rpiemontepiccoladi Roberto Piemonte

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Il «tesoro» della Sicilia: 17,6 miliardi per chi sarà il futuro Governatore
Che domenica 5 novembre voti, si astenga nel segreto dell'urna o resti a casa, l'ultimo seme di speranza nella crescita che ogni siciliano, lattanti compresi, metterà nelle mani del futuro Governatore è di poco superiore a 3.491 euro. Quel gruzzoletto pro-capite, moltiplicato per gli oltre 5 milioni di residenti isolani, si trasforma infatti in un fiume di risorse: 17,6 miliardi.È questa la dote complessiva dell'ultimo ciclo settennale comunitario (2014-2020) di promozione e sostegno dello sviluppo socioeconomico che il futuro presidente regionale sarà chiamato, dopo 23 anni di vane attese, a mettere completamente a frutto.

Senza contare che dal 1994 al 2020, per il solo mondo produttivo (agricoltura esclusa) sono stati destinati oltre 30 miliardi .
L'ultima boccata è ossigeno puro in una regione dove, secondo l'elaborazione di Sicindustria su dati Bankitalia/Istat e nonostante i passi in avanti dell'ultima legislatura nella quale il bilancio regionale è stato riportato in carreggiata – anche se il debito nei confronti dello Stato è ancora di 5,3 miliardi – la situazione è sempre critica. Il tasso di disoccupazione a fine 2016 è del 22,1% (contro l'11,7% italiano) con punte superiori al 50% tra i giovani e il Pil pro capite è di 17.068 euro, circa i 2/3 del valore nazionale (26.500 euro). L'export è di poco superiore a sette miliardi, la gran parte dei quali (oltre il 60%) proviene dai prodotti chimici e petroliferi dei poli di Gela, Augusta e Milazzo. Se saltano quelli, salta il banco del reddito sociale.
Il volàno per la rinascita dell'isola o, quanto meno, per una prima sforbiciata al divario con il resto del Paese e dell'Europa, non passa, dunque, dalla quantità ma dalla qualità della spesa.

Qualità della spesa

Un concetto chiarissimo che è diventato un mantra per il presidente di Sicindustria, Giuseppe Catanzaro. «L'audacia e la qualità del Governatore – sintetizza Catanzaro – dovranno essere misurate sulla qualità della spesa che, finora, non ha dato i risultati sperati. Nel mondo la Sicilia ha un suo brand molto apprezzato che racchiude patrimonio storico monumentale, agroalimentare di eccellenza e turismo. Si tratta allora di gestirlo con una visione anche economica d'insieme: un'unica dorsale economica coordinata attraverso una strategia unica. Non è possibile che, finora, gli interventi siano stati parcellizzati tra quattro assessorati regionali, vale a dire attività produttive, agricoltura, turismo e beni culturali e altrettanti dipartimenti».
Un altro buco nell'acqua – per la storia, la cultura, la dignità e il decoro innanzitutto dei 4,6 milioni di elettori chiamati alle urne – non è ammesso.
I precedenti cicli, infatti, non hanno dato i frutti sperati. Non c'è bisogno di ricorrere a raffinate analisi, basta mettere in fila i raffronti tra il numero di occupati dalla fine del primo ciclo (1999) al 2015 e il numero di disoccupati. Il tasso di occupazione, dopo un periodo di risalita nel 2015 si è attestato al 40% (partiva dal 40,9%). Il tasso di disoccupazione, nello stesso periodo era al 24,5% per finire al 21,4 per cento.
«La frammentazione attuale delle competenze – aggiunge Antonello Biriaco, presidente di Assindustria Catania – non agevola la valorizzazione anche in chiave economica del brand Sicilia. Le imprese per continuare ad assolvere al loro ruolo, cioè creare benessere sociale, si confrontano in un contesto globale di industria 4.0. Chi al Governo o nel Parlamento non comprende la connessione causa-effetto ha una visione di breve-medio termine».

Effetto referendum

Bisogna forzare Catanzaro per portarlo su un terreno denso di incognite, che lega la qualità della spesa a due date e tre mondi apparentemente lontanissimi: le elezioni siciliane del 5 novembre che saranno precedute, il 22 ottobre, dal referendum consultivo per ampliare i margini di autonomia di Lombardia e Veneto. «Nessuno finora lo ha sottolineato abbastanza ma questo processo referendario – si limita a dire Catanzaro – rischia di esplodere nelle mani anche del futuro Governatore isolano, che sarà chiamato a sedersi con presidenti che, sul vento del consenso politico che può arrivare loro dal voto referendario, alimenteranno un confronto a partire dai criteri di distribuzione delle risorse interne disponibili».
Il primo tavolo sul quale sbattere i pugni, manco a dirlo, sarebbe proprio quello della Conferenza unificata Stato-Regioni in occasione delle proposte di riparto delle risorse finanziarie sui fondi strutturali. Per dare l'idea della posta in gioco sulla distribuzione, basti dire che gli 1,6 miliardi addizionali all'Italia per il periodo 2014-2020 sono andati per il 75,97% alle regioni meno sviluppate o in fase di transizione, Sicilia compresa.
Uno scenario tutt'altro che utopistico e al quale la Sicilia potrà rispondere solo con la forza del buon governo e della qualità della spesa. Del resto altre carte non ha, se non, messa alle strette come un pugile suonato, provare a fare cassa con le accise sui prodotti energetici e sui gas petroliferi liquefatti immessi in consumo nel territorio nazionale, anche a titolo di ristoro per il pregiudizio ambientale e sociale patito.

