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1) Social, diffamazione e non ingiuria aggravata se il post è condiviso quando la vittima non è on line

di Paola Rossi

Se la persona colpita da frasi offensive all’interno di una chat condivisa con altri non era on line al momento della loro pubblicazione il reato commesso dall’autore dell’espressioni ingiuriose è quello della diffamazione e non dell’ingiuria aggravata. Il punto di discrimine sta nella conoscenza delle frasi incriminate “in tempo reale” tra persona offesa dal reato e le altre che le hanno percepite. Infatti, ciò che distingue i due reati è la percezione delle offese da parte di due o più persone alla presenza o meno della vittima del reato. E mentre la diffamazione non si fonda sul tempo reale l’ingiuria aggravata dall’essere consumata alla presenza di altri e oggi depenalizzata presuppone che contemporaneamente sia presente anche l’offeso.

Nel caso di una chat aperta su Facebook e di libero accesso, anche se finalizzata al dibattito di un gruppo politico locale, la circostanza che la persona offesa non fosse collegata al momento della pubblicazione del post offensivo fa scattare la fattispecie della diffamazione proprio perché manca la circostanza che la comunicazione relativa a una persona e diffusa ad altri si sia svolta in tempo reale rispetto a tutti isoggetti coinvolti. Ciò che esclude l’ipotesi dell’ingiuria aggravata.

Con tali argomentazioni la Corte di cassazione penale ha rigettato il ricorso del condannato per diffamazione che chiedeva la riqualificazione del reato contestatogli da diffamazione a ingiuria aggravata. La sentenza n. 409/2024 ha rigettato la domanda contro la declaratoria di prescrizione pronunciata dai giudici di merito di secondo grado, in sede di rinvio, per il reato di diffamazione.

Il ricorso insisteva nel dire che la persona offesa fosse da considerarsi presente allo scambio di post compreso quello incriminato, perchè tale compresenza con gli altri utenti in quel momento on line non poteva essere messa in discussione dal fatto che l’intervento sulla chat fosse differito di qualche secondo o minuto. Ciò che va detto appare normale nell’ambito di un social. Ma, come fa rilevare la Cassazione penale, in un tale contesto rileva l’accertamento della mancanza di collegamento alla chat della persona offesa al momento di pubblicazione del post offensivo. In effetti, nel caso concreto, era stato accertato tecnicamente che la persona diffamata era scollegata al momento della diffusione ad altri delle espressioni illegittime e che ad esse aveva risposto “solo” dopo venti minuti.

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2) Dalla diffamazione al procedimento disciplinare, le conseguenze dell’uso inappropriato dei social sul lavoro

di Pasquale Zumbo*

A seguito dell’incremento nella diffusione dei Social Network si registra un dato: la crescita esponenziale del contenzioso nell’ambito del rapporto avente ad oggetto l’utilizzo, distorto, di tali strumenti.

Diventano infatti tutt’altro che infrequenti i casi in cui l’utilizzo inappropriato dei Social Network finisce per essere il mezzo con cui si consumano delle vere e proprie diffamazioni all’interno del contesto lavorativo che vengono puntualmente sanzionate disciplinarmente. Del pari, non mancano i casi in cui l’Azienda scopre, per il tramite degli stessi Social, condotte illegittime, come, ad esempio, assenze ingiustificate dal lavoro o utilizzo compulsivo dei Social durante l’orario di lavoro, e anche in questo caso si aprono le porte del procedimento disciplinare, le cui conseguenze possono essere anche quelle della perdita del posto di lavoro.

Le decisioni dei Giudici vanno alla ricerca dell’equilibrio, non sempre raggiunto, tra interessi contrapposti, ossia: da un lato, il diritto alla libera espressione del pensiero – che i Social network si prefigurano idealmente - la tutela della privacy, della riservatezza dei lavoratori anche nella propria vita extra-lavorativa e dall’altro, la tutela dell’immagine e del patrimonio aziendale.

È utile esaminare alcuni di questi precedenti per comprendere la portata e le caratteristiche del fenomeno e anche e soprattutto per sviluppare un uso maggiormente consapevole degli strumenti ed evitare ricadute sul rapporto di lavoro.

