mgiacomantonio1di Michele Giacomantonio

 

Arriva la guerra

 

Fra paura e disagi della guerra

Con l’arrivo della guerra il 10 giugno 1940 comincia per gli eoliani un duro periodo di difficoltà, di incertezze, di lotta per la sopravvivenza. Lipari vedrà la guerra da vicino solo poche volte ed in un solo caso essa procurerà dei morti. Oltre all’evento dell’affondamento del Santamarina su cui ci soffermeremo due altri episodici di natura bellica furono registrati nelle isole. Nel 1942 un sottomarino inglese silura l’incrociatore Bolzano della Marina nelle acque di Panarea e negli stessi mesi – ricordano gli anziani che vissero quegli anni – ci fu una sorta di mobilitazione popolare per dei volantini che erano stati trovati per le strade con su scritto “Cittadini scappate del mare che stanotte bombarderemo”. Non si seppe mai se veramente questo volantino fosse destinato a Lipari o era lì giunto o per un disguido o per lo scherzo di qualche bontempone – non mancano mai nemmeno nelle situazioni meno opportune – che l’aveva raccolto a Messina o in altra parte della costa tirrenica. Il fatto è che la notizia del volantino passò di casa in casa e nel pomeriggio ci fu un esodo verso le campagne di intere famiglie con i beni di prima necessità. Poi la notte non bombardarono. Ci fu solo un rapido volo di aereo che gettò sull’area del porto spezzoni incendiari per illuminarlo e poi andò via. Fu una notte a metà fra una veglia carica di preoccupazioni per le case, il futuro e la scampagnata paesana. Comunque l’indomani mattina la maggior parte dei liparesi tornò alle sue case archiviando l’evento. 

Il caso di Stromboli

Forse l'unica isola che visse in un vero e proprio stato di guerra, presidiata da una guarnigione tedesca fu Stromboli. Sulla vicenda dell'occupazione dell'isola, dei rapporti con gli abitanti e quindi dell'arrivo degli americani dopo l'occupazione della Sicilia ne parla in un libretto di ricordi di suo nonno Fabio Famularo. Sugli eventi narrati da questo libro pubblicheremo una scheda a parte.

Ma se  non  ci furono bombardamenti ed azioni cruente sul territorio non per questo alla popolazione furono risparmiati disagi e sofferenze[1]. I cibi cominciarono a scarseggiare e alcuni beni di prima necessità – il pane, la pasta, lo zucchero, ecc. – erano razionati a mezzo di una tessera familiare. La carne si poteva acquistare una sola volta la settimana – per solo 100 grammi – con lunghe file estenuanti di fronte alle macellerie autorizzate. Si consumava farina di mais ed anche di piselli e il pane aveva a volte un colore assai strano. Il caffè era quello ottenuto dai ceci o dall’orzo.

Quando mio padre – ricorda Renato De Pasquale allora appena ventenne – portava in casa un chilo di farina di grano o un etto di caffè era una vera festa. Per chi disponeva di sufficiente denaro era tuttavia facile ricorrere al mercato nero, assai florido e diffuso in quel tempo. Nacque così l’intrallazzo cioè l’arte di arrangiarsi”[2].

Pur in un clima di totale censura per le informazioni resa più efficace dall’insularità, qualche notizia sul reale andamento del conflitto filtrava anche a Lipari e che le cose non andavano bene la gente comincia a capirlo perché alla propaganda euforica dei primi mesi fa seguito,nel tempo, un silenzio sempre più assordante e così il pessimismo comincia a serpeggiare. Anche le modalità dell’austerità e dell’autarchia che in un primo momento erano state accettate quasi con divertito interesse e così si canticchiava la canzone – in perfetta sintonia con la propaganda fascista - sull’”orticello di guerra” e alcuni riconvertivano il pezzetto di terreno vicino casa  seminando ortaggi invece di fiori, col tempo divengono sempre più pesanti e accolti con insofferenza. Così è per l’oscuramento e la limitazione della luce elettrica a cui ormai da quasi quindici anni la gente si era abituata. Dall’imbrunire all’alba i paesi e le città dovevano rimanere al buio e dalle finestre e dai balconi non doveva filtrare alcuna luce.

Un’altra occasione di disagio erano divenuti i trasporti marittimi. Requisiti i piroscafi della Eolia, Vulcano, Luigi Rizzo ed Eolo rimaneva a svolgere il servizio regolare solo il Santamarina fino a quando il 9 maggio del 1943 non fu affondato  da un sommergibile inglese. L’evento fu un grande dramma per la popolazione eoliana perché nell’affondamento perirono 61 persone e non ci fu famiglia che non fosse toccata dalla tragedia.

L'affondamento del Santamarina

Un dipinto commemorativo di Giovanni Giardina

“Quel giorno a Lipari si era svolta nella mattinata la “festa dell’impero” – scriveva  Bartolino Ferlazzo su “Questeolie” dell’8 aprile 1993 – con grande partecipazione di pubblico, come succedeva in quegli anni. Nel pomeriggio intorno alle 15 e 10 il piroscafo salpava gli ormeggi da Marina Corta per far rotta su Vulcano- Milazzo… Il mare era particolarmente mosso, ma certamente non metteva in crisi una imbarcazione che per quel tempo era considerata d’avanguardia. Lasciato lo scalo di Vulcano. il Santamaria proseguiva speditamente il suo percorso, quando a nove miglia da Lipari e non più di tre o quattrocento metri da Punta Luccia, un siluro lanciato da un sommergibile inglese, lo colpiva al centro ed esattamente all’altezza della sala macchina spaccandolo in due e facendolo colare a picco in pochissimi minuti: portandosi dietro il suo immane carico di morte e disperazione.

Ma non sarà il solo e unico siluro ad essere lanciato dallo scafo inglese perché all’accorrere del motoscafo della polizia marittima che era di stanza a Pignataro ne viene sparato un secondo che non centra lo scafo grazie alla poca chiglia di cui era dotata l’imbarcazione. Cosa sarebbe potuto succedere, ci domandiamo ancora oggi, se questo attacco fosse stato portato nella mattinata di quel triste giorno, quando a bordo del Santamarina si trovavano circa 200 giovani in partenza per la visita di leva? A bordo in quest’ultimo viaggio avevano preso posto 73 passeggeri (oltre a 17 membri dell’equipaggio), molti dei quali non hanno più visto la loro terra, le loro isole, i loro parenti”[3].

L'equipaggio del Santamarina . Il terzo da sinistra è il comandante Basile

La paura, lo sgomento e la disperata lotta per salvarsi emerge dal racconto di un testimone, Antonino Biviano che lo racconta a Chiara Giorgianni sempre per Questeolie. “ Mi trovavo sul ponte ed ero in compagnia di due amici, Domenico Barca e Angelino Mazza. Eravamo seduti su un banchetto quando all’improvviso l’esplosione…Riprendendomi vidi Domenico con il capo rovesciato in avanti, era morto. Angelino si era invece già buttato in mare. Mi sono immediatamente  reso conto di quello che era successo e cercai, nonostante le gravi ferite al volto, di portarmi in salvo… Quando fui in mare vidi il piroscafo, ormai tagliato in due, inabissarsi, trascinando con se nel risucchio, coloro che per impotenza o per paura non riuscirono a fare nulla per se stessi. Ricordo Domenico detto “u curtu” aggrappato all’asta della bandiera del Santamarina, terrorizzato non riusciva a staccarsene. Il caso volle che saltasse un banchetto da lui istintivamente afferrato; fu proprio quel banchetto di legno a trarlo in salvo. Salii insieme ad altri su una zattera cui diveniva sempre più difficile stare; dopo più di tre ore arrivarono due natanti, quello della Questura e la motovedetta. Il sommergibile era  ancora sul posto ed avvistate le imbarcazioni venute in nostro soccorso, sparò due siluri che fortunatamente, non le colpirono, ma le costrinsero, ovviamente, ad allontanarsi. Fu l’avvistamento improvviso di tre motosiluranti tedeschi provenienti da Messina a costringere il sottomarino ad allontanarsi”[4].

Il sottomarino inglese Unrivalled che silurò il Santamarina.

Sul perché questo atto di terrorismo più che di guerra contro una inerme nave di passeggeri si sono dette molte cose. Si è detto che forse gli inglesi pensavano che sulla nave avrebbero viaggiato i duecento giovani di leva – che invece erano partiti con una corsa speciale la mattina - ed era questo il vero obiettivo dell’attacco. Si disse anche, più recentemente, che era una conseguenza del fatto che  il 3 maggio il Quartier Generale comandato da Sir Harold Alexander sulla base dell’”operazione Husky”, termine con cui si faceva riferimento all’invasione della Sicilia, puntava a neutralizzare e distruggere tutti i mezzi e basi navali ed aeree del nemico in Sicilia[5]. Comunque voci come tante altre.

(Questi due elenchi sono stati pubblicati da Ettore Iacono)

L'idrovolante tedesco ammarato a Lingua di Salina

A lungo non si seppe nemmeno di quale sottomarino si trattasse finchè Guss Britten e Florrie Ford, ufficiali della Marina inglese, allora in servizio su sottomarini nel Mediterraneo, rivelarono che il sommergibile affondatore era stato Unrivalled comandato dal tenente H.B. Turner e partito dalla base di Malta l’1 maggio. Ma non una parola sulle motivazioni. A maggio del 2002 Antonio Brundu, ha avanzato una ipotesi che ci sembra interessante. “Qualche giorno prima dell’affondamento – scrive Brundu - , un idrovolante da guerra tedesco, proveniente dall’Africa, era ammarato per emergenza nel laghetto di Lingua [Salina], dopo essere stato colpito da aerei alleati. Sembra che su quell’aereo ci fossero alti ufficiali tedeschi con importanti documenti. Di ciò erano venuti a conoscenza gli inglesi. I tedeschi, quindi, avrebbero dovuto imbarcarsi sul Santamarina, in partenza dall’isola di Salina il 9 maggio. Gli inglesi, sapendo ciò. Ordinarono al sommergibile Unrivalled che si trovava in zona di colpire la nave eoliana con l’obiettivo di eliminare il gruppo di tedeschi. Ma il controspionaggio germanico riuscì, a sua volta, ad intercettare tale iniziativa degli inglesi e così gli ufficiali, all’ultimo momento, furono prelevati da Salina da un idrovolante tedesco e portati in salvo; mentre gli inglesi, ignari di quest’ultima novità, silurarono l’innocente piroscafo Santamarina carico di inermi passeggeri[6]”.

Oltre al dramma delle morti e delle famiglie colpite, l’affondamento del Santamarina rappresenta per le Eolie un periodo di grandi difficoltà senza più collegamenti regolari con la terraferma. Al trasporto dei generi di prima necessità e dei pochi viaggiatori che si avventuravano fuori casa in questi tempi tristissimi, si provvedeva con piccoli motovelieri di armatori eoliani.



[1] Per questa descrizione del periodo bellico come anche per molti aspetti del dopoguerra ho fatto riferimento a R.De Pasquale, Il mio tempo. Ricordi e immagini., op. cit. pp.50-64. vedi anche R. De Pasquale, Momenti eoliani, op. cit.

[2] R. De Pasquale, Il mio tempo, op. cit., pag. 50.

[3] B. Ferlazzo, Cinquant’anni fa, il Santa Marina, in Questeolie, n.4 anno II del giovedì 8 aprile 1993.

[4] C. Giorgianni ( a cura di), “Mi trovavo sul ponte…” I ricordi di Antonino Biviano, superstite, Questeolie, n. 4 anno II, dell’8 aprile 1993.