Nuovi rapporti con le municipalità

Qualità della spesa vuol dire – e il crinale per il neo Governatore diventa irto di insidie – mettere mano ai rapporti tra Governo, Regione e municipalità. Un esempio? Le risorse del Patto per il Sud che ammontano a quasi 5,7 miliardi (1,8 miliardi per le infrastrutture, 2,5 miliardi per l'ambiente, 965 milioni per lo sviluppo economico e le attività produttive, 267 milioni per turismo e Cultura 118 per sicurezza e legalità).
Nella concertazione istituzionale ingenti risorse vanno anche alle partecipate dei Comuni (a partire da Palermo). «Per quale motivo – spiega Biriaco – queste ex municipalizzate devono incassare dai cittadini e dalle imprese, che pagano i tributi locali, e contemporaneamente continuare a mungere altri soldi pubblici dalla fiscalità generale? Forse, per fare un esempio, A2a di Brescia ha avuto bisogno di ricorrere a soldi pubblici?».

Fiscalità di vantaggio

Qualità della spesa vuol dire avere anche i giusti strumenti a supporto. La fiscalità di vantaggio o fiscalità compensativa può costituire per la Sicilia un importante fattore di sviluppo, come strumento per l'attrazione di investimenti e per il sostegno della politica per le imprese. Il pallino fisso del mondo economico produttivo è l'elaborazione e il sostegno di politiche fiscali orientate allo sviluppo, sul modello di Paesi come l'Irlanda che in pochi anni, attraverso una efficace riduzione della pressione fiscale sulle imprese, è riuscita ad incrementare notevolmente la competitività del sistema produttivo e la capacità di attrarre investimenti, soprattutto dall'estero.
«A tal fine è necessario ricorrere a un uso strutturale della fiscalità di vantaggio – chiosa Catanzaro – attraverso la previsione di interventi selettivi, mirati all'ampliamento della base produttiva regionale. Si potrebbero, pertanto, rendere strutturali gli interventi già adottati con la legge regionale n.21 del 2003, che prevedeva l'esenzione quinquennale dall'imposta Irap per le imprese giovanili e femminili. Inoltre per incentivare lo sviluppo dell'economia siciliana si potrebbe riproporre l'esenzione dall'Irap, per le imprese già operanti in Sicilia, di quella parte di base imponibile che risulta incrementale rispetto a quella risultante dalla media dei tre esercizi precedenti».
In attesa della struttura, meglio accontentarsi della congiuntura. E così, nell'ultima manovra di bilancio presentata l'11 ottobre, l'assessore regionale all'Economia, il toscano Alessandro Baccei, ha presentato il taglio delle addizionali Irap e Irpef per 257 milioni tra 2018 e 2019. Ma non parlategli di manovra elettorale. «È un risultato straordinario – sostiene Baccei – frutto del lavoro di risanamento compiuto; si tratta di un risparmio concreto per i cittadini siciliani, aziende e famiglie. Non era mai successo prima».

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La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha deciso di impugnare la legge regionale siciliana n. 17 dell'11 agosto scorso, che ripristina l'elezione diretta del presidente del Libero Consorzio Comunale e del Consiglio del Libero Consorzio comunale, nonché del Sindaco metropolitano e del Consiglio metropolitano.
La legge regionale n. 17/2017 è in contrasto con la legge Delrio, qualificata come «grande riforma economica e sociale», i cui principi, secondo il Governo nazionale, costituirebbero limite all'esercizio della competenza legislativa esclusiva che impone alle Regioni speciali l'adeguamento della propria legislazione a quella statale nella materia.
Di contro c'è l'articolo 15 dello Statuto regionale siciliano, avente forza di norma costituzionale, che attribuisce alla Regione competenza esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali. Quello che appare in qualche modo paradossale è che ad essere incostituzionale sarebbe la norma che prevede la scelta dei vertici delle ex Province tramite suffragio universale.

L'impossibilità di adeguare a breve la legge regionale alla legge Delrio
Nel recente passato, sulla stessa questione, l'Assemblea Regionale Siciliana ha fatto dei passi indietro, accogliendo i suggerimenti che provenivano da Palazzo Chigi e rimodificando la normativa regionale in base ai desideri di Roma.
Stavolta l'impugnativa arriva mentre l'attività legislativa dell'Ars è sospesa in attesa delle elezioni regionali del prossimo 5 novembre.
Il prossimo Parlamento siciliano, tra elezioni e insediamento effettivo, inizierà ad operare effettivamente a dicembre, mentre le elezioni per le ex Province sono previste a febbraio.

I rilievi di incostituzionalità
I rilievi d'incostituzionalità attengono agli organi di governo ed al loro sistema di elezione.
Inoltre non è gradita la previsione che attribuisce un'indennità di carica al presidente del libero consorzio ed al sindaco metropolitano, pari a quella attribuita "al sindaco del comune capoluogo del relativo Libero consorzio o della relativa Città metropolitana", laddove nel resto d'Italia l'incarico è gratuito.
I consiglieri dell'ente di area vasta, invece, avranno diritto solo ai rimborsi previsti per gli amministratori locali.