Un caso eclatante di utilizzo inappropriato dei Social è quello giudicato dal Tribunale di Ivrea, con ordinanza del 28 gennaio 2015, che ha esaminato l’impugnazione di un licenziamento di un dipendente il quale, all’indomani della pubblicazione di un provvedimento giudiziale che disponeva la di lui reintegra in servizio, era stato licenziato (per la seconda volta) in quanto, nel commentare il provvedimento giudiziale, aveva pubblicamente postato su Facebook frasi gratuitamente diffamatorie contro l’azienda ed offensive contro le colleghe.

È facile intuire come il giudizio sia andato a finire: il Tribunale ha confermato la legittimità del licenziamento stigmatizzando la gravità delle offese.

La Cassazione Sezione Lavoro, con la recente sentenza del 6 dicembre 2023, n. 34107 , si è pronunciata su un licenziamento di un dipendente di un Ente Pubblico che, durante l’orario di lavoro, aveva malamente parcheggiato l’auto aziendale per effettuare degli acquisti presso un mercato all’aperto, senonché l’auto veniva fotografata e l’immagine pubblicata su Facebook con un commento sarcastico circa l’uso personale dell’auto aziendale da parte del personale dell’Ente. Tale post veniva aspramente commentato da molti cittadini con conseguente detrimento dell’Immagine dell’Ente. La Corte, pur ritenendo disciplinarmente rilevante il fatto, ha però giudicato illegittimo il licenziamento in quanto la fattispecie (abbandono del posto di lavoro per i minuti necessari ad effettuare la spesa) rientrerebbe nell’ambito di una fattispecie punita dal Contratto Collettivo con una sanzione conservativa.

Altro caso, è quello del Tribunale di Taranto che, con ordinanza del 26 luglio 2021 , ha giudicato il licenziamento di un dipendente di una nota acciaieria Tarantina che aveva pubblicato un post nel quale, facendo riferimento all’attività imprenditoriale, dichiarava: “… in nome del profitto la vita dei Bambini tarantini non conta …. Assassini “. Anche in tale occasione, trattandosi di post pubblico, il Giudice ha risolto la problematica della riservatezza del dipendente a suo sfavore, ma ha ritenuto comunque illegittimo il provvedimento disciplinare in quanto, alla luce del contesto in cui il post era scritto, si poteva comprendere che la frase offensiva riguardava un periodo storico in cui l’acciaieria era di proprietà di soggetti giuridici diversi da quelli che avevano comunicato il licenziamento.

Il Tribunale di Cosenza, con Sentenza del 13 luglio 2022, n. 1240 , ha giudicato legittimo il licenziamento di un’autista di Bus di linea che, mentre era alla guida dell’automezzo di servizio, postava commenti su Facebook e si relazionava con altri utenti esprimendo giudizi in merito ad articoli pubblicati su diversi quotidiani.

Ha destato poi un certo scalpore la sentenza di Cassazione sez. lav. 27 maggio 2015, n. 10955 che concerne il caso di un datore di lavoro il quale, avendo il sospetto che un proprio dipendente mentre era in servizio si distraeva lasciando anche incustodita la postazione di lavoro per intrattenere relazioni su Facebook, decideva di creare un profilo «civetta» e, spacciandosi per un’avvenente ragazza, chiedeva l’amicizia al dipendente che cascava nella trappola avviando una fitta chat con la sedicente ragazza. Venivano, per questa via, confermati i sospetti del datore di lavoro e confermata la legittimità del licenziamento. La sentenza in questione è stata criticata da più fronti in quanto, creare un profilo fake costituisce una indebita intrusione nella sfera giuridica di riservatezza e privacy del lavoratore che avrebbe potuto spingere verso una conclusione diversa, ossia la illegittimità delle prove acquisite con conseguente illegittimità del licenziamento che, su siffatte prove, si basava.

Non a caso, sulla questione della legittima acquisizione della prova si è aperto un dibattito giurisprudenziale non ancora chiuso, avente proprio ad oggetto le chat riservate a una cerchia ristretta di persone. Ci si è chiesto se tali chat possano essere utilizzate quale mezzo per provare in giudizio condotte illegittime, come ad esempio, dichiarazioni diffamatorie.