[5] A. Brundu, “Dossier Santamarina, Spionaggio e misteri”, in Stretto indispensabile, 15 maggio 2002.

[6] A. Brundu, idem.

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Antonio Brundu

(Archivo Storico Eoliano.it)

I COMMENTI.

di Aldo Natoli

Debbo precisare che nell'elenco pubblicato dell'equipaggio superstite sul Piroscafo Santamarina Salina manca quello di mio padre Natoli Angelo (07.05.1906), allora Capo Fuochista del piroscafo con matricola 43334 del Compartimento Marittimo di Messina .

Per rendere il dramma vissuto da quanti erano sul piroscafo riporto la testimonianza di mio padre resa al Comandante di Porto di Lipari il 10 Maggio 1943: "Partiti da Lipari regolarmente in orario alle ore 15,10 in linea 102-c diretti a Milazzo, mentre la navigazione si svolgeva senza rilievi degni di nota, verso le ore 15,45, mentre mi trovavo allo ingresso della cabina del Radiotelegrafista e discutevo con il marinaio Re Giovanni di Salvatore e con lo stesso ufficiale Radiotelegrafista Cuzzocrea Paolo, improvvisamente ho sentito un forte scoppio che non posso precisare se provocato da uno o due siluri lanciati da un sommergibile nemico sul lato sinistro della nave. La cabina del radiotelegrafista era situata sul lato destro e pertanto nulla posso precisare circa l'avvistamento del siluro, della scia o eventualmente del sommergibile come pure se i siluri lanciati sono stati due, come da impressione generale sul primo momento, oppure solamente uno. Con lo scoppio, provocato direttamente in carbonaia, il ponte di comando è saltato in aria con il Comandante ed il personale di servizio, ed i relitti, con carbone, pezzi di ferro ed anche un uomo, sono da me stati visti cadere in mare. E' seguito un momento di confusione ed io mi sono precipitato prima verso la lancia di salvataggio per tagliare la dritta della stesa, però visto che la lancia già toccava acqua e che il piroscafo spezzato quasi al centro aveva la prua e la poppa già verso l'alto (ricordo anche di avere visto l'elica girare ancora a vuoto) mi sono lanciato in acqua afferrandomi ad un pezzo di legno capitatomi davanti ed in un secondo momento ad una zattera che dopo l'affondamento era venuta a galla. Il piroscafo è affondato in meno di un minuto e molte persone dello equipaggio e passeggeri, penso che siano periti per la esplosione. In mare, subito dopo la scomparsa del piroscafo, molta gente inesperta del nuoto chiedeva aiuto e parecchi di questi non avendo avuto la prontezza o la possibilità di aggrapparsi ad un qualsiasi relitto, dopo pochi istanti è scomparsa. Sulla zattera sono salito per il primo e successivamente si sono avvicinati il giovanotto Scarmato Antonio, Foti Antonino, una guardia di finanza, un militare, due passeggeri, un sottocapo militarizzato appartenente all'antimine e, una ventina di minuti dopo, il marò Miceli Concetto appartenente alla scorta militare di bordo. Cinque o dieci minuti dopo l'affondamento ho nettamente visto emergere ad una distanza di circa mille metri parte della torretta del sommergibile e ricordo di avere anche visto la bandiera, non posso precisare però la nazionalità di appartenenza. Appena avvistato il sommergibile la nostra preoccupazione è stata quella di ripararsi da un eventuale mitragliamento riparandoci dietro la zattera davanti alla quale avevamo posto un barile. Passato un certo tempo e da lontano il marinaio Re Giovanni ha comunicato rincuorando tutti noi che da Lipari si scorgevano dei mezzi di salvataggio venire a tutta forza sulla zona; intanto la nostra preoccupazione era per il pericolo cui andavamo incontro i mezzi di salvataggio per la presenza in zona del sommergibile che si trovava ancora in agguato. In testa si trovava motoscafo M.3 perché più veloce seguito dallo antimine M.5; uno di noi alzatosi in piedi, a gran voce gridava "il sommergibile", il sommergibile", per avvertire dell'esistenza del pericolo. Il sommergibile affiorava ancora con la torretta e non appena il motoscafo è stato a distanza favorevole ho visto partire un siluro e contemporaneamente il sommergibile immergersi. Il motoscafo aveva una discreta velocità ed avvistato il siluro ha fatto un gran giro mettendo la prua sul sommergibile che appunto contemporaneamente si immergeva credendosi attaccato da bombe di profondità. Il siluro scapolato il motoscafo è andato ad esplodere, sollevando una immensa colonna di acqua, sulla costa dell'isola di Vulcano. Il motoscafo, compiuta una manovra a tutta velocità, a cominciato ad accostare i naufraghi ed ad imbarcarli. L'antimine M.5 dal canto suo, venendo da sotto costa, ha preceduto al salvataggio di tutti gli altri superstiti. Mentre si svolgevano le operazioni di salvataggio, lontano, da Milazzo si sono visti accorrere due unità sottili che avvicinatisi ho riconosciuto essere due antisommergibili germanici. Successivamente sulla zona sono intervenuti tre aerei di ricognizione marittima e le motobarche V.6 e V.24 della R. Guardia di Finanza". In fede del vero mi sottoscrivo Natoli Angelo.

Altri verbali di interrogatorio sono stati resi da Scarmati Antonio, Sidoti Antonino, Re Giovanni, Quadara Francesco, Foti Antonino, Giunta Domenico, Arcadi Antonio, Foti Gaetano, Natoli Antonino , Bacchi Antonino, Federico Giuseppe e Miceli Concetto.

di Antonio Famularo

Sig. Giacomantonio, il motivo per cui il 'Santa Marina' fu affondato è perché il piroscafo navigava 'mimetizzato' (camuffato), oltre ad avere un piccolo cannone in zona prora, e si pensò che in realtà potesse essere una 'nave 'appoggio'. Parola di Turner, capitano dell'Unrivalled. Continuare a tenere a galla la 'la bufala' come 'l'ammaraggio di fortuna di un idrovolante tedesco nel pantano di Lingua' è un'offesa alla verità storica e alla memoria delle vittime di quel tragico evento!
La prego, si accerti, anziché basarsi su sue impressioni o, peggio ancora, su 'dicerie'. Non si addice ad uno 'Storico'. Con cordialità.
famularoantonio@yahoo.it

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Stromboli, comincia il grande esodo

 

L'eruzione del 1930

L’11 settembre del 1930 si ha forse l’eruzione più disastrosa che il vulcano abbia fatto registrare in epoca storica  incrinando, fortemente, la fiducia che la gente che vi abita aveva nel gigante borbottone e capriccioso ma tutto sommato buono. Infatti quel giorno, dopo un'attività vulcanica che durava già da un po' di tempo, avvenne una forte esplosione dal cratere, posto a 750 metri di altitudine. Decine e decine di grossi massi furono scagliati nel cielo dalla possente bocca eruttiva. Molti di essi ricaddero sul terreno dell'isola, altri in mare, sollevando enormi colonne d'acqua. I massi più grossi vennero valutati del peso di centocinquanta chili, e, rotolando lungo i pendii della montagna, investirono qualche casa e fecero diversi feriti. Ma il fatto più clamoroso e drammatico avvenne sul lato est, verso l'abitato di San Vincenzo, il più popolato, nella zona di San Bartolomeo. Da una fenditura posta un po' più sotto del grande cratere fu espulsa con violenza una massa di gas e cenere rovente  - ma non lava - che rotolò velocemente lungo il pendio, piuttosto ripido, forse inserendosi in uno dei tanti canaloni che circondano il cratere.

Una "nube ardente" che è estremamente pericolosa per le cose e per le persone perché è sempre molto veloce, e non dà il tempo di scappare e perché è improvvisa, e non si può, in genere, prevederne la direzione. Questa nube si avventò sulle poche, povere case di San Bartolomeo, le investì, le fece crollare, e sacrificò la vita di sei isolani, sorpresi da questo raro fenomeno della natura. Oltre a provocare diversi feriti e contusi. Alla fine si contarono in tutto ventidue feriti.

Si evacuarono molte abitazioni e molta gente abbandonò Stromboli. Quando la situazione si stabilizzò, e l'eruzione si calmò, molti degli abitanti dell'isola vulcanica tornarono, un po' scioccati e timorosi, ad abitare le loro semplici case  sperando sempre nella buona sorte: l'attaccamento alle loro cose e ai loro terreni era più forte, in ultima analisi, di ogni preoccupazione. D'altra parte gli anziani sapevano che questi erano fenomeni eccezionali, che con tutta probabilità non si sarebbero ripetuti in breve tempo anche se c'era stato un precedente simile, il 22 maggio del 1919: maremoto, lancio di lapilli e cenere, caduta di molta lava in mare e, purtroppo, quattro persone decedute, e numerosi feriti.[1]

Fabio Famularo in un libro[2] in cui ricostruisce i ricordi del nonno, descrive quella esperienza sconvolgente, i boati, le eruzioni, la fuga sul mare con le barche, il mesto ritorno a sera inoltrata verso la spiaggia e le abitazioni accolti da “ un forte odore di bruciato e di zolfo”[3].

Non appena albeggiò – racconta Famularo – ci destammo e una volta fuori ci ritrovammo di fronte ad un'isola completamente stravolta, ridotta in gran parte in una vasta e desolata terra bruciata. Era incredibile vedere il vulcano apparire calmo e sereno,come se la causa di quel disastro non fosse stata lui. Era lì come sempre fumante, quasi a chiederci scusa e ad invitarci ancora a credere in lui. La popolazione era impaurita e profondamente scossa. Gran parte della gente aveva già vissuto sulla propria pelle la forte eruzione del 1919 che si ricordava ancora più forte di quella avvenuta il giorno prima.... Le case danneggiate dalla violenza del vulcano erano tante, ma la gran parte aveva resistito alla sua furia,mentre nessuno dei campi e degli alberi si era salvato: l'agricoltura aveva subito un duro colpo e si prevedeva un periodo di grande carestia poiché l'autunno era alle porte e il cattivo tempo all'orizzonte. Eppure, nonostante la disperazione, tutti cominciarono a darsi da fare... Nel giro di poco l'isola ricominciò ad assumere quel senso di grande ordine che la caratterizzava ma un nuovo problema iniziava a farsi presente. Gran parte della popolazione stava maturando l'idea di abbandonare Stromboli. Molti di loro avevano parenti e amici sparsi nel mondo, dall'America all'Australia, dall'Argentina alla Nuova Zelanda: tante furono le richieste di un loro aiuto economico per acquistare il biglietto per raggiungerli...Qualcosa nel rapporto col vulcano si era interrotto: si sentivano traditi, come quando un amico ti volge le spalle... Era l'inizio di un lungo periodo di emigrazione che nel giro di qualche anno avrebbe ridotto la popolazione al minimo storico. In molti avrebbero venduto le loro proprietà per pochi soldi, giusto quelli per pagare i biglietti del viaggio; altri invece, avrebbero affidato per procura i propri beni ad amici fidati”[4].

Anni difficili e logoramento degli abitanti

Anche il 1938 - quello in cui le suore francescane dell’Immacolata Concezione di Lipari aprono nell’isola una “Casa dei bambini” intitolata al Principe di Napoli e voluta dall’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia -, fu quello in cui “il vulcano, scrive Famularo,  non ci fece stare tranquilli un momento. Per lunghi periodi ci furono delle copiose colate laviche, che tenevano sempre con il fiato sospeso e con lo sguardo fisso verso la montagna, nel tentativo d'interpretare ogni suo segno. Le prime colate si verificarono a gennaio, poi a maggio, quindi a novembre[5].

