mentre la carne era costituita dagli immancabili maiali, da piccoli animali selvatici o da volatili detti, appunto, da cortile. La frutta era quella spontanea colta nei boschi .

Inoltre, per dare sapore al tutto, venivano usate le erbe di campo, mentre il vino si allungava con acqua e non era di particolare qualità.

Altra musica quella che il clero riservava per sé nei conventi e nei monasteri

Anche qui le zuppe non mancavano, ma erano rese più appetibili da ingredienti vari e appetitosi.

Le prescrizioni religiose influenzavano molto la tavola clericale. I musulmani avevano dei divieti precisi, come quello di bere vino o cibarsi di alimenti impuri, mentre i cristiani, più semplicemente, indicavano lungo l'anno dei giorni o dei periodi di astinenza alimentare, e si andava dai tempi“magri”, quando bisognava eliminare quasi tutto (dai grassi alla carne, ai formaggi, al latte) a quelli “grassi , quando, invece , si poteva mangiare ogni cosa.

Ricordiamo che il Carnevale (dal latino Carnem levare) indicava l'abbuffata che precedeva il digiuno della Quaresima. Inoltre nei conventi si produceva vino, birra , marmellata e conserve e l'eccesso di produzione di latte portò a metodi per la sua conservazione mediante la trasformazione in formaggi che potevano essere conservati più a lungo. Fu questo il periodo in cui nacquero eccellenze alimentari in grande auge tutt'ora, come il parmigiano, il caciocavallo, la mozzarella ed altro.

In Sicilia nacque la pasta secca (facilmente trasportabile) e in Emilia Romagna i salumi. Ogni comunità clericale si autosostentava in maniera eccellente coltivando orti e campagne con un lavoro metodico e organizzato a mò di fattoria.

La grande bellezza della tavola, la fantasia, la voglia di stupire e di esibire, però, si potevano incontrare solo alle mense dei castelli e della nobiltà.

Qui non c'era limite all'inventiva. Il Signore del luogo, oltre a dare prova di coraggio in battaglia e di saggezza nel governo, doveva dimostrare agli invitati la sua ospitalità e la sua opulenza, e dove meglio se non a tavola?

Alimento principe era la carne che la faceva da padrona , e disdegnando quella più piccola e “più vicina alla terra” era tutto un offrire cacciagione di ogni tipo, specie se di grossa taglia, grandi uccelli come fagiani e pavoni, il tutto condito dalle indispensabili , e costose, spezie orientali come lo zafferano (che colorando in giallo le portate faceva credere che le stesse fossero fatte d'oro), i chiodi di garofano, lo zenzero, la cannella ed altro ancora (pensate che il pepe veniva usato anche come dono di nozze). I commensali dovevano essere stupiti e rimanere ammirati ancora prima di assaggiare.

Insomma, si cominciava ad assaporare con gli occhi prima che con la bocca.

Roba da fare impallidire i nostri chef a tre stelle!

Si racconta di un banchetto in cui fu presentato un vitello arrostito dentro il quale c'era un agnello farcito d'oca che , via via , conteneva un pollo, un piccione e un piccolo volatile.

C'è da dire che nelle cucine i tagliatori ricavavano porzioni divise che portavano a tavola per ogni commensale, i quali per mangiare usavano le dita della mano destra, mentre si pulivano, in mancanza di tovaglioli, nella stessa tovaglia che, quando troppo sporca, veniva levata e sostituita da quella sottostante. La tavola spesso era formata da lunghe assi disposte su cavalletti ( facilmente regolabile a seconda del numero degli invitati), e le cameriere giravano con grossi boccali colmi di vino per rabboccare i bicchieri che ,a volte, servivano due persone contemporaneamente, mentre ogni uomo adoperava il proprio coltello, e ancora non si conosceva l'uso della forchetta.

Vino e birra erano naturalmente a volontà, e doveva essere di elevata qualità (la prima spremitura-il novello di oggi-era riservato per tradizione al nobile di turno).

Certo il cibarsi troppo spesso di carne portava a malattie allora molto diffuse, come la gotta.

Questo tipo di banchetto fu molto in voga anche durante il Rinascimento.

IL pasto, poi, veniva concluso con formaggi, dolci e frutta accompagnati da vini speziati, mentre la digestione ( che si suppone molto laboriosa) veniva aiutata da danze, canti e spettacoli giullareschi.

Questo, ovviamente, in generale. Ogni periodo del medioevo ( che è durato circa mille anni) naturalmente risentiva, anche nell'alimentazione, della difficoltà di reperire determinati prodotti per varie cause: come i pirati che usavano assalire i battelli commerciali, o i collegamenti marittimi e terrestri con paesi molto lontani come il medio oriente, il che spiegava i costi enormi di certe materie prime.

Da dire che alla fine del MedioEvo, con la scoperta dell'America, nuove pietanze arricchirono le mense europee, pur se adottate con tempistiche diverse. Ad esempio , dobbiamo al Nuovo Continente l'arrivo nel Vecchio di alimenti come la patata, il pomodoro, il peperone, i fagioli e il mais, per non parlare del tacchino.

Certo partecipare ad un banchetto nobile di tal fatta doveva essere un'esperienza unica. Credete che , dopo esserci stati, avremmo mai potuto dire semplicemente “Andiamo a mangiare una pizza”?

L'AMOR CORTESE

E' qualcosa che si è perduto nel tempo.

La fretta, il progresso, la fine del feudalesimo, ne hanno segnato la fine.

Il corteggiamento ,come inteso una volta, non esiste praticamente più.

Però, se vogliamo, non dovrebbe essere particolarmente difficile immaginare di portarci con la fantasia nel mondo provenzale del XII secolo, abbondantemente descritto da pitture, scritti, poesie e racconti che possono fornire una idea precisa della vita in quel periodo .

Era il trionfo dei castelli, della cavalleria, delle giostre d'armi, delle dame finemente agghindate, degli ideali trascendenti .

Ed era il periodo dei trovatori, cantori accolti con favore in tutte le corti d'Europa, che con la loro arte e con i propri componimenti fissarono le regole di quello che prese il nome di “amor cortese”, intendendo che nasceva nelle “corti” feudali della Provenza, o anche “amor novo”.

Può darsi che siano stati influenzati dalla letteratura araba che si diffuse intorno all'anno Mille,ma sicuramente tramite le loro storie l'amore diventa qualcosa di alto, di puro, di concettuale, del tutto slegato dalla volgarità del rapporto sensuale.