Una parte della giurisprudenza ha sostenuto che le chat sono coperte dal segreto sulla corrispondenza e dunque inutilizzabili da chi non è destinatario del messaggio, si veda, in tal senso, la Sentenza della Corte di Cassazione, n. 21965 del 2018 che riguardava il licenziamento comunicato a un dipendente che aveva apostrofato, in una chat privata all’interno di un Gruppo Facebook, l’Amministratore Delegato con epiteti senz’altro diffamatori e insultanti.

Ebbene, pur a fronte di tali gravi affermazioni la Corte di Cassazione ha ritenuto che debba prevalere l’esigenza di tutela della segretezza nelle comunicazioni laddove i messaggi siano scambiati all’interno di chat private e dunque anche in un gruppo Facebook specie se i contenuti sono protetti da password. Per questa via la Corte è giunta alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento. Precisa poi la Cassazione che, essendo i messaggi rivolti a un gruppo determinato di persone e non diffusi a una “moltitudine indistinta” di soggetti non vi sarebbero i requisiti della diffamazione.

Di senso contrario invece la più recente sentenza di Cass. civ. sez. lav. 31 maggio 2021, n.15161 , secondo cui è legittimo il licenziamento del dipendente che aveva rivolto frasi offensive nei confronti dei vertici aziendali nel contesto di una “mailing list” sindacale.

Secondo la Corte era dirimente per stabilire la legittima acquisizione il rilievo che l’Azienda non si era in alcun modo attivata per raccogliere i dati dal momento che uno dei destinatari aveva inoltrato i messaggi direttamente all’Azienda, il che rende, ad avviso della citata sentenza, legittima l’acquisizione dell’informazione.

Sfumatura diversa del medesimo problema (valore probatorio delle chat) concerne il caso in cui la chat del social costituisce strumento di lavoro aziendale, e ciò si verifica, ad esempio, allorquando l’organizzazione del lavoro prevede la possibilità di utilizzare le chat dei social per comunicazioni di lavoro all’interno dell’azienda.

In questo caso, la Cassazione, con sentenza del 22 settembre 2021, n. 25731 , ha da ultimo, affermato il lineare principio secondo cui a tale fattispecie di controllo si applica l’art. 4 della L. 300 del 1970 e quindi le prove possono essere legittimamente raccolte e utilizzate solo a condizione che i dipendenti siano stati resi preventivamente edotti, anche nel rispetto della normativa in materia di privacy, delle modalità d’uso degli strumenti, della potenziale effettuazione dei controlli e delle modalità con cui i controlli vengono effettuati.

L’esame dei precedenti giurisprudenziali sopra descritti è utile occasione per trarre alcune considerazioni su un utilizzo adeguato e professionale dei social che possono essere così sintetizzate:

1. Evitare fenomeni di confusione tra ruolo aziendale e dichiarazioni personali , con ciò avendo cura di specificare se si parla a nome personale o nello svolgimento di funzioni aziendali;

2. Quando il Social è utilizzato per ragioni di servizio , adottare un linguaggio neutro e professionale in quanto ciò che si scrive viene attribuito in via diretta anche all’azienda;

3. Quando il Social è utilizzato per ragioni di servizio , avere cura che vi sia distinzione tra il profilo personale e quello professionale

4. Evitare di trattare pubblicamente tematiche che potrebbero impattare, anche indirettamente sull’immagine dell’Azienda (ad. Es. se sono dipendente di un Istituto di Credito evito di commentare notizie che riguardano il mio datore di lavoro, a meno che ciò non mi sia espressamente richiesto);

5. Evitare la divulgazione di informazioni anche solo potenzialmente riservate e/o confidenziali;

6. Rappresentare sempre i fatti in modo continente e veritiero;

7. Utilizzare strumenti che limitano l’accesso al post a una cerchia definita di persone con ciò preservandone la riservatezza.

La confisca per lo spaccio di lieve entità

Quando si può procedere alla confisca per lo spaccio di lieve entità

La questione. Il Tribunale di Torino, su conforme accordo delle parti, applicava all’imputato la pena concordata, in relazione al reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, a proposito della detenzione illecita di gr. 57,618 di cocaina, disponendo, inoltre, la confisca del denaro in sequestro, ritenuto provento del reato.

