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di Francesco Biancheri*

Settembre, è tempo di partire. Cosi iniziava l'ode di d'Annunzio che celebrava i pastori dell'Abbruzzo. Anche dalle nostre isole è tempo di partire. Le vacanze per tanti sono terminate, gli Isolani della diaspora tornano alle loro terre di adozione, alle loro occupazioni, portando con se ricordi, nostalgie e, sotto vetro, quelle essenze e sapori che scalderanno gli inverni delle brumose città in Paesi più o meno lontani. Si parte con la promessa Ebraica “l'anno prossimo a Gerusalemme”.

Sono partito giovane, ed il mio personale “anno prossimo “ è durato quattro decenni. Ma ci sono partenze più liete, nei ricordi della mia infanzia. Quando si chiudevano le case in “paese”, alla fine di Agosto e si andava in campagna, "pa vinnigna". Un movimento quasi corale che coinvolgeva a vario titolo intere famiglie. Ma prima, un piccolo frammento di ricordi intorno al finire del mese di agosto, almeno per quello che mi riguarda.

Gli spartiacque di agosto, a Lipari erano due: il giorno di Ferragosto, che mia nonna vaticinava come il primo dell'Apocalisse: “Austu e Riustu, capinviernu!“. Ed io immaginavo già la ripresa della scuola, la fine del contatto con il mare ecc. Altro spartiacque, il 24 Agosto. San Bartolo. "Dopu i San Vartulu, a mari un si vaci cchiù”. Sembrava dovesse venire il Grande Freddo, e già aleggiavano maglie “in carne” di rugosa lana che a pensarci, anche adesso mi fa venire l'orticaria …Per mia fortuna c'era una amica di famiglia che veniva in vacanza dalla Svizzera tra metà settembre ed i primi di ottobre che mi sottraeva a questo diktat e mi consentiva di fare il mare sino alla soglia del rientro a scuola. Tra l'altro il periodo migliore della stagione, insieme alla primavera inoltrata. Questa abitudine ha fatto si che anche adesso al mare ci vado negli stessi periodi, non essendo un patito dell'abbronzatura ne della mondanità agostana, mese nel quale me ne sto più volentieri in campagna.

Dunque torniamo a vinnigna. Chi più chi meno, a quei tempi teneva coltivata una vigna per i propri fabbisogni familiari. La cultura della produzione su scala industriale di vini e malvasie autoctone si è sviluppata molti anni dopo grazie alla visione di alcuni “furistieri” a cui è seguita la sana emulazione di agricoltori locali, prima a Salina e poi a Lipari. Chi, a quel tempo non aveva la sua vigna, andava ad aiutare i parenti o gli amici che la possedevano. La vendemmia diventava una festa collettiva e tutta l'isola odorava di mosto, che veniva trasportato "chi scecchi nte l'utri". Overo negli otri. Contenitori fatti con la pelle delle pecore, cucite a rovescio. Di questo oggetto ne esistono tracce anche nei racconti mitologici dell'antica Grecia. Lo stesso Eolo, racchiuse in delle otri il vento che Ulisse non doveva usare per fare ritorno ad Itaca .

Ricordo la partenza per la Mennulita "du zu Pinu", in realtà cugino e famiglia, a cui ci accodavamo noi che non avevamo vigne, per dargli una mano e stare in compagnia . "U zu Pinu" era di casa "nto Strittu Luongu". Il giorno della partenza, che procedeva a piedi, ovviante, la casa veniva chiusa come se non si dovesse più fare ritorno, con i teli sui mobili, mentre per il portone ci si atteneva ad un preciso rituale: tutti i giri del “chiavino” intanto. Il “chiavino”, a dispetto del suo nome era una chiave pesante un paio di etti e lunga non meno di quindici centimetri. A questo serramento, si aggiungeva “u catanazzu” formato da una pesante serratura a cui era saldata una altrettanto ponderosa asta di ferro che scorreva dentro degli occhielli metallici fissati al portone, sul tipo di quelli delle celle carcerarie, tanto per capirci con i Milanesi. Alla fine di questo rituale , il Patriarca spingeva il portone con lieve tocco della mano per verificarne la tenuta e ci si avviava alla volta di Mendolita, amena contrada di campagna alle pendici del Monte Gallina.