Si arriva anche a fissare un rituale del corteggiamento, una vera e propria prassi da seguire, addirittura precisata in opere come quelle di Andrea Cappellano che sull'argomento scrisse un testo dal titolo “De amore”, un trilogia che ebbe all'epoca notevole successo.

E stessa sorte ebbe il famoso romanzo “Roman de la rose”, scritto nel 1270 da Jean de Meung, che rappresento' l'aspetto più colto e raffinato dell'erotismo intellettuale di quel periodo.

In pratica il corteggiamento si basava sulla convinzione che solo chi prova amore può vantarsi di avere un animo nobile.

Così l'attrazione verso la donna non ha come fine la soddisfazione immediata dei sensi bensì la sua infinita dilazione.In caso contrario si corromperebbe il sentimento mentre, in definitiva, sarebbe l'attesa ad ingigantire il desiderio e la passione.

E' ovvio che simile sentire è proprio degli animi superiori, e si arriva in alcuni casi ad innamorarsi di donne mai conosciute e solo sentite nominare.

Ci si innamora dell'idea dell'amore.

Certo un rapporto di tal fatta era possibile solo fra persone nobili per posizione sociale e cuore propenso al sentimento puro nonchè alla concezione sentimentale e filosofica dell'amore.

Sono i nobili cavalieri che intessono un sottile gioco di sguardi con l'amato bene che deciderà se corrispondere o meno alla implicita richiesta. Se lo farà , dovrà seguire un “pegno d'amore”, normalmente un fazzoletto o un anello, e si scivolerà in una relazione fatta, essenzialmente, di baci o fuggevoli carezze. Il cavaliere ricambierà offrendo imprese d'armi o poesie più o meno struggenti.

Va da sé che mentre l'innamorato deve essere valente e coraggioso, la dama deve necessariamente essere dolce e bella.

Inoltre il cavaliere non deve lasciare intendere chi sia il soggetto del suo interessamento, nascondendolo sotto falsi nomi appositamente inventati per proteggerne la reputazione.

In questo senso l'amore cortese si identifica con un amore adulterino, col quale la dama prescelta decide di affrancarsi dalla prigionia dorata di un matrimonio comunemente obbligato, come d'abitudine in quel periodo, in cui l'amore solitamente doveva cedere il passo alla ragion di stato .

Nacque in quegli anni l'idea della “cavalleria”, intesa come comportamento di protezione verso i deboli, con tutto il suo retaggio di castelli ,draghi da sconfiggere e damigelle da salvare .

Molti storici intravedono, in questo comportamento, anche l'inizio di un processo di “laicizzazione”, quasi un tentativo di liberazione dall'opprimente presenza della chiesa in ogni evidenza della vita di quei tempi.

La Chiesa, del resto, si opponeva alla pratica dell'amor cortese, quasi temesse la sostituzione del culto di Dio con il culto della donna, avvalorando la visione laica del corteggiamento.

L'amor cortese , che si diffuse anche nel nord Italia, si prolungò negli anni e fu decantato anche durante il periodo del dolce stil novo, ed un esempio ne abbiamo col sommo poeta, di cui tutti ricordiamo il trasporto verso l'amata Beatrice, mentre è assolutamente posto in secondo ordine quello verso Gemma sua legittima consorte.

Oggi un corteggiamento siffatto non è pensabile. Una volta l'attesa esaltava i sentimenti, oggi , forse, li deprime. Ma non deve essere necessariamente così, e non sarebbe poi tanto male se anche noi potessimo scoprire, anzi riscoprire , la bellezza dell'innamorarsi dell'amore.

CLIENTELISMO E RACCOMANDAZIONI

Oggi i termini “clientelismo “ e “raccomandazione”, sono l'accezione negativa dell'abitudine di favorire, in special modo nella vita pubblica, determinate persone a scapito di altre, senza che ne abbiano peraltro meriti maggiori, con lo scopo di trarne reciproco giovamento.

Il meccanismo è quello semplice del “do ut des”col quale mentre io mi impegno a darti dei benefici (ad esempio trovarti un lavoro), tu mi garantisci ,in cambio e ad esempio, il tuo voto..

Questo comportamento finisce con l'innescare un meccanismo sempre discutibile e spesso illecito.

Il più delle volte transazioni di questo tipo vengono scoperte solo a “posteriori”, visto che si tende a portarle a compimento in modo nascosto e poco evidente, sia per evitare conseguenze legali e sia per evitare le proteste di chi, legittimamente, può sentirsi in qualche modo defraudato di qualcosa .

Naturalmente dalla morale comune clientelismo e raccomandazione sono automaticamente condannati, per il semplice fatto che non dovrebbero esistere, e quindi ci si scandalizza quando comportamenti di questo tipo (peraltro frequenti) vengono alla luce.

Un atteggiamento simile, se vogliamo, a quello che portò all'eliminazione delle “case chiuse”, con l'intento di eliminare la prostituzione, ma col risultato di spostarla dalle case alle strade.

Gli antichi romani erano più pragmatici e realisti. Erano ben consci che il clientelismo non poteva essere eliminato (e del resto nemmeno la prostituzione) e che si poteva , invece, cercare di controllarlo con apposite leggi fatte ad hoc., come scritto nella “Legge delle dodici tavole, del 450 a.C.”

Così il clientelismo era divenuto un comune ed accettato aspetto della società romana.

La stessa legge prevedeva in modo chiaro la figura dei “clientes” che si appoggiavano e traevano vantaggi dalla presenza, in contraltare, del “patronus” da cui ricevevano cibo, vestiti (i romani vestivano la toga) e denaro in forma giornaliera. La parola”cliens” sembra derivare dal significato di “Ossequiare”, ma anche di “Prestare attenzione”.

Al contrario di oggi, dove il clientelismo muta frequentemente con il cambiare delle convenienze, in quei tempi saggi al sistema delle clientele erano fornite tutele giuridiche e protezione contro gli abusi. La “gens patrizia” ogni mattina riceveva i propri clientes che la omaggiavano rinnovando l'incondizionato sostegno, e tanto più erano, tanto maggiore ne derivava la stima sociale della famiglia che li accoglieva. Spesso capitava che tutti insieme seguissero il loro dominus in giro per la città e la loro presenza nutrita dava un'idea della rilevanza sociale dello stesso che li esibiva con orgoglio. Anche il patronus, però, poteva andare incontro a guai seri se non rispettava il suo ruolo, rischiando per legge severe punizioni .