Allora l’abitato di San Vincenzo era un agglomerato di case sparse, la maggior parte delle quali si raggruppava in prossimità della chiesa su un pendio ai piedi del cono che degrada fino alla riva. Lontano della riva, su una piccola altura sorgeva la chiesa di San Vincenzo, intonacata e di un bianco abbagliante. Davanti alla chiesa si apriva una piazza triangolare dalla quale si godeva un'ampia vista sui declivi, sullo Strombolicchio che è proprio di fronte, sul mare e sulla costa calabra, che, nelle giornate limpide, si intravede sull'orizzonte. L'altra chiesa, del paesino , è quella di San Bartolomeo ricostruita sul finire dell'800, a nord est, nel punto abitato più vicino alla Sciara del Fuoco, e non a caso il più colpito dalle manifestazioni vulcaniche del 1930. Davanti alla chiesa si apriva una terrazza quadrata contornata di bisuoli dalla quale si accedeva ad un'altra terrazza più grande. Questa popolazione, che malgrado le fughe dopo le eruzioni del 1919 e del 1930, contava ancora almeno mille abitanti[6], era composta in maggioranza da uomini di mare imbarcati su navigli  dell'isola, dediti alla pesca, o anche su navi italiane operanti nel campo del commercio, mentre la coltivazione dei campi era per lo più impegno delle donne.  

Zunami a Stromboli

L’inaugurazione della “Casa dei bambini” fu sicuramente l’evento più importante negli anni a cavallo fra le due guerre mondiali. Avvenne in forma solenne con la partecipazione della Principessa di Piemonte e del suo seguito. La Principessa fu ricevuta dalle autorità provinciali e comunali oltre che dalla popolazione. Dalla spiaggia, dove sbarcarono, ci si avviò, in salita, all’Istituto che era collocato nella casa canonica a fianco alla chiesa di San Vincenzo, dove erano ad attendere il Vescovo di Lipari, le suore ed i bambini.  La cerimonia prevedeva inni, canti, poesie, dialoghi e una simbolica offerta di fiori che le suore avevano preparato andando a Stromboli due mesi prima. Fu una impresa insegnare a quei bambini a recitare visto che non sapevano parlare nemmeno bene. Infatti nella lettera di incarico della Associazione promotrice si diceva che si sarebbe trattato” di una ‘Casa di bambini’ modesta, in un paese che non ha mai avuto Istituzioni di Assistenza, quindi una vera e propria opera missionaria”.

Gli anni 40 sono anni che logorano fino quasi ad annullare la resistenza degli isolani. Attività esplosive con effusione di lava e qualche volta anche di gas come nel 1930 – anche se in misura minore – si hanno il 22 agosto 1941, il 3 dicembre 1943, il 20 agosto 1944. Dal 1945 al 1948 si ha una attività esplosiva moderata ma il vulcano torna a farsi sentire fra aprile e maggio del 1949 e poi il 20 ottobre del 1950 alle 11,10. Il 20 ottobre si annunciò con un fortissimo boato che provocò apprensione. Poi pioggia di lapilli e cenere, una impetuosa corrente lavica nella Fossa craterica, e i lapilli provocarono alla Forgia Vecchia forti incendi alimentati anche dal vento. L’attività effusiva continuò per l’intero giorno con abbondanti colate laviche; durante la notte si intravidero vivi bagliori in direzione della Sciara, dando la certezza della persistenza dell’eruzione. Questa fase effusiva continuò fino al 23 ottobre con moderatezza, per cessare del tutto nei giorni seguenti[7].

Ed è soprattutto per questo che gli abitanti di Stromboli passarono dalle 2.487 anime che il censimento ne contava nel 1911 alle 659 del 1951 facendo registrare il più alto indice di abbandono di tutto l’arcipelago[8].



[1]              Vito La Colla, L'eruzione dello Stromboli nel 1930, in Globalgeografia.com. Si veda anche D. Abbruzzese, Attività dello Stromboli dal 1930 al 1934, Boll. Soc. Sismol. Vol.XXIII, fasc. 3-4, Modena (1935).

[2]              Fabio Famularo, “ ...e poi Stromboli”, Edizioni Strombolibri, Pomezia 2008.

[3]              F. Famularo, idem, pag.127-132

[4]              F. Famularo, idem, pag, 134.

[5]              F. Famularo, idem, pag. 161 e ss.

[6]              Stromboli arriva ad un picco di 2716 abitanti nel 1891 per poi decrescere, prima lentamente (nel 1911 gli abitanti sono circa 2.500) e poi, dopo gli eventi del 1919 e 1930 sempre più rapidamente. Nel 1931 sono infatti 1.100 e 659 nel 1951 dopo un forte esodo verso l' Australia del 1950, per raggiungere il picco più basso di 400 abitanti nel 1971e riprendere quindi lentamente a risalire.

[7] C. Cavallaro, L’attività dello Stromboli dal 1940 al 1953, in “Bollettino delle sedute dell’Accademia Gioenica di Scienze naturali di Catania”, serie IV, vol. III, fasc. 10, 1957.

[8] A Stromboli la popolazione che risulta al censimento del 1951 sarà solo il 26,50% di quella che c’era nel 1910; a Salina invece il 69,37%, a Filicudi il 41,24%; ad Alicudi il 40, 71%; a Lipari il 90, 37% ed a Vulcano addirittura in crescita il 151,28%. Questi dati dimostrano certamente che sull’esodo influirono anche fattori economici e non solo l’opera del vulcano ma ci dice anche che questo ebbe un grande rilievo e che più della metà se ne andò per questa ragione visto che soprattutto Stromboli dopo Lipari e Salina era l’isola che godeva di una maggiore vitalità economica.

Salina e la Società Eolia di navigazione

 

Una borghesia vivace e intraprendente

Nel primo dopoguerra a Salina, grazie alle rimesse degli emigrati, fa la comparsa una banca. E’ la Cassa di risparmio Vittorio Emanuele per le provincia siciliane che apre  uno sportello a Santa Marina. Qualche anno dopo, nel 1920, nasce la Società anonima cooperativa di produzione e lavoro “Santa Marina” che diventa la più importante impresa di costruzione dell’arcipelago. La gran parte delle opere pubbliche dell’isola le vengono affidate e non sono poche  fra difese degli abitati, costruzione di banchine, e realizzazione della rotabile S. Marina- Lingua. Ma le opere pubbliche non sono che il volano capace di attirare anche investimenti privati. Così nell’arco di cinque anni l’impresa si consolida e da lavoro stabilmente a cinquanta dipendenti.

Ora i momenti della crisi sembrano veramente lontani e l’isola vive un momento di grande euforia che traspare nei discorsi ufficiali e nelle celebrazioni che accolgono la venuta nell’isola di Umberto di Savoia, principe di Piemonte, il 22 agosto del 1923. A fare gli onori di casa al  principe è il prof. Giuseppe d’Arrigo, clinico napoletano conosciuto a corte ed amico del colonnello Giuseppe Giuffré uno dei personaggi più in vista di Salina.

Il 30 novembre dello stesso anno – con circa tre anni di anticipo su Lipari -  a S. Marina si inaugura la prima centrale elettrica delle Eolie. Si tratta di  un regalo di Antonio Traina emigrato a New York a cui i salinari dedicano una lapide marmorea. Ma è l’occasione per spingere lo sguardo oltre l’orizzonte. E nei discorsi celebrativi si parla di riprendere le vie del mare in cui gli abitanti di Salina si sono distinti.

La cerimonia della targa ad Antonio Traina che ha donato una centralina elettrica: la prima nelle Eolie.

Forse è qualcosa di più di un auspicio e può darsi che chi parla sappia che qualcosa sta maturando in questo settore. Infatti poche settimane prima Gaetano de Luca, Carmelo Biscotto e Giuseppe Arena erano sbarcati a Napoli con una nave acquistata a Marsiglia di 273 tonn. di stazza lorda abilitata a trasportare 150 passeggeri d’estate e 62 d’inverno. Il 20 ottobre immatricolano il vapore in Italia col nome “Vulcano”. E’ il primo nucleo di un progetto che diventa subito  ambizioso: costituire una società che gestisca tutti i servizi di collegamento da e per le Eolie.

Ma per fare questo bisogna avere entrature nel governo a cui spetta decidere sulle convenzioni marittime. E come arrivarci? Il pensiero corre subito a mons. Paino, satamaritano e figlio di santamaritani, che  da poco è divenuto arcivescovo di Messina ed è in buona sintonia con il regime. A mons. Paino gli parlano del progetto il col. Giuffrè ed il cugino del prelato, Salvatore Re, l’estate, quando il vescovo torna a casa in vacanza. Ed al primo incontro ne seguono altri ai quali prenderà parte anche l’ammiraglio Luigi Rizzo, nativo di Milazzo, medaglia d’oro al valore e, nel 1918, con d’Annunzio e Ciano, protagonista della cosiddetta “beffa di Buccari”. E proprio Luigi Rizzo sembra la persona più indicata per caldeggiare il progetto a Galeazzo Ciano che è ministro della marina mercantile.

A sinistra, Mons. Paino con i maggiori azionisti della Eolia. A destra, l'amm. Luigi Rizzo.

Verso la nascita di una società di navigazione

Avuto un consenso di massima, mentre si segue a Roma presso il Ministero la trafila per la concessione, si cominciano a raccogliere i fondi per costituire la società. E quando il 3 novembre 1925 vengono firmate le concessioni con il Ministero ed il 9 dicembre viene pubblicato il decreto che ufficializza la concessione, nulla più si frappone alla sua costituzione.

Così, quattro giorni prima di Natale, nella casa di Bartolo Giuffré, uno dei promotori e dirigenti della cooperativa di produzione e lavoro, davanti al notaio, ben sessantadue soci sottoscrivono l’atto costitutivo della Società Eolia Anonima di Navigazione la solennità del momento è sottolineata anche da un espediente scenico. Il col. Giuffrè tira una cordicella e dal soffitto scende un grande telo con lo stendardo della nuova società: una ancora che incrocia la bandiera della Trinacria con sette stelle contornata da un ovale con il nome della impresa. L’ammiraglio Rizzo viene nominato per acclamazione presidente della Società.

La bandiera della Società Eolia di Navigazione

Costituita la società al piroscafo “Vulcano” si aggiungono l’”Adele”, il “Flora” e l’”Etna” che vengono acquistati.

 

A sinistra in alto il piroscafo Adele e a destra il piroscafo Flora. Qui sopra l'Etna.

Ora l’Eolia ha una sua flotta è può iniziare il servizio mentre vicino agli approdi delle isole, a Napoli e Messina si aprono le agenzie di riferimento. Toccherà all’Adele inaugurare i servizi il primo gennaio 1926 portando a Santa Marina l’amm. Luigi Rizzo.

Nella compagnia l’entusiasmo è alle stelle e dopo appena cinque mesi di attività – il 6 giugno 1926 – un’assemblea dei soci convocata nella nuova sede in via Risorgimento a S. Marina Salina, decide di  raddoppiare il capitale sociale e  di potenziare la flotta facendo costruire tre nuovi piroscafi. Il raddoppio del capitale pone un problema che peserà sul futuro della società anche negli anni a seguire. Dove collocare le nuove azioni? Rivolgersi al più ampio mercato col rischio di farsi sottrarre il controllo della società o limitare la sottoscrizione alle sole famiglie di Salina magari coinvolgendo quelle che sono emigrate? Così la campagna promozionale per la collocazione delle nuove azioni procede a rilento mentre incalza l’esigenza di attuare il piano di armamento. E mentre si ottiene dal Consorzio Governativo di credito un prestito di oltre 5 milioni, nel marzo del 1927 i cantieri di Palermo ricevono la commessa del primo piroscafo.