L'elezione a suffragio universale per i presidenti delle ex province siciliane
Secondo la nuova normativa regionale, il presidente del Libero Consorzio ed il sindaco metropolitano saranno eletti a suffragio universale e diretto dai cittadini del territorio della ex provincia.
Il consiglio del Libero Consorzio sarà composto dal presidente eletto direttamente e da 18 (per gli enti fino a 300.000 abitanti) o 25 (per gli enti con popolazione tra 300.000 e 600.000 abitanti) componenti, eletti anch'essi a suffragio universale.
Il consiglio metropolitano, invece, sarà formato dal sindaco metropolitano e da 30 (per gli enti con popolazione fino a 800.000 abitanti) o 36 (per gli enti con popolazione superiore a 800.000 abitanti) componenti, anch'essi eletti a suffragio universale.

Il quesito posto alla Corte costituzionale
La Corte Costituzionale dovrà decidere se l'Assemblea Regionale Siciliana si è mossa nei limiti dell'articolo 15 dello Statuto speciale siciliano che attribuisce alla Regione competenza esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali oppure avrebbe dovuto adeguarsi ai principi della legge Delrio, giacché grande riforma economica e sociale.
La Lr n. 17/2017 si discosta nettamente dalla legge Delrio, che prevede elezioni di secondo livello per le Province e la carica di Sindaco metropolitano per il primo cittadino del centro capoluogo.
La Consulta dovrà stabilire se la consultazione popolare inficia i principi della Legge n. 56/2014 oppure è solo una modalità differente di scegliere i vertici dell'ente di area vasta, nell'ambito di una riforma di questi.

Il commissariamento degli enti di area vasta
Intanto, comunque, gli enti di area vasta siciliani, nelle more delle elezioni per la scelta dei loro vertici, dovranno essere affidati alle cure di commissari straordinari regionali.
L'articolo 7, Lr n. 17/2017 ha, infatti, modificato l'articolo 51, Lr n. 15/2015. Nelle more delle elezioni per le ex province, le funzioni degli enti di area vasta dovranno essere svolte da commissari straordinari nominati dalla Regione. Per la decadenza degli attuali sindaci metropolitani (i primi cittadini delle città di Palermo, Catania e Messina) si è espresso anche l'avvocato generale della Regione.

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Il servizio postale universale deve continuare a essere fornito nella «misura massima, cioè deve almeno comprendere consegna e ritiro per cinque giorni a settimana per ogni cittadino europeo». Inoltre, al fine di soddisfare l'obbligo di servizio universale è importante mantenere ben funzionanti le reti postali, con un numero sufficiente di punti di accesso nelle regioni rurali, remote o scarsamente popolate.

La decisione del Parlamento europeo
Questo il verdetto contenuto nella risoluzione che il Parlamento europeo ha approvato nei giorni scorsi in merito al servizio postale universale.
Sono 541 gli europarlamentari hanno votato contro le riduzioni dei servizi postali, sia legati alla distribuzione della corrispondenza sia ai presidi territoriali.
Inoltre nella risoluzione si sottolinea che «i prezzi nell'ambito dell'obbligo di servizio universale siano accessibili e garantiscano a tutti gli utenti l'accesso ai servizi forniti».

La reazione dell'Uncem
La decisione di Starsburgo ha ottenuto il plauso dell'Uncem che ha sempre sostenuto la non ammissibilità di disparità di trattamento tra aree diverse, in base alla densità di popolazione e alle conformazioni del territorio. «Il testo votato a Strasburgo - commenta l'on. Enrico Borghi, presidente nazionale Uncem - è chiarissimo. Negli ultimi cinque anni abbiamo fatto una serie di richieste e proposte a Poste Italiane, a partire dalla nascita di sportelli multiservizio, più vicini alle esigenze delle comunità e degli Enti locali. Alla luce di quanto scritto dal Parlamento Ue ridefiniremo il dialogo con Poste al tavolo nazionale nato dalla Conferenza unificata per volontà del Ministro Costa».

Il quadro della situazione
Il risultato è un'immagine dei conti territoriali molto più cruda, ma anche più veritiera, rispetto a quelle che in passato mantenevano in bilancio entrate teoriche utilizzate però per coprire spese reali.
Più i vecchi conti sono stati gonfiati da entrate previste ma non riscosse, e più il cambio di rotta si è rivelato "costoso", e in Sicilia questo fenomeno ha raggiunto la massima intensità: lo stesso presidente delle sezioni riunite della Corte dei conti siciliana Maurizio Graffeo parla di «pulizia epocale del bilancio. Il problema sta nel futuro. O si tiene la barra dritta o non si va avanti».
Come in Piemonte, i buchi aperti nel passato cominciano a pagarsi ora, e promettono di accompagnare la gestione della regione per molto tempo anche perché, vista la mala parata, le norme nazionali hanno concesso 30 anni di tempo per ripianare i disavanzi straordinari prodotti dalla revisione dei bilanci locali imposta dalla riforma dei conti. I tempi lunghi evitano il dissesto, che in molti casi sarebbero stati resi prodotti dal peso di rate di ammortamento inevitabilmente enormi per seguire il calendario ordinario, ma ogni euro destinato al ripiano è un euro tolto alle funzioni istituzionali della regione, dagli investimenti ai sostegni al welfare o alle politiche di sviluppo. Sotto quest'ultimo profilo, poi, i magistrati lanciano un nuovo allarme sul fatto che la Sicilia è riuscita a certificare la spesa solo del 62% dei fondi Ue della programmazione 2007-2013, collocandosi all'ultimo posto fra i territori dell'Obiettivo convergenza.