Quello che avveniva in piccolo, Roma adottava in grande, e i clienti della città potevano sommarsi ai clienti delle nazioni sottomesse, che potevano divenire protette di Roma (e a quei tempi non era poca cosa) , in cambio di fedeltà.

La clientela non era una negatività, ma il fondamento della società capitolina.

Il ceto era fondamentale e le classi si dividevano in “cittadini”, e cioè senatori, patrizi (i nuovi ricchi) e plebei (i clienti, appunto), e i “non cittadini” (schiavi e liberti).

Anche la disponibilità economica aveva la sua importanza, ma in politica era necessario godere di un largo consenso, e più erano i clientes più si era favoriti nella corsa alle cariche pubbliche. Anche allora, come adesso, il danaro la faceva da padrone, ma mentre ora si tratta di pratiche nascoste ed illecite, una volta venivano esercitate pubblicamente e con il controllo e la protezione della “Res Pubblica”.

Contrariamente alla norma che voleva che le matrone romane fossero comunemente tenute in gran conto, alle donne,in questo caso, non era consentito essere “Cliens” e nemmeno “Patronus”, salvo in caso di vedovanza ,quando poteva richiedere i vantaggi riservati al marito (una specie di assegno di mantenimento).

Mentre clienti e dominus da un lato formavano una sorta di famiglia che sin dall'alba si riuniva per la “salutatio matutina” ed il ricevimento della “Sportula”, piccolo canestro con cibo e denaro ,ed un eventuale tradimento dell'uno o dell'altro era visto esattamente come un strappo tra padre e figlio, anche se poteva succedere che i clienti potessero riverire più di un patronus contemporaneamente, dall'altro i clienti si impegnavano a occuparsi del loro dominus, come nel caso di un riscatto da pagare o nella formazione di una dote.

Spesso il rapporto poteva assumere i connotati di vero e proprio vassallaggio, ma è vero anche che un povero , o un liberto, potevano così godere di una forma di protezione sociale altrimenti difficile da ottenere.

TUTANKHAMON

E' il sogno di tutti. Aprire una porta dimenticata o scavare una fossa , magari nella sabbia di una isola lontana, e trovarsi improvvisamente circondati da cascate di oro e gioielli, monili e pietre preziose che scintillano ed invitano solo ad essere presi. In tutti i secoli, ma anche ai giorni nostri, sono stati moltissimi gli uomini tentati dalla “caccia al tesoro” e che si sono cimentati , a volte guidati da improbabili “mappe”, nella avventurosa e dispendiosa ricerca di ricchezze nascoste che potessero cambiare in un attimo la prospettiva di una vita altrimenti banale e monotona.

E così in tutto il mondo e in tutte le epoche si sono scalate montagne, risaliti fiumi, perlustrate gallerie, sondati fondali e vecchi relitti , nella speranza di imbattersi nelle dimenticate preziosità di re, imperatori e pirati. Raramente queste ricerche hanno dato, purtroppo, i risultati sperati, alimentando, tutto al più, il genio di scrittori e registi.

In realtà, però, un grande tesoro è stato ritrovato, ed è stato proprio all'inizio dell'avventura archeologica in terra d'Egitto, contribuendo ad alimentare fantasie e speranze che, però, non si sono più, almeno finora, realizzate.

Ai primi del secolo scorso l'interesse per i reperti archeologici era puramente commerciale, giusto per soddisfare la voglia di qualche collezionista, e mancava una vera e propria codifica dei metodi di scavo, raccolta, identificazione e conservazione del materiale trovato, e quanto di meglio era stato fino ad allora prodotto lo si doveva al “dilettante” Giambattista Belzoni. Sin dal 1907 una spedizione condotta dall'archeologo Howard Carter nella valle dei Re a Luxor, e finanziata dal conte di Carnarvon, eseguiva ricerche che continuavano a non dare alcun

risultato apprezzabile quando, e si era ormai nel 1922, proprio nel momento in cui stavano scadendo le concessioni ed esaurendosi le disponibilità economiche, furono trovati alcuni gradini sepolti nella sabbia che si rivelarono essere l'inizio di una scala che portava ad una porta e poi ad una seconda ,entrambe con i sigilli forzati, segno che i tombaroli erano già passati non riuscendo,in questa occasione, a portare via nulla.

Lo spettacolo che si presentò agli occhi degli archeologi fu la realizzazione di tutti i sogni possibili. Montagne di gioielli e monili, oltre 5000 reperti, quattro sarcofaghi l'uno dentro l'altro e il più esterno fatto d'oro, la prima ed unica tomba integra con tutto ciò che il faraone doveva portare con sé nel suo viaggio ultraterreno. E la maschera d'oro che ne copriva il volto resta un capolavoro che costituisce ancora oggi il manufatto più celebre di tutta l'egittologia .

E poi lui, il faraone bambino della XVIII dinastia che visse nel 1300 a. C, Tutankhamon , figlio di Akenhaton, famoso per avere provato a introdurre il monoteismo in Egitto.

Tutankhamon morì giovanissimo e probabilmente non ebbe una vita felice. Si sono fatte diverse ipotesi sulla causa della sua morte, dovuta secondo alcuni alla caduta da un carro, secondo altri a malattie ereditarie. Era storpio e camminava appoggiandosi ad un bastone (nella sua tomba ne furono trovati 130) aveva un bacino decisamente femminile ed una dentatura scomposta. Oggi recenti esami accurati di vari DNA hanno potuto dimostrare senza ombra di dubbio che non era figlio di Nefertiti ( moglie del padre ,che si diceva essere la donna più bella del tempo, che non riuscì a dargli l'invocato erede maschio) , bensì che era il frutto di un incesto (forse tra il padre e una sorella).

Questo spiegherebbe molti dei suoi malanni (pare avesse anche il morbo di Kohler che limitava il flusso sanguigno alla parte inferiore del corpo). Questa scoperta farebbe dimenticare che la ferita evidente alla base del cranio aveva fatto ipotizzare anche un omicidio e che il colpevole poteva essere stato il potente sacerdote Eie, interessato al ritorno del politeismo .

Uomo sfortunato, dunque, ma il ricordo del suo nome non è legato alla sua vita, bensì al ritrovamento del tesoro più spettacolare di tutti i tempi, tanto importante da avergli regalato l'immortalità. Ricordato, quindi, non tanto per ciò che avrebbe potuto realizzare durante la sua breve esistenza , quanto per quello che ha saputo lasciarci con la sua morte Tutti i musei del mondo provvisti di sezioni dedicate all'egittologia continuano a contendersi alcuni degli innumerevoli reperti, costituiti da carri, arnesi, vestiti, troni,statue di vario tipo, scacchiere, ventagli, amuleti, corone e tanto altro ancora.