Si crea comunque un deficit di bilancio che si cerca di coprire vendendo nuove azioni. Il 28 aprile 1928 in una lettera circolare ai nuovi azionisti si fa il punto della situazione: occorre arrivare in fretta a completare la sottoscrizione di tre milioni di capitali per cui si invita chi è già socio ad acquistare almeno una azione a testa, ed a farsi propagandista della “bella iniziativa con i vostri congiunti ed amici sia in patria che all’estero perché sottoscrivano con voi”. Nel procurare nuovi soci  si raccomanda però “che essi siano tutti Eoliani, affinché questo potente organismo abbia sempre più a sviluppare la propria benefica attività, particolarmente a vantaggio della laboriosa famiglia eoliana[1]”.

Santamarina, primo piroscafo dell'Eolia

Il Santamarina

Il 19 novembre del 1928 viene varato a Palermo il primo piroscafo interamente nuovo della compagnia che viene battezzato “Santamarina”. L’entusiasmo nell’isola è alle stelle. In un elegante opuscolo il col. Giuffrè descrive le caratteristiche di questo modernissimo naviglio che ha una stazza lorda di 762 tonnellate ed una portata di carico nelle stive per 450 ton. I motori sono  dotati della potenza  di 1.080 cavalli capaci di imprimere alla nave una velocità oraria di 14 miglia. “Le cabine di prima classe e il relativo salone, al centro del piroscafo, offrono al passeggero tutto il confort per rendere piacevole il viaggio. Le due cabine di lusso, con annesso salotto sul ponte di passeggiata, sono arredate con signorile eleganza. Complessivamente i posti di classe superiore con letti sono 50. La terza classe è situata a poppa. Ha una comoda saletta, una passeggiata, cabine da 4 e 6 posti, per un totale di 36 letti, con reparto separato per le donne. Anche i meno abbienti possono, così, godere delle comodità necessarie. Una biblioteca di 80 volumi è stata offerta, con geniale, civilissima iniziativa, dal comitato di signore e signorine sorto in Santa Marina, che ha pure donato la bandiera sociale ricamata con volontarie offerte”.

 

 

Alcuni interni delle cabine e dei soggiorni del Santamarina

Sembra che lo sviluppo della società non debba mai arrestarsi. Non si é ancora spento il clamore per il Santamarina che il 7 ottobre del 1929 il quindicinale “Risveglio eoliano” annuncia che ad Ancona è stato varato il “Luigi Rizzo” piroscafo quasi gemello del Santamarina.

Aumenta l’esposizione economica e la passività di Bilancio mentre ancora non tutti i 3 milioni di capitale risultano coperti. I soci di minoranza che, si dice, siano sostenuti da gruppi finanziari del nord, scalpitano per acquistare loro le azioni rimanenti ma i soci di maggioranza resistono. La gestione del primo quinquennio degli anni trenta da risultati positivi e così si decide di completare il piano di armamento ed il 16 febbraio del 1936 da Palermo viene varato il terzo piroscafo chiamato “Eolo” che ha una stazza lorda di 703,84 tonn.

I buoni risultati della gestione e il mantenimento del piano hanno un effetto tonico sull’immagine dell’Eolia e la domanda di acquisto di azioni si intensifica. Il cav. Giovanni Alberto Giuffrè che ora rappresenta la maggioranza della compagnia dopo la morte del colonnello Giuffrè avvenuta il 10 maggio 1936, può eludere molte richieste di acquisto ma non  quelle dell’amm. Luigi Rizzo che non vuole continuare a svolgere solo una funzione onorifica ma desidera divenire anche lui azionista.

Ma quando nell’assemblea dei soci del 27 settembre 1937 la minoranza scopre che sono state cedute quote a Rizzo e altri ma è stata ignorata la sua precedente offerta contesta l’operato. Per tutta risposta la maggioranza fa votare dall’Assemblea una risoluzione che abbassa il capitale sociale a quota 2.300.000 cioè la quota sottoscritta. La minoranza si rivolge allora al Tribunale di Messina che però nel maggio del 1939 respinge il ricorso.

Nel 1938 il Santamarina partecipa alla produzione di un film “Traversata nera” della Sovrana film che ha fra i protagonisti anche Primo Carnera. Il film non ha successo ma la Società è soddisfatta ugualmente per avere mostrato a livello nazionale i lussuosi arredi della sua nave ammiraglia. Comunque a Salina nessuno vedrà il film perché non esistono sale cinematografiche.

    

In alto, una locandina del film e qui sopra Primo Carnera circondato da altri attori e fans.

La società della Malvasia

Ma Salina non vive solo per la Società Eolia. A metà degli anni 30 ha ripreso il commercio della malvasia e se ne spediscono 400 ettolitri. Ben poca cosa rispetto ai 3.700 hl degli anni 80 del precedente secolo, ma comunque un bel risultato se paragonato ai 50 hl degli anni 20.

L’11 gennaio 1930 era uscita una legge, la n.62,  che dava la possibilità di creare consorzi per la difesa dei vini tipici. E un paio di mesi dopo si incontrano  alla sede dell’ Eolia i principali produttori di malvasia di Salina e Stromboli. Dopo una scaramuccia sul nome giacchè diversi salinari non sono convinti di dover mantenere il toponimo Lipari,  si decide di chiamare il prodotto sulle etichette Malvasia delle Lipari.

Il compito di costituire il Consorzio viene dato ad una commissione interisole che però é troppo ampia ed un anno dopo non si è ancora riunita una volta. Lo costatano i produttori di Santa Marina che si sono autoconvocati e decidono di andare avanti senza perdere altro tempo. Ma le pastoie burocratiche sono notevoli e passeranno anni per avere il riconoscimento del nome che verrà sancito nel 1942 con decreto ministeriale del 23 settembre. Nell’immediato nasce una impresa denominata “Società della Malvasia”, ad opera di Nino Lo Schiavo, Giuseppe Re e Giuseppe Giuffré per l’imbottigliamento, l’etichettamento e la commercializzazione del prodotto. E nel 1939 la società riesce  a rilevare dai produttori 9.600 litri pari a circa il 50% della produzione dell’anno.

A sinistra Nino Lo Schiavo e a destra l'indimenticabile prima etichetta della Malvasia delleLipari.

Sull’esempio della “Società della Malvasia” sorgono altre iniziative a Santa Marina e a Malfa con centri di smistamento a Messina o Napoli.

La vitalità dei commerci stimola anche iniziative nei trasporti marittimi e nel 1938 il patron Salvatore Cincotta a Malfa mette in mare un nuovissimo motoveliero, il “San Lorenzo”, che  vuole riproporre l’attività mercantile come avveniva un tempo.

Il triste epilogo della società Eolia

Intano però a frenare e bloccare i sogni di gloria arriva la seconda guerra mondiale. Ed è l’Eolia a farne le spese. Nel novembre del 1940 la marina militare requisisce l’Eolo e lo spedisce nel mare Egeo: tornerà nell’arcipelago solo a febbraio del 1948. Dopo poche settimane viene requisito anche il Vulcano  che verrà affondato a Tobruck. Il 9 maggio del 1943 – come vedremo più avanti – viene silurato il Santamarina a largo di Vulcano ed affonderà con 43 vittime. Infine il 19 settembre dello stesso anno nello Stretto di Messina, il Luigi Rizzo ha una collisione ed affonda.

Il consiglio di amministrazione presieduto da Salvatore Re cerca di reagire a questa incredibile successione negativa riattivando i servizi attraverso piccoli motovelieri  e noleggiando il piroscafo Nesazio. Ma i traffici si sono molto ridotti. In più si aggiunge nell’estate del 1945 un drammatico incendio nel versante est dell’isola e quando, in autunno giungeranno alluvioni e frane verrà spazzata via i tre quinti delle proprietà coltivate a S. Marina. Si va avanti in qualche modo noleggiando altri piroscafi all’esterno – come il Pola e il Rismondo – o indebitandosi nel recupero del Luigi Rizzo e questo facendo leva su sovvenzioni e contributi governativi. Ma lo scenario rimane cupo. Di questa situazione di incertezza ne approfitta il dott. Francesco Santisi nativo di Scaletta Zanchea che tornato da Boston dopo un certo periodo in cui aveva insegnato inglese nelle scuole di Mesina si era impiegato alla Eolia dove nel 1944 era divenuto procuratore generale del gruppo con l’incarico di curare la liquidazione dei danni di guerra.

Dott. Francesco Santisi

Con lo sbarco degli alleati aveva collaborato col comando ed aveva cercato di recuperare il piroscafo Eolo guadagnando considerazione e prestigio nella società. Quando Gaetano de Luca diventa Amministratore delegato il Santisi stringe una alleanza di ferro con lui mentre prende a coltivare i rapporti politici con l’on. Gaetano Martino, deputato liberale di Messina. Ed è grazie a questo appoggio che tra la fine del 1947 ed i primi del 1948 riesce ad ottenere un primo contributo governativo straordinario per coprire le spese del recupero del Luigi Rizzo. Infine il 30 giugno del 1949 viene eletto Amministratore delegato della Società e poi anche presidente del Consiglio d’Amministrazione e presidente dell’Assemblea. Quando nel 1949 muore il suo socio De Luca riesce a farsi cedere la sua quota azionaria.  Ma è una situazione abbastanza delicata  perché è vivace l’opposizione dei salinari che gli rimproverano soprattutto il fatto di avere spostato la sede del la Società da S. Marina a Messina.

L’11 febbraio del 1952  giunge la legge n. 74 che autorizza la rivalutazione delle azioni fino a quaranta volte il valore nominale. Ed è facendo leva su di essa che Santisi  punta ad acquisire la grande maggioranza delle azioni e contemporaneamente  chiudere l’Eolia le cui convenzioni sono in scadenza. Santisi si allea con l’armatore liparese Giovanni La Cava, costituiscono una nuova società regolarmente iscritta all’Albo delle imprese mercantili e decidono di partecipare alla gara per acquisire le nuove concessioni. Alla gara partecipano anche la Navigazione Generale Italiana (N.G.I.) che ha come principale azionista Bartolino La Cava che è cugino di Giovanni e come presidente l’on. Stagno d’Alcontres, e la Compagnia Siciliana Marittima Navisarma con sede a Palermo e Trapani. La società di Santisi e La Cava viene esclusa dalla competizione perché incredibilmente Giovanni La Cava si  dimentica, malgrado se ne fosse assunto il compito, di versare la cauzione prevista; la NGI viene esclusa perché il suo presidente è un parlamentare e questo è incompatibile col bando e la gara la vincerà la Navisarma. Si chiude così la gloriosa e sofferta pagina dell’Eolia forse la più importante società promossa nell’arcipelago.



[1] M. Saija e A. Cervellera, Mercanti di mare, op. cit., pag. 221. Tutto questo paragrafo è ispirato a questo lavoro facendo riferimento, in particolare, alle pp. 201- 250.

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Nino Lo Schiavo

Il fascismo combattente fra propaganda e sfilate

 

Le polemiche sulla fuga

Il 24 marzo del 1929 il fascismo volle la prova di forza delle “elezioni plebiscitarie” cioè quelle che dovevano essere un plebiscito per il regime. Anche a Lipari, come nel resto d’Italia esse furono celebrate in maniera , annota Lussu, “silenziose, ma solenni”.