La via d'uscita
La Corte riconosce l'impegno realizzato dalla Regione nell'ultimo anno per contenere la spesa e per tenere insieme i conti, ma la scialuppa decisiva per i conti siciliani arriva dal decreto enti locali ora in discussione alla Camera, che traduce l'accordo fra regione e governo sulla compartecipazione Irpef. Come emerge dai documenti depositati in Parlamento, l'accordo aumenta la compartecipazione Irpef dell'Isola di 500 milioni nel 2016, ma la somma sale a 1,4 miliardi nel 2017 ed a 1,685 nel 2018. In cambio, la Regione deve assicurare dal prossimo anno un taglio del 3% della spesa corrente, da realizzare anche facendo sbarcare in Sicilia le riforme nazionali su dirigenti e società pubbliche in lavorazione con i decreti attuativi della riforma Madia.

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Raccolta differenziata, emanate le linee guida del ministero per i Comuni

Emanate le linee guida del ministero dell'Ambiente per uniformare su tutto il territorio nazionale indirizzi, criteri e metodi di calcolo della percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti urbani e assimilati in ogni Comune, per verificare il raggiungimento degli obiettivi prefissati dal Codice dell'ambiente e dalle direttive europee. Le linee guida forniscono alle Regioni anche un complesso di raccomandazioni tecniche omogenee, destinate a rendere confrontabili i dati sulla differenziata, tenendo conto dei diversi contesti territoriali.

Il decreto
Pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 147 del 24 giugno 2016, il decreto del ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio e del mare 26 maggio 2016 recante «Linee guida per il calcolo della percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti urbani»,adottato ai sensi dell'articolo 205, comma 3-quater, del Codice dell'ambiente (Dlgs 152/2006), per il raggiungimento degli obiettivi prefissati dalla direttiva rifiuti 2008/98/Ce e dal Codice dell'ambiente stesso.
L'articolo 205 del Dlgs 152/2006 dispone, infatti, che la misura del tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi urbani sia modulata in base alla quota percentuale di superamento del livello di raccolta differenziata raggiunto dall'ente locale nell'anno precedente, determinato sulla scorta del metodo standard adottato dalle Regioni per il calcolo e la verifica delle percentuali di raccolta differenziata raggiunta da ciascun Comune, in base ai criteri delle Linee guida ministeriali.

La raccolta differenziata
Nelle intenzioni del legislatore la raccolta differenziata prevista dal Codice ambientale cioè «la raccolta in cui un flusso di rifiuti è tenuto separatamente in base al tipo ed alla natura al fine di facilitarne il trattamento specifico» (articolo 183, comma 1, lettera p)), deve diventare sempre più un'opportunità economica per la crescita del Paese, quale strumento dell'economia circolare che punta sulla valorizzazione dei rifiuti e sul risparmio di materie prime, propedeutico alle operazioni di preparazione per il riutilizzo, riciclaggio e recupero dei rifiuti, con benefici impatti anche sull'ambiente e lo sviluppo sostenibile.

Obiettivi di raccolta
Le disposizioni europee, trasfuse nell'articolo 205 del Dlgs 152/2006, prescrivono il raggiungimento, in ogni ambito territoriale ottimale individuato dalle singole Regioni competenti, ovvero in ogni Comune interessato, di quote di raccolta differenziata almeno al 35% entro il 31 dicembre 2006, al 45% entro il 31 dicembre 2008, al 65% entro il 31 dicembre 2012. La direttiva quadro sui rifiuti 2008/98/CE, recepita nel Codice dell'ambiente con il Dlgs 205/2010, ha previsto che la raccolta differenziata dovesse riguardare carta, metalli, plastica, vetro, e, ove possibile, legno, per far sì che, entro il 2020, la preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio di rifiuti provenienti dai nuclei domestici fossero aumentatati complessivamente almeno al 50% in termini di peso, promuovendo il riciclaggio di «alta qualità».

Metodo standard
Spetta quindi alle Regioni, avvalendosi del supporto tecnico-scientifico del gestore del catasto regionale dei rifiuti o di altro organismo pubblico attraverso una deliberazione, la definizione del cosiddetto metodo standard per calcolare e verificare le percentuali di raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani e assimilati raggiunte in ogni Comune. Tale metodo dovrà essere definito sulla base dei criteri metodologici previsti dall'allegato al decreto ministeriale 26 maggio 2016 appena pubblicato in Gu, che individua i formati, i termini e le modalità di rilevamento e trasmissione dei dati che i Comuni sono tenuti a comunicare ai fini della certificazione della percentuale di raccolta raggiunta, nonché le modalità di eventuale compensazione o di conguaglio dei versamenti effettuati in rapporto alle percentuali da applicare. Non è prevista l'applicazione di fattori di correzione delle percentuali di raccolta differenziata di tipo demografico, in quanto viene calcolata come «rapporto tra quantitativi di rifiuti raccolti e quantitativi totali di rifiuti urbani prodotti».

Indirizzi metodologici
Per il calcolo dei quantitativi dei rifiuti prodotti e della percentuale di quelli avviati alla raccolta differenziata, secondo l'allegato tecnico al Dm 26 maggio 2016, si dovrà tenere conto dei rifiuti urbani classificati in base alle definizioni e ai codici Cer previsti dal Codice dell'ambiente, raccolti in modo separato rispetto agli altri rifiuti urbani e raggruppati in frazioni, prendendo in particolare in considerazione vetro, carta, plastica, legno, metalli, nonché i quantitativi di rifiuti di imballaggio o di altre tipologie di rifiuti, anche ingombranti, costituiti da tali materiali raccolti separatamente e avviati alla preparazione per il riutilizzo, al riciclaggio o prioritariamente al recupero di materia.
Nel calcolo dovranno, inoltre, essere ricomprese le frazioni di raccolta multi-materiale, derivante dalla raccolta combinata di più frazioni merceologiche in un unico contenitore, nonché i rifiuti ingombranti detti «misti a recupero», raccolti separatamente dai rifiuti indifferenziati e inviati a impianti di trattamento finalizzati al recupero, oltre alla frazione organica umida e verde proveniente dalla manutenzione di giardini e parchi, ai rifiuti non pericolosi omogenei derivati da raccolta selettiva, al fine di garantire una corretta e separata gestione rispetto al rifiuto indifferenziato.