La fortuna di trovare una tomba egizia integra non si è più ripetuta. Generazioni di tombaroli hanno provveduto a saccheggiare con notevole anticipo tutto quanto sembrasse loro di valore, dimostrando comunque una sorprendente abilità e competenza a ritrovare siti che gli stessi archeologi hanno impiegato tempo e risorse non indifferenti ad individuare, col risultato costante di essere sempre , per così dire, battuti sul tempo.

Del resto i tombaroli non hanno bisogno di perdersi tra autorizzazioni, finanziamenti, richieste di concessioni, organizzazione di complicate spedizioni, e mentre tutto ciò continua a fare il loro gioco, possono dedicarsi tranquillamente a depredare e appropriarsi di reperti che sarebbero di tutti. La burocrazia al servizio della malavita. Come sempre.

LA RINUNCIA PAPALE

La storia della Chiesa narra innumerevoli episodi, molti illuminati altri meno, seguendo la lunga successione dei Papi che l'hanno rappresentata.

Essere eletti al soglio Pontificio è sempre stato un evento importante e, paradossalmente e senza nulla togliere alla Chiesa di oggi, aumenta di importanza man mano che si va indietro nel tempo.

Divenire Papa nel Medio Evo era più fondamentale di quanto , fatte le debite proporzioni, non lo sia adesso. Diffondere la parola di Dio si mescolava spesso con la ricerca del potere, finendo col confondere lo spirituale col profano.

L'autorità che il Pontefice poteva vantare sull'enorme esercito cristiano era una cosa che faceva gola a molti. E la elezione di un papa favorevole o contrario a certi interessi poteva produrre notevoli differenze. E in effetti, specie nel Medio Evo, dietro l'elezione di un Papa, di solito appartenente ad una famiglia importante che riusciva ad imporre uomini appartenenti o comunque legati al proprio casato, si sono quasi sempre celati, in modo più o meno evidente, giochi politici, scontri armati,tradimenti , promesse e ricatti.

Naturalmente, qualunque fosse la strada percorsa, chi riusciva a sedersi sullo scranno pontificio difficilmente era poi disposto ad abbandonarlo anzi, più di una volta l'essere papa fu come l'essere Re, potendo trasmettere il titolo all'interno della propria famiglia quasi in una regale successione ereditaria.

Pensate che Innocenzo III giunse a dire che la Chiesa e il suo Pontefice (cioè lui) erano appena a un filo di distanza da Dio, ma notevolmente più in alto rispetto al resto dell'Umanità.

Essere papa, quindi, comportava essere al di sopra di tutto e di tutti, in completa immunità, rispondendo esclusivamente alla parola di Dio, che il papa stesso dispensava (per incarico celeste).

Quindi nessuno rinunciava a un titolo così faticosamente conquistato.

D'altronde, il codice di diritto canonico prevede la “renuntiatio pontificalis” (così è indicata la rinuncia al ministero di Pietro) solo in caso di dimissioni volontarie o di morte.

Probabilmente tutti noi pensiamo a Benedetto XVI che ha rinunciato al soglio conservando per sé il titolo di papa emerito (per analogia col titolo di vescovo emerito), che indica il legame di affetto spirituale che continua a legarlo al Vaticano, anche dopo la rinuncia.

Ma questo, a ben vedere, è veramente uno dei pochi casi accaduti nel lunghi secoli del potere ecclesiastico cattolico,in cui la rinuncia sia avvenuta per motivi , per così dire, personali.

In quasi tutti gli altri casi le dimissioni dall'alto incarico sono state , in realtà ,estorte con la forza e quindi obbligate.

Oltre a Benedetto XVI si ha notizia di solo altri cinque pontefici dimissionari, mentre di altri tre si ha notizia non documentata e per loro ci si affida alla tradizione.

Papa Ponziano fu costretto alle dimissioni , e condannato ai lavori forzati in Sardegna, dall'imperatore Massimino “il Trace”, nel 235.

Papa Silverio fu con la forza privato della sua Tiara nel 537 dal generale bizantino Belisario che eseguì gli ordini di Teodora che aveva promesso la carica pontificia a Vigilio . Come poi avvenne.

Papa Benedetto IX fu cacciato da Roma nel 1045, ma tornò nella carica per sposarsi e “vendere” la sua poltrona, pare per 2000 libre. Venne dichiarato decaduto.

Papa Gregorio VI, nel 1046, fu obbligato alle dimissioni dopo aver confessato di avere “acquistato”

la carica pontificia (proprio dal suo predecessore).

Famosissimo il caso di Papa Celestino V (a cui Dante attribuisce il “gran rifiuto”, anche se altri, tra cui Boccaccio, nella figura dantesca intravede il personaggio di Esaù, che ricusò la primogenitura per un piatto di lenticchie) , uomo mite ed ingenuo, che solo quattro mesi dopo l'elezione, sentendosi inadeguato, nel 1294 si dimise favorendo l'elezione dell'astuto Bonifacio VIII, della famiglia Caetani, da cui era stato abilmente manovrato e da cui fu successivamente imprigionato.

Come si vede sono poche le rinunce volontarie, ma pochi anche ,almeno a quei tempi, coloro che potevano sostenere in tutta sincerità di meritare il soglio per purezza d'animo e d'intenzioni,

Per ottenere che la “fumata bianca” volgesse in loro favore, si era disposti a compromessi e a sostenere ora una fazione ora un'altra. A volte le contrapposizioni erano manifeste, come nel caso dei ghibellini contro i guelfi. Altre volte si era in completa balia di altri potenti, come nel “caso Avignonese” , quando il Re di Francia, per tenere sotto controllo il papato, ottenne di trasferirne la sede in Francia. O come quando, alla fine della cosiddetta “cattività”, ci fu un periodo in cui furono contemporaneamente in carica ben tre Papi diversi, ognuno rappresentante di un interesse particolare.

Ovviamente si può abdicare alla propria carica in molti modi, come ad esempio quando alcuni Papi, e non furono pochi,si fecero sottrarre il proprio uffizio da donne di particolare astuzia e seduzione, come accadde nel caso di Marozia, forse il più famoso, nel X sec.