“Al comizio del ‘gerarca’ venuto appositamente da Messina, prese parte poca gente, ma alle elezioni intervennero tutti. Lipari ha molti abitanti emigrati nell’Australia e nel Canadà: votarono anche quelli. Purtroppo negli ultimi anni, parecchi elettori erano morti. Anch’essi votarono. Immaginiamoci i viventi! Inquadrati da militi e da agenti, in varie colonne raggiunsero le urne. Allo scrutinio dei voti, si trovò che il numero degli elettori iscritto alle liste era stato superato di tre. La vitalità del Regime è innegabile[1].

Il sarcasmo di Lussu scolpisce duramente la tracotanza di un regime tutto teso ad apparire al di là della realtà. Ci furono più votanti degli aventi diritto e …”per una settimana non si parlò d’altro”.  Certamente fra i confinati ma forse anche fra molti isolani che, al di là dell’unità e della compattezza formale, covavano molti risentimenti e rancori.

Questo evento diede la stura a tutta una serie di denunce anonime ed alcune anche con tanto di firma come quelle a nome di Giovanni Caputo e di Giovanni Natoli dirette a contestare il comportamento delle “autorità” locali  prima e durante la fuga.

Un gruppo di confinati in un momento di svago.

“Nessun servizio di sorveglianza è stato mai fatto per mare, - scrive Giovanni Caputo direttamente a Mussolini il 30 luglio - i mezzi a disposizioni dell’Autorità ad altro non sono serviti che a fare delle più o meno lunghe gite per le isole, a cui prendevano parte talvolta anche dei privati dove non mancava l’elemento femminile, ed a fare da spoletta tra Lipari e Canneto per accompagnare e poi rilevare il Ragioniere Salvatore Saltalamacchia, mentre il personale di marina addetto ai motoscafi passava il tempo a fare baldoria negli alloggiamenti appositamente costruiti a porto Pignataro con donne più o meno equivoche. Qualora si dovessero interrogare i testi, si tenga presente che questi possono essere facilmente distolti per opera del signor Fiorentino Antonino uno dei facenti parte della comitiva delle gite di piacere[2]

Sempre di gite di piacere  parla in una lettera al prefetto di Messina del 29 luglio Giovanni Natoli, ma allarga il numero dei festaioli citando il Commissario di P.S., il Podestà, il Procuratore delle Imposte e del Registro, il Pretore, gli Ufficiali della Milizia, i Marescialli della P.S. e  dei carabinieri, il medico della colonia, il prete di S. Pietro, il direttore dell’Azienda elettrica sig. Zagami Bartolo, il capo dei sindacati sig. Fiorentino Antonino e spesso i vari membri delle relative famiglie, donne e uomini grandi e piccoli. Uno sperpero di benzina per gite a Salina, Vulcano e altrove[3]. E sono diversi a riferire il fatto che quel 27 sera mentre i confinati fuggivano le autorità si intrattenevano in baldoria fra i liquori e i rinfreschi ai tavoli del caffè di Marina corta.

Una lettera anonima del 31 luglio indirizzata direttamente a Mussolini va oltre la critica di  leggerezza e avventatezza e vuole vederci un atto proditorio: “Lussu, Nitti e il Prof. Rosselli seppero approfittare della odiosità contro V.E. del Saltalamacchia e del Fiorentino perché l’E.V. li ha revocati accorgendosi che han rubato in nome del Fascismo, e della loro posizione economica scossa e li hanno corrotti con denaro. E i tre funzionari pare siano stati complici necessarii perché troppo legati a Saltalamacchia e Fiorentino da complicità precedenti… Ecco il Fascismo di Saltalamacchia e Fiorentino, di Lipari e dei Funzionari. Chi scrive teme ancora il comm. Cannata e non può firmare![4].

Ci fu corruzione e connivenza nelle autorità locali? Carlo Rosselli lo esclude e probabilmente è vero.  Ma due cose giocarono a favore dei fuggitivi: l’eccessiva sicurezza nelle misure adottate e la rilassatezza che c’era in molti verso un compito di vigilanza che riservava più frustrazioni che ricompense. Quanto alla gente di Lipari il caso di Edoardo Bongiorno era più unico che raro mentre la grande parte della popolazione viveva il fascismo in maniera conformistica senza eccessivi trasporti anzi diffidando da quegli esagitati in camicia nera che si lasciavano andare a esternazioni chiassose ed anche ad atti di violenza nei confronti di gente inerme.  Vi era poi la classe dirigente formata da professionisti e gente in vista, apparentemente tutta votata al regime ma traversata da mille sospetti e grandi antipatie che li rendeva pronti – come abbiamo visto –a farsi le scarpe reciprocamente.

Fra propaganda e sfilate

Comunque gli anni trenta sono per Lipari quelli del consenso generale cadenzato prima dalle grandi opere come la bonifica delle paludi pontine e dalle grandi imprese di trasvolo dell’Atlantico e poi dalle imprese belliche che fecero scivolare via via l’Italia verso il disastro della seconda guerra mondiale mentre si sfilava per le strade in occasione delle ricorrenze patriottiche: i militi in camicia nera, i bambini vestiti da “balilla” e le “piccole italiane” con la camiciola bianca, accompagnati dai maestri. Militi, balilla, piccole italiane ed anche i personaggi più in vista del partito ogni sabato pomeriggio erano impegnati al campo sportivo nei saggi ginnici al suono delle musiche di regime e con cori dedicati alla Patria e al “Duce”. Il giovedì suonava in piazza la banda della milizia e la domenica quella cittadina.

Che sapeva Lipari del fascismo? Quello che dicevano i Giornali Luce che erano veri e propri documentari di propaganda fascista ed fornivano le uniche immagini che giungevano dall’Italia e dal mondo e venivano proiettati al cinema  Eolo, che si era aperto nel 1932, prima delle pellicole. In quegli anni arrivò anche  la radio ed il suo uso di massa.

L’ascolto collettivo nelle scuole elementari iniziò il 19 Aprile 1933. “L’ ERR costituito dal governo fascista – diceva il discorso inaugurale - si propone di far giungere a tutte le scuole l’eco degli avvenimenti più notevoli e delle creazioni più geniali della vita nazionale. … Voi, fanciulli d’Italia… sentirete la soddisfazione di servire l’Italia, di obbedire all’alto e sublime comando del Re e del Duce “.

Sui muri delle case di Lipari e di Canneto cominciarono a comparire scritte riprese dai discorsi di Mussolini sempre più di carattere guerresco, come :” Libro e moschetto, fascista perfetto”, “Noi sogniamo l’Italia romana”, “Molti nemici molto onore”,”E’ l’aratro che traccia il solco e la spada che lo difende”, “Credere, obbedire, combattere”,”Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, se muoio vendicatemi”.

Allora la strada elegante di Lipari era ancora via Garibaldi dove c’erano il bar Eolo, l’edicola del vecchio Belletti, il negozio Bosco di stoffe e indumenti, il negozio Tonelli, il piccolo bazar Biancheri, la gioielleria Cappa, la calzoleria Perdichizzi, la cartoleria Andrioli, il ristorante Paino[5].

Agli inizi degli anni trenta, alcuni imprenditori genovesi, i Tissoni per esempio, impiantarono a Lipari una industria di conservazione ed esportazione di pesce a cominciare dalle “ciciredda” ma con la guerra l’esperienza finì. Quanto alle scuole oltre alle elementari vi erano i tre anni della complementare. La maggior parte dei ragazzi andavano a bottega o facevano gli apprendisti dal barbiere, dal calzolaio, dai falegname, dal fabbro. Per le strade ogni tanto si vedeva girare, annunciandosi a voce alta, l’arrotino, l’ombrellaio il riparatore di giarre e bauna di terracotta.

Chiesa patriottica e clima dell'impero

Della guerra in Etiopia che fu un grande disastro e dove gli italiani si macchiarono di crimini vergognosi a Lipari non si sapeva niente, se non che si combatteva per fare più grande la Patria e ricostruire l’Impero. Così tutti canticchiavano le canzonette “Faccetta nera, bella abissina/ aspetta e spera che già l’ora si avvicina” , oppure “Io ti saluto: vado in Abissinia/ cara Virginia, ma ritornerò”. E poi ascoltarono alla radio l’annuncio il 9 maggio 1936 della fondazione dell’impero. Intanto qualche mese prima anche a Lipari come in tutta Italia fu raccolto l’oro della Patria. Per rispondere alle “inique sanzioni” che erano state applicate al nostro paese per l’invasione dell’Etiopia, il regime pensò di coinvolgere la gente minuta chiedendo di cedere i pochi ori che avevano a cominciare dalla “fede nunziale”. E di questa raccolta si fece attivo promotore il Vescovo presso parroci e fedeli. Ed è ancora il Vescovo nelle Eolie a farsi promotore verso la gente per “la battaglia del grano” anzi mons. Re era il 9 gennaio 1938 fra i cento vescovi e 2400 parroci che a Roma recarono corone alla tomba del Milite Ignoto e poi nella Sala regia di Palazzo Venezia dedicarono a Mussolini una lunga ovazione. Tornato a Lipari volle dare lui stesso l’esempio incrementando la produzione nel terreno vescovile che si chiama la Chiusa ed è sopra Pianoconte. Per queste iniziative “patriottiche “ il vescovo si trovava a fianco il canonico Giovanni Barresi.

Mons. Re ad una manifestazione

E dopo l’Etiopia dove gli italiani andavano a portare la “civiltà”, arrivava la Spagna dove si andava a combattere contro “i comunisti” e per conquistare il governo per Francisco Franco e il franchismo. Ancora il 21 ottobre del 1936 si apprende dalla radio che l’Italia si è alleata con la Germania e questa alleanza si chiama “Asse Roma –Berlino”. Nell’aprile del 1939 l’Italia occupa l’Albania e la gente apprende che Vittorio Emanuele III ora si chiama re d’Italia e di Albania ed imperatore di Abissinia. Ma erano eventi lontani che la gente seguiva con relativo distacco anche se i più avvertiti comprendevano che ci si stava avviando a marce forzate verso un’altra guerra mondiale. Nel popolo invece più attenzione richiamavano le prime macchine che sbarcarono a Lipari e cominciarono a girare per le strade: una Alfa Romeo, una Topolino, una motocicletta e un autobus per un servizio di trasporto pubblico che durò poco tempo.

Quando nel giugno del 1929 viene revocato il podestà Salvatore Saltalamacchia al Comune si susseguono una decina di Commissari [6]che non durano mai più di un anno salvo il dott. Giacomo Furia che amministrerà dal 16 settembre 1930 al 12 dicembre 1935  e si devono al suo impegno una serie di opere pubbliche come il basolato di via Umberto, la mattonatura di Piazza Ugo di Sant’Onofrio, la ristrutturazione del muro del cimitero di Lipari con la realizzazione di una sontuoso cancello di ingresso; l’ampliamento di via S. Lucia e di via Diana.

Ma più dei commissari, regi o prefettizi che fossero, che andavano e venivano, un ruolo importante lo svolgevano a Lipari i segretari del partito che giravano per le strade sfoggiando la loro camicia nera, il fez e gli stivaloni di cuoio. Dopo Antonio Parasiliti che era di Tortorici e fu segretario per un anno nel 1926, toccò a Salvatore Saltalamacchia dal 1927 al 1928, poi a Pietro Morsillo dal 1928 al 1929, quindi a Francesco Vitale detto Checchino dal 1929 al 1933, a Bartolo Zagami il proprietario della SEL dal 1933 al 1936, ancora a Bartolo Zagami dal 1936 al 1942 e di nuovo a Vitale nel 1943 l’anno in cui a Lipari arrivarono gli inglesi.[7]



[1] L. Di Vito e M. Gialdroni, op. cit., pag. 236.