Altri rifiuti
Tra i quantitativi presi a riferimento per il calcolo della percentuale, il decreto ricomprende anche i rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee), avviati a trattamento adeguato, nonché i rifiuti di origine tessile, quali abiti, coperte, scarpe, tovaglie, asciugamani e gli imballaggi tessili, oltre ai rifiuti da spazzamento stradale a recupero raccolti separatamente dai rifiuti indifferenziati e inviati a impianti di trattamento finalizzati al recupero. Infine, il decreto prevede come tipologie che possono essere conferite al centro di raccolta comunale «altre tipologie di rifiuti», purché raccolte separatamente.

Rifiuti indifferenziati
Rientrano, in ultimo, nell'ammontare dei rifiuti urbani indifferenziati prodotti, quelli propriamente definiti rifiuti urbani non differenziati classificati con codice «Cer 200301», quelli ingombranti e quelli derivanti da spazzamento stradale avviati a smaltimento; sono considerati, invece, «frazioni neutre» i rifiuti derivanti dalla pulizia di spiagge marittime e lacuali e rive dei corsi d'acqua in quanto, se calcolati, penalizzerebbero i Comuni con particolare collocazione geografica, oltre ai rifiuti cimiteriali.

---In 525 Comuni la raccolta differenziata supera il 65% e si producono meno di 75 chilogrammi annui per abitante di rifiuto secco indifferenziato. Sono i Comuni «rifiuti free», vale a dire quelli che quelli oltre a essere campioni del riuso hanno deciso di puntare sulla riduzione del residuo non riciclabile da avviare a smaltimento. La geografia italiana dei territori liberi da rifiuti, però, riproduce i soliti squilibri. Se 413 di quei Comuni sono al Nord, infatti, solo 87 si trovano al Sud e 25 al Centro.
Sono dati scritti nel rapporto legato al XXIII premio nazionale Comuni ricicloni, presentato a Roma nel terzo e ultimo giorno della convention organizzata da Legambiente sull'economia circolare. Comuni ricicloni 2016 è realizzato da Legambiente in collaborazione con Anci, Conai, Utilitalia, Fise Assoambiente, CiAl, Comieco, CoRePla, CoReVe, Ricrea Rilegno, Centro di Coordinamento RAEE, Consorzio Italiano Compostatori e Assobioplastiche.

I dati. Solo Veneto (35%), Friuli-Venezia Giulia (29%), Trentino-Alto Adige (17%) e Campania (9%) superano la media nazionale del 7% di Comuni rifiuti free rispetto al totale (tre milioni di abitanti coinvolti), ma il dato è molto positivo se si considera che l'anno scorso le amministrazioni virtuose erano 356. Mancano all'appello solo Valle d'Aosta, Umbria, Puglia e Sicilia dove non ci sono enti con alta percentuale di differenziata e bassa produzione di rifiuto secco residuo. I Comuni sono stati premiati Regione per Regione e inoltre sono stati assegnati dei riconoscimenti speciali riferiti al genere di materiale riciclato, come carta, vetro, plastica a altri.
I buoni risultati sono stati ottenuti in maniera differente, ma i fattori determinanti sembrano essere tre: responsabilizzare i cittadini con la raccolta domiciliare, comunicare efficacemente e attuare politiche tariffarie premianti (e puntuali) per chi segue le regole.
Altro dato da segnalare è che tutti i Comuni rifiuti free fanno parte di un consorzio o di una comunità montana. A guidare la classifica dei consorzi al di sopra dei 100mila abitanti è il Consiglio di bacino Priula (Tv) che può vantare per i suoi 556mila abitanti quasi l'83% di differenziata a fronte di poco più di 50 kg/abitante/anno di secco residuo. Tra quelli al di sotto dei 100mila abitanti si distingue invece Amnu, in provincia di Trento, con quasi 43 kg/abitante/anno. Va detto, inoltre, che gran parte dei consorzi si trovano in Triveneto.

Le proposte. Per liberare l'Italia dall'emergenza rifiuti, Legambiente rilancia sei delle dieci proposte contenute nel manifesto rifiuti free insiste sull'importanza di introdurre l'obbligo di tariffazione puntuale su tutto il territorio nazionale:
1) utilizzare i proventi dell'ecotassa per politiche di prevenzione, riuso e riciclo;
2) premiare i Comuni virtuosi e le popolazioni con sistema di tariffazione;
3) eliminare gli incentivi per il recupero energetico dai rifiuti;
4) completare la rete impiantistica italiana per il riciclaggio e il riuso dei rifiuti con gli impianti anaerobici e aerobici per trattare l'organico, quelli di riciclo di tutte le filiere e frazioni nelle Regioni ancora sprovviste, i siti produttivi per la preparazione per il riutilizzo e tutte le innovazioni tecnologiche che sono in grado di recuperare materia dai rifiuti considerati fino a ieri non riciclabili;
5) lotta allo spreco e prevenzione della produzione di rifiuti;
6) stop a qualsiasi commissariamento per l'emergenza rifiuti.

