di Alberto Olivetti
Il 18 febbraio del 1892 da Ginostra, sulla pendice occidentale dello Stomboli che guarda verso le altre isole dell’arcipelago delle Eolie, Filomena di Nave scrive allo «Sposo fedele del mio cuore». «Il principio del mio dolente foglio serve affarti sapere che la mia salute godi perfetta», esordisce. Avevano celebrato le nozze all’inizio dell’anno. Da quindici giorni sono separati. Il marito ha raggiunto Napoli e poi Genova, dove attende di imbarcarsi per l’America. Da Napoli e da Genova le sono giunte due lettere. Ma solo ora risponde Filomena e dice: «sento il dolore della nostra spartenza il tuo dolore forse si è smorzato il mio continua sempre che io non posso passari un’ora contenti e se io sapeva che doveva soffriri tanto esempre soffro mi contentava andare per la lemosina per così ammantenerci tutti due, e stare in compagnia».
E chiede a Dio «di darti salute ate ed ame coraggio al cuore di levarmi il dispiacere e le lagrime degli occhi». Ha preferito aspettare qualche giorno Filomena. Voleva esser certa perché allo sposo lontano ha da dire che «più ti faccio sapere che sono restata incinta gia aDio piacendo venne il fine del tuo tanto desiderio». E a Dio chiede l’aiuto «di portare alla luce quello che cio nel mio seno, e tu sposo carissimo avere tanta saluti per poi venire il giorno di essere contenti». Un mese dopo, il 16 marzo, Filomena dice quanto le «sembra dolci il scrivere per te» e che aspetta di leggere le sue lettere «come le pastoro quando aspettavano il messia». Dice che dal giorno della sua partenza la vita per lei «non è stato altro che un lungo soffrire e mangio pane mescolato colle lagrime». La gestazione, poi, si presenta difficile: «faccio un ora alzato e due ore alletto esempre vomitando senza ombra di appetito che sono diventata come un schelitro».
Si augura che la sofferenza non duri per tutti i nove mesi. E si lamenta Filomena perché, forse, quando lui le diceva di amarla «di un amore sviscerata», non era sincero e «ora mi vado supponendo che non evero niente altrementi non mi lasciave cosi presto». Ammette però che, forse, parla in lei la disperazione. Da due cenni contenuti in una lettera del 10 luglio intendiamo certe irritazioni di Filomena. Quando il marito le fa intendere d’esser partito in cerca di lavoro perché non si dicesse che si appoggiava ai guadagni di lei, sarta provetta. O quando le dice che la sua ‘testa’ non deve «rivolgerla a nessuno» e Filomena si offende: «a me nessuno mi pensa ed io nessuno penso solo ate e cosi credo che sarai tu verso di tua amata sposa». Da una lettera datata 2 gennaio del 1893 apprendiamo del difficile parto: «tu mi piange già morta invece io per grazia del Signore dopo tante travaglie sono rimasta viva e mi sono alzata dal letto dopo 22 giorni».
Il parto era avvenuto il 27 di ottobre. Filomena comunica al marito di avergli inviato due lettere nelle quali «tutto ti aveva fatto sapere una appena sgravita e laltra appresso nella prima ti avevo messo pure i capelli di nostro figlio per farti vedere la lunghezza e nel stesso tempo rallegrarti a vedere un fiore del tuo sangue». Ma l’«amoroso sposo» non le ha ricevute perché erano state inviate senza affrancatura. E pensa a una disgrazia, che Filomena sia morta. O morto il neonato. «Caro sposo deve sapere che se io moriva la mala nuova spande subbito» gli scrive lei ora e, con una punta di allegria, lo rassicura: «io non mi sento altro che molto appetito io e nostro figlio e se dura cosi ai voglia di faticare». E gli dice come «nostro figlio la notti non mi faccia prendere un momento di sogno sempre che fa una vita di stare al petto». Si fa scrupolo Filomena che il figlio, dovendo lei lavorare di cucito, non «si mantieni magro che io lo faccio mali patire per adivolte guadagare qualche soldo».
Il cassetto di un vecchio canterano ci ha conservato quattordici lettere di Filomena. Dal febbraio del 1892 al novembre del 1897. I due sposi, nel corso di quasi sei anni, non si sono mai ricongiunti. Il figlio non ha incontrato il padre. Ha compiuto tre anni e Filomena scrive: «ti chiama quando vede qualche vapore o bastimento epoi ci lo devo dire io chiama a tuo padre e lui ti chiama e io ci dico piu forte e lui alza la sua voce».(ilmanifesto.it)