[2] Idem, pag. 269.

[3] Idem. Pag. 239.

[4] Idem, pag. 302.

[5] R. De Pasquale, Il mio tempo, Lipari 1990, pag. 24.

[6] Dal 6 luglio 1929 al 5 settembre 1930 ci sarà il cav. Antonio Brunelli, commissario prefettizio; dal 6 settembre 1930 al  16 dicembre 1933 il dott. Giacomo Furia prima come commissario prefettizio e poi come regio podestà;  dal 28 dicembre 1933 al 21 gennaio 1934  Antonio David come commissario prefettizio;  dal 29 gennaio 1934 al 18 dicembre 1935 di nuovo il dott. Furia  come regio podestà;  dal 29 dicembre  1935 all’11 febbraio 1940 il dott. Riccardo Rickards prima come  commissario prefettizio e poi come regio podestà;  da febbraio a luglio del 1940 il rag. Nazareno Saya come commissario prefettizio; dal 15 luglio 1940 al 20 giugno 1941 Bartolo Carnevale prima come vice commissario prefettizio e poi come commissario prefettizio; dal 9 al 28 settembre 1941 il dott. Roberto Siragusa come commissario prefettizio, dal 29 settembre 1941 al 30 gennaio 1942 il notar Giovanni Paino, come vice commissario prefettizio; dal 31 gennaio al 28 ottobre 1942 l’avv. Giuseppe Barreca come commissario prefettizio, dal 29 ottobre 1942 al settembre 1943 il dott. Francesco Napolino come commissario prefettizio.

[7] Alla redazione di questo paragrafo oltre a G.Iacolino, Strade che vai ecc., op. cit., hanno concorso R. De Pasquale,  Il mio tempo, op. cit..; R. De Pasquale, Momenti. Riflessioni e ricordi, Lipari 1993; A. Adornato, Due millenni di storia eoliana, op. cit.

Una intervista di Emilio Settimelli al Vescovo Mons. Re

 

Nell'articolo che alleghiamo pubblichiamo una intervista del 1952 dello scrittore e giornalista Emilio Settimelli al Vescovo di Lipari Mons. Re.  Del Vescovo Re in questo Archivio se ne parla abbondantemente, ma chi era Emilio Settimelli? Che ci faceva a Lipari nel 1952 ? E da dove nasceva la familiarità c ol Vescovo che traspare dall'articolo?

Emilio Settimelli nacque a Firenze il 2 agosto del 1891 e morì a Lipari il 12 febbraio del 1954. Prende a lavorare sulla rivista “La difesa dell’arte” poi nel 1913 fonda le riviste “Il Centauro” e “La rivista”. Nel 1914 si avvicina al  fondatore del futurismo Marinetti a cui lo accomuna l’interesse per il teatro. Nel 1915 firma con Marinetti e Corra il “Manifesto del teatro futurista sintetico” e sulle pagine de “L’Italia Fututurista”, fondata con Corra nel 1916, pubblica e firma i manifesti “La scienza futurista” e “La cinematografia futurista”, (1916). Nello stesso periodo pubblica i volumi “Avventure spirituali” (1916), “Mascherate futurista” (1917) e “Inchiesta sulla vita italiana” (1919).

Nel 1918 si trasferisce a Roma e fonda con Carli e Marinetti “Roma futurista”, organo del partito politico futurista. Sempre con Carli dirige la rivista “Dinamo” (1919) e partecipa alla Grande esposizione nazionale futurista di Milano.

Aderisce al fascismo e nel 1921 si allontana dal movimento futurista perché in disaccordo con il fondatore. Un dissidio destinato ad approfondirsi fino a culminare nella sua scomunica che Marinetti proporrà al congresso degli scrittori di Bologna nel 1933. Nel 1923 dirige, sempre con Carli, “L’Impero”, quotidiano gradito a Mussolini. Le opere di questo periodo rispecchiano le sue scelte politiche: “Benito Mussolini” (1922), “Colpo di stato fascista” (1922), “Gli animatori – B.Mussolini” (1925). Parlando di Mussolini nel libro a lui dedicato Settimelli lo paragona ad un condottiero, affermando che possedeva un enorme magnetismo personale  e che “i suoi occhi che vi sparano addosso degli sguardi magnetici sono fatti per il comando”( v. Luisa Passerini, Mussolini immaginario. Storia di una biografia 1915-1939. Laterza, Bari, 1991 pag. 202; Simonetta Falasca Zampone, Lo spettacolo del fascismo, Rubettino editore, pag.88). L’intesa finisce a causa della pubblicazione di opuscoli fortemente anticlericali che, insieme ad una lettera di aspra critica nei confronti dell’operato di alcuni gerarchi fascisti, costano a Settimelli cinque anni di confino. Ed alcuni mesi di questo confine lo scrittore li trascorse a Lipari nel 1937. Tornò a Lipari, con la famiglia all’inizio degli anni 50 dove vi morì.

L’articolo che alleghiamo Settimelli lo scrive nel 1952 per il Corriere di Sicilia cioè nel secondo e ultimo soggiorno liparese. E’ un bel ritratto del Vescovo di Lipari mons. Salvatore Bernardino Re che era tornato proprio il giorno prima dal suo viaggio in Australia dove era andato a trovare gli eoliani là emigrati, ma è anche una testimonianza che l’anticlericalismo che nel 1937 era stato fra le cause del suo confine ora era del tutto scomparso.

Lipari ha un nuovo vescovo: Mons. Salvatore Bernardino Re

 

 

Il Sindaco e il Capitolo della Cattedrale chiedono un Vescovo

Mons Re a Marina Corta con un gruppo di fedeli. Alla sua sinistra Mons. Anton ino Profilio fratello di Madre Florenzia.

Lipari era senza vescovo da quando mons. Angelo Paino nel 1913 era partito per Messina, per allentare la tensione con i maggior esponenti locali, e non vi aveva fatto più ritorno. Nel frattempo mons. Paino era diventato arcivescovo di Messina e a Lipari era stato mandato un Amministratore Apostolico, mons.  Salvatore Ballo Guercio[1] che era prelato di Santa Lucia del Mela.   Ora diverso si  delineava il rapporto della classe dirigente con il Vescovado. Caduto il conflitto per il demanio pomicifero e sistemate, in qualche modo, le entrate della diocesi, esisterebbero finalmente le condizioni per un rapporto sereno e produttivo[2].

Ed era i Sindaco a proporre al Consiglio un voto perché Lipari riavesse il suo vescovo. “La sede vescovile – esordisce Salvatore Saltalamacchia nel Consiglio del 12 luglio 1925 – attraverso la quale noi costituiamo un popolo, è il nostro più legittimo orgoglio e tutti sentono il bisogno di una supplica e caldo voto perché la Santa Sede non voglia cancellare dalla nostra Storia questa pagina luminosa. Il popolo nostro abituato a vedersi il Vescovo accanto che, insieme con l’autorità cittadina collaborava al benessere pubblico; che in tutte le circostanze sapeva farsi tutto di tutti oggi che nonostante i supremi sforzi dell’Amministratore Apostolico, è costretto a vederselo a sbalzi, ne soffre come di una mutilazione vitale ed ha la penosa impressione del distacco completo dal Continente”[3].

Alla perorazione del Sindaco si aggiungono, in una lettera al Papa del 31 agosto 1925, quelle del  Capitolo della Cattedrale tanto più – sottolineano i canonici - che “oggi il Governo dello Stato è venuto in aiuto di tutte le sedi vescovili, fra queste non ha trascurato di aumentare anche le rendite di questo vescovado”[4].La Congregazione vaticana invece pensava ad unire , almeno “ad personam” cioè nella persona di un unico vescovo, le diocesi di Lipari e S. Lucia del Mela ed affidarle entrambe a Mons.Ballo.  Ma la risposta di questi e le antipatie che contava fra i preti di Lipari dovettero far cambiare idea a Roma tanto che il segretario della Congregazione Concistoriale il 14 dicembre 1925 scriverà a Mons. Ballo: “Al Capitolo e ai buoni secolari di quelle isole che desiderano la nomina di un Vescovo faccia conoscere la necessità di costituire una abitazione od una dote iniziale conveniente perché un vescovo possa ivi dimorare almeno un po' di tempo”.

Comunque bastano due anni e mezzo per fare cambiare opinione agli ambienti Vaticani. E così il 20 aprile del 1928 viene nominato il nuovo responsabile della diocesi nella figura del cappuccino fra Bernardino Salvatore Re di Favara[5] annunziato, come avveniva solitamente per i fatti importanti, dal banditore che girava per le strade della cittadina con al collo un grosso tamburo e introducendo la notizia con “Sintiti, sintiti…”.

Il nuovo vescovo è un cappuccino

In alto, la foto ufficiale del vescovo. A destra, una foto famosa. Il nuove vescovo fa le visite pastorali con l'asinello

                                                

Il nuovo Vescovo – oltre a rilanciare la vita religiosa locale - instaurerà dei rapporti di collaborazione con la classe dirigente  che era quella del fascismo, anche se nello spirito di contribuire al benessere dell'arcipelago e della diocesi[6].

Di particolare significato fra i primi impegni di rilievo civile è l’azione che profuse nella riapertura della scalinata che porta alla Cattedrale.

Quando misi piede per la prima volta in quest’isola – dirà nel discorso di inaugurazione avvenuto il 24 agosto del 1931 - , la Cattedrale con la sua ampia strada ostruita mi sembrò una signora decaduta in bassa fortuna: la luce fulgida di una storia di secoli, piovendo a torrenti dalle altezze vertiginose della vetusta mole della prima chiesa di Lipari, veniva come a perdersi fra i rottami e le macerie, di cui era ingombra questa via….Ora è un anno, la mattina del 24 agosto 1930, uscendo dalla Cattedrale , dopo il Pontificale, il Comm. Furìa mi venne incontro e mi disse:’Sono convinto della necessità di aprire la via della Cattedrale’”[7].

Acquisita la disponibilità del Comune, mons. Re non attende che si renda disponibile un finanziamento pubblico ma si rivolge al comandante della milizia fascista per avere le braccia  e la direzione dei lavori. Ed  anche qui trova piena disponibilità “Monsignore – dirà il comm. Frondini – se il Municipio mi dà la materia prima, io con l’aiuto delle mie Camice nere ne porterò a compimento l’opera”. E così il 24 agosto del 1931 fra discorsi, “alalà”, e la fanfara della milizia le autorità e la folla riprendono possesso della scalinata che si chiamerà via del Concordato per ricordare il concordata firmato nel 1929 fra lo Stato e la Chiesa ma anche, in qualche modo, un’epoca nuova di rapporti fra il Vescovato e il Comune. Infatti il 17 febbraio di quell’anno nella sede dell’episcopio vi fu una solenne cerimonia con  la partecipazione di autorità civili e militari, fascio , sindacati fascisti, confraternite, tutti con gagliardetti, vessilli, stendardi conclusasi con la messa ed il canto del Te Deum.

Marciamo avanti signori, - esortò mons. Re a conclusione - stringiamoci ordinati e disciplinati sotto i due vessilli: quello del Papa e quello dell’Italia, e saremo all’avanguardia di tutte le nazioni! Andiamo avanti, e facciamo si che la patria terrena ci spinga verso le vette e sublimi della patria celeste[8]”.