Vi sono , in aggiunta a quelli nominati, altri tre papi , Clemente I nell'anno 88, Marcellino nel 296, e Giovanni XVIII nel 1003, di cui non si conoscono le motivazioni che portarono alla loro rinuncia papale.

---Ma come si curavano gli antichi?

Oggi siamo in pieno marasma a causa del “coronavirus.

Pur disponendo di sofisticati sistemi di ricerca e analisi, tutto il mondo sembra trovarsi in balia di un microscopico esserino che al momento sembra sfuggire ad ogni controllo e l'unico rimedio si configura nell'isolamento come fatto preventivo.

Ma ,anticamente, come ci si poteva difendere da pestilenze ed epidemie che pure non solo erano frequenti e virulente, ma che non godevano di statistiche e osservatori sanitari come oggi?

Una considerazione va comunque fatta. Una volta occorreva, obtorto collo, accettare quello che il cielo mandava, e sottoporsi a cure improvvisate o a preghiere che più di qualche conforto spirituale non potevano dare. Oggi, invece, il sospetto che molte delle malattie degli ultimi anni, come l'Ebola, l'Aids, la Sars ecc.., siano una diretta conseguenza di ingegnerizzazioni umane è sempre più forte.

In pratica potremmo essere noi stessi a creare nei nostri segreti laboratori (spesso militari) quelle forme batteriche o virali che poi, in qualche modo venutesi a liberare, non saremmo più in grado di fermare. Una specie di gatto che si morde la coda.

Ma come siamo arrivati a tutto questo?

All'inizio si accettavano le disgrazie supinamente, non potendo fare altro. Più o meno come si trattasse di un terremoto o di una alluvione. Bisognava solo aspettare che passasse augurandosi che facesse meno danni possibile. Poi nacquero gli “Hospitales”, luoghi in cui si cercava di dare conforto e cibo , ospitalità quindi a chi aveva bisogno, essenzialmente, di assistenza caritatevole.

In realtà la storia ci racconta di ospedali nati nel V sec. a.C. già in Giappone, o in India (anche per gli animali) così di infermerie che accompagnavano i legionari romani nelle loro campagne di guerra o anche dei celebri asclepiei (dove l'arte medica veniva esercitata in templi dedicati al dio Esculapio) o, ancora prima, di stupefacenti studi medici presso gli egiziani al tempo di Imhotep, nei templi di Iside e di Serapide.

In Europa la prima esigenza di organizzare specifiche specializzazioni si cominciò ad avvertire all'indomani della terribile peste del 1348. Gli ospedali vennero realizzati in luoghi ameni, provvisti di aria fresca e di acqua corrente, come lungo le sponde di fiumi o laghi.

In mancanza di medicine adatte si cominciò a fare nè più né meno quello che si fa adesso. E cioè allontanare la gente dai focolai delle malattie, per evitare l'estendersi del contagio .

Viene comunemente ricordato l'episodio dei dieci ragazzi del “Decamerone” di Boccaccio che per evitare la peste si isolarono in campagna, raccontandosi le famose cento novelle.

Pian piano ci si rese conto che le preghiere e le messe non erano sufficienti, se non addirittura dannose, contribuendo a diffondere il contagio, e quindi , gradatamente, ci si cominciò ad affidare alla scienza che forniva, come prima medicina, quelle corrette misure igieniche che fino ad allora erano quasi del tutto trascurate.

L'impegno sociale del Re si concretizzò in edifici, facilmente identificabili, dedicati alla salute pubblica, finchè, nel Rinascimento, si finì per fare uscire gli ospedali dal monopolio della pietà cristiana della Chiesa,per entrare nel paradigma laico della Sanità.

Nel concetto di isolamento , a ragione, finirono per inserirsi ospedali del tutto particolari, come i lebbrosari o i lazzaretti, entrambi situati fuori delle città, in luoghi isolati.

Da Galeno e Vesalio se ne è fatta di strada.

Eppure, per l'insipienza di alcuni nonché per la superficialità di tutti quelli che si cullano su false sicurezze, sembra per molti versi che siamo ancora fermi al Medio Evo.

Se ci riflettiamo attentamente, cos'è che facciamo,adesso?

Dobbiamo stare chiusi in casa evitando qualunque contatto umano esattamente come si faceva una volta; cerchiamo accuratamente di evitare i potenziali contagiatori (quelli che una volta si chiamavano “untori”) ; ci fanno paura pure quelli che raccolgono le salme (gli antichi monatti) e non possiamo nemmeno accompagnare al cimitero le salme dei parenti deceduti.

Non mi pare che , in fondo, sia cambiato poi granchè.

Adoperiamo adesso gli stessi rimedi che si adoperavano nel Medioevo e facciamo affidamento ancora in preghiere casalinghe o in scoperte scientifiche che mostrano tutti i loro limiti.

Una differenza, però, si può cogliere. Una volta la colpa era dell'ignoranza, e l'uomo poteva , a ragione, sentirsi innocente e sfortunato. Oggi questo alibi non regge più, perchè i responsabili di tutto quanto, a ben vedere , siamo noi stessi, non rendendoci conto che come in una grande ruota che gira, il tempo e le cose finiscono per mortificare i sogni di ambiziosa grandezza per riportarci inesorabilmente allo stesso punto dal quale ripartire nuovamente, da zero.

E speriamo che questa volta la lezione sia tale da farci accettare, finalmente, un indispensabile bagno di umiltà.

ROBIN HOOD

La storia è il resoconto dei fatti realmente accaduti da quando la scrittura può legittimamente raccontarla e descriverla.

In realtà, però, non è solo questo, ma molto di più.

La storia testimonia il cammino compiuto da uomini e popoli e ne conserva le tradizioni e i costumi.

E uomini e popoli spesso si affidano a ricordi, a interpretazioni, a magie ,a superstizioni, a leggende, che col tempo si tramandano o si modificano ma in ogni caso restano come parte integrante del loro percorso, finendo col rappresentare spesso eventi mitici che comunque non possono mettersi fuori dalla storia stessa.

Così ogni paese ha le sue testimonianze che spesso nascono da antiche tradizioni che via via vengono mitizzate e che , in qualche modo, assumono una loro realtà specifica.

Una delle leggende più famose in assoluto è senz'altro quella di Robin Hood, l'arciere di Sherwood.

