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Studio neozelandese: dalle frequenze sismiche capiremo in anticipo le eruzioni vulcaniche

I risultati pubblicati dai ricercatori neozelandesi su Nature Communications dicono che nelle tre settimane precedenti e poi pochi giorni prima di un’eruzione, ci sono cambi di frequenza

di Fabio Albanese

Uno studio sui vulcani della Nuova Zelanda, e sulla possibile prevedibilità delle loro pericolose eruzioni, potrebbe essere d’aiuto anche per alcuni dei vulcani italiani, a partire dal Vesuvio e da Vulcano sull’isola omonima dell’arcipelago delle Eolie.
Lo studio, pubblicato su Nature Communications, è stato condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università neozelandese di Canterbury che stanno cercando di capire come la frequenza sismica può aiutare nel prevedere eruzioni e prevenire la perdita di vite umane. L’esigenza nasce dal fatto che quasi tutti i 12 vulcani neozelandesi sono, a differenza di vulcani attivi di casa nostra come l’Etna e Stromboli, «a condotto chiuso». Ciò rende più difficoltoso capire i segnali di un risveglio per potere allontanare per tempo i tanti escursionisti e visitatori che giornalmente sono attirati dalla bellezza e dalla potenza di questi vulcani. Di fatto, per questo tipo di vulcani non è possibile finora prevedere con un anticipo seppure minimo, anche solo di qualche ora, un’imminente eruzione.

L’esperienza di quanto accaduto nel 2019, la tragica eruzione del vulcano Whakaari nella quale morirono una trentina di persone e 18 furono ferite in modo più o meno grave, ha reso più urgente e importante l’incremento di studi sulla prevedibilità di questo tipo di eruzioni. «All’epoca ci furono polemiche perché si trattava di turisti che evidentemente stavano nel momento sbagliato nel posto sbagliato - spiega il primo ricercatore dell’Ingv di Catania, Marco Neri -. In quella occasione si è trattato di un'eruzione freatica, che avviene quando una considerevole massa d'acqua (in questo caso, acqua di mare poichè si tratta di un'isola) entra in contatto con un'altrettanto grande massa magmatica molto calda, dando luogo ad una violenta eruzione esplosiva».
Il quotidiano inglese The Guardian pubblica un’anticipazione dello studio, condotto dal ricercatore Alberto Ardid che ha esaminato i dati dei sismografi GeoNet che hanno preceduto 18 eruzioni di sei vulcani attivi sparsi per il mondo, compresi i tre neozelandesi Ruapehu, Tongariro e Whakaari. I dati sono diventati un algoritmo che dovrebbe servire a «riconoscere» anche da movimenti sismici impercettibili e con determinate sequenze, se nei condotti di quel vulcano c’è una risalita di magma che possa preludere a una eruzione.

«I sismometri usati per monitorare i terremoti - spiega Neri - sui vulcani vengono utilizzati anche per seguire il "tremore armonico", una vibrazione che deriva dalla "turbolenza" dei gas magmatici che si muovono verso la superficie: più il tremore è alto, più è probabile che avvenga un'eruzione. Noi sull’Etna lo usiamo da alcuni decenni con successo, poichè ci danno la possibilità di anticipare le intenzioni del vulcano con anticipi variabili da alcune ore a pochi giorni.

Ma l'Etna è un vulcano a condotto aperto, cioè possiede una sorta di "canna fumaria" che consente ai gas vulcanici di risalire con costanza nel condotto ed uscire formando il caratteristico pennacchio gassoso, visibile costantemente sulla cima del vulcano. I vulcani neozelandesi, invece, sono di altro tipo. Sono "andesitici", ovvero hanno magmi più viscosi dei basalti etnei, e generano eruzioni quasi sempre molto esplosive e violentissime. Ciò avviene anche perchè il loro condotto è spesso ostruito da un tappo di lava solidificata al loro interno, che il magma deve riuscire a rompere per eruttare in superficie».

I risultati pubblicati dai ricercatori neozelandesi su Nature Communications dicono che nelle tre settimane precedenti e poi pochi giorni prima di un’eruzione, ci sono cambi di frequenza simili in alcuni dei vulcani, movimenti che diventano sempre più lenti, il che suggerisce che si verifichi un blocco nella parte meno profonda del vulcano, come se si sia formato un sigillo o un coperchio che intrappola il gas caldo, crea pressione e talvolta innesca un'esplosione. «Questo modello ha iniziato a emergere, nella nostra esperienza, circa tre settimane prima dell'eruzione e raggiunge il picco circa da due a quattro giorni prima dell'evento - ha detto Ardid al Guardian -. Tuttavia, è importante sottolineare che abbiamo osservato questo meccanismo di sigillatura senza alcuna eruzione correlata».

Ma si tratta ancora di studi che hanno bisogno di ulteriori approfondimenti, anche se uno dei co-autori dello studio, David Dempsey, auspica che con il loro algoritmo possano raggiungere un livello di previsione dal 10% al 20% di una eruzione nelle 48 ore precedenti: «Questo sarebbe da considerare un livello molto, molto alto di certezza», dice Dempsey che poi osserva: «Un sistema rapido di allarme può salvare vite e evitare ferite gravi». Vale per i vulcani «tappati» della Nuova Zelanda come per quelli, a noi vicini, di Vulcano e Vesuvio.(lastampa.it)

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