L’anno prima il 14 settembre 1928  a Monte Rosa  si era eretta una croce in traliccio di ferro, alta 11 metri, quale monumento ai caduti della guerra 1915-18.[9]

Come abbiamo visto, fin dai primi anni del secolo, era invalso l’uso di promuovere collette fra gli eoliani emigrati in America o in Australia a favore di iniziative, soprattutto a carattere religioso, da realizzarsi nelle Eolie. Questa pratica fu sviluppata in modo particolare da mons. Re. Una importante colletta fu quella promossa a New York , a metà del 1929, proprio a ridosso del famoso “giovedì nero” della borsa newyorkese che inaugura il periodo della “grande depressione”.Obiettivo era  quello di finanziare l’orfanotrofio delle suore francescane che si era  inaugurato a Lipari nel giugno dell’anno precedente. Anche se i promotori - fra cui don Antonino Profilio fratello di madre Florenzia, la fondatrice dell’Istituto – incontrano delle difficoltà non solo per la situazione economica che andava precipitando ma soprattutto perché un’altra colletta avvenuta qualche anno prima a favore dell’Ospedale mandamentale di Lipari era rimasta senza riscontro da parte dei liparesi, verranno raccolti oltre 20 mila lire. Poco tempo dopo un'altra colletta sarebbe stata promossa, soprattutto in Australia, fra gli emigranti eoliani per pagare il “Vascelluzzo” in argento ed oro[10].

Mons. Re durante la sua abituale passeggiata nel giardino del palazzo vescovile.

[1] Mons. Salvatore Ballo Guercio nacque a Palermo il 27 settembre 1880. L’8 marzo 1920 divenne vescovo titolare di Tripoli e prelato di Santa Lucia del Mela. Ricoprì la responsabilità di Amministratore apostolico di Lipari dal 1921 al 1928. Fu vescovo di Mazzara del Vallo dal 18 settembre 1933 all’8 agosto 1949. Morì a Roma il 12 agosto 1967.

[2] Ancora nel periodo in cui Mons. Ballo era stato amministratore apostolico non erano mancate le tensioni con il Municipio soprattutto a causa dell'antico palazzo vescovile , quello a fianco alla Cattedrale, che era adibito come sede delle forze di polizia ed i confinati e che invece il Vescovo rivendicava. Cfr. P. Agostino Lo Cascio da Giardini, Mons. Bernardino Salvatore Re, Messina, pag.112.

[3]  Dal verbale del Consiglio Comunale.

[4] Sarà poi il Concordato l’11 febbraio del 1929 che verrà a sanare definitivamente la situazione economica delle Diocesi . Cfr P. Agostino Lo Cascio, Mons. Bernardino Salvatore Re, Messina.

[5]  Mons. Bernardino Salvatore Re era nato a Favara in provincia di Agrigento da Calogero Re e da Carmela Lentini. Veste l'abito cappuccino il 17 aprile del 1901 e incomincia il Noviziato nel Convento di Caccamo in provincia di Palermo. Nel 1902 emette la professione semplice e inizia gli studi filosofici a Palermo. Il 2 dicembre del 1905 emette la professione solenne dei tre voti di povertà, ubbidienza e castità. Il 25 maggio è ordinato sacerdote nella Cattedrale di Palermo. Dal 1909 al 1912 è a Roma dove studia presso la Pontifica Università Gregoriana e si laurea in Filosofia. Subito dall'ottobre 1912 insegna filosofia allo Studentato Cappuccino di Palermo e l'anno dopo al Seminario Arcivescovile di Monreale.

Nel 1916 viene chiamato alle armi e presterà il servizio nel “Plotone di cura” della Compagnia di Sanità a Palermo specializzandosi in massaggiatore. Militare rimarrà fino al congedo nel 1919 quando riprenderà ad insegnare allo Studentato Cappuccino.

Nel 1920 era stato eletto Ministro Generale dei Cappuccini p. Giuseppe Antonio da S. Giovanni in Persiceto che il 14 luglio dello stesso anno chiama a Roma p. Bernardino e lo nomina Vice Segretario Generale per l'Italia Meridionale. In questo lavoro il frate di Favara conquista la fiducia del suo superiore che lo vuole come segretario nel viaggio che farà in Uruguay, Stati di San Paolo e del Paranà in Brasile, e nell'Argentina nella visita canonica alle case cappuccine dell'America meridionale. Il viaggio era iniziato il 7 dicembre 1923 e già il 20 dicembre la S. Sede nomina il Ministro Generale dei Cappuccini Visitatore Apostolico di 24 diocesi del Brasile accrescendo di importanza e di impegno la missione che era appena iniziata. Un'altra nomina a Visitatore Apostolico delle Case degli Scalabriniani del Brasile arriverà a metà di Agosto.

La missione durò 17 mesi ed i due visitatori rientrarono a Roma il 24 aprile del 1925 ma prima di essere passati da San Giovanni Rotondo per fare una visita a P. Pio da Pietralcina, cappuccino come loro, di cui cominciava a diffondersi la fama di santità.

Il 15 luglio 1925 p. Bernardino veniva eletto Ministro Provinciale dei Cappuccini di Palermo. E siccome a questa Provincia erano state affidate le Missioni di Candia p. Bernardino dal 9 giugno all'8 agosto del 1927 visiterà le case di Corfù, Santa Maura, Cefalonia, Chio Naxos, Creta e Sira. Durante il triennio di Ministro Provinciale si occupa del Santuario di Santa Rosalia sul Monte Pellegrino, della sistemazione degli studentati della provincia, dell'istituzione di un ambulatorio francescano a favore degli infermi poveri delle contrade dove operano i cappuccini, dell'ottenimento del riconoscimento giuridico del collegio missionario di Palermo.

Ora p. Bernardino salutava i cappuccini di Palermo e già pensava al suo nuovo impegno. Lo stesso Mons. Re raccontava che quando si incontrò per la prima volta col Papa Pio XI, prima dell'ordinazione sacerdotale, questi alludendo al suo cognome giovialmente lo salutò in latino:” Abbiamo trasformato le isole Lipari in un regno” e Mons. Re di rimando alludendo al confino politico: “Avete relegato un Ministro Provinciale in un isola”.

Fra le prime iniziative del nuovo vescovo: la pubblicazione a partire dal gennaio 1929 di un periodico mensile chiamato “Bollettino diocesano”; l'organizzazione di un pellegrinaggio a Roma , la visita pastorale in tutte le parrocchie a cominciare da quella più lontana di Alicudi.

L'1 dicembre del 1929 benedice la posa della prima pietra per la ricostruzione della Chiesa di San Pietro che era in rovina. Ma l'attenzione del nuovo Vescovo era soprattutto rivolta alla formazione religiosa e morale della gente a cominciare dai più giovani e per questo promuove il catechismo, sollecita l'organizzazione dell'Azione cattolica ed organizza pellegrinaggi.

Il 9 marzo 1930 scrive ai parroci perchè in ogni parrocchia in prossimità della Pasqua si dia vita ad una scuola di catechismo e soprattutto si promuova l'Azione Cattolica sia maschile sia femminile che nella diocesi manca completamente Quanto al pellegrinaggio, dal 22 maggio al 7 giugno si svolge quello a Lourdes passando per Roma all'andata e da Marsiglia al ritorno e quello a Valdichiesa dal 20 al 23 giugno con intensi momenti spirituali.

Ma questa forte volontà di rilanciare la presenza e l'attività della Chiesa nelle isole si scontra con le carenze storiche del clero eoliano. Il vescovo lo sa e subito pensa di riaprire il Seminario per il quale c'è il Palazzo ma non ci sono i seminaristi. Ne da notizia il 24 agosto nel Bollettino Diocesano ed infatti nell'anno scolastico 1931-32 si inaugurano le classi del Ginnasio inferiore. Ma il progetto non va in porto: Mancano le vocazioni e costa troppo, così nel 1936 verrà chiuso definitivamente.

A coronare questi primi anni di intenso lavoro pastorale giungono a compimento due opere che erano state avviate da lungo tempo ma non si era mai riusciti a completare: la realizzazione in oro ed argento del Vascelluzzo che ricordava l'arrivo a Lipari di un carico di frumento nella carestia del 1672 e conteneva una reliquia del santo; il completamento della gradinata di accesso alla Cattedrale.

Grazie all'interessamento del Vescovo il 22 agosto del 1934 il Convento dei Cappuccini al Camposanto tornava , con i mobili, gli arredi ed i libri dell'antica Biblioteca, alla Chiesa di Lipari; anche la Chiesa di Sant'Antonio, a piazza Mazzini, ed una parte del convento per l'abitazione del Rettore della Chiesa sarebbe dovuta retrocedere. Ma per quanto riguarda i locali della rettoria la consegna non è mai avvenuta perchè non si è trovato mai un accordo fra Vescovi e Municipio circa i locali da cedere.

Questa attenzione ai luoghi sacri si estese anche alle parrocchie ed alle residenze dei parroci che erano tutte in condizioni precarie e qualche volta addirittura inesistenti. Attraverso la “Commissione Pontificia delle Opere Parrocchiali “ Mons. Re fra il 1933 e il 1940 riuscì a far ottenere ad ogni chiesa parrocchiale una decorosa canonica.

Commossa fu la partecipazione del vescovo ai lutti ed alle difficoltà delle famiglie eoliane durante gli anni della seconda guerra mondiale come pure non mancò, tramite gli organi della S. Sede, di fornire notizie sui prigionieri liparesi e deportati politici.

Gli anni 50 si aprono per Mons. Re all'insegna delle visite agli emigranti eoliani in America ed in Australia con i quali era rimasto sempre in contatto e ai quali, come abbiamo visto, diverse volte aveva chiesto un contributo per opere religiose e caritative nelle Eolie.

L'ultima sua opera fu la benedizione solenne della chiesetta di Vulcano porto che avvenne il 29 luglio del 1962. Il 28 dicembre dello stesso anno egli lasciava Lipari per recarsi all'Ospedale Piemonte di Messina . Partendo da Sottomonastero e salendo sulla scaletta del piroscafo disse a chi lo salutava e gli augurava un pronto rientro “In nome di Dio” . Sarebbe morto il 15 gennaio 1963. Con la sua personalità e la sua cultura rimane una delle figure più significative del 900 eoliano.

[6]  . Nello stesso spirito, rapporti positivi instaurerà nel dopoguerra sia nel periodo del governatorato inglese sia con i dirigenti della nuova Italia democratica e repubblicana  Su mons. Re l'opera più completa è quella già citata di P. Agostino Lo Cascio da Giardini.

[7] Dal “Bollettino diocesano di Lipari”, in  Agostino Lo Cascio, Due saggi di storia liparitana,  Messina 1975, pag.56.

[8] A. Adornato, Due millenni di storia eoliana,  Messina 2000, pag. 168-169.

[9] Idem, pag. 167.

[10] M. Giacomantonio, Florenzia che ha svegliato l’autora, op. cit. , pag.219 e ss.

 

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La croce di Monte Rosa

Una fuga dal confino che è uno smacco al fascismo

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Raduno della Milizia fascista a Lipari, al Pozzo.

Una lunga preparazione

Ma ciò che tiene impegnati i confinati nella quiete forzata delle giornate di Lipari è il pensiero e, se possono, la preparazione della fuga. La tentano in diversi in quei mesi. Ma sempre senza alcun risultato. Anche Rosselli, Nitti, Lussu - in un primo tempo con Gioacchino Dolci, un disegnatore tecnico che redige la mappa dettagliata delle coste liparesi e verrà liberato a fine 1928 -  falliscono alcuni appuntamenti con i loro liberatori ma comunque continuano a studiare ed a preparasi. Il loro tentativo è diverso dagli altri perché non si base sull’improvvisazione ma su una programmazione attenta e puntigliosa e soprattutto fa conto di un intervento esterno. Ed è per questo che, alla fine, riuscirà. E’ in questo impegno nella preparazione che conoscono Edoardo Bongiorno.