Il parere del ministero. «Quella dei Comuni ricicloni e soprattutto dei Comuni rifiuti free è una rivoluzione e una riforma anti-spreco che fa bene al Paese, perché dimostra che l'economia circolare è già in parte in atto». È il pensiero del sottosegretario all'Ambiente, Silvia Velo, intervenuta alla convention di Legambiente.
«Per realizzare l'economia circolare – ha detto ancora la Velo - non bastano dichiarazioni di intenti e auspici strategici, così come non basta alzare i target di riciclaggio all'interno delle nuove direttive: bisogna, invece, individuare strumenti idonei per orientare il mercato dei produttori e dei consumatori verso prodotti riciclati. Occorre inoltre - ha continuato Velo - rafforzare il pacchetto economia circolare nella parte sugli incentivi, i finanziamenti e la tassazione a partire dal potenziamento dell'istituto della Responsabilità estesa del produttore. Infine a livello nazionale, con il collegato ambientale, il ministero dell'Ambiente ha già individuato le azioni da attivare tra cui l'applicazione dei criteri minimi ambientali negli appalti pubblici per le forniture di appalti e servizi e la definizione di punteggi premianti per l'utilizzo dei materiali di scarto nell'ambito di accordi e contratti stipulati dal Mise che prevedano l'erogazione di incentivi in favore di attività imprenditoriali di produzione di beni derivanti da materiali riciclati o dal recupero degli scarti provenienti dal disassemblaggio di prodotti complessi».

L'INTERVENTO.

di Aldo Natoli

Sulla raccolta differenziata. Ma se ancora a Lipari non vengono consegnati i sacchetti  e collocati gli appositi cestini di quale raccolta differenziata parliamo? Nel centro commerciale di Milazzo per coloro che consegnano le bottiglie di plastica vuote viene addirittura consegnato un buono spesa!

Nicotra (Anci): i numeri veri dei conti comunali fra tagli e tasse («statali») sulla casa

Sempre più spesso, anche su testate nazionali, si dà evidenza di dati e comparazioni, in tema di finanza locale, che meritano una precisa puntualizzazione. Talvolta non si tiene conto di importanti cambi di regime normativo. Al riguardo, il noto decreto «Salva Italia» del dicembre 2011 ha aumentato la pressione fiscale sulla casa a tutto e solo vantaggio delle casse statali.

Un lungo periodo di tagli
Il periodo 2010-2015, ad esempio, è stato caratterizzato da un ingente taglio di risorse subito dai Comuni e da uno rivolgimento dei tributi locali.
Si è iniziato con il decreto dell'estate del 2010 che, in piena enfasi da federalismo fiscale, ha inferto un colpo esiziale alla sua stessa attuazione, operando un ingente taglio alle risorse comunali di 2 miliardi e mezzo, assolutamente inaudito.
Poi, nell'incalzare della gravissima crisi finanziaria di fine 2011, il Governo ha deciso di introdurre nel 2012 l'Imu, estesa anche alla prima casa. E con quella manovra poderosa, non solo si è reintrodotta la tassazione sulla prima casa ma sono stati aumentati anche i coefficienti su tutti gli immobili, con un guadagno necessario a favore dello Stato. Quella operazione è stata a saldo zero per i Comuni ma a saldo positivo per le casse erariali, manovra richiesta, come sappiamo, dall'Europa.

Le perdite dei Comuni
Un cospicua parte degli aumenti di prelievo locale – in questi giorni, abbiamo letto i dati relativi ad alcune delle città maggiori dove si vota nel 2016 – deriva dunque da un'imposta statale sugli immobili "travestita" da nuovo pilastro della finanza locale:
• passando dall'Ici all'Imu aumentano i moltiplicatori e l'aliquota di base, con un aumento interamente "compensato" dallo Stato con un prelievo/taglio sui trasferimenti statali ai Comuni, di oltre 3 miliardi di euro;
• l'Imu concede maggiori margini di aumento delle aliquote? Vero. E, infatti nel periodo 2011-2015 lo Stato taglia di ulteriori 9 miliardi i trasferimenti residui (ormai azzerati) e impone criteri più restrittivi al patto di stabilità, per 3,5 miliardi.
Complessivamente i Comuni italiani hanno perso 3 miliardi di euro nel passaggio Ici-Imu-Tasi-abolizione dei trasferimenti e, peraltro Anci ha vinto un contenzioso con il Mef, dove il Consiglio di Stato ha stabilito che i conteggi di stima nel passaggio Ici/Imu sono stati errati.
Lo Stato non mette più un euro dei 15 miliardi di trasferimenti del 2010 e, fatti salvi i ristori dei gettiti aboliti nel 2016, i Comuni dal 2015 finanziano loro direttamente lo Stato per 340 milioni all'anno. In conclusione, gran parte del preteso aumento delle tasse locali degli ultimi anni, è andato in realtà allo Stato sia come nuove entrate che come tagli ai Comuni.
In questo quadro, i Comuni hanno assistito a continui cambi di politica sull'abitazione principale, con i conseguenti spostamenti obbligati di tassazione, prima a carico dell'abitazione principale (Imu 2012), poi parzialmente sulle seconde case e sugli immobili commerciali, avvenuti in seguito alla Tasi nel 2014-15.

