di Marilena Macrina Maffei
È per me un vero piacere condividere con la comunità eoliana la notizia che un altro oggetto di cultura marinara è andato ad arricchire la significativa collezione dedicata alle tradizioni pescatorie delle isole Eolie, conservata in una delle più importanti strutture museografiche italiane: il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni di Roma. Museo che fa parte del Muciv (Museo delle Civiltà) del Ministero della Cultura.
La collezione è situata nella sala della Marineria dove vengono esposti manufatti della cultura del mare chiamati a rappresentare i sistemi, le pratiche e le tradizioni del nostro Paese e dove è anche collocata la maestosa gondola regale costruita a Venezia in occasione della visita della regina Margherita nella città lagunare nel 1882.
Sono particolarmente grata ad Andrea Viliani, direttore del Muciv, e a Francesco Aquilanti, funzionario del Museo, per avere reso possibile questo importante inserimento.
Si tratta di un retino, di dimensioni più grandi delle usuali, realizzato agli inizi degli anni Sessanta nell’isola di Lipari utilizzato in tutto l’arcipelago per la pesca della tartaruga. Un attrezzo rilevato nelle Eolie già fra il 1928 e il 1929 dal dialettologo Hans Coray, il quale lo trovò in uso durante le sue campagne di ricerca specificatamente per la pesca della tartaruga, come ricorda il glottologo Franco Fanciullo nel suo studio sul dialetto e la cultura materiale delle isole. Uno strumento per la pesca che oggi esprime una particolare potenza narrativa poiché evoca una realtà storico-sociale di un recente passato che la memoria collettiva non ha cancellato.
Nei mari insulari, infatti, la pesca della tartaruga si è praticata sino a tempi recenti, in definitiva fino a quando è entrata in vigore la legge che protegge tale specie animale. Per comprendere le ragioni di tale persistenza, occorre in primo luogo andare oltre ciò che oggi disturba fortemente la nostra sensibilità, legata a un modo diverso di concepire il rapporto fra uomini e animali e a una sempre maggiore considerazione etica degli esseri viventi. L’esercizio di questa pesca va infatti strettamente correlata al quadro drammatico della necessità e della sopravvivenza. Con le tartarughe si sfamavano le famiglie per settimane intere, mi è stato detto più volte nelle varie isole dell’arcipelago durante i miei rilevamenti, come ho riportato nel libro Donne di Mare. A tale motivazione si aggiungono le abitudini tradizionali: a memoria d’uomo la tartaruga si è sempre pescata e la sua carne faceva parte della cucina popolare.
Vorrei sottolineare che le donne, come gli uomini, uscivano in mare per catturare le tartarughe. Un anziano pescatore di Lipari ricorda: «partivamo da qua e andavamo per Panarea noi altri. E trovavamo delle donne nel mezzo passaggio, un miglio, due miglia fuori da Canneto che cercavano queste tartarughe».
Le donne delle isole, che hanno sempre cercato di fronteggiare il dramma quotidiano della sussistenza, si lanciavano al pari degli uomini in questa “avventura” marina, la cattura della tartaruga di fatto concorreva a sconfiggere la fame.
Attraverso questo strumento alieutico, chiamato in dialetto cuoppu, da me donato al Museo, viene veicolata una pagina della storiografia eoliana che non può essere dimenticata.