Don Edoardo Bongiorno socialista e maestro di musica

Don Edoardo Bongiorno, socialista e maestro di musica.

Edoardo Bongiorno era – lo descrive Busoni - una singolare ed esemplare figura di cittadino democratico. Fin dal lontano 1895, quando aveva 16 anni, aveva fondato a Lipari il Movimento oeraio socialista. Musicologo appassionato aveva diretto per molti anni la scuola di musica . Capobanda del corpo musicale locale si era trovato poi a farne parte anche durante il periodo fascista, quando era invalsa l’abitudine di far precedere ogni manifestazione al suono di “Giovinezza” e della “Marcia reale”. Ebbene, al suono di quegli inni, il capomusica Bongiorno non partecipava e ostentava il suo gesto polemico mantenendo in tutta evidenza abbassato il suo strumento”[1].

Edoardo Bongiorno diede un contributo positivo alla fuga. Probabilmente l’unico liparese che fu fatto parte dell’impresa e comunque l’unico che agì per motivi ideali. Con Rosselli si incontravano nella sua agenzia marittima sottomonastero e discutevano di posti, di modalità, dei controlli. “Per non destare sospetti – racconta Pietro Fabbri il figlio di Paolo Fabbri che doveva essere dalla fuga ma all’ultimo momento si sacrificò per coprire i compagni – nei loro incontri parlavano e solfeggiavano musica operistica, in particolare di Verdi, dimostrando così che Rosselli stava facendo studi particolari sul maestro[2]

Don Edoardo “affittò a Paolo Fabbri una camera in una casa di sua proprietà dietro l’abside della Chiesa di San Giuseppe, di vecchia costruzione a picco sul mare. L’ingresso era situato alla destra di un cortilino interno, alla sinistra del medesimo con una ripida e stretta scaletta tra due muri si accedeva al mare sottostante la scogliera[3].

E’ la casa di vico Dogana dove la notte del 27 luglio 1929 si svolge una fase cruciale della fuga. “Mentre i quattro individui [Rosselli, Nitti. Lussu e Fabbri] – racconta la nota della polizia – con mota circospezione; cappello calato, fazzoletto sulla faccia, attraversano nell’oscurità il cortile, due donne, che abitavano proprio in prossimità della scaletta, tali Greco Maria e Tosarchio Lucia, avendo notato il movimento insolito e avendo veduto che i quattro fuggitivi erano in possesso ciascuno di un grosso involto [con il cambio degli abiti asciutti se la fuga fosse fallita e dovessero tornare alle loro case in fretta], sospettarono che essi le avessero derubate delle galline che avevano dentro una gabbia all’esterno della casa[4]. Più tardi Nitti, questa volta da solo, passa per il cortiletto per andare sulla scaletta “Nell’oscurità ed anche essendo un po’ miope, - recita ancora il rapporto della polizia – inciampò nella  stia dei polli che stava lungo il muro, i polli si misero a starnazzare. Le donne del vicinato, udendo un tale baccano. Uscirono gridando: ai ladri![5].

Una notte movimentata

Una notte movimentata

Accorrono due militi fascisti e comunque si crea un capannello di gente che discute. Nitti riesce a scappare per la scaletta  ma quando sopraggiungono Fabbri e Rosselli, il primo viene fermato e, facendo cenno all’amico di scappare, rimane, fingendosi ubriaco, per trattenere i militi.

L’altro posto in cui si gioca una partita cruciale è Marina corta con lo specchio di mare dinnanzi ad essa.

Il motoscafo che deve portare via i fuggiaschi è già arrivato a Marina corta  e si ferma all’ombra della chiesa di San Giuseppe con i motori spenti. Nitti sale a bordo ma Lussu e Rosselli erano già tornati a casa, per non mancare al coprifuoco, temendo che ancora una volta l’appuntamento con il motoscafo saltasse. Fabbri corre a cercarli. Improvvisamente sulla barca ci si accorge che la corrente li sospinge fuori dalla zona d’ombra.

Vedemmo a poche diecine di metri da noi passeggiare la gente  -ricorda Nitti -, distinguemmo un caffè coi tavoli affollati di militi e poliziotti. Vedemmo le pattuglie sulla banchina”[6].

E a Marina Corta che succedeva? Possibile che nessuno vedesse questo grosso motoscafo e desse l’allarme?

Il gazebo di Salvatone Iacono a Marina corta

Il gazebo di Salvatone Iacono a Marina corta

 Era la sera del 27 luglio, un caldo e tranquillo  sabato sera d’estate e la gente, dopo cena, alle 21- 21.30, scendeva volentieri a prendersi un po’ della frescura serale. Allora la piazza non era ancora ammattonata, lo sarà qualche anno dopo. Ma il fondo sabbioso non preoccupava chi era venuto a passeggiare anche perché don Salvatore Iacono aveva impiantato, vicino alla statua di San Bartolomeo, ancora circondata dal cancelletto di ferro, un bel chiosco tutto ornato di fregi di legno intagliato. Ed intorno aveva disposto dei tavolini con le sedie e agli avventori serviva granite, schiumoni, bibite di ogni genere. E proprio quella sera ai tavolini erano seduti il commissario Cannata, con Salvatore Saltalamacchia ex sindaco e capo del partito a Lipari, c’è anche Antonino Fiorentino il capo del Sindacato fascista , c’è magari anche il maresciallo Da Ponte, comandante il nucleo delle guardie di P.S. E poi nella piazza e sulla banchina ci sono tanti militi, tanti poliziotti e carabinieri. In molti vedono il motoscafo ma non se ne curano. Ci fu chi lo scambiò per uno della polizia, chi pensò che fosse quello della direzione della Colonia che usava, si diceva, la sera scorazzare per il mare anche a luci spente, non certo in missione di vigilanza ma per puro diporto con a bordo amici ed amiche del direttore.

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Il fatto è che dalla barca prendono a remare contro corrente per togliersi dal centro dell’attenzione e nel frattempo arrivano anche, trafelati ma felici, Lussu e Rosselli e così si può partire verso l’Africa dando al fascismo uno smacco fortissimo di cui se ne parlerà in tutto il mondo.

Il confino dopo il confino

I tre fuggiaschi

I tre fuggiaschi.

La colonia penale per i politici  fu chiusa a Lipari nel 1933 perché ritenuta insicura e troppo costosa[7]. Era durata sette anni. Ma Lipari non finì di essere terra di confino. Intanto anche nel periodo in cui vi erano “ospitati” confinati antifascisti la colonia accolse anche dei fascisti cosiddetti “dissidenti”. E non solo, come abbiamo visto, personaggi squallidi che si prestavano a fungere da provocatori ma anche gente che con la politica non aveva niente a che vedere come medici e levatrici accusati di praticare aborti o proprietari di fabbricati  accusati di speculare sui fitti, o, ancora, usurai. Non mancarono nemmeno delle personalità di spicco come il giornalista Giovanni Ansaldo – confinato dal 1927 al 1928 - che era stato inviato speciale della Stampa e era stato mandato al confino proprio per alcuni servizi giornalisti che non erano piaciuti al regime, o come il finanziere Riccardo Gulino – confinato dal gennaio 1931 al maggio 1932 - a cui gli si imputò di avere creato danni all’economia nazionale, o lo scrittore e giornalista Curzio Malaparte che vi rimase poco più di un anno dai primi mesi del 1933 al maggio 1934 quando fu trasferito ad Ischia; o Leonardo Arpinati che era stato Ministro degli interni del governo fascista e rimase a Lipari quasi due anni dal 1934 al 1936; o ancora il giornalista Emilio Settimelli, nel 1937, ma solo per alcuni mesi.

Intanto  sul finire del 1931 Lipari fu, se non confino, una sorta di terra di asilo per alcune centinaia di croati che facevano parte dell’organizzazione “ustascia” di Anta Palevic un leader ultranazionalista che espatriò con suoi fedelissimi in Italia. E mentre egli rimase libero ritenuto dal regime come una sorta di alleato, i suoi uomini furono inviati a Lipari ed alloggiati al Castello dove si autogestivano. Di loro è rimasta sotto una delle arcate della strada di accesso alla città alta una piccola cappella votiva in onore di S. Antonio che porta la data del 19 giugno 1938. S.Antonio era il santo del loro leader che si chiamava appunto Anta. Lasciarono Lipari verso la metà del 1940 per costituire dei reparti militari che operarono nella guerra a fianco dell’Italia e della Germania.

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Ospti illustri di una ex colonia: ras Immirù ed Edda Ciano

A colonia politica ormai chiusa Lipari ospitò alla fine del 1939 ras Immirù uno dei maggiori esponenti dell’impero etiopico e parente dell’imperatore Haile Selassiè. Più che un relegato ras Immirù fu un ospite di riguardo e verso la metà del 1942 venne trasferito in Calabria. Durante il periodo liparese avendo manifestata l’intenzione di imparare l’italiano gli venne assegnato come insegnante un giovane studente, Giuseppe Iacolino.

Durante la seconda guerra mondiale – fra l’autunno del 1940  e l’agosto del 1943 quando in Sicilia sbarcarono le truppe alleate - si ebbero a registrare nell’isola la presenza di alcune famiglie ebree mandate in soggiorno obbligato.

Anche Edda Ciano, la figlia di Mussolini e moglie del ministro Galeazzo Ciano fucilato dal fascismo di Salò, fu mandata al soggiorno obbligato a Lipari e vi rimase dieci mesi dall’aprile 1945 fino al settembre 1946 quando venne liberata[8].

 

una foto di Edda Ciano a Lipari. A destra, un primo piano della figlia di Mussolini.

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Infine Lipari concluse la sua lunga esperienza di terra di confino con il “centro di raccolta  stranieri e apolidi” che dopo la fine della guerra fu istituito. sempre al Castello, sotto la direzione ed il controllo della polizia e raccolse diverse centinaia di persone di cittadinanza diversa (9).


[1] Idem, pag. 212.

[2] Idem, pag. 212.

[3] Idem, pag. 213.

[4] Idem, pag. 288.

[5] Idem. Pag. 294.

[6] Idem, pag, 296.

[7]  A. Pagano, Il confine politico a Lipari, Milano 2003.

[8] M. Sorgi, Edda Ciano e il comunista, Milano 2009.

[9] L. Zagami, Confinati politici e relegati comuni a Lipari, Messina 1970.

(Archivio Storico Eoliano.it)

LE REAZIONI NEL WEB.

Carlo D'arrigo: Veramente piacevoli le rievocazioni storiche diegli appassionati che hanno nel sangue la storia delle Eolie.

Aldo Claudio Medorini: Era il 10 giugno del 1926 la radio annunciava il ritrovamento del corpo di Giacomo Matteotti. Mio nonno Onofrio Medorini esponeva al balcone della sua splendida casa in corso Vittorio Emanuele, la bandiera rossa a mezza asta con il fiocco nero a lutto. Lo riempirono di botte, mio padre Gaetano Medorini, stava per compiere quattro anni. Mia nonna Bartolina Pagano, in attesa di un bambino, a causa del dispiacere e delle botte prese nel tentativo di difendere il marito, abortì e dopo pochi anni morì. Gli amici, i "compagni", che istigarono mio nonno Mastro Nufriu, non c'erano a prendere le botte e gli insulti e a subire quello che venne dopo, ma sono diventati notabili e persino poi sindaci.

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