Conti sotto controllo
È bene però dire che nello stesso periodo è anche successo questo: si è ridotta la spesa corrente; la spesa di personale è scesa di oltre il 10%, anche per effetto di vincoli specifici stabiliti da leggi contraddittorie, con una situazione attuale di grave criticità a garantire alcuni servizi e competenze essenziali; la spesa in conto capitale fortemente contratta negli anni considerati a causa dei vincoli del Patto di stabilità finalmente ha ripreso a crescere (+16% nel 2015), in corrispondenza al progressivo abbandono delle regole di patto - traguardo realizzato grazie alla battaglia dell'Anci - e allo sblocco degli avanzi forzosi di bilancio accumulati nel tempo, che costituiscono uno dei più rilevanti contributi alla crescita di cui il Paese può disporre; i conti dei Comuni sono sotto controllo attraverso una riforma della contabilità molto incisiva, cui i Comuni non si sono sottratti, nonostante le difficoltà che comporta e come spesso è accaduto in Italia sono i sindaci ad aver accettato questa nuova sfida.
Anche nelle grandi città le stesse dinamiche hanno agito in profondità. Il confronto con il 2010 risulta falsato se consideriamo inoltre, che l'abitazione principale nel 2010 era esclusa per legge dai tributi immobiliari, oltre a ciò che abbiamo già suesposto.
Sono processi più complessi da spiegare, ma spetta a tutti noi e al mondo dell'informazione fornire ai cittadini e all'opinione pubblica dati che tengano conto dei percorsi reali, imputando correttamente le responsabilità ed evitando raffigurazioni sommarie.

Il cambio di rotta
In questa vicenda lo Stato deve assumere decisioni certo difficili e la testimonianza è data anche dal successivo e continuo balletto sulle tasse sulla casa; una verità è certa, i Comuni alla fine della storia hanno solo subito nuovi tagli, in un contesto peraltro di trasferimento di nuove competenze e oneri. Solo il 2016 è l'anno senza tagli e deve continuare così, anzitutto il nostro impegno è affinché i Comuni recuperino entrate per migliorare i servizi ai cittadini, e poi c'è tanto da fare per sostenere lo sviluppo del Paese. Siamo lontani dal poter esercitare una autonomia sana e responsabile pienamente conforme alla nostra Costituzione.
I sindaci non mollano e se qualche volta arretrano, questo avviene per forza maggiore, e quando ciò accade arretra anche il Paese, è bene che chi decide e sceglie ne sia sempre consapevole.

(*) Segretario generale Anci

---Il decreto di prossima pubblicazione in Gazzetta Ufficiale firmato lunedì posticipa il termine in scadenza il 31 marzo

Con un comunicato pubblicato sul sito del Dipartimento per gli Affari interni e territoriali del Ministero dell'Interno è stata annunciata la firma, il 16 marzo scorso, del decreto ministeriale che differisce ancora, dal 31 marzo al 31 maggio 2015, il termine di approvazione da parte di Comuni, Città metropolitane e Province dei bilanci di previsione per l'esercizio finanziario 2015.

Il provvedimento è stato adottato ai sensi art. 151, comma 1 del DLgs. 267/2000 (TUEL) d'intesa con il Ministro dell'Economia e delle finanze. Tale norma dispone, infatti, che gli enti locali deliberino entro il 31 dicembre il bilancio di previsione per l'anno successivo, osservando i principi di unità, annualità, universalità ed integrità, veridicità, pareggio finanziario e pubblicità. Tale termine, tuttavia, può essere differito con decreto del Ministro dell'Interno, d'intesa con il MEF, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, in presenza di motivate esigenze.

Il decreto del 16 marzo 2015 ha considerato che i Comuni, in sede di predisposizione dei bilanci di previsione dell'anno 2015, non dispongono ancora in maniera completa di dati certi, sia in ordine alle risorse finanziarie disponibili a valere sul fondo di solidarietà comunale 2015, che per la ridefinizione degli obiettivi del patto di stabilità interno 2015. Inoltre, il 9 marzo scorso, l'Unione delle Province d'Italia (UPI) aveva richiesto il differimento del termine del 31 marzo per tutti gli enti locali. Per questi motivi è stata disposta la proroga.

Il parere della Conferenza Stato-città e autonomie locali era arrivato il 12 marzo scorso. In quell'occasione, il sindaco di Catania e presidente del Consiglio nazionale dell'ANCI Enzo Bianco, auspicando che quello fosse l'ultimo rinvio, aveva ribadito la necessità "di varare al più presto un decreto Enti locali per risolvere le questioni di finanza locale che ci impediscono l'approvazione dei bilanci nei tempi stabiliti dalla legge. I primi a soffrire di questo rinvio siamo noi, per questo chiediamo di risolvere le questioni ancora aperte''.

È il secondo differimento

Si ricorda, infatti, che questo è il secondo differimento. Il decreto del 24 dicembre 2014 aveva posticipato il termine per l'approvazione del bilancio di previsione del 2015 da parte degli enti locali dal 31 dicembre 2014 al 31 marzo 2015.
Quella della necessità dei rinvii non è certo una novità se si considera che, per quanto riguarda i bilanci di previsione del 2014 da parte degli enti locali, i rinvii sono stati quattro: il decreto del 19 dicembre 2013 ha posticipato la scadenza dal 31 dicembre 2013 al 28 febbraio 2014; il decreto 13 febbraio 2014 ha ancora rimandato il termine al 30 aprile 2014; il decreto 29 aprile 2014 ha posto il limite del 31 luglio 2014 e, infine, il decreto 18 luglio 2014 aveva ulteriormente prorogato al 30 settembre il termine della deliberazione.