Da sempre questa figura ha rappresentato il classico ladro gentiluomo , che ruba ai ricchi per dare ai poveri. Che questa figura sia realmente esistita è tutto da dimostrare, ma in ogni caso, se effettivamente un uomo a cui attribuire le sue gesta abbia abitato nella foresta di Nottingham insieme alla sua allegra brigata, dovrebbe averlo fatto nel periodo a cavallo del 1200, quando la protesta per l'esosità delle tasse in Inghilterra aveva provocato un malcontento generale e l'assenza del legittimo Re Riccardo Cuor di Leone aveva favorito l'usurpazione del trono da parte del malvisto fratello Giovanni Senza terra . Il che aveva visto proliferare la formazione di bande che per fame si erano date alla rapina e al brigantaggio.

Nelle numerose leggende e nelle ballate ispirate a Robin Hood riecheggia l'astio dei sassoni verso i normanni che , dopo la celebre battaglia di Hastings dal 1066, avevano occupato l'isola.

In realtà molti sono i personaggi che possono avere dato vita al nascere del mito del ladro gentiluomo, ma sono tutti molto ladri e poco gentiluomini. Nella lotta contro i ricchi ed il sovrano si simboleggiava quella contro il malgoverno, ed il popolo parteggiava decisamente con i briganti che realizzavano le loro vendette. In ogni caso il successo di questa figura fu , forse, favorito dall'essere identificato con il personaggio di un'opera di William Shakespeare del 1600 dal titolo “Sogno di una notte di mezza estate”, il cui protagonista era un certo Robin Goodfellow (Buon diavolo), specie di divinità dei boschi,che rappresentava l'inizio dell'anno nuovo, che si avviava con l'uccisione del sovrano e quindi con la fine del malgoverno.

Con riferimento a quel periodo, furono molti i fuorilegge dal nome Robert (da cui Robin) e dal cognome Hood ( berretto) ,o anche Hod oppure Hode, insieme ad altri come Roger Godberg o Robert de Kyme, finendo per essere unificati nella figura dello stesso Robin Hood, tutti rappresentanti in fondo, nella tradizione popolare, della stessa nobile figura di vendicatore / giustiziere .

Il mito di Robin Hood persistette a lungo, ma si ampliò enormemente con l'arrivo della carta stampata nel Cinquecento, quando racconti e ballate divulgarono ulteriormente la popolarità di una figura già ben conosciuta.

L'ipotesi più concreta per spiegare l'attuale dimensione del ladro degli anni duecento, sta forse nel fatto che via via la sua figura cambia nella narrazione , diventando addirittura quella di un aristocratico, gentile e indifferente al denaro, cosa che lo porterebbe a restituire ai poveri quanto sottratto ai ricchi .

A Robin Hood, abilissimo arciere, viene attribuito anche l'uso di un particolare arco, chiamato “long bow”, attrezzo alto oltre due metri che riusciva a lanciare dardi fino a 200 metri di distanza.

A quest'arma in dotazione all'esercito britannico -in particolare ai cosiddetti Yeomen ( liberi contadini)- si attribuisce il merito di avere sconfitto , durante la Guerra dei Cento Anni, la cavalleria francese , che fino a quel momento godeva fama di imbattibilità, nella celebre battaglia di Crecy (1346).

Nella leggenda Robin Hood e i suoi “allegri compari” combattono il perfido sceriffo di Nottingham, in attesa che il ritorno dalla III Crociata di re Riccardo Cuor di Leone consenta allo stesso di riappropriarsi del trono cacciando il fratello usurpatore.

Inoltre non manca anche la storia d'amore che vede Robin infatuarsi, ricambiato, della dolce Lady Marian, e ancora oggi nella foresta di Sherwood esiste una quercia attorno a cui i briganti, si racconta, usassero radunarsi e che è meta di numerosi turisti.

Inutile dire che una storia come quella di Robin Hood, in cui vi sono tutti gli ingredienti adatti ad esaltare valori altamente positivi e di sicura presa popolare , non poteva che ispirare storie, films e d una notevole bibliografia che ha fatto conoscere l'eroe dal berretto verde in tutto il mondo.

Restano famosi films interpretati da attori come Errol Flynn nel 1938, ma anche recentemente da Sean Connery (1976) o Russell Crowe (2010).

La morte di Robin viene attribuita al tradimento di una badessa, sua cugina che, sottoponendolo ad un salasso, lo fece dissanguare completamente fino ad ucciderlo.

Prima di morire, la leggenda racconta che Robin Hood abbia scagliato una freccia indicando così al suo compagno Little John il luogo in cui desiderava essere sepolto.

Nel parco chiamato Kirkless (chiesa della Compensazione), ancora oggi

esiste una tomba, quasi sicuramente falsa, nella cui lapide si può leggere l'ultimo epitaffio dedicato all'eroe :

“ Qui sotto questa piccola pietra

giace Robert Earl di Huntingdon

non ci fu mai un arciere bravo come lui

La gente lo chiamava Robin Hood

Fuorilegge come lui e i suoi uomini

l'Inghilterra non ne vedrà mai più”.

Inoltre intorno al sito sono sorte, col tempo, storie simili a quelle riguardanti i menhir preistorici e in genere i siti megalitici che abbondano in quella regione.

In definitiva, comunque, al di là del fatto che Robin Hood sia realmente sepolto in quella tomba, per il solo motivo per cui si è sempre creduto che lui fosse lì, il luogo è assurto a protagonista di miti e leggende che lo riguardano e a cui, in qualche modo tutti , anche noi che non siamo inglesi, restiamo affezionati.

SCACCO MATTO !

Tutti conosciamo il gioco degli scacchi e sicuramente avremo con tutta probabilità provato a giocarci.

E' un gioco non semplice dove due armate di colore bianco l'una e nero l'altra, si affrontano su una scacchiera di 64 caselle con tutta una serie di figure rappresentanti pedoni, alfieri, torri, cavalli Regine e Re con lo scopo finale di conquistare Sua Maestà, nella simulazione di una vera e propria guerra tra contrapposti eserciti.

Quello che abbiamo tra le mani, però, è solo la risultante di innumerevoli variazioni che nei secoli hanno portato questo gioco ad essere uno dei più giocati (forse il più giocato), portandosi dietro significati e simbologia diversi a seconda dei paesi in cui veniva adoperato.

Sì, perchè scacchiera e pedoni risalgono a tempi immemorabili.

Si dice che questo gioco sia nato in India nel sesto secolo, e poi arrivato in Europa intorno all'anno mille portato dai mercanti arabi.