Ciò posto, avverso questa sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’imputato che, a mezzo del suo difensore, deduceva, con unico motivo, la violazione degli artt. 240 cod. pen. e 73, comma 7-bis, d.R.R. n. 309/90, in relazione alla disposta confisca del denaro in assenza di una specifica contestazione di cessioni di stupefacente, e correlativa prova cui ricollegare la somma rinvenuta di cui era stata disposta la confisca.

La soluzione adottata dalla Cassazione: la confisca per lo spaccio di lieve entità

Il ricorso era reputato fondato limitatamente alla disposta confisca della somma dì denaro alla luce di quell’orientamento nomofilattico secondo il quale, in relazione al reato di illecita detenzione di sostanze stupefacenti previsto dall’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, può procedersi alla confisca del denaro trovato in possesso dell’imputato soltanto quando sussiste un nesso di pertinenzialità fra questo e l’attività illecita di cessione contestata; ne consegue che non sono confiscabili le somme che, in ipotesi, costituiscono il ricavato di

precedenti diverse cessioni di droga e sono destinate ad ulteriori acquisti della medesima sostanza, non potendo le stesse qualificarsi né come “strumento”, né quale “prodotto”, “profitto” o “prezzo” del reato (Sez. 6, n. 55852 del 17/10/2017) [ancora, in relazione al reato di illecita detenzione di sostanze stupefacenti, il denaro rinvenuto nella disponibilità dell’imputato può essere sottoposto a confisca solo nel caso in cui ricorrano le condizioni previste all’art. 240-bis cod. pen., applicabile in ragione del rinvio operato dall’art. 85-bis d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, chiarendosi in motivazione che in relazione a tale reato non è consentita la confisca del denaro nè ai sensi dell’art. 240 cod. pen., né ai sensi dell’art. 73, comma 7-bis, d.P.R. cit., applicabili invece all’ipotesi di cessione di sostanza stupefacente, non sussistendo il necessario nesso tra il denaro oggetto di ablazione e il reato di mera detenzione per cui è affermata la responsabilità (Sez. 4, n. 20130 del 19/04/2022)].

Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, gli Ermellini ritenevano come, versandosi nel reato di sola detenzione illecita di stupefacente – qualificata ai sensi dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90 -, non sussistevano a loro avviso i presupposti per ritenere la somma correlata al delitto per il quale si era proceduto, né per far valere la presunzione prevista dall’art. 73, comma 7-bis, d.P.R. n. 309/90.
Tal che se ne faceva conseguire l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla confisca della somma di denaro con dissequestro della stessa somma e restituzione di essa all’avente diritto.

Omessa dichiarazione, confisca per equivalente della casa della figlia

di Antonio Iorio

Per il reato di omessa dichiarazione commesso dall’imprenditore è legittimo il sequestro per equivalente dell’appartamento intestato alla figlia che non ha disponibilità economiche idonee e che non abita effettivamente nell’immobile ancorché vi abbia la residenza anagrafica. A fornire questo interessante principio è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 47911 depositata l'1 dicembre 2023.

La suocera invadente può essere causa di separazione

Sulla separazione dei coniugi un solo episodio di violenza è sufficiente per condurre all'addebito della stessa al marito, disinteressato dal punto affettivo alla moglie, costretta a sopportare una suocera invadente e controllante

Separazione dal marito anche per colpa della suocera
Addebito della separazione al marito anaffettivo
Sulla separazione pesa anche l'invadenza della suocera autoritaria
Separazione dal marito anche per colpa della suocera

Accordata la separazione alla moglie, che ha dato 5 figli al marito, che però non la ricambia con l'affetto e la comprensione di cui ha bisogno e che in un episodio, anche se isolato, la picchia in presenza del primogenito. Una crisi aggravata anche dalla presenza costante e controllante della suocera, che si intromette nella gestione dei nipoti e che, da quanto rivelano tate e collaboratrici, fa sentire la nuora ospite della sua villa, concessa in comodato al figlio per mettere su famiglia. Una separazione che costa cara al coniuge, visto che se lo stesso ha avuto dei problemi economici, è solo per colpa sua. Queste in sintesi le conclusioni del Tribunale di Teramo contenute nella sentenza.