Il decreto 16 marzo 2015, dopo la pubblicazione sul sito del Ministero dell'Interno è stato ora inviato alla Gazzetta Ufficiale.

--I verbali del Consiglio di istituto Lipari 1 saranno pubblicati sul sito istituzionale della scuola. Si può già
prendere visione del primo.

Per la visione cliccare nel link che segue:
http://www.iclipari1.gov.it/organi-collegiali/

ORDINE DEL GIORNO DELLA COMMISSIONE PESCA DEL PARLAMENTO EUROPEO DEL 16.10.2014

Argomenti importanti quelli che saranno trattati alla riunione di giovedì prossimo a Bruxelles:

- 5. Obbligo di sbarco;

- 6. Divieto di pesca con reti da posta;

- 7. Stato degli stock di "spigola" e misure gestorie in ambito UE;

- 8. Disposizioni per la pesca in zone di applicazione degli accordi CGPM.

- 9. Inclusione dei marittimi nel campo di applicazione delle vigenti direttive UE in materia di diritto del lavoro.

Nei ministeri, nei Comuni, nelle Regioni e nella Sanità dilaga un esercito di alti dirigenti che guadagnano in media molto più dei loro colleghi europei. Per loro, nessuna spending revie.

L’'unica certezza è che sono una vera armata, che avanza nella nebbia sopravvivendo a qualunque istanza di riforma o modernizzazione. I ranghi dei dirigenti della pubblica amministrazione italiana sono colossali. Sfuggono ai censimenti: le ultime stime mostrano una vera moltitudine, con poco meno di 200 mila tra superburocrati e quadri di seconda fila mantenuti dai contribuenti.
Una coda sterminata di poltrone e talvolta poltronissime, che si stende lungo l’intera penisola. Impossibile capire quanto guadagnino, perché resistono anche alle richieste ufficiali. Di sicuro, le figure al vertice hanno paghe di gran lunga superiori ai loro parigrado europei. Uno studio internazionale li ha indicati come i meglio retribuiti al mondo, spiazzando la competizione dei colleghi di qualunque nazione. Il costo totale è stratosferico: va da un minimo di 15 miliardi di euro l’anno fino a una stima di ben venti.
E inutile cercare parametri di merito e di produttività: ogni anno dichiarano di avere raggiunto gli obiettivi, anche se la percezione della loro efficienza è decisamente bassa. Sì, l’Italia è piena di dirigenti, uno status che quasi sempre dura tutta la vita, mentre l’efficienza dell’amministrazione di Stato, Regioni, Province e Comuni resta sotto gli occhi di tutti e ci allontana sempre più dall’Europa.
NOME                                                   CARICA                                   RETRIBUZIONE LORDA (DATI IN EURO)

 

Gaetano Silvestri                        Presidente Corte Costituzionale                                545.286

 

Ugo Zampetti                               Segretario generale Camera                                      478.149

 

Giuliano Amato                           Giudice costituzionale                                                   454.405

 

Aurelio Speziale                          Vice segretario gen. Camera                                      358.642

 

Guido Letta (cugino di Enrico)  Vice segretario gen. Camera                                      358.642

 

Daniele Franco                             Ragioniere generale Stato                                           303.353

 

Attilio Befera                                 Direttore Agenzia Entrate                                             302.937

 

Mauro Nori                                     Direttore generale Inps                                                302.937

 

Marcello Cardani                          Presidente Agcom                                                        302.937

 

Alessandro Pansa                       Direttore Dipart. Ps Min. Interno                                 301.344

 

Giorgio Clemente                          Pres. Aggiunto Corte dei Conti                                  301.320

 

Michele Valensise                         Segretario generale Farnesina                                301.320

 

Luciana Lamorgese                      Capo gabinetto Mininterno                                        301.320

 

Salvatore Nottola                           Procuratore gen. Corte dei Conti                              301.320

 

Franco Gabrielli                             Capo Protezione civile                                                 298.071

 

Pietro Bordoni                                Presidente Autorità Energia                                       293.656

 

Vincenzo La Via                              Direttore generale Tesoro                                         293.600

 

Antonio Perrucci                            Vice Segr.Gen. Agcom                                                293.600

 

 

 

Un’elaborazione della Cisl-Fp, basata sul dossier della Corte dei Conti del 2013 sul costo del lavoro pubblico, arriva a contare 168 mila dirigenti e una spesa lorda per le loro retribuzioni di quasi 15 miliardi l’anno. Ma il confronto con un altro rapporto – realizzato dal professore Roberto Perotti per Lavoce.info   – evidenzia una serie di lacune: dai 16 mila ufficiali delle forze armate ai 3987 dirigenti dei corpi di polizia, fino ai 9754 magistrati. Figure che, per ruolo e reddito, sicuramente vanno considerate nel novero della dirigenza. Integrando i rilevamenti, si arriva a quasi 200 mila. La spending review finora li ha solo sfiorati, incidendo più sui benefit - dalle auto blu alle missioni senza controllo - che sulla busta paga. Mentre la crisi falcia i compensi e spesso il posto di lavoro dei manager privati, loro non corrono rischi. La tutela della poltrona è totale: se anche le province venissero finalmente abolite, i 1406 burocrati di livello sarebbero subito riciclati. Quelli al vertice, ben 131, potranno ancora contare su 145 mila euro; gli altri ne riceveranno sempre 100 mila.

Alla faccia della crisi

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