Una leggenda narra che un principe indiano si annoiasse a morte e cercasse qualcuno o qualcosa che lo facesse divertire, promettendo una lauta ricompensa. Un giorno gli si presentò un mercante -certo Sissa Nassir- che gli propose un gioco con scacchiera e figure, e gli insegnò il gioco degli scacchi. Il principe si entusiasmò e chiese cosa volesse come ricompensa , Il mercante rispose : un chicco di riso nella prima casella , due nella seconda ,quattro nella terza ,otto nella quarta e via dicendo per 64 volte. Quando il principe si rese conto che non sarebbe bastato tutto il riso della Terra, non potendo mantenere la promessa lo fece giustiziare.

Al di là delle leggende, pare che la nascita degli scacchi sia avvenuta in India intorno al 600, e se ne trova menzione in un romanzo sanscrito, il Vasavadatta. La parola Re viene però dal persiano Shah, mentre Shah Mat significherebbe “il re è morto”.

La storia però è piena di sorprese, e guardando bene molto più indietro nel tempo, si trovano giochi che possono tranquillamente definirsi come antesignani degli scacchi odierni. Certo, cambiano i disegni delle figure, ma il concetto, in fondo, è il medesimo.

Il “Senet “ , gioco provvisto di scacchiera e pedine ,precursore della dama,era un gioco popolare tra i Faraoni dell'antico Egitto, mentre abbiamo antichi vasi greci che raffigurano Achille e Aiace intenti a giocare a Petteia, gioco con scacchiera raccomandato perfino da Plutarco.

C'è da dire che le figure del gioco non erano le stesse quando si cambiava paese. Esse, infatti, rispecchiavano le tradizioni e perfino le gerarchie sociali dei diversi luoghi.

Tanto per fare un esempio, in India ancora oggi alcuni pezzi sono figure di animali caratteristici del luogo come gli elefanti da guerra, mentre nei paesi arabi, stante il divieto di rappresentare figure umane, si ricorre a immagini astratte.

Nei paesi europei , invece, ci si affida a figure che forniscono l'idea della scala di valori basata su forza e potere. E così ,di volta in volta, troviamo servitori, guardiani, cavalieri , vescovi, sovrani e regine. Anche i colori non sono stati sempre gli stessi, potendo essere,oltre che bianco e nero, anche rosso e bianco. In questo modo tutto il mondo veniva rappresentato nella scacchiera, e i giocatori tanto più erano bravi quanto più capaci di escogitare strategie atte a sconfiggere il nemico.

Col passare del tempo il gioco ha superato i confini del puro divertimento, divenendo un vero e proprio esercizio mentale quasi sconfinante nella filosofia.

Nell'Unione Sovietica se ne studiano le applicazioni anche nelle scuole per affinare i processi mentali dei giovani alunni, e in tutto il mondo i campioni dei tornei più importanti assurgono a figure di emblematici eroi nazionali.

In fondo gli scacchi, nell'antica Persia, venivano considerati un modo per educare alla vita i Principi e le Principesse .

Scacchiere e figure sono stati realizzati nei materiali più diversi, da quelli più semplici ad altri estremamente preziosi e ricercati, divenendo spesso oggetto di culto artistico e di collezionismo.

Svariate scacchiere sono conservate in importanti musei.

Per citarne una, famosa, basta ricordare la cosiddetta “scacchiera di Lewis”, ritrovata nel 1831 racchiusa in un contenitore di pietra appunto sull'isola di Lewis, facente parte delle isole Ebridi, ma che si fa risalire all'XI sec., ricavata da zanne di tricheco e denti di balena . Sembra che sia andata perduta durante un naufragio, rimanendo per sempre in Irlanda.

La preziosità di una scacchiera rivelava chiaramente la capacità economica dei committenti che cercavano gli artigiani più esperti per realizzare opere che , oltre al gioco, dovevano servire , come un abito o un gioiello, a magnificare la potenza del proprietario.

Studiando la storia degli scacchi si può avere qualche indicazione sul come siano andati cambiando i costumi della società. Basta osservare i pedoni, che da semplici contadini divengono via via fanti armati, dagli alfieri che si vanno munendo di scudo, da regine all'inizio dall'aspetto sottomesso e che poi vanno assumendo sempre più importanza.

Nemmeno i moderni video-games sono riusciti a offuscare il fascino del gioco , e resta immortale la scena della partita a scacchi con la morte nel film “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman del 1957.

In definitiva ,osservando l'evoluzione della scacchiera, sia di legno che d'argento , di onice o di ossidiana, si può, in qualche modo, per chi sapesse guardare bene, ascoltare la voce del tempo.

LA CADUTA DELL'IMPERO ROMANO D'OCCIDENTE

Roma per molti secoli fu la dominatrice dell'impero più grande del mondo. Come sia potuto accadere che in relativamente poco tempo l'impero d'occidente si sia dissolto mentre quello d'oriente gli sia sopravvissuto di circa mille anni è frutto di molte concause. Anzitutto bisogna pensare che nei cinquant'anni che precedettero l'ascesa al trono di Diocleziano (284 d. C.) furono ben ventotto gli imperatori che si succedettero, tutti provenienti da esperienze militari (gli imperatori soldati) ed assolutamente sprovvisti di prestigio politico, lasciando il campo ai generali, e che l'ultimo ad unificare l'impero fu quel Teodosio che resta noto per avere proclamato il Cristianesimo religione di Stato (380 d.C.). Dopo di lui l'impero venne diviso in due parti che da questo punto in poi ebbero storie diverse. A occidente cominciarono le cosiddette invasioni barbariche e Roma nel 410 d. C. venne saccheggiata dai Visigoti di Alarico. Quello che indebolì enormemente l'impero però, ancor prima delle “invasioni”, fu il fatto di subire un vero e proprio processo di “penetrazione” delle popolazioni barbariche, che interessò solo marginalmente la parte orientale dell'impero e che permise a Goti, Alani, Vandali, Alemanni ed altri , per lo più di stirpe germanica, di occupare,questa volta non militarmente, Roma. In questo modo le stesse milizie romane risultarono sempre più formate da barbari che sentivano maggiormente il legame verso la propria tribù che non l'onore di servire Roma. L'Italia in particolare venne conquistata dagli Ostrogoti di Odoacre che nel 476 depose l'ultimo imperatore d'Occidente, il piccolo Romolo Augustolo, che fu risparmiato solo per la sua giovane età. Tutta l'Europa era in quel momento divisa tra i Franchi che dominavano la Gallia, i Visigoti la Spagna, i Vandali l'Africa, tutte popolazioni la cui mescolanza doveva inesorabilmente portare alla nascita e al consolidamento del Medioevo cristiano ed alla sua civiltà.