Ancora l'agricoltura era praticata, i sentieri in ordine e sia le case coloniche che quelle padronali erano tenuite in efficenza. Ovvimanete erano case molto spartane, con i letti dotati di materassi di crine, la cucina alimentata ancora a legna (u cufulari), c'era il forno per il pane ed alcuni oggetti ormai scomparsi come “a furmaggera” una sorta di contenitore di legno aperto e protetto da rete, da attaccare al soffitto dove custodire al fresco ed al riparo dalle mosche il formaggio ed altri generi deperibili. "U cufuni a ligna" (detto poi barbecue) ecc.

L'acqua per la casa era pluviale, raccolta dai tetti e conservata "nta jsterna", spesso abitata da anguille che avevano una funzione purificatrice e “s' assarpava cu sicciu” essendo le case di campagna prive di collegamennto alla rete elettrica, non era possbile installare sistemi di pompaggio. L'elettrificazione delle contrade agricole avvenne molto tardi e con difficoltà,grazie alla abnegazione delle maestranze delle SEL. Ricordo ancora "Ancilu u Lattaru ca cu sceccu purtava o Sarvaturi le putrelle dei tralicci elettrici, uno ad uno. Correvano gli anno 70 del 1900. Non so cosa ne pensiate, ma agli uomini ed alle donne della SEL occorre fare un monumento e questo non lo dico per piaggeria o per l'amicizia che mi lega alla famiglia della propriatà, ma proprio come dato oggettivo.

La vendemmia avveniva in modo “socialista” in quanto sia "i parsunali" (contadini che tenevano il fondo) che i “gnuri” propriatri del fondo, vi partecipavano nella stessa misura. La raccolta dell'uva avveniva a mano, filare per filare, ed i filari erano bassi, quindi la fatica era tanta data la posizione ricurva da assumere per tutta la giornata . Poi l'uva (detta già il vino) si portava "nto palmientu" per la lavorazione, che consisteva in un rito che accomuna tutti i popoli Mediterranei, tanto che alcune scene si ammirano anche su certi vasi esposti nel nostro Museo Archeologico.

La pigiatura avveniva dentro una tinozza di cemento a due livelli: quello superiore di torchiatura e quello inferiore di raccolta del mosto e rigorosamente fatta a piedi nudi, solo da uomini, in nome di una serie di idee preconcette sulle donne e forse per evitare tentazioni che da li a nove mesi potevano contribuire all'incremento demografico dell'isola (solo che così facendo ora siamo alla crescita zero e abbiamo bisogno dell'apporto degli immigrati. Nota del redattore). Non c'erano diraspatrici, torchi ecc. Sul soffitto del palmento una grossa pietra legata ad una catena veniva poi calata nella vasca superiore per comprimere le vinacce e ricavarne l'ultimo mosto.

Poi il mosto veniva fatto decantare prima di riempire le botti, rigorosamente in legno, che venivano un poco di tempo prima lavate nel mare, e "stricati ca rina" all'interno, in modo da eliminare mota e batteri nocivi alla vinifcazione e poi trattati cu surfu. Mentre il tappo veniva fatto da "ciacculi intra na cuasetta i fimmina", per favorire la fuoriscita dei gas di fermentazione. Le vinacce servivano come concimante. A margine di questa pratica si preparava "u vinu cuottu" un aromatico resinoso che diventava anche un dolce speziato, con aggiunta di chiodi di garofano e altro, dall'aspetto simile alla cotognata, ma più scuro.

Di questo dolce ho la ricetta, divenuta ormai introvabile a causa della interruzione di una preziosa catena della conoscenza e ottenuta da un marinaio di Lipari durante un viaggio da Napoli verso Stromboli, e che conserverò con grande cura. Come scrivevo la vedemmia animava tutta l'isola dalla costa alla collina. Chi lavava le botti, chi le trasportava, chi trasportava l'utri e dappertutto un forte odore di mosto, insieme ad una pace grande. “ Dal ribollir dei tini va l'aspro odor dei vini l'anime a rallegrar“ (Carducci).

Scrivo queste memorie, affinche i nuovi Liparoti e coloro che hanno scelto di vivere su questi scogli riscoprano e tengano a mente la storia dei loro antenati, fatta di fatica ma anche di tanto amore. Avere contezza della propria storia e delle proprie origini è il primo elemento per potere progredire nel futuro . “ Meditare sulla storia è la più nobile occupazione dell'uomo “ (Mons. Alfredo Adornato)

Castel Cellesi settembre 2023

*Emigrante di Lungo Corso

L’intervista del Notiziario al dr. Francesco Biancheri, l’emigrante eoliano di alte vedute e sentimenti. La nota

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