Addebito della separazione al marito anaffettivo
Una donna si rivolge al Tribunale per chiedere la separazione con addebito al marito per violazione dei doveri coniugali di assistenza morale e per lesione della propria integrità fisica.

Chiede altresì l'assegnazione della casa di proprietà della suocera, l'affidamento condiviso dei figli con collocazione prevalente presso di sé, un assegno mensile per i 5 figli di 8.000 euro complessivi e di 20.000 per il proprio mantenimento.

La donna lamenta il disinteresse morale e sessuale del marito nei suoi confronti e dichiara di essere vittima di vessazioni da parte dello stesso, culminate, quando l'ha picchiata in presenza del figlio, intervenuto in sua difesa.

Da sempre esclusa dalla vita lavorativa del marito e ostacolata nello svolgimento di una sua attività esterna all'ambiente domestico, la donna fa presente di avere sempre subito la presenza autoritaria e invadente della suocera, che l'ha sempre trattata come un ospite della sua villa.

Il marito, costituitosi in giudizio, acconsente alla assegnazione della villa alla moglie fino alla scadenza del comodato concesso loro dalla sua famiglia di origine, ossia fino al 30 novembre 2017, il riconoscimento di un assegno mensile in favore dei figli di 1250 euro e di 750 euro per il mantenimento alla moglie, sostenendo che il tenore di vita goduto all'inizio del matrimonio è venuto meno a causa di debiti e problemi giudiziari.

Il Presidente, sentiti i coniugi, assegna la casa alla moglie, dispone l'affidamento congiunto dei figli con collocazione presso la madre e pone a carico del marito l'obbligo di corrispondere l'importo mensile di 1500 euro per i figli e di ulteriori 1500 euro per la moglie.

Sulla separazione pesa anche l'invadenza della suocera autoritaria
Il Tribunale, ritenendo fondata la domanda avanzata dalla moglie, pronuncia la separazione personale dei coniugi, addebitandola al marito in quanto "il grave episodio di violenza fisica è da solo sufficiente a fondare la responsabilità della crisi coniugale in capo al coniuge che ne è stato l'autore" come confermato dalla testimonianza del figlio, di anni 16 all'epoca dei fatti.

Il Tribunale conferma inoltre la versione della donna in relazione alla lamentata ingerenza della suocera autoritaria nel menage familiare, confermata dalle testimonianze rese in giudizio dalle collaboratrici domestiche e dalle tate. Dichiarazioni da cui è emersa la volontà dell'anziana donna di gestire la vita e le abitudini anche alimentari dei nipoti, di esercitare un continuo controllo, anche telefonico, sugli stessi e di far pesare alla nuora di vivere nelle villa di sua proprietà.

Dal punto di vista economico, dalle prove è emerso inoltre che il marito, oltre a svolgere una sua attività di impresa, è titolare di partecipazioni societarie in 13 società, mentre la moglie, di anni 47 è disoccupata.

Dalla valutazione comparativa delle rispettive situazioni dei coniugi il Tribunale dispone quindi l'assegnazione della casa coniugale alla moglie, conferma il mantenimento di 5000 euro al mese per i figli, a cui sommare le spese straordinarie, a totale carico del padre.

Alla moglie spetta invece un assegno mensile di 3000 euro, alla luce del suo stato di disoccupazione e della sua età (47 anni), a conferma di quanto deciso in sede di appello, dopo il reclamo della donna contro le decisioni del Presidente.

Decide il giudice tributario sull’accertamento del mancato riversamento dell’imposta di soggiorno

La condotta del gestore della struttura ricettiva che ometta di versare al Comune le somme riscosse a titolo di imposta di soggiorno “non integra più un illecito erariale e, pertanto, è sottratta alla giurisdizione della Corte dei conti, attesa la natura esclusivamente tributaria del rapporto intercorrente fra il gestore e l’ente locale impositore”. Diversamente operando, si violerebbe l'articolo 180, comma 3, del decreto legge n.34 del 2020.

Dalla Gazzetta del Sud del 18-10-2023:

Il prof. Pippo Rao, direttore generale della Scuola del Liberalismo presenta l'edizione 2023

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