La decadenza di Roma fu un processo inevitabile. La città eterna a cui si diceva che portassero tutte le strade, si avviò verso una inarrestabile rovina. Basti pensare che al massimo del suo splendore si dice che arrivasse a contare anche un milione di persone (cifra enorme per quei tempi) mentre già nel XIV sec. non arrivava nemmeno a ventimila. La città fu saccheggiata e depredata di tutti i suoi tesori artistici da papi e nobili che non chiedevano altro che impossessarsi di quell'immenso tesoro artistico che chiedeva solo di essere preso (a cominciare dallo stesso Costantino che voleva abbellire la “sua” città, Costantinopoli)

Per fortuna ciò che conta davvero, dopotutto, non è la vastità dell'impero, la sua forza militare o la sua ricchezza, bensì il retaggio culturale che ha saputo trasmettere intatto sino ai nostri giorni.

E il Cristianesimo col suo procedere e con la sua graduale espansione, ha sicuramente contribuito a diffondere la validità della cultura imperiale che, non dobbiamo dimenticarlo, ha influenzato e condizionato il pensiero europeo. In realtà la fine dell'impero romano d'occidente, se da un lato rappresenta il termine di un epoca, dall'altro segna l'inizio di una nuova era.

Così, inevitabilmente, sorsero dapprima capitali periferiche,come Treviri e Milano, che non contribuirono di certo all'unione del territorio e poi , guardando sempre più verso Costantinopoli, fecero paradossalmente di questa città greca l'ultimo baluardo della romanità.

I popoli barbari in pratica costruirono dei veri e propri regni sulle terre che avevano ricevuto dall'impero per foedus (trattato) come i Visigoti nella Gallia e i Burgundi nella Savoia. Similmente gran parte dell'Italia fu conquistata dai Longobardi provenienti dal Nord, mentre l'Africa settentrionale cadde nell'orbita del nascente Islam.

L'arrivo dei barbari, con tutte le lotte di popoli che indubbiamente comportò, alla lunga , però ,ebbe a rivelarsi fecondo, creando la nuova civiltà dell'Occidente, fondata sul principio della libertà individuale. I popoli nuovi non dimenticarono la lezione romana, ma la arricchirono con le proprie tradizioni. Oggi tutti gli storici concordano sul fatto di rappresentare il Medioevo non come un periodo buio tra il classicismo e il Rinascimento, bensì come la culla che ha visto nascere le nazioni che costituiscono la moderna Europa.

fabbro.jpgfalegnameriacincotta.jpg

LA CORTE DEI MIRACOLI

A volte anche i grandi letterati commettono, non si sa quanto volutamente, degli errori che , data la notorietà delle loro opere, vengono considerati come verosimili.

Qualcosa del genere è capitato nientemeno che a quel genio immortale che è Victor Hugo.

In una delle sue più grandi opere ,“Notre Dame de Paris” , infatti , si fa menzione di quella che è passata alla storia come “La Corte dei Miracoli”, e che lui colloca, sbagliando, nel XIV sec.

Quella del drammaturgo francese, in realtà, è una interpretazione romantica di un fenomeno che , in realtà, ebbe storicamente luogo sotto Luigi XIII e quindi nel 1600.

Fu in quel periodo, infatti, che a Parigi, (ma non solo , Charles Dickens ne parla in Oliver Twist, ambientato a Londra), alcuni quartieri malfamati (chiamati “cours des miracles”-cortili dei miracoli-) la notte divenivano esclusivo appannaggio di una vera e propria popolazione di pezzenti, ladri e accattoni . Erano persone che di giorno si mescolavano agli altri cittadini nei quartieri bene della città, rubando, chiedendo la carità e travestendosi da storpi, ciechi, monchi per muovere alla compassione. La notte poi, nel loro regno, come per “miracolo”, si liberavano di stampelle e bende, recuperando vista e movimento. Alcuni sostenevano che il miracolo consistesse nel fatto che di notte, proprio perche' si rintanavano nel loro rifugio, miracolosamente scomparivano dalla città. In realtà erano perfettamente organizzati. Eleggevano un loro “re”, detto “re di Tunisi”, avevano una loro gerarchia, parlavano una loro lingua (una specie di Argot, lingua criptica comprensibile solo ai partecipanti alla congrega), ed avevano una vera e propria scuola dove si insegnava a rubare (ad esempio, bisognava mettere le mani in tasca a pupazzi provvisti di campanelli senza farli suonare, pena punizioni corporali), a travestirsi da mendicanti e a simulare infermità. Quando si diventava sufficientemente bravi si poteva diventare “maestri” (cagous). Pare che i principianti a volte venissero volutamente denunciati mentre compivano i loro furti, per appurare se resistevano alle percosse e se sapevano mantenere i segreti. Nelle piazze dei miracoli e nelle vie che le collegavano non era salutare entrare se non voluti. I muratori inviati da Luigi XIII per unire due piazze dei miracoli furono assassinati ancora prima di cominciare i lavori. Per non parlare dei corpi di polizia che lì non avevano il coraggio di addentrarsi.

Naturalmente questa situazione costituiva una questione molto seria per l'amministrazione parigina che più di una volta tentò di occupare le corti dei miracoli venendone sempre respinta, ma d'altronde si calcola che ogni piazza potesse contare fino a 5000 persone. Si tentò anche di nominare appositi commissari che ottennero per lo più scarsi risultati, in quanto ogni volta che operavano uno sgombero, dopo poco le piazze venivano rioccupate. Verso il 1700 si cacciò con la forza il popolo dei miracoli e si marchiarono a fuoco oltre 60000 delinquenti

In ogni caso si può dire che le corti dei Miracoli , che a Parigi erano ben 12, scomparvero attorno all'anno 1750.

La più famosa e grande corte era “La Grande Cour de Miracles Fief d'Alby”, nel II arrondissement, (oggi elegante quartiere che ospita la Borsa e la Biblioteca Nazionale), ed era quella descritta , appunto , da Victor Hugo.

Ancora oggi alcune zone e quartieri ricordano quel periodo e in qualche modo continuano ad essere meta di turisti desiderosi di immergersi nell'immaginaria atmosfera di quel periodo.

garage_merlino-banner.jpg